“In un periodo in cui è alta l’attenzione mediatica intorno al tema dell’ambiente – con annesse campagne etiche rivolte al consumo individuale senza intaccare il modello produttivo capitalistico che devasta l’ambiente – balza agli occhi una recente inchiesta pubblicata da una delle più importanti riviste internazionali di ricerca geografica, Transactions della Royal Geographical Society, in cui viene calcolata l’incidenza delle forze armate statunitense sui cambiamenti climatici. E il dato che viene fuori è tanto emblematico, quanto sconcertante il silenzio che lo accompagna.
Secondo questa indagine, che si basa sui dati della US Defense Logistics Agency – Energy (DLA‐E) – una grande agenzia all’interno del Dipartimento della Difesa degli USA, principale punto di acquisto dei combustibili a base di idrocarburi per le forze armate – l’esercito americano infatti risulta esser uno dei maggiori inquinatori della storia, consumando per la sua vasta infrastruttura e le sue operazioni militari, sia a livello nazionale che internazionale, più combustibili liquidi ed emissioni di CO2e rispetto a molti paesi di medie dimensioni (più di 140 paesi) che lo fanno il più grande singolo consumatore istituzionale di idrocarburi nel mondo. Nel 2017, l’esercito USA ha acquistato circa 269.230 barili di petrolio al giorno ed emesso, bruciando quei combustibili, 25.375,8 kt-Co2e. Se le forze armate statunitensi fossero un paese, solo per il loro uso di carburante (escludendo emissioni di elettricità, cibo, cambiamenti di uso del suolo dalle operazioni militari o qualsiasi altra fonte di emissione) sarebbero il 47° più grande emettitore di gas serra del mondo. Basta pensare che questo dato corrisponde alle emissioni totali – non solo di carburante – della Romania. Inoltre, bisogna anche osservare che questi dati sulle emissioni riguardanti l’esercito statunitense non sono considerate parte delle emissioni aggregate degli USA a seguito dell’esenzione concessa nella negoziazione del protocollo di Kyoto del 1997 che doveva esser rimossa dall’Accordo di Parigi sul Clima a cui l’amministrazione Trump ha ritirato la firma.
(…) Ma non sono solo questi i dati che collocano l’esercito statunitense ai vertici dei principali attori della devastazione ambientale: le basi militari statunitensi, sia interne che straniere, si collocano costantemente in alcuni dei luoghi più inquinati del mondo, poiché il perclorato e altri componenti contaminano le fonti di acqua potabile, falde acquifere e suolo.
(…) Se riportiamo ciò alle basi militari statunitensi dislocate in tutto il mondo – compreso particolarmente il nostro paese – il quadro è ben definibile in tutta la sua portata. Un esempio è la contaminazione delle forniture di acqua potabile locale della base dell’aeronautica militare di Kadena ad Okinawa (Giappone).
Un altro esempio che ci riguarda molto da vicino è la Base della Marina USA sita a Niscemi (CL), in Sicilia, all’interno di una Riserva Naturale della Sughereta (fra le più antiche e importanti d’Europa) deturpata e devastata con l’installazione di un sistema di telecomunicazioni satellitare, il MUOS (che si combina con le antenne NRTF dal 1991), le cui emissioni elettromagnetiche bucano la ionosfera e possono risultare letali per le persone come dimostrano i dati sull’incidenza dei tumori nell’area superiori alla media nazionale, come alla tiroide che raggiunge il 14% dei cittadini a fronte di una media nazionale del 4%, mentre il 7% patisce tumori ai testicoli di fronte ad una media nazionale del 2%.
Un altro esempio che possiamo citare a dimostrazione dell’incidenza dei siti militari statunitensi sulla salute e l’inquinamento è l’isola portoricana di Vieques – per anni discarica delle munizioni nocive degli Stati Uniti – dove il tasso di tumori è di molto superiore rispetto al resto dei caraibi.
Tutto questo senza dimenticare che gli USA sono la potenza che ha condotto più test nucleari di tutte le altre nazioni messe insieme (oltre ad esser l’unica ad averle sganciate sulla popolazione civile), responsabili dell’enorme quantità di radiazioni che continua a contaminare molte isole dell’Oceano Pacifico. Le Isole Marshall, dove gli USA hanno lasciato cadere più di sessanta ordigni nucleari tra il 1946 e il 1958, sono un esempio particolarmente significativo, con gli abitanti di quest’area che continuano a sperimentare sulla loro pelle un tasso di cancro estremamente alto.
Un altro capitolo non certo irrilevante sono le missioni di guerra – non solo per l’uso di carburante prima citato. Come esempio citiamo l’azione militare statunitense in Iraq che ha portato alla desertificazione del 90% del territorio iracheno, paralizzando il settore agricolo del paese e costringendolo ad importare più dell’80% del suo cibo. L’uso da parte degli USA dell’uranio impoverito in Iraq durante la Guerra del Golfo ha causato inoltre un enorme onere ambientale per gli iracheni, così come lo smaltimento attraverso pozzi di combustione all’aperto dei rifiuti dell’invasione del 2003 ha causato un’ondata di cancro tra i civili iracheni e tra gli stessi militari statunitensi.
Secondo uno studio dell’Istituto Watson per gli Affari Internazionali e Pubblici del progetto Costs of War della Brown University, tra il 2001 e il 2017, l’esercito statunitense ha emesso 1,2 miliardi di tonnellate di gas serra, equivalente a 255 milioni di veicoli passeggeri in un anno. Più di 400 milioni di tonnellate di gas serra sono direttamente dovute alla guerra (Afghanistan, Pakistan, Iraq e Siria) a causa del consumo di carburante correlato, equivalente alle emissioni di quasi 85 milioni di auto in un anno. Il Dipartimento della Difesa risulta esser di gran lunga il più grande consumatore di combustibili fossili del governo degli USA, rappresentando circa l’80% di tutto il consumo energetico del governo federale dal 2001.
(…) Questi dati, fra l’altro parziali (che rigurdano solo gli USA e non prendono in considerazione altre questioni come ad esempio l’impatto devastante dei prodotti chimici utilizzati in contesti bellici così la distruzione di edifici, ponti, industrie, equipaggiamenti, i resti di munizioni, bombe e mine inesplose, rifiuti tossici ecc.), dimostrano l’elevato impatto – diretto ed indiretto – della guerra nei processi di cambiamento climatico e distruzione del patrimonio ambientale, naturalistico e storico che tanto preoccupano gli scienziati per il futuro del pianeta.”
okinawa
Guerre USA 2011
Lacrime e sangue per tutti, tranne che per i signori delle armi e delle guerre. Il Congresso degli Stati Uniti d’America ha approvato il budget 2011 del Dipartimento della Difesa. Saranno 725 i miliardi di dollari destinati alle missioni di guerra e ai nuovi programmi militari. Buona parte del bilancio, 158,7 miliardi di dollari, sarà speso dal Pentagono per prolungare le operazioni in Iraq e Afghanistan, a cui si aggiungeranno 13,1 miliardi per lo “sviluppo delle forze di sicurezza afgane e irachene”. Sempre nell’ambito della “guerra permanente” al terrorismo internazionale, il Congresso ha destinato 75 milioni di dollari per l’addestramento e l’equipaggiamento delle “forze di controterrorismo” dello Yemen, Paese mediorientale sempre più attenzionato e corteggiato dal Pentagono.
(…)
Assai articolato il piano di potenziamento delle infrastrutture militari USA all’estero, con un particolare occhio di riguardo per il continente africano e il Medio oriente. Le vecchie e nuove priorità strategiche sono delineate dal report sui “Piani di lavoro del Naval Facilities Engineering Command”, pubblicato nel giugno 2010 da Jeff Borowey, responsabile del Comando d’ingegneria dell’US Navy per l’Europa, l’Africa e l’Asia sud occidentale. Tra i programmi più ambiziosi, il “completamento del Master Plan di Camp Lemonnier, Gibuti, a supporto delle operazioni di Africom”, il nuovo Comando USA per il continente africano, per cui vengono stanziati 110,8 milioni di dollari; “l’installazione di un crescente numero d’infrastrutture in Africa per sostenere le richieste dei partner africani, di AFRICOM, CENTCOM e delle forze statunitensi della JTF-HOA di Gibuti”; “l’espansione delle basi in Bahrain e negli Emirati Arabi Uniti”, con progetti per 213,2 milioni di dollari. Altrettanto imponente la spesa per alcune delle maggiori installazioni USA in Europa: nelle voci di bilancio sono stati inseriti 28,5 milioni di dollari per la base aerea di Aviano (Pordenone) per realizzare “dormitori” e un “centro per il supporto delle operazioni aeree”; 23,2 milioni per la base aeronavale di Rota in Spagna (una “torre per il controllo del traffico aereo”); 33 milioni di dollari per la costruenda base dell’US Army al “Dal Molin” di Vicenza.
Oltre 300 milioni di dollari andranno invece al programma di trasformazione dell’isola di Guam, nell’oceano Pacifico, nel principale centro strategico-operativo d’oltremare delle forze armate USA. A Guam, dove da ottobre operano i velivoli-spia “Global Hawk” dell’US Air Force, verranno realizzate piste e aree di parcheggio nella base aerea di Andersen, infrastrutture portuali ad Apra Harbor per l’approdo delle portaerei e probabilmente pure un centro operativo per la “difesa missilistica”. A medio termine è previsto il trasferimento nell’isola degli 8.600 Marines oggi ospitati nella base di Okinawa; il governo giapponese contribuirà con 498 milioni di dollari che saranno utilizzati dal Pentagono per realizzare alcune facilities nell’area di Finegayan (caserme, edifici amministrativi e logistici, un poligono di tiro, una stazione anti-incendio, un ospedale). Neppure un dollaro invece per i sopravvissuti dell’occupazione giapponese di Guam durante la Seconda guerra mondiale; originariamente il “National Defense Authorization Act of 2011” destinava 100 milioni di dollari come risarcimento per gli eccidi subiti dalla popolazione locale, ma i legislatori USA hanno preferito alla fine cancellare il fondo per “esigenze di risparmio nazionale”. Un ulteriore taglio ai finanziamenti pro diritti umani è giunto con la decisione di non sostenere le richieste del Dipartimento della Difesa per la chiusura del lager di Guantanamo. Il Congresso ha formalmente proibito il possibile trasferimento negli States dei detenuti ospitati nella base navale illegalmente realizzata nell’isola di Cuba.
Da Bilancio di guerra record per le forze armate USA, di Antonio Mazzeo.
[grassetto nostro]
Grillo ben parlante
Discutere dell’Irlanda o, a inizio 2010, del default greco, equivale a concentrarsi sul foro di un catino bucato. Lo scolapasta è l’intero Occidente che sta fallendo sotto il peso del suo debito pubblico aumentato del 50% in media in vent’anni. I Paesi emergenti, il cosiddetto BRIC: Brasile, Russia, India e Cina, hanno un debito pubblico contenuto e stanno comprando quello occidentale. Se la Cina vendesse tutti i titoli di Stato americani che possiede, pari a 883,5 miliardi di dollari, gli Stati Uniti potrebbero fallire.
Il mondo si sta spostando a Sud e a Est. Il PIL dei Paesi del BRIC sta per superare quello del G6 (Germania, Italia, Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone). I Paesi del BRIC hanno un debito pubblico rapportato al PIL molto basso: Russia 6%, Cina 18%, Brasile 45%, India 59%. L’Italia, per dire, è al 118% con 80 miliardi di euro di interessi annui da pagare, una cifra che ammazzerebbe un elefante. Gli Stati Uniti stanno per raggiungere l’Everest dei 14.000 miliardi di dollari di debito pubblico dai 6.000 miliardi del 2002. In passato le guerre si combattevano con le armi, oggi si combattono con il debito pubblico. Chi compra il tuo debito diventa il tuo padrone.
Gli Stati Uniti, il Paese più indebitato, è responsabile del 50% delle spese militari mondiali. Una enormità. La Russia, l’antagonista storico, spende il 3,5%. Gli Stati Uniti trasformano il debito in armamenti. In pratica chi compra titoli di Stato statunitensi finanzia la guerra in Afghanistan o le basi militari di Dal Molin di Vicenza e di Okinawa in Giappone dove sono accampati da 65 anni. L’Impero Romano crollò sotto la spinta dei barbari ai suoi confini. Le sue legioni si ritirarono dal Reno alla Britannia. Gli Stati Uniti forse seguiranno la stessa sorte per l’impossibilità economica di mantenere 716 basi militari in 40 Paesi.
Da Il tramonto dell’Occidente, di Beppe Grillo.
[grassetto nostro]
Standing Army
L’elezione di Obama è stata accolta in tutto il mondo come l’inizio di una stagione politica radicalmente diversa da quella di Bush. Una stagione orientata alla pace e al dialogo. E gli appassionati discorsi del neopresidente americano sembrerebbero giustificare questa speranza.
Ma nell’ambito della politica estera e militare, la nuova amministrazione differisce davvero così tanto da quelle precedenti?
Al di là dei titoli della stampa internazionale – e del Nobel per la pace assegnato al presidente per le sue buone intenzioni – si scopre una realtà molto lontana da quella ufficiale: ad esempio, il primo budget militare del nuovo governo (ben 680 miliardi di dollari) supera persino gli ultimi stanziamenti per le truppe dell’era Bush.
Dove vanno a finire tutti questi soldi?
In gran parte servono a finanziare l’immensa rete di basi militari americane all’estero: a vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, ne restano ancora 716, sparse in quaranta Paesi nel mondo. Come si spiega, quindi, questa aggressiva politica espansionistica alla luce della crisi economica e della retorica pacifista di Obama? Chi tira le fila della politica estera USA?
Su questi temi riflettono gli autori del documentario e del volume di approfondimento Standing Army. Un’inchiesta a trecentosessanta gradi sulle basi militari americane nel mondo, che unisce alle parole di esperti mondiali – quali Noam Chomsky, Gore Vidal, Chalmers Johnson, Edward Luttwak – le scioccanti testimonianze di chi è stato toccato in prima persona dalla presenza delle basi: gli abitanti di Vicenza, che si oppongono a una nuova struttura militare a pochi passi dal centro cittadino; la popolazione dell’isola giapponese di Okinawa, che condivide il suo piccolo lembo di terra con 25.000 soldati statunitensi; gli indigeni dell’isola di Diego Garcia (Oceano Indiano), cacciati per far spazio a un campo militare americano; e gli uomini e le donne che spesso vengono spediti a prestare servizio in Paesi lontani, senza sapere cosa esattamente li aspetterà.
Fazi Editore
Thomas Fazi, Enrico Parenti
Standing Army
Documentario + Libro
pp. 64 + dvd- euro 19,90
Il Grande Orecchio della NATO
Lo sviluppo dell’AGS (Alliance Ground Surveillance), il nuovo sistema di sorveglianza terrestre della NATO, ha generato divisioni insanabili all’interno dell’Alleanza Atlantica. Alla firma del Programme Memorandum of Understanding (PMOU) che segna i confini legali, organizzativi e finanziari del sistema d’intelligence, si sono presentati infatti solo 15 dei paesi membri dell’organizzazione nord-atlantica. Si tratta di Bulgaria, Canada, Danimarca, Estonia, Germania, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Stati Uniti d’America. Per la gestione e il coordinamento delle attività di sviluppo e implementazione dell’AGS, le nazioni aderenti al PMOU hanno dato vita a due nuove agenzie, la NATO AGS Management Organisation (NAGSMO) e la NATO AGS Management Agency (NAGSMA). Il Comando Supremo Atlantico di Bruxelles ha inoltre comunicato che la piena capacità del sistema di sorveglianza terrestre sarà raggiunta entro il 2012, anticipando di un anno i tempi previsti.
Nel corso della riunione dei Ministri della Difesa della NATO di Cracovia, il 19 e 20 febbraio 2009, è stata formalizzata la scelta della stazione aeronavale di Sigonella quale “principale base operativa” dell’AGS. “Abbiamo scelto questa base dopo un’attenta valutazione e per la sua centralità strategica nel Mediterraneo che le consentirà di concentrare in quella zona le forze d’intelligence italiane, della NATO e internazionali”, ha dichiarato il Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Vincenzo Camporini. Nella grande infrastruttura militare siciliana saranno ospitati i sistemi di comando e di controllo del’AGS, centralizzando le attività di raccolta d’informazioni ed analisi di comunicazioni, segnali e strumentazioni straniere. Sigonella si trasforma così in un’immensa centrale di spionaggio, un “Grande Orecchio”, della NATO capace di spiare, 24 ore al giorno, un’area che si estende dai Balcani al Caucaso e dall’Africa al Golfo Persico.
La stazione aeronavale ospiterà inoltre la componente di volo del sistema di sorveglianza, costituita da sei sofisticati velivoli senza pilota (UAV). In un comunicato stampa del 25 settembre scorso, gli alti comandi NATO hanno spiegato che “il segmento aereo dell’AGS Core sarà basato sulla versione Block 40 dell’aereo “RQ-4B Global Hawk” di produzione statunitense, dotato di un’autonomia di volo superiore alle 30 ore ed in grado di raggiungere i 60.000 piedi di altezza, in qualsiasi condizione meteorologica”.
(…)
“Grazie all’Alliance Ground Surveillance, la NATO acquisirà una considerevole flessibilità nell’impiego della propria capacità di sorveglianza di vaste aree di territorio in modo da adattarla alle reali necessità operative”, ha dichiarato Peter C. W. Flory, vicesegretario generale per gli Investimenti alla difesa dell’Alleanza Atlantica. “L’AGS è essenziale per accrescere la capacità di pronto intervento in supporto delle forze NATO per tutta le loro possibili future operazioni. L’AGS sarà un elemento chiave per assicurare l’assunzione delle decisioni politiche dell’Alleanza e la realizzazione dei piani militari”. Il nuovo sistema non è però un mero mezzo di intercettazione e di spionaggio. Come è stato riconosciuto dal Capo di Stato Maggiore italiano, generale Camporini, nella base di Sigonella sarà allestito un “più avanzato sistema SIGINT”. Il SIGINT, acronimo di Signals Intelligence, è lo strumento d’eccellenza di ogni “guerra preventiva” e ha una funzione determinante per scatenare il “first strike”, convenzionale o nucleare che sia. Una delle articolazioni SIGINT è la cosiddetta ELINT – Electronic Intelligence, che si occupa in particolare d’individuare la posizione di radar, navi, strutture di comando e controllo, sistemi antiaerei e missilistici, con lo scopo di pianificarne la distruzione in caso di conflitto.
Nonostante l’accelerazione inferta al piano di sviluppo dell’AGS, il Comando NATO di Bruxelles ha chiesto un maggiore impegno collettivo ai paesi membri. “La partecipazione al programma resta aperto agli altri Alleati interessati”, ha dichiarato il vicesegretario Peter C. W. Flory, invitando apertamente i partner dell’Europa occidentale e la Polonia a rientrare nell’AGS. Originariamente, il piano di sviluppo del sistema di sorveglianza vedeva associate 23 nazioni.
(…)
Con l’AGS, inevitabilmente, sarà dato nuovo impulso ai processi di militarizzazione del territorio siciliano. Per il funzionamento degli aerei senza pilota e della nuova supercentrale di spionaggio, il ministro della difesa Ignazio La Russa ha annunciato l’arrivo nell’isola di un “NATO Force Command di 800 uomini, con le rispettive famiglie”. È prevedibile che saranno presto avviati i lavori per realizzare nuovi complessi abitativi per il personale in forza alla stazione aeronavale. I consigli comunali di Motta Sant’Anastasia (Catania) e Lentini (Siracusa) hanno già adottato quattro progetti di variante ai piani regolatori per l’insediamento di residence e villaggi ad uso esclusivo dei militari statunitensi e NATO.
Dovrebbe essere ormai questione di giorni l’arrivo a Sigonella del plotone di 4-5 velivoli RQ-4B “Global Hawk” dell’US Air Force, destinati ad operare in Europa, Medio oriente e nel continente africano. Nella base siciliana sarà pure realizzato il Global Hawk Aircraft Maintanance and Operations Complex, il complesso per le operazioni di manutenzione degli aerei senza pilota. Il progetto, da finanziare con il budget 2010 dell’Air Force Military Construction, Family Hosusing and base Realignment and Closure Programs, è stato definito di “alto valore strategico” da Kathleen Ferguson, vicesegretaria della Difesa, in occasione della sua audizione davanti al Congresso, il 3 giugno 2009.
(…)
Lo scorso anno, il Pentagono ha assegnato alla Northrop Grumman il piano di sviluppo dei nuovi velivoli senza pilota che saranno utilizzati dalle forze navali. Con la prima tranche del programma, a partire del 2015 saranno forniti 68 “Global Hawk” in versione modificata rispetto a quelli già operativi con l’US Air Force. Spesa prevista 1,16 miliardi di dollari. “Una quarantina di questi velivoli UAV saranno dislocati in cinque siti: Kaneohe, Hawaii; Jacksonville, Florida; Sigonella, Italia; Diego Garcia, Oceano Indiano, e Kadena, Okinawa”, hanno dichiarato i portavoce del Dipartimento della Difesa. “Ad essi, nelle differenti missioni navali in tutte le aree del mondo, si affiancheranno i velivoli con pilota P-8 Multi-Mission Maritime Aircraft (MMA), che stanno sostituendo i P-3 Orion in servizio dal 1962”. L’US Navy ha già preannunciato che le “front lines” per la dislocazione dei nuovi P-8 saranno le stazioni aeronavali di Diego Garcia, Souda Bay (Grecia); Masirah (Oman); Keflavik (Islanda), Roosevelt Roads (Porto Rico) e l’immancabile Sigonella.
Da A Sigonella la megacentrale di spionaggio NATO, di Antonio Mazzeo.
La lettera di Noam Chomsky ai vicentini
Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli statunitensi svilupparono una strategia di controllo globale, con lo scopo di rimuovere i poteri dell’imperialismo europeo e andare molto oltre, ma attraverso nuove strade. Avevano imparato l’efficacia dell’aviazione, e intendevano coprire quanti più porzioni del mondo possibile con basi militari che potevano essere velocemente ampliate se necessario, e usate per garantire il controllo su risorse, sopprimere resistenze locali che potessero minacciare il dominio statunitense, e installare e proteggere regimi amici. Il massiccio intervento per sovvertire la democrazia italiana dalla fine degli anni quaranta è solo uno dei molti esempi, niente in confronto ad altri che rasentarono il genocidio.
Ai giorni nostri, ci sono quasi 800 basi militari statunitensi nel mondo. Un più recente sviluppo è la costruzione di massive aree fortificate all’ interno delle città, chiamate “ambasciate” , sebbene non assomiglino affatto alle ambasciate che sono sempre esistite. La prima è stata la città-nella-città a Baghdad, e poi replicata a Islamabad e Kabul. La regione del Medio Oriente, con le sue immense risorse energetiche, è stata una preoccupazione di primaria importanza, e l’ obiettivo dell’ intervento statunitense basato nella zona periferica. Fin dalla Seconda Guerra Mondiale, l’ Italia è stata considerate una parte cruciale di questa zona periferica.
Durante la Guerra Fredda, il pretesto era la “difesa contro i Russi.” Dopo il crollo dell’ Unione Sovietica , tale pretesto è stato abbandonato. La prima amministrazione Bush aveva annunciato che le politiche sarebbero rimaste invariate, o addirittura ampliate, sebbene essi ammisero tacitamente che “le minacce ai nostri interessi” che richiedevano un intervento militare nel Medio Oriente “non potevano essere lasciate alle porte del Cremlino” , al contrario di decenni di inganni.
Nella maggior parte del mondo, movimenti popolari hanno protestato contro l’ utilizzo del proprio territorio per la dominazione globale statunitense. Proprio in questo periodo l’Ecuador sta espellendo la più importante base americana in Sud America. Decenni di proteste a Okinawa stanno obbligando parziale ritiro su Guam. Altrove molti altri stanno seguendo la stessa strada.
Le coraggiose proteste di Vicenza sono state un’ ispirazione per molti altri. Hanno fornito un slancio agli sforzi globali di coloro che ricercano un mondo basato sulla cooperazione e aiuto reciproco piuttosto che liti e violenza. Sono lieto di unirmi a molti altri nell’augurare a voi il massimo successo nei vostri attuali sforzi.
Noam Chomsky
Enciclopedia delle nocività, voce “Okinawa”
“Il 4 settembre 1995, alle otto di sera circa, due marines e un marinaio americani aggrediscono una ragazza di appena dodici anni mentre torna a casa. Il marine Rodrico Harp, 21 anni, ed il marinaio scelto Markus Gill, 22 anni – detto il “carro armato”, 182 cm di altezza e 122 kg di peso – confessano di aver picchiato la ragazza e che il marine Kenndrick Ledet, 20 anni, le aveva legato mani e piedi e coperto bocca ed occhi con del nastro isolante.
Tutti e tre risiedevano a Camp Hansen. Gill raccontò alla corte di aver violentato la ragazza “solo per divertirsi” e di averla scelta a caso, mentre usciva da una cartoleria. Il tenente generale Richard Myers – che era, allora, comandante delle forze USA in Giappone e che, sotto la presidenza di George W. Bush, sarebbe diventato capo di stato maggiore — affermò che si trattava di una tragedia inaudita, causata da “tre mele marce”, pur sapendo che i reati sessuali commessi dai militari americani contro la popolazione di Okinawa avvenivano a una media di due al mese. A peggiorare la situazione, il superiore di Myers, l’ammiraglio Richard C. Macke, comandante delle forze USA nel Pacifico, dichiarò alla stampa: “Credo che sia stato un gesto stupidissimo. Con i soldi che hanno speso per noleggiare l’auto si sarebbero potuti pagare una ragazza”.
Qui le referenze acquisite durante la loro più che sessantennale permanenza ad Okinawa.
[Buon Natale!]
Okinawa
Okinawa è la prefettura più meridionale e più povera del Giappone.
Con i suoi 726 chilometri quadrati di superficie è grande pressoché quanto Los Angeles ed è l’isola più grande dell’arcipelago delle Ryukyu. La capitale, Naha, è molto più vicina a Shanghai che a Tokyo e la cultura di queste zone riflette forti influenze cinesi. In passato le Ryukyu erano un regno indipendente, poi annesse al Giappone nel tardo XIX secolo, nello stesso periodo in cui le Hawaii vennero annesse agli Stati Uniti.
Nel 2005, Okinawa ospitava trentasette delle ottantotto basi militari statunitensi presenti in Giappone. Le basi di Okinawa coprono un totale di 233 chilometri quadrati, ossia il 75% di tutto il territorio occupato da installazioni militari USA sul suolo giapponese, nonostante l’isola rappresenti solo lo 0,6% del territorio dell’intero arcipelago.
Il Giappone, come la Germania, è una pietra angolare del dispositivo militare statunitense sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Se la fedeltà del Giappone dovesse venir meno, tutta la struttura USA in Asia Orientale finirebbe probabilmente per crollare. Nel novembre 2004, secondo statistiche del Pentagono, gli Stati Uniti avevano 36.365 militari in uniforme in Giappone, senza contare gli 11.887 marinai della Settima Flotta distaccati presso le basi di Yokosuka (prefettura di Kanagawa) e di Sasebo (prefettura di Nagasaki), alcuni dei quali, a turno, sono in servizio per mare. A questi vanno aggiunti i 45.140 dipendenti che lavorano nelle basi, i 27.019 impiegati civili del dipartimento della Difesa ed i circa 20.000 giapponesi che collaborano con le forze USA in mansioni che vanno dalla manutenzione dei campi da golf al servizio come camerieri nei molti locali riservati agli ufficiali fino alla traduzione dei giornali giapponesi per conto della CIA e della Defense Intelligence Agency. E si tenga conto che Okinawa, anche in assenza di tutti questi ospiti stranieri, sarebbe comunque un’isola sovrappopolata: con una densità demografica di quasi 2.200 unità per chilometro quadrato, è una delle aree maggiormente popolate del mondo. In termini assoluti, vi risiedono 1,3 milioni di abitanti circa.
L’isola principale di Okinawa fu teatro dell’ultima grande battaglia della seconda guerra mondiale, nonché dell’ultimo successo militare colto dagli Stati Uniti in Asia orientale. Circa 14.000 americani e 234.000 giapponesi, tra soldati e civili, persero la vita in quella feroce campagna durata tre mesi, così sanguinosa che divenne la principale giustificazione per i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. La battaglia durò da aprile a giugno del 1945 e devastò completamente l’isola.
Dal 1945 al 1972 gli ufficiali militari americani governarono Okinawa come una loro esclusiva proprietà. Nel 1952 la concessione di Okinawa fu il prezzo che il governo nipponico dovette pagare in cambio della firma di un immediato trattato di pace e del trattato di sicurezza nippo-americano, che segnò la fine dell’occupazione. Molti abitanti di Okinawa credono ancora che l’imperatore Hirohito li abbia sacrificati nel 1945 in un’inutile battaglia intesa a ottenere migliori condizioni di resa dagli alleati e che Tokyo li abbia poi sacrificati di nuovo nel 1952 per permettere al resto del paese di riconquistare la propria indipendenza e godere i primi frutti di una rinnovata prosperità economica. In quest’ottica, il Giappone accettò abbastanza di buon grado il trattato di sicurezza nippo-americano in quanto la maggior parte delle basi militari statunitensi erano dislocate in un’isoletta dell’estremo sud, dove tutti i problemi correlati alla loro presenza poterono essere ignorati dalla maggioranza della popolazione.
Le due grandi guerre americane contro il comunismo asiatico – in Corea ed in Vietnam – non avrebbero potuto essere combattute senza basi militari sul territorio giapponese. Quegli avamposti militari furono teste di ponte d’importanza vitale in Asia, nonché rifugi sicuri, invulnerabili agli attacchi di Corea del Nord, Cina, Vietnam e Cambogia. Allorché, al culmine della guerra del Vietnam, le proteste degli abitanti di Okinawa contro i B-52, i bar, i bordelli*, le scorte di gas nervino ed i crimini commessi dai soldati raggiunsero l’apice, gli Stati Uniti si decisero a restituire ufficialmente l’isola al Giappone. Nulla tuttavia cambiò in termini di presenza militare.
Negli anni Novanta la vita quotidiana sull’isola era di gran lunga migliore rispetto al periodo in cui il territorio era soggetto all’esclusiva giurisdizione americana. Il Giappone profuse cospicue somme di denaro, ben comprendendo che l’economia postbellica del paese fosse stata alimentata in parte a spese dei locali e che fosse dunque necessario un trasferimento di ricchezza. Sebbene Okinawa sia ancor oggi la prefettura più povera del Giappone, alla fine degli anni Novanta ha raggiunto il 70 per cento del livello di ricchezza nazionale.
*In Corea del Sud, sin dai tempi della guerra sono sorti enormi accampamenti militari (kijich’on) tutt’intorno alle basi americane. Ha scritto Katharine Moon: “Queste basi fungono in un certo senso da vetrina della presenza militare americana in Corea, caratterizzate da viuzze appena illuminate con insegne al neon intermittenti tipo Lucky Club, Top Gun o King Club. Musica country o da discoteca a volume altissimo rimbomba per le vie, dove uomini ubriachi scatenano risse e in cui soldati americani in divisa e truccatissime donne coreane passeggiano avvinghiati palpeggiandosi reciprocamente il sedere”. Fino al ritiro delle forze armate americane dalle Filippine nel 1992, la città di Olongapo, adiacente la base navale americana di Subic Bay, non aveva nessuna industria eccezion fatta per quella dell’”intrattenimento”, con circa 55.000 prostitute ed un totale di 2.182 strutture registrate, che offrivano “riposo e divertimento” ai militari statunitensi.
Come restare 1.000 anni in Irak
Esiste un sistema grazie al quale i negoziatori statunitensi possano rimediare delle basi permanenti senza il via libera del Congresso? Certo. Si chiama SOFA.
Di Frida Berrigan, 22 agosto 2008
Pochi americani avevano sentito nominare il SOFA prima di quest’anno, quando in rete ha fatto scalpore una rivelazione che molti osservatori della politica estera americana avevano previsto da molto tempo. Malgrado abbiano ripetutamente sostenuto il contrario, le autorità statunitensi stavano facendo pressioni sul governo iracheno perché accettasse una presenza militare degli Stati Uniti a tempo indeterminato, comprese – e questa era la cosa più sconvolgente – fino a 58 basi americane sul suolo iracheno.
Il termine SOFA, acronimo di Status of Force Agreement, è balzato improvvisamente sulle prime pagine. I Paesi hanno negoziato febbrilmente per raggiungere questo ed un altro accordo chiamato Strategic Framework Agreement (Accordo sul Quadro Strategico). I due distinti patti sono stati messi insieme e confusi sia da esperti di politica estera che dalle voci critiche. Il SOFA fornisce la base legale per la presenza e le operazioni delle forze armate statunitensi. L’Accordo sul Quadro Strategico è più vasto – benché non vincolante – e affronta tutti gli aspetti della relazione bilaterale tra l’Irak e gli Stati Uniti, compreso il controllo delle basi, le comunicazioni tra forze di sicurezza irachene e statunitensi e la questione principale: per quanto tempo? Nelle bozze dell’accordo i negoziatori hanno fatto riferimento ad “orizzonti temporali” per il ritiro delle truppe. Semantica astuta, vero? Non serve essere una persona di scienza per capire che un orizzonte non si avvicina mai all’osservatore.
Questi accordi servono a sostituire il mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2003, che scadrà alla fine dell’anno e che autorizzava la presenza militare multinazionale in Irak. Emanato senza una significativa partecipazione da parte dell’Irak, dice essenzialmente che l’Irak è sovrano, che l’occupazione militare è una collaborazione temporanea con le forze irachene, che si svolgeranno delle elezioni, che comincerà una fase di transizione democratica e che la forza militare “multinazionale” ricorrerà “a tutte le misure necessarie a contribuire al mantenimento della sicurezza e della stabilità in Irak”. La proroga del 2007 di questo mandato incontrò la strenua opposizione di un parlamento iracheno alle prime armi, che fece appello direttamente (e inutilmente) al Consiglio di Sicurezza quando il Primo Ministro Nouri al-Maliki richiese la proroga senza l’approvazione parlamentare.
I negoziati in corso sono l’ultima occasione dell’amministrazione Bush per risuscitare la sua tormentata politica mediorientale. Se tecnicamente il mandato delle Nazioni Unite potrebbe essere ulteriormente esteso, l’Irak però aveva già indicato che la proroga del 2007 sarebbe stata l’ultima. Richiederne un’altra denuncerebbe la debolezza del governo iracheno, dimostrerebbe che non ha il controllo della situazione ed equivarrebbe a riconoscere davanti al mondo che la politica di Bush in Irak ha fatto fiasco.
Ma quello perseguito dall’amministrazione non era un normale accordo sullo status delle forze. “Si distingue da tutti gli altri SOFA conclusi dagli Stati Uniti in quanto può contenere l’autorizzazione da parte del governo ospite… perché le forze statunitensi possano intraprendere operazioni militari”, osserva il Congressional Research Service (Servizio di Ricerca del Congresso). Continua a leggere
Tra “little Americas” e “lily pads”
“Nella sua «Revisione della posizione globale», il Pentagono suddivide ora le proprie installazioni militari in tre categorie. La prima è quella delle basi operative principali (Main Operating Bases o MOB), dove si trovano forze combattenti permanenti, vaste infrastrutture (caserme, piste aeroportuali, hangar, strutture portuali, depositi di munizioni), sedi di comando e controllo e strutture di accoglienza per le famiglie (case, scuole, ospedali e strutture ricreative). In questa categoria rientrano la base aerea di Ramstein, in Germania (con un «valore di sostituzione dell’impianto», o PRV, stimato nel 2005 a 3,4 miliardi di dollari e 10.744 addetti residenti in loco, tra militari e dipendenti civili del dipartimento della Difesa); la base aerea di Kadena, sull’isola di Okinawa, in Giappone (con un PRV di 4,7 miliardi di dollari e 9.693 addetti); la base aerea di Aviano, in Italia (con un PRV di 807,5 milioni di dollari e 4.786 addetti); e il presidio di Yongsan, a Seoul, in Corea del Sud (con un PRV di 1,3 miliardi di dollari e 12.178 addetti), che verrà presto sostituito da Camp Humphreys (con un PRV di 954,3 milioni di dollari e 5.622 addetti), situato all’estremo sud della penisola, fuori dalla portata dei missili nordcoreani.
Queste basi sono confidenzialmente ribattezzate little Americas, ma la cultura che esse riproducono non è quella mediamente prevalente negli Stati Uniti, bensì quella più particolare di posti come il South Dakota, la costa del Mississippi e Las Vegas. Per esempio, sebbene nelle nostre basi militari all’estero vivano più di centomila donne – contando quelle in servizio militare, le mogli e le parenti dei soldati – e benché l’aborto sia un diritto garantito dalla costituzione americana, nei nostri ospedali militari è vietato l’aborto. Ogni anno si registrano nelle forze armate quattordicimila casi, o tentativi, di violenza sessuale, e le donne che rimangono incinte all’estero e vogliono abortire non possono far altro che ricorrere ai servizi sanitari locali, cosa che in certe zone del nostro odierno impero non è né semplice né piacevole. Altrimenti devono tornare in patria a proprie spese.
Un’altra differenza tra le basi in patria e quelle all’estero sta nella presenza, in queste ultime, di slot machine di proprietà delle forze armate sparse nei circoli degli ufficiali e nei centri dedicati alle attività ricreative. Le forze armate incassano più di 120 milioni di dollari all’anno dalle slot machine, che creano un giro d’affari complessivo di circa 2 miliardi di dollari. Secondo Diana B. Henriques del «New York Times», «le slot machine sono state una costante della vita militare per diversi decenni. Furono bandite dalle basi militari in patria dopo una serie di scandali. Furono eliminate dalle basi dell’esercito e dell’aeronautica nel 1972, dopo che più di una dozzina di persone erano state condannate da una corte marziale per aver svaligiato delle slot machine nel Sud-Est asiatico durante la guerra del Vietnam […]. Oggi ci sono circa 4.150 moderne slot machine dotate di video in basi militari distribuite in nove paesi». Il circolo della base aerea di Ramstein, ad esempio, è strapieno di slot machine. La conseguenza è un notevole aumento, tra i militari all’estero, dei casi di compulsione al gioco d’azzardo e di famiglie rovinate.
Il secondo tipo di basi all’estero è quello dei siti operativi avanzati (Forward Operation Sites o FOS). Si tratta di installazioni militari di un certo rilievo, di cui il Pentagono cerca in tutti i modi di minimizzare l’importanza. Ben sapendo che molti stranieri vedono le strutture americane sul loro territorio come enclave imperialiste permanenti, Rumsfeld ha detto: «Stiamo cercando la formula linguistica più adatta. Sappiamo che la parola “base” non è quella giusta per definire la nostra presenza». In sostanza, i FOS sono dei MOB un po’ più in piccolo, se non fosse che nei FOS non sono ammessi i familiari degli addetti, e le truppe dovrebbero ruotare con scadenze semestrali e non triennali, come invece avviene nelle altre installazioni.
Tra gli insediamenti di questo tipo figurano, ad esempio, le strutture portuali di Sembawang, a Singapore, dove attraccano le nostre portaerei in visita (PRV di 115,9 milioni di dollari, 173 addetti) e la base aerea di Soto Cano in Honduras, che non figura nel Base Structure Report del 2005, ma è uno dei principali centri operativi a disposizione del Comando sud statunitense per esercitare la propria egemonia sull’America Latina. Altri esempi sono la base aeronavale di proprietà britannica dell’isola di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, che ospita i bombardieri B-2 (PRV di 2,3 miliardi di dollari, 521 addetti); la base aerea di Manas, nei pressi di Biskek, capitale del Kirghizistan, che ha un’estensione di 15 ettari, ospita 3.000 soldati e possiede una pista d’atterraggio lunga più di 4.000 metri, costruita in origine per i bombardieri sovietici; e l’ex base della Legione straniera francese a Gibuti, all’ingresso del Mar Rosso, nota anche come Camp Lemonier, che ospita 1.800 militari, perlopiù delle Forze speciali. (Visitai Gibuti nel 1962, quando era ancora una base della Legione straniera. Era un inferno e, stando a quel che ne dicono i soldati americani, lo è tuttora. Oggi accoglie una «Sensitized Compartmentalized information Facility», che è, in altre parole, un centro civile-militare da un miliardo di dollari per l’intercettazione e la raccolta di informazioni.) In passato, le basi di questo genere si sono solitamente trasformate in enclave permanenti degli Stati Uniti, indipendentemente dal nome usato dal dipartimento della Difesa per denotarle.
Il terzo tipo di basi è il più piccolo e il più sobrio. Il Pentagono ha scelto per queste installazioni il nome di Cooperative Security Locations (CSL), anche se non ha specificato in che senso siano «cooperative» o di chi sia la «sicurezza» a cui contribuiscono. Nel gergo del dipartimento della Difesa vengono chiamate lily pads, cioè «foglie di ninfea», e sono queste le basi che stiamo cercando di creare su tutto l’«arco di instabilità» globale, che si dice congiunga la regione andina, il Nordafrica, il Medio Oriente, le Filippine e l’Indonesia. In un rapporto del maggio 2005, la Commissione per le basi all’estero affermava che nei luoghi toccati da questo arco «le tensioni etniche, il fanatismo ideologico e religioso, il malgoverno e, soprattutto, l’odio nei confronti dell’Occidente in generale e degli Stati Uniti in particolare toccano un livello di molto superiore alla media». Perché questo arco di regioni debba essere il luogo ideale per l’espansione della nostra presenza militare, se non per il fatto che vi si trovano molti dei principali paesi produttori di petrolio del pianeta, non è stato chiarito.
Queste basi «a foglia di ninfea» contengono armi e munizioni preinstallate (che potrebbero anche essere trafugate o espropriate ad altri fini) e sono accessibili ai militari americani a precise condizioni negoziate in anticipo, sebbene destinate ad accogliere truppe americane solo in situazioni d’emergenza. Si tratta di luoghi che i nostri soldati possono raggiungere con un balzo, come tante rane bene armate, dal territorio americano o dalle più importanti tra le nostre basi all’estero. Una struttura di questo tipo sorge, ad esempio, a Dakar, in Senegal, dove l’aeronautica ha negoziato il diritto di atterraggio d’emergenza per i propri velivoli, accordi logistici e forniture di carburante. Nel 2003 fu utilizzata per i preparativi di un nostro limitato intervento nella guerra civile in Liberia.
Altre «foglie di ninfea» si trovano in Ghana, Gabon, Ciad, Niger, Guinea Equatoriale, nelle isole di Sào Tomé e Principe nel Golfo di Guinea ricco di petrolio, in Mauritania, in Mali e all’aeroporto internazionale di Entebbe, in Uganda, oltre che sulle isole di Aruba e Curnao, nelle Antille Olandesi, non lontano dal Venezuela. Altre sono in costruzione in Pakistan (dove già disponiamo di quattro basi più grandi), India, Thailandia, Filippine e Australia, ma anche in Nordafrica, in particolare in Marocco, Tunisia e Algeria (teatro del massacro di centinaia di migliaia di civili, dopo che nel 1992 i militari vi presero il potere, sostenuti dagli Stati Uniti e dalla Francia, annullando l’esito di un’elezione democratica vinta dal Fronte islamico di salvezza). Altre sei sono in via di realizzazione in Polonia.
Il modello di tutte queste installazioni, secondo il Pentagono, sarebbe la serie di basi che abbiamo costruito negli ultimi due decenni nel Golfo Persico, in paesi retti da autocrazie antidemocratiche come Bahrein, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, anche se le basi lì insediate sono in genere troppo vaste per poterle considerare «foglie di ninfea». Mark Sappenfield, del «Christian Science Monitor», ha osservato: «L’obiettivo […] è quello di stringere il maggior numero possibile di accordi in tutto il mondo, cosicché, quand’anche un paese dovesse cambiare idea e negare l’accesso agli Stati Uniti, il Pentagono avrà a portata di mano altre opzioni. Questo nuovo corso, però, costringerà i capi del Pentagono a dimostrarsi statisti oltre che strateghi militari».”
Estratto da Nemesi, di Chalmers Johnson, Garzanti, 2008, pp. 192-196.
Al riguardo si vedano anche La versione americana della colonia è la base militare e Soldati americani in giro per il mondo.