Una alternativa all’attuale idea europea di Esercito

nato mareVero, Presidente Mattarella?

“Ad ogni tipo di esercito corrisponde un uso peculiare e l’uso (strutturalmente molto più costoso) di quello professionale è di tipo offensivo da spedizione. Non è un caso che abbiamo mutuato questo tipo di organizzazione proprio dagli angloamericani. Non considerare questa evidenza (peraltro ampiamente ufficializzata negli ambienti militari) rischia di viziare ogni tipo di proposta che si vorrebbe “alternativa”.
L’esercito professionale trae il suo stesso senso d’esistere dall’essere impiegato come corpo di spedizione e occupazione, come il più adatto a svolgere questi compiti.
Le forze di occupazione, per loro stessa definizione, hanno la missione di presidiare e combattere permanentemente o temporaneamente in territori situati al di fuori dei confini nazionali.
La potenza o le potenze che invadono tali territori devono disporre dello stesso personale per anni senza ricorrere alla mobilitazione generale che si dà in caso di guerra ufficialmente dichiarata (l’abitudine di formalizzare i conflitti è stata infatti abbandonata). Ecco quindi la necessità di una ferma volontaria di almeno quattro anni.
Non può esistere un altro uso dell’esercito professionale che non sia questo. E’ del tutto scorretto immaginare di poter mantenere questo costoso strumento militare per altri fini che non siano la partecipazione ad avventure militari oltre confine e del resto esso sarebbe del tutto inefficace anche per fare fronte ad una (più che improbabile) occupazione da parte di altri Stati.
L’ipotesi della professionalizzazione vinse praticamente a tavolino in primo luogo perché prospettò la promessa di “liberare” i giovani italiani dal fardello della leva obbligatoria (salvo “imporla” indirettamente ai disoccupati e ad una particolare fascia di territorio nazionale come unico sbocco occupazionale); in secondo luogo perché questa “riforma”, a suo tempo, mise d’accordo un po’ tutti:
gli statunitensi che la esigevano per potere disporre, come già visto, anche delle Forze armate italiane direttamente o indirettamente nei loro piani strategici post 89′;
tutti i partiti rappresentati in Parlamento con l’unica eccezione del PRC;
le aziende del comparto industriale militare, per ovvie ragioni legate all’aumento di commesse con alto valore tecnologico e quindi all’aumento dei dividendi per manager e azionisti (con i sindacati di categoria confederali in una posizione sempre opaca e sulla difensiva nonostante il calo costante dell’occupazione a fronte dell’aumento dei fatturati);
il terzo settore che ha avuto comunque in parte risarcito il suo serbatoio di forza lavoro prima garantito dall’obiezione di coscienza con l’istituzione del Servizio Civile Nazionale e con una corposa esternalizzazione del servizio pubblico. Lo stesso terzo settore che oggi “suggerisce” al governo Renzi l’istituzione della “leva civile” (implicitamente parallela all’esercito professionale stesso).
Questa per sommi capi la genesi.
(…)
piovranatoIl moderno esercito professionale (dal punto di vista democratico in realtà molto più “antico” di quello di leva) ha vinto a tavolino anche perché si è dimostrata la soluzione più collaudata e sicura che gli anglo-americani hanno sviluppato nel corso del secolo scorso. E’ la formula, elevata già da tempo a standard NATO, che garantisce ai governi un’ottima gestibilità del personale militare, anche e soprattutto in caso di morte sul campo dei soldati. La retorica e pomposità dei funerali di Stato accompagna ogni volta la salma del ragazzo di turno con un grande, ipocrita non detto: era un volontario, era il suo mestiere e la responsabilità dei mandanti può così sfumare.
Alla luce di tutto ciò l’attuale forma di esercito andrebbe quindi abbandonata.
Ed ecco imporsi allora la terza domanda, decisiva: come?
Credo sia indispensabile recuperare un approccio organico e propositivo alla questione che sappia andare oltre la contestazione (storicamente ridotta ai minimi termini) e che permetta di operare l’invocata riduzione del danno per incidere concretamente sulle nostre pesantissime responsabilità di guerra.
Il tema di una riforma strutturale dello strumento militare dovrebbe essere posta come punto costituente al pari della revisione dei trattati di Maastricht e Lisbona, della struttura e natura della BCE, ecc.; ossia di tutte le questioni che hanno a che fare con il recupero ed il rilancio della sovranità democratica e popolare.
Risulta sempre più chiaro che le vere minacce alla sicurezza ed incolumità dei cittadini non sono il così detto terrorismo internazionale (contro cui l’impiego delle forze armate è del tutto inutile e contro cui vengono normalmente già impiegate magistratura, forze di polizia e intelligence) ma sono rappresentate dal dissesto idro-geologico, dalle alluvioni, dai terremoti e dagli incendi.
In realtà, anche di fronte a tali minacce, le Forze armate oggi sono fondamentalmente inefficaci perché l’organizzazione, l’addestramento, le macchine, la stessa forma professionale sono finalizzate, come già detto, al mantenimento di un grosso corpo di spedizione operante in varie parti del mondo.
Di fronte a tali reali minacce sarebbe opportuno che la logistica e l’organizzazione venissero rivolte e convertite, in prevalenza, ad un nuovo concetto di difesa territoriale/ambientale, che metta le Forze armate nelle condizioni di gestire sia aspetti di manutenzione e messa in sicurezza ambientale sia soprattutto le sempre più ricorrenti e spesso contemporanee fasi d’emergenza.
Sarebbe più che ragionevole studiare e promuovere la formazione di un nuovo esercito costituzionale, di leva, aperto a donne e uomini.
Ciò di cui si parla non è certo l’esercito-carrozzone di marescialli, spesso imbevuto di “nonnismo” che chi ha fatto la “naja” (compreso il sottoscritto) può ricordare bensì una nuova organizzazione che preveda l’integrazione di una nutrita quota degli obiettori di coscienza in una forza di protezione civile dove non si assista più alla irrazionale moltiplicazione delle responsabilità, delle competenze, dei comandi, dei dirigenti, delle centrali operative, degli eli-aereoporti a fronte di una sempre più drammatica carenza di mezzi adeguati: potremmo avere a disposizione uno strumento popolare, meno costoso e più efficace di salvaguardia e difesa del territorio.
Da ex-amministratore locale di un piccolo comune montano soggetto al divampare di piccoli/grandi incendi boschivi (non dolosi), potrei fare diversi esempi in questo senso. Ma come non pensare anche al ricordo positivo che ebbero i terremotati friulani della massiccia, fattiva e prolungata attività di soccorso, rimozione delle macerie e messa in sicurezza operata dall’esercito di allora e confrontarla con il ricordo certo meno caro dei terremotati abruzzesi, dove il moderno esercito professionale venne sostanzialmente impiegato per sorvegliare la loro cattività nelle tendopoli?
logodelesercitoCiò di cui parlo è quindi un esercito che, senza perdere le sue capacità militari di difesa, sia nei fatti “dual use”; dove lo sviluppo dei sistemi d’arma sia esclusivamente rivolto alle contromisure difensive piuttosto che alle macchine da supremazia aero-spaziale e navale (F-35 e portaerei, per fare solo due costosissimi esempi) e dove le specializzazioni si sviluppino attorno agli aspetti genieristici e medici. Un esercito in grado di essere dispiegato all’estero, in un nuovo contesto di relazioni inernazionali, in missioni di esclusiva e sostanziale interposizione e di competente supporto logistico-medico-umanitario anche nelle crisi ambientali.
Riportare la forma ed il senso delle nostre forze armate nell’alveo costituzionale, al di là dell’aspetto etico, dovrebbe quindi permettere un enorme risparmio di risorse e di logistica ed un più utile e razionale impiego di mezzi e uomini per affrontare le “minacce” di cui sopra.
Questa revisione radicale dello strumento militare consentirebbe di intervenire organicamente su molti aspetti:
renderebbe le ff.aa. strutturalmente inservibili alla NATO e ad operazioni di guerra e occupazione,
“accontenterebbe” il terzo settore con la reintroduzione dell’obiezione di coscienza (istituto di civiltà universale e linfa vitale del no profit),
permetterebbe una conversione della logistica e della organizzazione militare verso una immediata ed efficace compatibilità con la Protezione civile,
permetterebbe di aprire un ragionamento meno vago sul futuro di Finmeccanica,
consentirebbe un consistente risparmio di risorse nel quadro di nuove sinergie d’impiego
ci obbligherebbe a ridefinire una nuova politica estera e commerciale basata sulla cooperazione strategica piuttosto che sulla difesa in armi degli interessi strategici.
Questo approccio richiederebbe naturalmente l’apertura di un dibattito serio, conseguente, multidisciplinare e di largo respiro sul tema della sovranità nazionale e della neutralità, sull’interdizione dal nostro territorio di basi e strutture militari straniere, su una reale politica di pace e cooperazione, sulla conversione energetica. Potrebbe essere l’occasione per rilanciare su questi temi, ad un livello euro-mediterraneo, una alternativa all’attuale idea europea di esercito (ancora schierato in ambito NATO, ancora “professionale”, ancora volto all’offesa e all’aggressione).
Risulta piuttosto evidente come un passaggio del genere sia al momento impraticabile in Parlamento proprio perché, come già sottolineato, questo è ancora occupato dal super partito del Pil, tanto trasversale quanto inamovibile nel suo atlantismo belligerante.
Come eludere questo problema sostanziale? Credo che esista la concreta possibilità di iniziare una manovra di aggiramento costruendo un’azione referendaria intorno all’ipotesi più sopra esposta: la crisi economica, l’incessante susseguirsi di emergenze ambientali, i costi del nostro avventurismo militare hanno già modificato la fiducia popolare nel tricolore armato spedito a destra e a manca per il mondo al seguito degli statunitensi. Certo si parla solo di percezioni e sensazioni diffuse (che pure il Ministero della Difesa ha captato) ma se queste venissero sostanziate e catalizzate in un’alternativa promossa da una campagna referendaria potrebbero rivelarsi inaspettatamente maggioritarie. Se si agisse cioè sulla sfiducia strumentale in questo esercito prospettando una alternativa credibilmente più utile, razionale e meno costosa si potrebbe incrociare anche il favore di quegli enti locali e dei loro sindaci che in tutti questi anni si sono trovati ad affrontare i disastri dell’ambiente e del territorio con mezzi inadeguati. L’effetto potrebbe essere dirompente o comunque certamente in grado di increspare non poco la linearità del folle piano egemonico che continua a sovrastarci indisturbato.”

Da Vent’anni di professionalità (militare) possono bastare, di Gregorio Piccin.

Complicità politiche ed istituzionali per la Task Force 45

sarissa

Dei “professionisti” tricolori della Task Force 45 si conoscono i reparti di provenienza e la forza approssimativa, 180-200 uomini. Non si sa niente invece delle dotazioni militari, niente degli ufficiali e sottoufficiali, niente della effettiva catena di comando locale, niente sugli avvicendamenti e sui cicli di “operazione”, niente sulla sorte riservata ai feriti mujaeddin e pashtun catturati sul terreno né esiste agli atti del Ministero della Difesa un solo comunicato che riguardi l’attività operativa dell’unità speciale che la Repubblica delle Banane mette ad esclusiva disposizione dei super killer di Enduring Freedom.
Alla faccia della trasparenza e della libertà di “informazione”. Su questa banda di “bucanieri della montagna” il silenzio di giornali e televisione è totale.
Si sa solo, per notizie che rimbalzano in Italia dalla agenzie di stampa afghane nelle provincie di Herat e Farah, che, ad oggi, si contano a centinaia gli insorti “neutralizzati” ed a decine i morti ammazzati tra i residenti per “effetti collaterali” di rastrellamenti, cecchinaggio, tiri di mortaio e “bonifiche” dall’aria.
Ora che la Folgore sta per essere avvicendata la Task Force 45 torna, ad orologeria, alla pratica del rambismo, per alzare il livello dello scontro e per preparare come si deve il “terreno” alla Brigata Sassari.
Tutte le Grandi Unità devono lasciare un “minimum” di caduti nel Paese delle Montagne, sufficiente a cementare solidarietà tra i partner dell’Alleanza Atlantica, a rilanciare sul piano nazionale la necessità della guerra al “terrorismo”, ad instillare nelle Forze Armate del Bel Paese l’odio per un “nemico” che predica e pratica l’Islam, a preparare a livello politico una componente militare di “elite” che offra le esperienze e le specializzazioni necessarie per essere utilizzata, quando sarà “necessario”, sul piano interno come garante dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale.
Una struttura in formazione che sottrae, via via, risorse destinate all’attività di addestramento ed utilizzo del personale delle Forze Armate, acquisizioni logistiche e sistemi d’arma.
Forze Armate che a partire dal Nuovo Modello di Difesa sono state giudicate un peso di cui doversi liberare, elefantiache, obsolete e totalmente inadatte a gestire “operazioni di polizia internazionale” sia dagli esecutivi di centro-sinistra che di centro-destra, con l’esplicito appoggio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, del CSD e dei titolari dei Ministeri della Difesa.
Una campagna normativa “acquisti-dismissioni” che parte in sordina dal 1999 e ha preso un’accelerazione da capogiro a partire dall’estate 2006.
Le riforme nella Pubblica Amministrazione annunciate da Brunetta ed approvate in settimana in CdM vanno in questa direzione, al di là dei settori “civetta” sotto tiro.
Per capire cosa si stia muovendo dietro la Task Force 45, dopo mesi di impenetrabile silenzio su questa “unità antiterrorismo”, basterà leggere il seguente comunicato AGI dello scorso 9 ottobre:
“Un capo talebano Ghoam Yahya [un nome con tutta probabilità inventato di sana pianta, ndr] e 25 suoi affiliati [!] sono stati neutralizzati oggi nel corso di un operazione congiunta di militari italiani e statunitensi. L’episodio è avvenuto a 20 km da Herat. Secondo quanto si apprende la Task Force 45 che seguiva il gruppo di insorti già da ieri, è entrata in azione. Appresa la notizia il Ministro della Difesa si è subito complimentato con il CSM gen. Vincenzo Camporini e con il comandante delle forze italiane di Herat generale Rosario Castellano.”
Ecco come il titolare di Palazzo Baracchini ha cercato fraudolentemente di coinvolgere le Forze Armate nazionali in questo nuovo massacro che porta una firma esclusiva: quella della NATO.
Una manovra vergognosa per scaricare sui vertici militari del Paese i malumori di un’opinione pubblica fortemente contraria all’avventurismo bellico della Repubblica delle Banane, una responsabilità che è soprattutto “politica” ed “istituzionale”. Quel “nessun ritiro dall’Afghanistan” pronunciato dal marito della signora Clio da Tokio, all’indomani della morte dei sei parà del 186° Rgt. Folgore, la dice chiara.
Non siamo mai stati teneri con i sostenitori della “missione di pace” dell’Italietta in Afghanistan ma che Camporini sia al corrente del “lavoro” che fa la Task Force 45 “tricolore” è largamente improbabile. Sparare nel mucchio non serve, anzi, è fuorviante e dannoso.
Si sa che La Russa non va per il sottile quando c’è da compiacere il Presidente del Presidente. Lo stiamo attentamente monitorando dal G8 delle “donne” alla Farnesina alla presenza della bocca ad uso poliedrico della Carfagna e di Frattini, a partire dalle mete estere, Corea del Sud e Giappone e dalle frenetiche, ormai quotidiane, convocazioni al Quirinale dei “pezzi da novanta” del Bel Paese nel tentativo di ritardarne l’implosione.
Il conflitto tra Napolitano e Berlusconi non è sulla costruzione a passi da gigante di una Repubblica Presidenziale, che va benone ad entrambi, ma su chi dovrà occupare il seggiolone del Colle con pieni poteri. L’ex fascista “O ‘Sicco” lo vuole destinare alle chiappe di Fini, “papi” vuole metterci le sue. Il resto sono chiacchiere e depistaggi.
Una struttura coperta quella della Task Force 45 che si avvale, sarà bene dirlo, di grosse complicità al Comando Operativo Interforze di Centocelle.
Il curriculum di Camporini, caso pressoché unico, è esente da qualsiasi frequentazione “imbarazzante” a Bruxelles od a Washington.
Frequentazioni che aprono la strada da sessant’anni esatti alle più alte responsabilità nelle Forze Armate dell’Italietta e dischiudono, dopo la quiescenza, le stanze nelle società di Finmeccanica od abilitano ad altri prestigiosi incarichi nelle “istituzioni”, in istituti pubblici o privati, in Italia ed in Europa. Incarichi sempre lautamente retribuiti.
Possibile invece che ne sia stato informato, a cose fatte, il comandante del West Rc di Herat, Prt 11, che non batte da tempo per il verso giusto in attesa di incassare una promozione.
La Task Force 45 non dipende né da Castellano né dal suo diretto superiore gen. Bertolini ma dall’ammiraglio G. Di Paola, un ringhioso cane da guardia con un formidabile pedigree NATO, eletto il 13 febbraio del 2008 Segretario Generale del Comitato che riunisce i vertici militari dei 28 Paesi aderenti all’Alleanza Atlantica, quando era ancora C.S.M delle Forze Armate per decisione del CdM del governo Berlusconi.
Un ammiraglio pataccato da Bush con la Legion of Merit che condivide con Will C. Rogers III, l’ex Capitano di Vascello dell’incrociatore USS CG-49 Vincennes, responsabile dell’abbattimento con due missili antiaerei RIM-66 Standard di un Airbus dell’Iran Air (volo 655) e della morte di 290 passeggeri sul Golfo Persico durante il volo Bandar Abbas-Dubai, il 3 luglio 1988.
Giancarlo Chetoni

Le spesucce tricolori per “la ricostruzione“ dell’Afghanistan… ed il resto

coop ital afgh

Nel quanto ci costa la “missione di pace“ c’è un capitolo uscite a fondo perduto per la “ricostruzione“ dell’Afghanistan da far paura.
Dal 2002, nelle mani del pagliaccesco sindaco di Kabul, Karzai, e del suo gabinetto di trafficanti di droga e criminali di guerra sono finiti centinaia e centinaia di milioni di euro sottratti alle tasche dei contribuenti italiani dagli esecutivi Berlusconi, Prodi, Berlusconi.
Al Palazzo di Vetro ci siamo conquistati da un bel po’ di anni la medaglia di Paese donatore di primo livello. Un biglietto da visita, lo sostiene Frattini, di cui l’Italia può essere giustamente orgogliosa.
Insomma paghiamo molto, bene e senza fiatare tenendo peraltro la bocca rigorosamente chiusa sugli affari sporchi organizzati dai Segretari Generali delle Nazioni Unite.
Se le ricerche che abbiamo fatto sono corrette, sono già quattro gli appuntamenti internazionali organizzati dal Palazzo di Vetro durante le gestioni Kofi Annan e Ban Ki Moon che ci hanno visto tra i più affezionati contribuenti-protagonisti per la “ricostruzione“ del Paese delle Montagne: Tokio 2002, Berlino 2004, Londra 2006, Parigi 2008.
Il 29 Giugno scorso, un comunicato molto ma molto fumoso dell’Ansa ci ha fatto sapere che questa volta il 5° raduno della “Spectre“ si terrà in Afghanistan, lontano da occhi indiscreti e, come ampiamente prevedibile, tra ingenti misure di sicurezza, arrivi e trasferimenti a “sorpresa“, stile zona verde di Baghdad.
Parteciperanno al summit di Kabul prima della fine del 2009 – dopo le elezioni farsa che incoroneranno l’ex Presidente della Unocal – i Ministri degli Esteri dell’Occidente ed un numero non precisato di misteriosissime fondazioni private.
Con tutta evidenza, sotto la spinta di sempre più pressanti esigenze economiche e militari, i tempi dei “rifinanziamenti“ organizzati dall’ONU per la “ricostruzione“ dell’Afghanistan si stanno pericolosamente accorciando. Gli scarponi di Enduring Freedom ed ISAF-NATO in Afghanistan, in soli 450 giorni, sono lievitati da 67.000 a 118.000.
Nei prossimi 4 anni, l’Italia aumenterà il proprio contingente dagli attuali 3.250 militari a più di 6.000, con il via libera, già esecutivo, del Consiglio Supremo di Difesa che vede al vertice, come Capo delle Forze Armate, un sempre più invadente ed aggressivo Giorgio Napolitano. Il padre-padrone della Repubblica Italiana delle Banane che sponsorizza improponibili delfini per la prossima occupazione del Quirinale. Continua a leggere