Viruslager

Il Covid-19 e il “paradigma della vittima”

Chi mi conosce sa, perché l’ha sentita dal vivo, di persona o al telefono, di una mia disamina fatta già a marzo, quando per non sembrare troppo “irriverente” o “esagerato” mi riservai di metterla per iscritto solo in seguito.
Oggi, però, dopo aver letto dell’assunzione di sessantamila addetti alla gestione della “fase 2” che qualcuno ha già definito “i nuovi kapò”, non credo sia più il caso di tacere.
Ma prima di svolgere questa riflessione è necessaria una premessa d’ordine psicologico. Esistono esperti che sanno perfettamente come funziona la psiche umana, così quando da qualche tempo hanno deciso di proporre al pubblico in maniera ossessiva “l’olocausto ebraico” con una miriade di iniziative rivolte alle scuole e non solo, la maggior parte della persone, compresa buona parte degli organizzatori in buona fede di tali iniziative, si sono convinte che ciò serva affinché simili orrori “non si ripetano mai più”. La realtà, invece, ha smentito puntualmente in tutti questi anni tale postulato: mezzo mondo è stato massacrato da guerre, distruzioni, deportazioni e massacri, mentre la “Giornata della memoria” non pareva servire a porre alcun ostacolo a ciò che non si doveva ripetere.
Nel frattempo, però, si è diffuso un sentimento radicato tra coloro che sono stati sempre più coinvolti in questo tipo di operazioni e manifestazioni a sfondo commemorativo e rieducativo: l’identificazione con le “vittime dell’Olocausto”. Pian piano è passato un sentimento profondo di letterale simpatia per coloro che subiscono quel che la narrativa olocaustica veicola, al punto che oggigiorno è più diffuso il modello della vittima sacrificale di quello dell’eroe che invece aveva tenuto banco nell’antichità. Questo paradigma della vittima si è così sedimentato nel profondo, ed è ciò che conta davvero per chi pianifica certe operazioni mirate a ridisegnare l’intera società. Le persone, insomma, rieducate da decenni di pedagogia olocaustica, si sono adeguate allo schema della vittima, a finire conciate come quella, senza rendersene conto, anche perché dall’altra parte è stato posto il Male assoluto contro il quale non ci si può non posizionare, tanto è repellente e disumano. Tutto, pertanto, è stato predisposto adeguatamente con un’operazione di condizionamento capace di agire nel profondo della psiche, individuale e collettiva.
Ed ecco che col “virus” è scattata l’operazione in grado di far precipitare le masse nel ruolo predisposto. Che cos’altro è, questa nuova società del “distanziamento sociale”, se non una riedizione del paradigma olocaustico?
Si esce di casa solo per lavorare o fare la spesa, insomma solo per l’essenziale, espletato il quale si rientra nella baracca, anche perché se non lo fai ci sono i delatori. Si viene continuamente sanificati (cosa vi ricorda?) e alcuni dei costretti al lavoro coatto, e riconoscenti perché finalmente hanno un “lavoro”, sono elevati al rango di controllori degli altri ‘ebrei’ per conto del sistema concentrazionario. Alcuni vengono sottoposti agli esperimenti dello “scienziato pazzo”, che nell’edizione aggiornata dello schema è lo sperimentatore di vaccini su gente sana. Poi c’è pure un signore, il capo dei ‘nazisti’, che punta ad imprimere a tutti un tatuaggio, ma a fin di bene… E nei momenti di maggior scoramento, su con la vita, suona l’orchestrina di Ausch… pardon si ha il permesso di cantare dal balcone della baracca. Manca qualcosa? Mi son dimenticato qualche particolare? Pazienza, ma l’impianto generale è quello che ho descritto. Tra l’altro è in corso pure un’enorme operazione di selezione, tra chi si sottomette e chi no (perché di questo si trattò).
Ora, so benissimo che ci sarà qualcuno che non capirà o fingerà di non capire, ma non importa, perché a me oramai importano solo la libertà e la verità, il che non può passare dallo sfruttamento e dall’umiliazione di chicchessia.
Sono altresì cosciente delle differenze tra le due situazioni che ho posto in relazione, quindi occhio alle facili “moraline” che non intendo ricevere. Quello che qui ora conta è capire il processo di fondo, che è il medesimo, per cui, prima ci si rende conto che siamo finiti tutti col ‘pigiama a righe’ (la mascherina?) e la stella gialla (il tracciamento con l’app?) e meglio sarà per tutti.
Enrico Galoppini

Vinti ma di sicuro non peggiori dei vincitori

“Il 27 gennaio ultimo scorso, data dell’arrivo dell’Armata Rossa ai cancelli di Auschwitz, si è celebrato, come ogni anno, con grandissima partecipazione di congiunti, sopravvissuti, media e autorità, il “Giorno della Memoria”. Il 10 febbraio, poi, ci si è accapigliati sul “Giorno del Ricordo”, quello delle Foibe, nelle quali un sacco di strabici, dal Quirinale in giù, vogliono vedere sepolte solo vittime di Tito fiumane o triestine. Infine, Il 14 febbraio i fidanzati, gli sposi ancora in buona, gli amanti ancora entusiasti, si sono fatti gli auguri e i pensierini di San Valentino. Per il “Giorno della Rimembranza” che qui, seduta stante, proclamo e inauguro, siccome sono solo e resteremo pochini, voglio rifarmi a San Valentino, interpretata come giornata di chi si vuole bene.
A sfida delle zanne dei morsicatori del pensiero non unico, anzi, controverso, dichiaro che, insieme all’Italia, della quale mi auguro la difesa dell’identità millenaria e il ricupero della sovranità popolare e nazionale, voglio molto bene alla Germania, per la quale formulo gli stessi auguri. E’ in massima parte a questo paese, vindice, insieme ad altre nazioni, della grande civiltà europea (tagliando via guerre e colonialismi), terra di pensatori senza uguali, esploratori dell’animo umano, terra di grandi foreste integre e di grandi fiumi andati a fare le vene d’Europa, che dedico il “Giorno della Rimembranza”. Se non altro perché è il giorno dei vinti e, di conseguenza, non se lo fila nessuno. E’ a dispetto di questo cielo di soli artificiali, che vanno sostituendo quello naturale e la sua giusta luce, che certe storie, certi crimini, certe sofferenze, vanno ricuperate, riscritte, scolpite nella Storia accanto a quelle accettate e consacrate. Non sempre a ragione. Con almeno uguale dignità. E i negazionisti, quelli che negano il diritto a studiare, rivedere e riscrivere la Storia, peste li colga.
Il mio “Giorno della Rimembranza”, coincide – guarda il caso! – con le 48 ore, dal 13 al 14 febbraio 1945, in cui migliaia di carnefici in volo, della RAF e dell’USAAF, spediti da Churchill, hanno cancellato dalla faccia della Terra Dresda, il più prezioso gioiello barocco d’Europa. E poi anche Lipsia e Berlino e Amburgo e Monaco…. Forse questo mio “Giorno della Rimembranza” è balenato anche a quelli che recentemente in Germania Est, belli o brutti che fossero, non hanno votato come si converrebbe. Come sarebbe andata bene alle signore e ai signori del vero e del giusto, dei sacrosanti giorni della memoria e del ricordo, dalla Merkel alla Von der Leyen, da Macron a Mattarella, da Stoltenberg (NATO) al “manifesto”. E, dunque, senza nemmeno andare a vedere cosa dicono e cosa vogliono, e perché siano tanti e crescano, e per quali regioni detestino il governo che li ha annessi e colonizzati, questi depravati sono stati sotterrati sotto una slavina di “fascisti”, “neonazisti”, “razzisti”.
Io mi riservo di studiare chi e perché stia vincendo elezioni in Germania Est, mentre ho già un’ideuzza del perché vadano scemando i voti operai e proletari di SPD e CDU, forze di un capitalismo cannibale nei confronti dei propri fratelli, anche se meno esplosivo e incendiario degli aerei alleati. Forze predatrici che di una DDR, in cui nessuno aveva troppo e nessuno troppo poco, hanno distrutto, rubato, devastato tutto e quel che restava l’hanno portato via. Proprio come certi compari dall’URSS-Russia al tempo di Eltsin.
Detto questo per placare eventuali indignazioni, spiego perché alla Germania, ai tedeschi voglio bene. Non è questione di sangue. Miei avi paterni della Savoia e materni di origine francese ugonotta, poi trapiantati sul Reno, non c’entrano niente. C’entra che io, al tempo di Dresda immolata, insieme a centinaia di città, paesi, borghi, in Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, con una potenza di fuoco e di esplosivo ad altissimo potenziale, mai visto in nessuna guerra, da quelle parti c’ero. Piccolino, ma c’ero, vedevo, capivo. Mio padre era sotto le armi e fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’8 settembre. Il resto della famiglia, madre, sorella, io, era scampata nelle Alpi Bavaresi dai bombardamenti su Napoli. Anche per stare vicino a mio padre, detenuto a Wiesbaden. Ma gli Italiani erano passati da mercenari di Hitler, a mercenari di Churchill e Roosevelt. Perdemmo lo stato di alleati e assumemmo quello di nemici. E fummo costretti al domicilio coatto, poi molto alleggerito. Mio padre fu rilasciato dopo nove mesi di agiata prigionia in un hotel di Wiesbaden e rimandato in Italia. Noi no.
(…)
Con 11 anni, a Dresda non c’ero. Ma ne ho assaporato la carne bruciata. Più o meno negli stessi giorni, sul paese dove eravamo stati confinati, calavano gli Spitfire a mitragliare la gente. Di soldati non ce n’erano più. Raccoglievamo nei campi le loro armi abbandonate. E neanche di uomini tra i 14 e i 65 anni. Tutti richiamati per l’estrema, assurda, difesa, noi bambini delle Medie facevamo da Protezione Civile: a secchiate spegnavamo gli incendi e a braccia raccoglievamo feriti e morti. Così anche, nell’insediamento di baracche tirate su per i rifugiati dalle bombe su Duesseldorf e mitragliate pochi minuti prima, un mio compagno di classe di 11 anni. Col ventre squarciato e gli occhi spalancati sul cielo. Un altro mio compagno volò in cielo col ponte sul Meno fatto saltare da uno scellerato comandante tedesco in ritirata.
Questo “Giorno della Rimembranza” per civili tedeschi senza lapidi e senza onoranze vale anche per tutte le altre città tedesche, perlopiù, come Dresda, completamente prive di significato e presenza militare. Non si trattava di distruggere una Wehrmacht ormai allo sbando. Io, in molte di quelle altre città sono capitato mentre venivano rase al suolo dagli esplosivi, o rese macabri scheletri dalle bombe incendiarie. Non avremmo mai più rivisto il gotico, il neoclassico, il Biedermeyer, il rococò, il liberty, di Francoforte, Magonza, Koblenza, Colonia, Monaco, Wuerzburg, quella con la reggia affrescata dal Tiepolo. La Germania raccontata da Goethe, E.T.A Hoffmann, Brentano, Heine…non l’avrebbe più vista nessuno. Vedevamo le bombe scendere a grappolo, a stormi, a migliaia. Mia madre evitava i rifugi: “Meglio morire all’aria aperta, piuttosto che lì sotto, come topi”. E dopo ogni bombardamento ci trascinava via, verso luoghi “più sicuri”, che poi non lo erano. Ricordo una strada in centro, pochi minuti dopo che la sirena aveva suonato il cessato allarme. Era attraversata da voragini e fiancheggiata da macerie, palazzi con finestre che parevano gli occhi vuoti delle maschere greche, ancora fiamme qua e là ad arrossare interni, cavalli con le pance squarciate al lato della strada, sempre con quegli occhi enormi, vivi, che non capiscono.
(…) Prendevo lezioni private di Inglese da un giovane ebreo, si chiamava Ludwig Haas. Era sempre preoccupato, si muoveva con circospezione, ma nessuno nel paese gli ha mai torto un capello. Lo coprivano. Altrove era diverso, si sa. Avevamo la tessera annonaria, come tutti, ma quella per stranieri, più avara, da mera sopravvivenza. Mia madre ci portava in campagna a scambiare un suo vestito di seta con due panetti di burro e sei uova. Si friggeva con i resti del surrogato di caffè. Si mangiavano ortiche colte al lato della strada. Il calo delle difese immunitarie causava epidemie. Il tifo lo presi anch’io, come tanti, anche nei campi di concentramento. Mi salvai perché gli Americani, a fine 1946, dopo averci trattenuti per oltre un anno, sempre in regime di fame, più qualche chewing gum (che io mi rifiutavo di accettare dai GIs), perché, stranamente, considerati non badogliani, ma mussoliniani, finalmente ci permisero di rimpatriare.
Ma la gente del posto ci diede un’abitazione per pochissimi soldi. Un imprenditore del mobile ce la arredò gratis. I libri di scuola mi venivano regalati da compagni più avanti. Con qualcuno mi picchiai perché mi urlavano dietro “Badoglio!” Ma c’era tanta amicizia ed escursioni nei boschi e sul fiume. Le secche zitelle verduraie vicino a casa mia ci regalavano pomodori e cetrioli e mi insegnarono a coltivarli in un pezzetto del loro vivaio. La panettiera, grande, grossa, rubizza e tenera, ci dava sempre qualche panino in più, oltre la tessera annonaria. Così il salumiere dei Wuerstel. E il lattaio, un po’ matto, finchè ce n’era. Poi se lo portò via il “Volkssturm”, l’ultima chiamata alle armi, dei vecchi e dei ragazzini. Il mio “Giorno della Rimembranza” lo dedico anche a questi miei “concittadini”. Vittime, come tutti noi. E vinti. Ma di sicuro non peggiori dei vincitori.”

Da Mi faccio il “Giorno della Rimembranza”. Il giorno della memoria dei vincitori, 365 giorni dell’oblio dei vinti, di Fulvio Grimaldi.

I conti con il presente

Le immagini, il linguaggio e i concetti espressi dalla politica oggi ci rimandano alla figura e all’intelligenza di un incrocio fra lo zotico e lo scemo del villaggio.
Una realtà che spiega il bene il successo che hanno certi personaggi fra i lazzaroni del Sud e le plebi del Nord che in essi si riconoscono.
In una società involgarita, incattivita e rincretinita la pretesa, affermata in sede politica e governativa, che in questo Paese i conti con il passato si possano chiudere arrestando qualche decina di latitanti non trova opposizione.
Eppure, sono tanti fra storici, giornalisti e magistrati che sanno perfettamente che nei Paesi civili i conti con il passato si chiudono non portando in galera quattro gatti a distanza di 40-50 anni dai fatti che li hanno visti protagonisti, bensì ristabilendo la verità su un periodo storico che accanto a reali oppositori del sistema, tutti di sinistra, che hanno agito con le armi ci sono stati tanti terroristi di Stato che hanno operato contro il popolo in nome della difesa dell’Occidente contro il comunismo.
Hanno operato, questi ultimi, negli interessi dello Stato e del regime che non volevano distruggere ma rendere più autoritario, capace cioè di fermare la minaccia rappresentata dall’avanzata elettorale del PCI.
Allo spettacolo grottesco cui stiamo assistendo in questi giorni siamo arrivati con il concorso di tutte le forze politiche dall’estrema sinistra all’estrema destra.
Se il partito politico dell’estrema destra, pur passato dal «neofascismo» all’antifascismo assumendo nuove denominazioni, è obbligato dalla storia a restare inchiodato nella difesa a oltranza di terroristi e stragisti di Stato, i partiti della sinistra lo hanno fatto per la paura di rendersi invisi ai governi americani, israeliani e alla NATO le cui responsabilità nella guerra politica italiana sono a essi ben note.
La convergenza di tutte le forze politiche nell’affermazione della menzogna, in un quadro politico che vede avanzare protettori, complici e difensori di terroristi di Stato e massacratori di innocenti sul piano politico, e conseguente invasione di redazioni giornalistiche e televisive, rende plausibile agli occhi della grande maggioranza degli Italiani ai quali la verità è stata negata e occultata, la pretesa che lo Stato deve fare «giustizia» riportando in carcere gli ultimi latitanti rifugiati all’estero.
Lo Stato e il regime di cui tutti, senza eccezioni, fanno parte, pur dividendosi in governativi e oppositori, vivono nella paura che le verità sul passato emergano.
Pretendono che del passato non si parli più, si rallegrano che i «misteri d’Italia» rimangano tali attribuendone la responsabilità ai «servizi deviati» e alla loggia P2, convinti di poter spiegare tutto con una esplosione di «follia collettiva giovanile» come affermato dall’ex comunista Giorgio Napolitano.
Purtroppo, per la prostituta burocratica che chiamano Stato e per i suoi lenoni politici ci sono persone che ancora oggi si battono perché la verità emerga.
Così, mentre tutti intonavano il canto di vittoria per il ritorno in Italia del latitante Cesare Battisti, esibito come un trofeo per provare la volontà del governo del cambiamento in peggio di chiudere i conti con il passato, l’impegno, il coraggio e l’intelligenza della giornalista Raffaella Fanelli portavano alla luce un depistaggio nelle indagini sull’omicidio del giornalista Mino Pecorelli.
La rabbiosa e scomposta reazione dei pennivendoli televisivi (si sono distinti per infamia i baciapile del TG1) nel riportare la notizia in modo tale che nessuno ha potuto comprendere perché sia stata richiesta la riapertura delle indagini, dimostra il panico di quanti già pregustavano il piacere di affermare che nulla ci sia più da scoprire sulla guerra politica italiana, costretti a prendere atto che ancora c’è moltissimo da portare alla luce su quel passato che chiama in causa lo Stato.
Quel che è peggio per i «velinari» televisivi è che il depistaggio portato alla luce da Raffaella Fanelli non potrà essere attribuito ai servizi segreti «deviati» o alla loggia P2, perché si svolge tutto in ambito giudiziario fra Milano, Roma e Perugia.
Anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si è unito alle richieste di quanti pretendono che i latitanti siano ricondotti in Italia per scontare le loro condanne, mentre avrebbe fatto meglio a ricordare che i killer di suo fratello sono rimasti, fino a oggi, impuniti grazie ai depistaggi posti in essere da uomini dello Stato democratico che lui oggi rappresenta.
Quella che l’ex comunista, ex secessionista, ex anti-meridionalista, oggi nazionalista (per ora) Matteo Salvini e i suoi amici chiedono è vendetta non giustizia.
È la vendetta meschina di coloro che temono l’emergere della verità e l’affermazione di una Giustizia che non è quella della magistratura alla quale si deve tanta ingiustizia, bensì della Storia.
Per questo motivo si affannano a portare in carcere vecchi e malati, persone alle quali questo Stato e questa classe dirigente hanno permesso di rifarsi una vita che oggi vorrebbero stravolgere e distruggere.
Conosciamo questa logica della vendetta a ogni costo, senza limiti di tempo, strumentale perché finalizzata a raggiungere obiettivi politici che nulla hanno a che vedere con la giustizia.
È la stessa logica che ha portato un ufficiale tedesco innocente a morire a cento anni in Italia, agli arresti domiciliari, sacrificato sull’altare della Shoah, e a inutili processi a caporali e sergenti novantenni.
Non è giustizia, è la logica di Norimberga, quella della barbarie che infierisce sui vinti per far dimenticare i propri crimini.
Noi abbiamo un’altra logica, quella della civiltà di Roma, e a essa continuiamo a ispirarci e a restare fedeli.
La conclusione è amara: per fare i conti con il passato dobbiamo prima farli con il presente.
Vincenzo Vinciguerra

Fonte

Un gigantesco fenomeno culturale

All’intervistatore che, rilevando come sia ormai un dato di fatto il sostegno di numerosi ambienti progressisti all’impero USA, si rammarica dell’indifferenza della sinistra europea al “messianesimo realizzato” americano, mentre per lungo tempo le lotte anti-imperialiste degli anni ’50 e ’60 erano state un suo importante riferimento ideale, Costanzo Preve replica:

“In realtà a questa domanda è difficile rispondere, perché cerca di trovare le radici di un gigantesco fenomeno culturale che è la riconversione dell’identità culturale di sinistra dalla vecchia fase classista anti-imperialista alla nuova fase della religione olocaustica e della religione individualistica dei diritti umani. Nel caso di Obama si tratta di una delle tante illusioni. Da questo punto di vista si tratta dell’incapacità strutturale di una cultura come quella europea, che ha perduto ogni sovranità storica e geografica e che perciò è costretta dopo il 1945 a correre dietro a dei miti esotici. Il mito di Kennedy negli anni sessanta e di Obama negli anni duemila non sono diversi, come può sembrare, dal mito di Che Guevara o di Mao Tse-tung. Si tratta in ogni caso di miti esotici, che non sarebbero tali se non ci fosse prima una totale mancanza di radici, una totale mancanza di sovranità della cultura europea. La sovranità culturale è parzialmente autonoma ma dipende anche dalla sovranità politico-militare. La grande filosofia greca del tempo di Platone e Aristotele si basava sulla sovranità politica dei Greci, non ancora occupati né dall’impero persiano né dalla repubblica romana né dai regni ellenistici. E’ vero che ci può essere una cultura interessante anche in condizioni di oppressione politica, pensiamo ad esempio alla cultura greca sotto l’impero ottomano o alla cultura polacca sotto l’impero zarista, però in generale una grande cultura presuppone una sovranità politico-militare. L’Europa non esiste più, esiste una eurolandia, che è soltanto uno spazio di banchieri, uno spazio monetario. In mancanza di Europa è chiaro che si cercano miti stranieri: il mito della Cina come grande Paese industriale produttivo, il mito di Obama, che per di più è anche un nero, il che vuol dire che sembra il portatore della famosa emancipazione antirazziale di Martin Luther King. Si tratta fondamentalmente di un mito di oppressi, di un mito di una cultura senza più radici e sovranità, perciò non ha molta importanza. Questi miti cambiano continuamente, tra uno o due anni non ci sarà più il mito di Obama e se ne cercherà un altro.
(…)
La cultura americana continua ad essere per gli Europei sostanzialmente un enigma. Gli Europei hanno sempre esaltato la rivoluzione americana come una rivoluzione illuministica ed è sempre rimasto poco noto il sottofondo vetero-testamentario di questo messianesimo. In mancanza di questa comprensione si appiccica all’America la dicotomia sinistra/destra, per cui Obama è di sinistra e Bush di destra, e non si vede il comune aspetto messianico di entrambi. A questo punto la cultura europea non è in grado, tolte piccole eccezioni, di capire non tanto il fenomeno Obama quanto il fenomeno imperiale americano.”

Fra queste “piccole eccezioni”, John Kleeves, del quale è da poco tornato disponibile “Un Paese pericoloso. Storia non romanzata degli Stati Uniti d’America”, originalmente pubblicato nel 1999.
Qui, in formato pdf.

Benvenuti in Palestina

27-gennaio

«Mia nonna fu uccisa da un soldato tedesco mentre era a letto malata. Mia nonna non è morta per fornire ai soldati israeliani la scusa storica per ammazzare le nonne palestinesi a Gaza. L’attuale governo israeliano sfrutta cinicamente e senza limiti il senso di colpa dei gentili per l’olocausto onde giustificare i suoi omicidii in Palestina».
Sir Gerald B. Kaufman, membro laburista del Parlamento britannico, ebreo di origine polacca.

[Dalla dichiarazione rilasciata il 15 gennaio u.s. durante il dibattito su Gaza alla Camera dei Comuni.
Qui il testo in lingua originale ed il relativo video]