“Chi ha seguito le vicende ucraine senza pregiudizi ideologici, e con un minimo di onestà intellettuale, sa che al momento della dissoluzione dell’URSS, l’Ucraina era una potenza economica, la terza potenza industriale dell’Unione Sovietica dopo Russia e Bielorussia, oltre che il suo granaio. Questa repubblica sovietica possedeva industrie aerospaziali, automobilistiche e di macchine utensili, i suoi settori minerario, metallurgico e agricolo erano ben sviluppati, come i suoi impianti nucleari e petrolchimici, le sue infrastrutture turistiche e commerciali. Ospitava inoltre il più grande cantiere navale dell’URSS.
A partire dal 1991, anno della sua indipendenza, il PIL dell’Ucraina è rimasto indietro rispetto al livello raggiunto in epoca sovietica, la capacità industriale si è notevolmente ridotta e la popolazione è diminuita di circa 14,5 milioni di persone in 30 anni a causa dell’emigrazione e del più basso tasso di natalità in Europa. Non solo, l’Ucraina è anche diventata il terzo debitore del FMI e il Paese più povero d’Europa. Questi record negativi non possono essere imputati solo alla corruzione sistemica e spaventosa dell’Ucraina: le reti di corruzione che hanno spremuto l’Ucraina sono transnazionali.
L’Ucraina è stata vittima di due rivoluzioni colorate finanziate dagli Stati Uniti che hanno portato a un cambio di regime e ad una guerra civile che l’hanno separata a forza dal suo principale partner economico, la Russia. La sua storia è stata cancellata e riscritta, le ricette neoliberali hanno distrutto il suo tessuto economico e sociale instaurando una forma di governo neocoloniale.
L’Ucraina è entrata a far parte del nefasto Partenariato Orientale dell’UE nel 2009 e, fin dalla sua indipendenza, è stata invasa da ONG, consulenti economici e politici occidentali. Lo stato di soggezione del Paese ostaggio degli interessi anglo-americani si è cementato dopo che l’ultimo governo ucraino che si era opposto alle dure condizioni del FMI è stato rovesciato dal colpo di Stato sponsorizzato dagli Stati Uniti nel 2014.
Il 10 dicembre 2013, il presidente ucraino Viktor Yanukovich aveva dichiarato che le condizioni poste dal FMI per l’approvazione del prestito erano inaccettabili: “Ho avuto una conversazione con il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, mi ha detto che la questione del prestito del FMI è stata quasi risolta, ma gli ho ripetuto che se le condizioni fossero rimaste tali non avremmo avuto bisogno di tali prestiti”. Yanukovich ha quindi interrotto i negoziati con il FMI e si è rivolto alla Russia per ottenere assistenza finanziaria. Era la cosa più sensata da fare, ma gli è costata cara. Non è possibile rompere impunemente le catene del FMI: questo fondo a guida americana concede prestiti a Paesi con l’acqua alla gola in cambio della solita shock therapy fatta di austerità, deregolamentazione e privatizzazione, e prepara in questo modo il terreno per gli avvoltoi della finanza internazionale, quasi sempre angloamericani.
Se si permette a coloro che hanno distrutto un Paese di essere coinvolti nella sua ricostruzione, essa sarà inevitabilmente solo un punto sul continuum di conquista, occupazione e saccheggio, anche se viene imbellettato. La distruzione produce quella tabula rasa su cui l’occupante può scrivere le proprie regole: “Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace”. Tacito conosceva bene sia la realtà che la propaganda dell’imperialismo romano. Ci si può solo chiedere se coloro che parlano di “ricostruzione”, “ripresa”, “riforma”, “ordine fondato sulle regole”, “reset” o qualsiasi altra espressione di moda al momento, siano consapevoli di questa realtà brutale o credano veramente alla propria propaganda. In ogni caso, promettono un’utopia futura per la quale vale la pena uccidere e morire.
(…) Vendere una guerra richiede un impegno a tutto campo, ed è per questo che i think tank e gli specialisti di marketing sono stati coinvolti fin dalle prime fasi. Essi generano narrazioni che contribuiscono a plasmare lo spazio discorsivo, a creare una percezione di sostegno universale per l’Ucraina, a fornire punti di discussione e versioni della verità sia ai politici che ai media. Devono motivare gli ucraini affinché continuino a combattere e i vassalli europei affinché continuino a finanziare la guerra e ad armare l’Ucraina, indipendentemente dalle devastanti perdite umane ed economiche che ciò comporta.
(…) I politici europei, mentre sono alle prese con i costi sempre più crescenti di una guerra per procura degli Americani nel loro continente, come meccanismo di compensazione sostengono l’idea assurda che una soluzione di pace in Ucraina minaccerebbe la sicurezza europea e non sarebbe nell’interesse del Vecchio Continente. La retorica della ricostruzione, intrecciata all’illusione di una vittoria dell’Ucraina, permette al partito transatlantico della guerra di presentarsi come una forza del bene e un motore di crescita futura. I promotori della ricostruzione hanno cercato aggressivamente di occupare il terreno morale estromettendo i costruttori di pace e per farlo hanno spinto la tesi che la guerra non poteva essere impedita né fermata.”
È improbabile che Washington riesca a sganciare l’Asia centrale dalla Russia, anche se falsamente descriverà alcune iniziative commerciali come grandi successi o come qualcosa di molto innovativo.
Di Ahmed Adel, ricercatore di geopolitica ed economia politica che fa base a Il Cairo, per South Front, 5 dicembre 2022
L’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) ha finanziato nella seconda metà del 2022 il cosiddetto “sostegno alla democrazia” per un importo di 248 milioni di dollari nei Paesi della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). In confronto, i “falchi umanitari”, come l’amministratore dell’USAID Samantha Power descrive l’agenzia, investirono solo 243 milioni di dollari nell’intero 2021.
La CSI, che comprende gli ex Stati sovietici quali Russia, Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Kazakhistan, Kirghizistan, Moldavia, Tagikistan e Uzbekistan, è un blocco di Paesi per il quale gli Stati Uniti si sono a lungo sforzati per espandere al loro interno la propria influenza e il proprio soft power. Per questa ragione, l’USAID ha significativamente aumentato i suoi investimenti nella regione, con Armenia, Georgia e Moldavia, Stati periferici della CSI, che risultano essere i più grandi beneficiari delle nuove sovvenzioni, specialmente per quelle riguardanti le Ong e i media.
L’USAID ha stanziato 15 milioni di dollari a scopi educativi per la sola Georgia nella seconda metà di quest’anno, con un’enfasi particolare posta sulla necessità di abolire la presunta discriminazione di genere. Gli Americani intendono plasmare l’istruzione georgiana secondo il loro stampo, riqualificando gli insegnanti; per questo motivo fu assegnata una sovvenzione di 250.000 dollari a professori di giornalismo provenienti dalle università locali che soddisfano i loro criteri. Nel 2021, l’USAID lanciò un programma quinquennale in Georgia del costo di 330 milioni di dollari.
Nella seconda metà del 2022, l’USAID ha concesso due sostanziose sovvenzioni – rispettivamente del valore di 120 e 4 milioni di dollari – per lo “sviluppo della democrazia” e l'”indipendenza dei media” in Armenia. Questo aiuto è stato criticato perché non fornisce l’assistenza umanitaria necessaria per assistere 100.000 Armeni sfollati a causa della guerra del Nagorno-Karabakh del 2020.
Il fatto stesso che nella seconda metà del 2022 siano stati concessi 124 milioni di dollari di aiuti, un importo considerevole per un Paese che nel 2021 aveva un PIL di 13,86 miliardi di dollari, per influenzare i media e la società civile invece di assistere gli sfollati armeni, dimostra la volontà di mantenere quella situazione, o in effetti che l’amplificazione del necessario grado di retorica antirussa nei mass media locali è uno degli obiettivi principali del lavoro dell’USAID nei Paesi post-sovietici.
Comunque, in Moldavia e nei Paesi dell’Asia centrale, l’agenzia americana pone particolare enfasi sul finanziamento dell’economia. Ovvero, stanno cercando di indebolire i legami economici che questi Paesi hanno con la Russia e di riorientare i flussi di merci e i flussi finanziari. Nell’ultimo semestre, l’USAID ha stanziato 50 milioni di dollari per la Moldavia, la maggior parte dei quali si presume saranno spesi per espandere il commercio con l’Unione Europea e creare un’adeguata infrastruttura di trasporti e logistica.
A ottobre USAID annunciò che intende investire 15,2 milioni di dollari nel commercio in Kazakhistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, poiché Washington vuole “aiutare la regione ad abbandonare la dipendenza” da Mosca.
“Ridurre la dipendenza dell’Asia centrale dai mercati e dalle rotte di esportazione russe, fornendo alternative, era una priorità a lungo termine, ma ora è una necessità impellente e un’opportunità dato che cerchiamo di aiutare la regione ad allontanare la dipendenza dalla Russia”, diceva il documento di USAID
Secondo il documento dell’USAID, la guerra in Ucraina e le sanzioni anti-russe hanno un “enorme impatto” sull’economia dell’intera regione. Le sanzioni e il ritiro delle aziende occidentali dalla Russia “hanno portato a una contrazione dell’economia russa, che probabilmente continuerà a lungo termine”, ma da cui risulterà anche una diminuzione delle importazioni russe dall’Asia centrale.
“Le aziende della regione hanno urgentemente bisogno di trovare nuovi mercati per le loro esportazioni, sia di beni che di servizi”, aggiungeva il documento.
Il programma è pensato per “rispondere alle conseguenze economiche” causate dalla guerra in Ucraina, come il calo delle rimesse, il deflusso dei lavoratori immigrati dalla Russia, la svalutazione della moneta, l’inflazione e la perdita di rotte e mercati di esportazione. Si spera che ai Paesi della regione verrà fornito un “supporto tecnico” per incrementare il commercio sui mercati internazionali e per aiutare le imprese nelle questioni logistiche.
In precedenza, il vicedirettore dell’USAID, Anjali Kaur, affermava che l’obiettivo della politica statunitense dovesse essere la separazione delle economie dell’Asia centrale e della Russia. In questo modo, Washington non cerca nemmeno di nascondere le sue nefaste azioni anti-Russia in una regione che è forse una delle più lontane dal continente nordamericano, e non solo in termini geografici, ma anche per cultura, tradizioni e storia.
Incrementando i finanziamenti alle Ong e ai media in Moldavia, Georgia e Armenia, l’USAID cerca di trovare qualche successo. Tale successo sarebbe per la maggior parte da attribuire alla vicinanza di questi Paesi all’Europa occidentale e alla loro comune identità cristiana, rendendo così molto più facile la penetrazione dell’influenza liberale dell’Occidente.
Tuttavia, è estremamente improbabile che Washington riuscirà a sganciare l’Asia centrale dalla Russia, anche se rappresenterà falsamente alcune iniziative commerciali come grandi successi o come qualcosa di molto innovativo. Questo perché la Russia è una grande potenza economica e militare da cui l’Asia Centrale non ha alcun buon motivo per separarsi.
“Blindati acquistati in Italia da un controverso oligarca che finiscono nelle mani dei reparti d’assalto ucraini per la sporca guerra in Donbass. Alla vigilia di ferragosto, undici veicoli MLS Shield prodotti dall’azienda abruzzese Tekne SpA sono stati consegnati ai paracadutisti della 79^ Brigata Aerea d’Assalto, il reparto d’élite delle forze armate ucraine con quartier generale a Mykolaiv, impiegato a partire del 2014 contro le autoproclamate repubbliche indipendenti di Donetsk e Lugansk e, dopo l’invasione del 24 febbraio, per la controffensiva anti-Russia nella tormentata regione sudorientale del Donbass. Ad acquistare i blindati l’“organizzazione non governativa” Sprava Hromad e la Poroshenko Foundation, la fondazione del magnate ed ex presidente della repubblica ucraina Petro Oleksijovyc Poroshenko, presente alla cerimonia di consegna dei veicoli da guerra.
Secondo quanto dichiarato dallo stesso Poroshenko, “per gli undici blindati italiani sono stati versati più di 3 milioni di euro e sono in grado di equipaggiare un intero battaglione anfibio”. “Sono stati necessari tre mesi e mezzo perché questi veicoli giungessero alle forze armate ucraine dopo una serie di negoziati per ottenere le licenze di esportazione”, ha aggiunto l’ex presidente. “L’unicità di questo progetto è che l’equipaggiamento NATO viene acquistato non attraverso un programma di appalti statali, ma grazie a contributi privati. Intense trattative e così abbiamo ottenuto che il governo italiano autorizzasse la vendita di attrezzature militari ad un’organizzazione non governativa fuori dall’UE”.
“Per la prima volta nella storia, veicoli blindati da combattimento sono stati venduti a un fondo di solidarietà e ai volontari dell’Ucraina”, conclude enfaticamente Petro Poroshenko. “L’incredibile è diventato possibile! Ringraziamo quindi per l’aiuto i funzionari italiani, gli ambasciatori, l’addetto militare dell’Italia in Ucraina e quello ucraino in Italia, il Ministero della Difesa e lo Stato maggiore delle Forze Armate”.”
Draghi & C. ultimo atto: vendita blindati a oligarca per armare milizie e truppe speciali ucraine,
di Antonio Mazzeo continua qui.
“Il mio contratto rescisso con la Rai”, di Michelangelo Severgnini
Il professore Alessandro Orsini si vede sfumare un contratto con la RAI per le partecipazioni al programma televisivo “Carta Bianca”, in seguito alle pressioni esercitate dal Partito Democratico.
Durante il programma avrebbe offerto al pubblico italiano le sue oneste analisi geopolitiche da fedele atlantista e convinto europeista.
E’ comunque uno scandalo.
Il servizio pubblico. La mancanza di pluralità. La censura anche nei confronti di chi ha visioni simili.
Sconcertante. Proteste (sempre più sparute) e indignazione (sempre più inconcludente).
Bene.
Voglio fare anch’io “outing”, come dicono gli anglosassoni: voglio confessare.
Nell’aprile 2019, come da foto, avevo firmato un pre-contratto per la RAI (certamente non il lauto contratto offerto al professor Orsini, ma vuoi mettere per le mie finanze?).
Il feldmaresciallo Khalifa Haftar aveva appena lanciato la campagna militare “Operazione Diluvio di Dignità” e aveva mosso le sue truppe verso Tripoli
Nella morsa si erano trovati decine di migliaia di migranti-schiavi ostaggio delle milizie in Tripolitania.
A me denunciavano di essere usati come scudi umani dalle milizie, non da Haftar. E la quasi totalità di coloro con cui parlavo in quelle settimane (diverse decine di loro) chiedeva di essere rimpatriata. Chiedeva di essere tirata fuori da una zona di guerra ed essere riportata a casa. Non c’era un minuto da perdere: rischiavano la vita in ogni momento, ancora più di quanto normalmente non sia per loro.
Il programma della RAI (di cui per riservatezza non faccio il nome) mi aveva chiesto l’acquisto di un’ora di messaggi vocali ricevuti via internet da migranti-schiavi in Libia. In quest’ora c’erano moltissimi messaggi che chiedevano, imploravano, il rimpatrio immediato, così come la denuncia delle milizie di Tripoli responsabili delle stragi poi attribuite ad Haftar.
Dopo alcune settimane di contatti di circostanza con gli autori del programma, spesi da parte loro a giustificare inspiegabili ritardi, scomparvero e non se ne fece più nulla.
Gli autori del programma sono di area piddina, altre volte avevano lavorato a stretto contatto con le ONG.
Se ci sono state pressioni, e ci sono state, io non lo saprò mai. O meglio: lo so che ci sono state ma non avrò mai il piacere di vederle confessate.
Né nessun parlamentare farà un’interrogazione sul mio caso.
Né nessun cittadino-spettatore si indignerà per ciò che il servizio pubblico gli ha negato.
Per me “L’Urlo” significa questo.
Quando nel tuo Paese, nel tuo continente, nella tua società, l’informazione è diventata narrazione al punto da trasformare i carnefici in salvatori umanitari di fronte a fenomeni disumani come la schiavitù, la tortura e la tratta di esseri umani, allora è finita.
Allora la sola libertà che mi resta è quella di urlare al cielo.
Perché non ho altro potere. Non tanto di fronte alla menzogna, di fronte alla menzogna posso usare la Parrhesia. Quanto di fronte allo stato di ipnosi collettiva in cui è caduta la mia gente.
Quella in Libia era una guerra nostra, combattuta con le nostre armi, vendute alle milizie libiche in cambio del petrolio saccheggiato allo Stato libico e inviato sotto banco all’Europa. Ma l’errore prospettico mostrava la campagna militare di Haftar come un’aggressione, non come una liberazione, così come invece la definivano i Libici di Tripoli.
Anni di soldi inviati alla Libia per fermare i migranti, dicevano. No signori, quei soldi servivano per armare le milizie libiche e difendere Tripoli dalla legittima richiesta di sovranità libica, dando mano libera alle bande armate che trafugavano il petrolio per conto nostro, dopo aver ridotto in schiavitù decine di migliaia di Africani.
Ancora oggi ti raccontano che i Libici non riescono a mettersi d’accordo, ora ci sono persino 2 premier! Come il compianto Edward Said ci aveva insegnato, il mito del mediorientale litigioso è da sempre stato uno strumento retorico per giustificare il colonialismo occidentale.
Infatti ora ci sono 2 premier perché uno è il premier legittimo votato dal parlamento (Fathi Bashagha) e l’altro è il Guaidò della Libia (Abdelhamid Dabaiba), quello riconosciuto solo dalla NATO.
Non sono i Libici a litigare. E’ la NATO a umiliare la sovranità libica e a coltivare il caos, per poterne saccheggiare le risorse.
Ma forse il paradigma in Libia sta cambiando. I cavalli della NATO sono zoppi. Se i Libici chiudono i rubinetti all’Europa ci sarà un’altra guerra. Diranno che il processo democratico è in pericolo e la dittatura sta tornando in Libia.
Haftar, definito oggi come allora “signore della guerra” dalla NATO, era ed è niente meno che la figura militare più legittima che si potesse trovare in Libia, a capo dell’Esercito Nazionale Libico istituito con voto del Parlamento nel marzo del 2015.
Gli esperti europei hanno studiato sui libri delle fiabe, non sul libro della realtà.
La realtà era che i migranti-schiavi nell’aprile del 2019 (come in qualsiasi altro momento) volevano tornare a casa. Quella era informazione, quella che volevo fare io.
Queste voci e molte altre stanno nel film “L’Urlo” che nessuno vuole trasmettere o distribuire. Questo è il trailer.
Ma in RAI gli elementi piddini si potevano permettere di fare informazione. Dovevano puntellare la narrazione della NATO.
Come fanno oggi: Putin ha sostituito Haftar nello schema e ciò che davvero succede sul campo è lavoro di fantasia, è prodotto di narrazione fiabesca, oggi in Ucraina come allora in Libia.
Giù la saracinesca. Niente contratto. Per altro io non fornivo analisi politiche, io fornivo fonti dirette sul campo che parlavano liberamente in forma anonima con la loro voce.
Tu da che parte stai? Io sto dalla parte della verità. La verità è rivoluzionaria. “Quasi tutte le guerre iniziate negli ultimi 50 anni sono state il risultato di bugie dei media” ci dice Julian Assange.
Non c’è altro interesse da difendere. Le notizie vanno date.
La censura di guerra è partita da molto lontano ed è da più di un decennio, dalla sbornia colorata del 2011, che siamo abbondantemente sotta la linea di galleggiamento. Dirottare l’opinione pubblica di un intero continente in queste forme significa una sola cosa: preparare la guerra.
La menzogna ha intaccato in profondità ogni nostro ragionamento sull’esistente.
Quando chiudi entrambi gli occhi puoi solo andare a sbattere.
Io ho urlato più che ho potuto.
Ora teniamoci forte prima dello schianto.
Michelangelo Severgnini è un regista indipendente, esperto di Medioriente e Nord Africa, musicista. Ha vissuto per un decennio a Istanbul. Ora dalle sponde siciliane anima il progetto “Exodus” in contatto con centinaia di persone in Libia. Di prossima uscita il film “L’Urlo”.
“Perché l’élite dell’1% del pianeta, la classe più predatoria della storia umana, è anche la più socialmente impegnata a sostenere cause nobili come salute, educazione, lotta alla fame, con la scusa di cambiare il mondo? Che cosa si nasconde dietro la rinascita della filantropia a vocazione globale? L’impegno sempre più pervasivo dei filantropi è davvero la soluzione alle sfide della contemporaneità o non è piuttosto un ambiguo e problematico effetto delle disuguaglianze strutturali che rendono la nostra epoca la più ingiusta di tutti i tempi? E che cosa è il «filantrocapitalismo», la versione più sofisticata della filantropia che da due decenni domina la scena internazionale e che si consolida oggi nel tempo di Covid19?
Sono queste, e molte altre, le domande che la giornalista Nicoletta Dentico, esperta di salute globale e cooperazione internazionale, affronta nel suo formidabile saggio-inchiesta Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo (Editrice Missionaria Italiana, pp. 288, euro 20, già in libreria). Si tratta del primo libro in Italia dedicato al tema del filantrocapitalismo, un’abile strategia inaugurata all’inizio del nuovo millennio da una ristretta classe di vincitori sulla scena della globalizzazione economica e finanziaria. Grazie alle donazioni erogate tramite le loro fondazioni in nome della lotta alla povertà questi imprenditori, nuovi salvatori bianchi, hanno cominciato a esercitare un’influenza sempre più incontrollata sui meccanismi di governo del mondo e sulle loro istituzioni, modificandole profondamente. Il tutto, in un intreccio di soldi, potere e alleanze con il settore del business che i governi non sanno più arginare né possono più controllare. Anzi, sono i leader del mondo politico ad accogliere i ricchi filantropi a braccia aperte, ormai, senza più fare domande.”
Nicoletta Dentico, giornalista, è esperta di cooperazione internazionale e salute globale. Dopo una lunga esperienza con Mani Tese, ha coordinato in Italia la Campagna per la messa al bando delle mine vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1997, e diretto in Italia Medici Senza Frontiere (MSF) – premio Nobel per la Pace nel 1999 – con un ruolo di primo piano nel lancio e promozione della Campagna internazionale per l’Accesso ai Farmaci Essenziali.
Co-fondatrice dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (OISG), ha lavorato a Ginevra per Drugs for Neglected Diseases Initiative (DNDI) e poi per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Più di recente è stata per alcuni anni responsabile della sezione internazionale della Fondazione Lelio Basso. Dal 2013 al 2019 è stata consigliera di amministrazione di Banca Popolare Etica e vicepresidente della Fondazione Finanza Etica. Dalla fine del 2019 dirige il programma di salute globale di Society for International Development (SID).
“A meno di eventi eccezionali al momento del tutto imprevedibili, Matteo Salvini diventerà prima o poi presidente del Consiglio con una maggioranza di destra, Lega, Fratelli d’Italia e frattaglie di Forza Italia. Non essendoci in campo, né all’orizzonte, neppure l’ombra di un’attendibile opzione alternativa, Salvini può aumentare i suoi consensi pescando in tutti i bacini elettorali: a destra come a sinistra, fra i pro-euro e gli anti-euro, fra la tradizionale Lega secessionista del Lombardo-Veneto che vuole più “autonomia” cioè danè, schei, e la nuova Lega clientelare sudista, fra coloro che desiderano tanti immigrati per abbassare sempre più il costo del lavoro e quelli che vorrebbero invece fermare l’invasione…
Insomma, Salvini è in una botte di ferro, magistratura consentendo e nonostante le contraddizioni del composito blocco sociale che lo sostiene. E questo accade perché può godere di un vitalizio politico infinito, frutto della coglionaggine dei suoi “avversari”, la cosiddetta “opposizione” che è diuturnamente impegnata a fornirgli incredibili assist. I più indefessi attivisti leghisti stanno proprio a “sinistra”, e infatti educatamente, con un sorriso, Salvini sovente li ringrazia mandando “bacioni” a chi lo insulta o lo contesta dandogli del “fascista, nazista, razzista, populista, xenofobo …”. Afferma Marco Travaglio: “Ogni volta che si accosta Salvini a Mussolini gli si fa un favore perché l’unico che avrebbe piacere a essere scambiato per Mussolini è Salvini” (Tagadà, 13 giugno). E, come hanno sommessamente notato anche il sociologo Domenico De Masi e l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, ogni ONG che forza il blocco e sbarca immigrati in Italia nel tripudio della “sinistra” regala un punto percentuale in più nei sondaggi alla Lega. Per fermare almeno temporaneamente l’avanzata di Salvini non resta ormai che seguire le previsioni meteo e sperare che il maltempo freni le partenze dalle coste africane.
(…) L’immigrazione non è “un’arma di distrazione di massa”, come si sostiene ancora oggi a “sinistra”, di cui si serve Salvini per nascondere la corruzione nel suo partito, per distogliere l’attenzione dai temi economici e dalle inchieste della magistratura sui finanziamenti alla Lega. Non c’è più bisogno di sotterfugi. Ormai il popolo italiano si è assuefatto all’illegalità, anzi ognuno nel suo piccolo ci sguazza, ha imparato a convivere con la corruzione, con le varie mafie, o con quelle che pudicamente vengono declassate a lobby; non gli importa nulla se i partiti si finanziano con rubli o dollari. Con la fame di lavoro e di salario che c’è, il popolo italiano non sta neppure a sottilizzare se il lavoro creato con fondi pubblici è utile al Paese o no. L’illegalità, la corruzione e le mafie sono il principale motore di sviluppo del Paese. L’avventura di Virginia Raggi a Roma dimostra che inimicandosi le mafie la macchina municipale stenta a funzionare, s’inceppa, fra boicottaggi, piccole e grandi truffe ai danni dell’amministrazione, bandi che vanno deserti , l’esercito che presidia qualche sito della monnezza e la stampa tutta di proprietà delle lobby che spinge per far tornare in Comune i cari vecchi partiti da sempre loro complici. Gli scandali che colpiscono la Lega, dove le varie lobby hanno già spostato i loro uomini, non scalfiscono minimamente la sua lenta, ma inesorabile avanzata nei sondaggi.
L’immigrazione, assieme al lavoro e al welfare, è da tempo, volenti o nolenti, il tema dei temi, non solo in Italia. Le tre materie sono fra loro strettamente collegate. Non sono venute per caso le vittorie del repubblicano Trump negli USA o di Farage (Brexit Party) in Gran Bretagna che, al contrario della “sinistra” che a ogni latitudine vuole accogliere tutti i migranti, promettevano di proteggere la manodopera autoctona. Interessante il caso della Danimarca dove il 5 giugno scorso si è votato per il rinnovo del Parlamento. Un risultato sorprendente, in controtendenza: i cosiddetti “populisti” (Partito del Popolo Danese) perdono la metà dei voti. Vincono i socialdemocratici che in campagna elettorale promettono però “una linea meno permissiva sui migranti”. La vincitrice Mette Frederiksen dichiara: “Al primo posto rimetteremo il welfare, il clima, l’educazione, i bambini, il futuro”; in netto contrasto con le ragioni fondative dell’Europa di Maastricht nata invece per adeguare il capitalismo europeo a quello USA, innanzitutto con il ridimensionamento o l’abolizione del welfare.
Questo rovesciamento della rappresentanza dei ceti sociali – la destra che difende gli interessi dei lavoratori autoctoni (ad esempio Marine Le Pen in Francia), mentre tutta la sinistra (partiti, centri sociali e troika sindacale) è allineata sulle posizioni di mafie e lobby, ne sposa le esigenze di manodopera schiavile a basso costo partecipando attivamente in vario modo alla deportazione dall’Africa – non è una novità delle ultime tornate elettorali.
(…) Se, invece, si pensa che il fenomeno migrazioni merita complessivamente un giudizio negativo, se si ritiene che la globalizzazione capitalista non è irreversibile, che le migrazioni non sono inarrestabili, che da questi fenomeni c’è chi ci guadagna, ma la stragrande maggioranza delle popolazioni ne esce sconfitta, più povera, allora si aprono praterie politiche sconfinate, territori inesplorati soprattutto per una sinistra che volesse collocarsi a sinistra. Si prenda ad esempio il Mezzogiorno d’Italia, da sempre terra di emigranti, dove oggi si assiste a una fuga di massa soprattutto dei suoi giovani: “Così radicale, estesa, imponente la fuga da poter essere considerata la terza ondata migratoria dopo quella dei primi del ‘900 verso le Americhe, del secondo dopoguerra verso la Germania e Milano del miracolo economico o Torino di mamma FIAT (…) Non più solo cervelli in fuga, la cui formazione è comunque costata 30 miliardi di euro alle casse pubbliche, ma anche camerieri in fuga, dentisti in fuga, tubisti, saldatori, operai generici, infermieri, insegnanti delle elementari, autisti, baristi, pizzaioli. Un intero popolo scomparso così folto che gli arrivi degli immigrati, o di coloro che ritornano a casa, non riescono a compensare. Il saldo demografico è paurosamente negativo. 783.511 italiani (che sono parte di quei quasi due milioni di migranti) che hanno avviato le pratiche per i cambi di residenza o nuovi passaporti, di cui 218.771 in possesso della laurea. Dal Sud è fuggita, persa ai radar, la meglio gioventù: mezzo milione di giovani (564.796 per la precisione) di cui 163.645 laureati. (Antonello Caporale, Quasi due milioni via dal Meridione, e mezza Italia sta diventando un deserto, Millennium, novembre 2018). Un Paese che costringe i suoi giovani più preparati a fuggire all’estero per trovare un lavoro e uno stipensio che consenta di vivere, ma che ha bisogno di importare raccoglitori di pomodori a due euro l’ora, è una colonia, un Paese fallito.
Prosegue Caporale, che si basa sul rapporto SviMez dell’agosto 2018: “Oltre il Garigliano i paesi cadono come foglie in autunno. Scompaiono silenziosamente e nell’indifferenza, il conto lo tiene l’ISTAT che stila periodicamente la lista dei morituri: a oggi sono più di 1.650 i Comuni colpiti da un abbandono che s’annuncia definitivo, una morte triste e non più lenta che nei prossimi anni si gonfierà di altre vittime e presto certificheremo la desertificazione. (…) Un quinto dei Comuni italiani è infatti in cammino verso il nulla, un sesto della superficie nazionale resterà disabitata. Mura cadenti, pietre rotolate giù e rovi, solo rovi. Sarà il cimitero la nuova dimensione di questo svuotamento che infragilisce fino a consumarla tutta la colonna vertebrale del Paese, la linea montuosa centrale costellata fino a due decenni fa di villaggi, di comunità, insomma di vita, che invece cederà alla morte per via della fame che l’attanaglia. (…) Né capannoni né vacche, né sviluppo industriale né agricoltura sostenibile. Né strade, né treni. Tolti, tagliati, inutilizzati più di 6.000 km di ferrovia, il treno, da vettore economico e popolare, si è via via trasformato nel costoso ed efficiente connettore dell’Italia ricca, nella direttrice verticale tra le grandi città. Il Frecciarossa è il simbolo di un’Italia che ha scelto non due, ma una sola velocità. Biglietti alti, ma puntualità quasi sempre garantita per quelli che ce la fanno. Poi la seconda classe nel resto del Paese, specialmente al Nord, un reticolo di tratte per i pendolari mal tenute e mal gestite, mentre al Sud – terza classe – semplicemente il nulla”.
Come facilmente si intuisce, le migrazioni sono un furto. Perpetrato da tutti i Nord del mondo ai danni dei Paesi eternamente in via di sviluppo che permarranno sempre tali se rapinati continuamente delle loro risorse naturali, se privati soprattutto delle migliori risorse umane di cui dispongono. Da decenni l’Africa produce i migliori atleti, i migliori calciatori del mondo di statura fisica e tecnica eccezionale, ai quali però lo Stato colonizzatore offre subito la naturalizzazione: la nazionale francese di calcio è diventata campione del mondo di calcio nel 2018 con più della metà dei titolari di origine africana naturalizzati o diventati francesi attraverso lo ius soli. E così nessun Paese africano, nonostante i suoi ottimi calciatori, è mai riuscito a diventare campione del mondo. Non riesco ad immaginare che succederebbe in Africa se ciò accadesse.
Negli anni 60 e 70 dello scorso secolo c’erano i cosiddetti “movimenti terzomondisti” che appoggiavano le lotte anticoloniali di liberazione nazionale dei popoli del cosiddetto “Terzo Mondo”. Erano l’anima della sinistra. Oggi invece nel pantheon della “sinistra” ci sono Carola e le ONG. Oltre che democristiani, ho la certezza che moriremo anche leghisti. Buone vacanze a tutti.”
La video-documentazione dell’incontro svoltosi a Bologna lo scorso 19 gennaio, con la partecipazione della scrittrice e giornalista Sonia Savioli, autrice di ONG. Il cavallo di Troia del capitalismo globale, edito da Zambon.
Buona visione!
Sono circa 50.000 le organizzazioni non governative che svolgono attività a livello internazionale. Nel 2012, si calcolava che l’ammontare del denaro che esse utilizzano superasse i 1.100 miliardi di dollari. Le 36 fondazioni “caritatevoli” più ricche del mondo, fra le quali 23 sono statunitensi, hanno una dotazione complessiva di oltre 300 miliardi; la sola Open Society di George Soros, che non fa parte di queste 36 più facoltose, avrebbe elargito 11 miliardi di dollari in ventiquattro anni.
La storia del dominio economico, politico e culturale ha visto per secoli la Chiesa protagonista e i suoi missionari come emissari di Paesi e popoli conquistatori. Al posto loro oggi, nell’epoca del capitalismo fattosi globale, sempre più troviamo i “filantropi”, cioè vere e proprie aziende che non amano farsi chiamare tali ma fondazioni benefiche, organizzazioni no profit, organizzazioni non governative (ONG): i “missionari” dell’Occidente post-industrializzato.
A parte quella di fare denaro, il capitalista non ha infatti più alcuna vocazione. Non è un produttore di merci, legato a certi tipi di materiali, strumenti, tecniche e conoscenze, ma piuttosto un nomade che esplora territori per trovare dove è più redditizio “investire”, un avventuriero che crea mercati dal nulla, servendosi di mode e bisogni indotti e anche creando il bisogno mediante la destrutturazione delle economie locali. Terre, acque, foreste, sottosuoli, i paesaggi e persino i sentimenti umani diventano merci, che possono essere commercializzate e scambiate. E’ questo il “lavoro” del capitalista e dei suoi satelliti.
E tra questi ultimi ci sono anche buona parte delle organizzazioni “filantropiche”, che svolgono il compito di preparare il terreno al “mercato” in molteplici modi e funzioni.
La scrittrice e giornalista Sonia Savioli, autrice di ONG. Il cavallo di Troia del capitalismo globale, edito da Zambon, è nata a Milano nel 1951, in un vecchio quartiere del centro storico pieno di immigrati, da padre veneto e madre pugliese.
Dopo aver studiato lingue, ha fatto la commessa, la dimafonista, l’impiegata, la traduttrice, la fotografa.
Nel 1987 si trasferisce in campagna e da allora, insieme a marito e figlio, coltiva un piccolo podere sulle colline tra Siena e Firenze. E scrive.
Altri suoi libri pubblicati sono: Campovento (ed. Santi Quaranta); Slow life. Del vivere lento, sobrio e contento (Iacobelli ed.); Alla città nemica. Diario di una donna di campagna (Edizioni per la Decrescita Felice); Il gallo di Misme. Fiabe chiantigiane, Brumba sull’albero, Il possente coro (ed. Era Nuova); Scemi di guerra. Ascesa, apoteosi, marasma e fine della società di guerra e progresso (ed. Punto Rosso).
I suoi articoli appaiono su il Cambiamento.
“Con questo notevole e documentato libro Sonia Savioli ci rende edotti del ruolo effettivo che queste organizzazioni svolgono aprendoci gli occhi sulle infinite menzogne che, quotidianamente, ci sono riversate dall’informazione a senso unico in cui siamo immersi e da cui siamo soffocati.
E’ un libro di piacevole lettura, l’autrice possiede una forte carica ironica che rende la lettura oltre che istruttiva anche molto gradevole.
Lo scritto della Savioli, oltre ad informarci sulle varie ONG, traccia una mappa in cui sono evidenziati e dimostrati i rapporti e le interconnessioni esistenti tra di loro e tra i finanziatori sia privati che statali, con i relativi obiettivi, sia quelli dichiarati sia quelli non dichiarati, ma reali.
Scopriamo così un mondo di conquistatori e di sfruttatori mascherati da integerrimi benefattori.
Molti, se non tutti, iniziano ad avere dubbi sull’efficacia e sul ruolo delle ONG, sui costi, sulle continue richieste di firme e di aiuti in denaro che queste strutture, quotidianamente, richiedono ai cittadini tramite annunci, volantini e soprattutto via internet; una forma di elemosina a tutto campo, una S. Vincenzo universale di cui siamo vittime, non conosciamo l’utilizzo di queste donazioni che però ci fanno sentire con la coscienza a posto, ci danno la sensazione, in qualche modo, di dare un contributo per risolvere i problemi del mondo.
Possiamo dire che questo libro ci apre gli occhi sugli effetti nefasti che le ONG provocano nelle varie parti del mondo e sul loro spregiudicato modo di operare dall’Africa alla Birmania, ci parla del cinismo assoluto che distrugge intere popolazioni costringendole a una miseria, prima mai vista, con la distruzione delle culture locali che le rende schiave, che le usa come cavie umane, obbligandole a sperimentare farmaci dannosi, spacciandoli per una insperata salvezza, mettendole in condizioni di emigrare per giungere in Europa con un sogno che non si realizzerà, ma diverrà un doloroso incubo.
E’ un libro che smitizza falsi miti e finte buone azioni con gli aiuti internazionali, non richiesti, che giovano solamente alle grandi multinazionali, aumentandone a dismisura i guadagni.”
Fulvio Grimaldi intervista alcuni esponenti dell’opposizione al governo Tsipras in Grecia.
F.G. Cos’è il Plan B? Alekos Alavanos (economista, psicoterapeuta, già presidente di Synaspismos e poi capogruppo di Syriza, oggi segretario della formazione “Plan B”, staccatasi da Syriza dopo il referendum consultivo del luglio 2015) E’ un’idea alternativa per una politica totalmente diversa rispetto a quelle dettateci da Bruxelles, Francoforte e Berlino e che hanno distrutto la società e l’economia della Grecia. Non siamo io e altri compagni che abbiamo cambiato idea, è stata Syriza a cambiare totalmente. La rottura avviene nel 2011 quando Syriza sostiene che non era possibile avere una linea autonoma nel quadro dell’eurozona e dell’UE.
F.G. Che Grecia sarebbe quella del Piano B? A.A. Nessuno può pensare che ogni cosa possa essere fatta senza correre rischi, trappole, difficoltà. Proponiamo una cosa molto semplice: le politiche che la maggioranza dei Paesi evoluti ha attuato dopo una prolungata recessione. Significa liquidità, domanda, salari e pensioni in grado di far girare la ruota. Significa un ruolo diverso dello Stato, creativo e dinamico, una politica di bilancio opposta a quella dell’UE.
F.G. Pensi che ci possa essere vita fuori dall’UE? A.A. Certamente c’è vita fuori dall’Europa. Ma non c’è alcuna Europa, non è Europa. Per oltre vent’anni sono stato un membro del Parlamento europeo, amo l’Europa, tengo al confronto con gli altri Paesi, le altre forze politiche. Abbiamo bisogno di cooperazione in Europa. Ma deve essere una cooperazione basata sulla solidarietà, sul mutuo beneficio, sul rispetto. Se vuoi essere filo-Europa devi essere contro l’UE e la sua valuta. Siamo all’ennesimo memorandum: ancora tagli, riduzione delle pensioni, più tasse, meno esenzioni. Tutto questo mentre già stiamo in una gravissima depressione.
F.G. Il popolo greco aveva deciso diversamente… A.A. Il venerdì, prima del referendum della domenica in cui vinse il no alla Troika, vidi la Merkel in tv che diceva che se i Greci avessero votato no, il lunedì non sarebbero più stati membri dell’UE e dell’euro. Ci minacciò. Usano campagne terroristiche, ora anche in Italia, di fronte alla rivolta della gente. I Greci non si fecero intimidire: oltre il 60% votarono no. Poi furono traditi, ingannati. Se io voto no e il governo il giorno dopo dice sì, ciò che si perde sono l’autostima, la fiducia, la prospettiva, la dignità morale.
F.G. E adesso? A.A. Credo che ci siano dei buoni segni, che non ci vorrà molto prima che il popolo greco si svegli e riprenda in mano il fucile, il fucile della politica.
F.G. Anche noi abbiamo vinto un referendum contro i desideri della Troika. Credi che l’UE abbia per l’Italia un progetto come quello imposto a voi? A.A. Spero che i poteri sistemici in Italia non si comportino come i nostri e le sinistre come le nostre sinistre. In effetti l’Italia è un boccone grosso. Ma potrebbe anche essere la leva per cambiare l’intera Unione. Le recenti elezioni, chiunque governi ora, hanno espresso una chiara volontà della maggioranza contro quanto all’Italia viene imposto. L’Europa non può sopravvivere nella forma e con i contenuti di adesso. Brexit è la soluzione. Spero che i popoli italiano e greco ritrovino la propria autostima e lottino, insieme ai Francesi, ai Tedeschi, a tutti, per un’Europa diversa, senza la BCE, senza questa valuta tossica. Un’Europa della libertà, creatività e della capacità sovrana dei popoli di autogovernarsi.
F.G. Vedi un filo che corre dalla vostra guerra contro i nazifascisti, alla guerra civile, a quella partigiana contro i britannici, alla dittatura NATO di Papadopulos, fino alla Troika? A.A. C’è un filo, un filo assai pericoloso. E’ il filo della dipendenza, della subordinazione, militare, politica, anche psichica. La Grecia, inizio e simbolo della nazione che resiste, fin dall’800, è un simbolo increscioso, intollerabile. Dobbiamo farla finita. Non siamo agli inizi dell’800, quando qui comandavano i sultani. Sai, non c’è più sovranità nazionale. Una sovranità che non sarebbe in contraddizione con la collaborazione internazionale. Anzi. C’è sovranità nazionale quando il popolo si autogoverna e quando la cooperazione internazionale rispetta e favorisce una sovranità nazionale democratica. Il frutto è sull’albero. Lasciamolo maturare. Arriverà sulle nostre tavole.
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F.G. Sembra che in Grecia rinasca una resistenza. Panagiotis Lafazanis (segretario di “Unità Popolare”, già dirigente del partito comunista greco KKE e ministro nel primo governo Tsipras) Per la prima volta dopo molto tempo si sono viste manifestazioni popolari di massa davanti al parlamento e in molte città contro la Troika, l’alleanza con Israele di un paese da sempre vicino ai palestinesi, la cessione del nome Macedonia (“Macedonia del Nord”), nome greco di terra greca, al vicino slavo. E si è vista la brutalità della repressione di un governo che si dice di sinistra, per quanto alleato all’estrema destra. Pensiamo che il movimento risponderà e si rafforzerà, in vista anche di una data molto importante, quella del referendum vittorioso contro l’austerità e la Troika, il 5 luglio.
F.G. Come siete messi, dopo l’ennesimo memorandum? P.L. La condizione della società greca è catastrofica, una situazione in cui non ci si vuol far vedere nessun futuro. Il 34,6% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, 3.796.000 persone su 10 milioni. E il debito che dovremmo pagare con questo strangolamento continua a crescere. E’ ancora forte la sensazione che tutto è perduto. Ma c’è anche l’altra faccia della luna: resta un potenziale sociale in grado di riprendere in mano la situazione e reagire. Insomma, c’è un corpo sociale che si convince di essere fottuto e un altro che è deciso a uscire dal vicolo cieco impostoci da Tsipras.
F.G. Basteranno le sole forze greche, o ci vorrà il concorso di altri Paesi? P.L. In effetti, perché il popolo greco possa liberarsi, gli occorre il concorso di altri popoli europei, in prima linea di quello italiano. Però a noi tocca l’impegno di non aspettare che si muova un popolo vicino. Dovremo comunque essere i primi a rompere le sbarre del carcere tedesco. Forse saremmo l’ispirazione per altri, fino all’affondamento di tutta l’eurozona, come di questa Unione Europea.
F.G. Qual è il progetto strategico dei vostri nemici? P.L. Per la Grecia è la distruzione del Paese, non c’è dubbio. Per l’Europa si tratta di una nuova feudalizzazione che elimini i soggetti nazionali in modo da riunire sotto il controllo dell’oligarchia tutte le ricchezze dei singoli Paesi. Per noi del Sud si tratta dell’applicazione di classici criteri colonialisti. Sono questi i caposaldi del progetto europeo. Sono caposaldi razzisti, ma a dispetto del suo razzismo, l’Europa sta conoscendo l’inserimento massiccio nel suo seno di altre popolazioni spodestate e sradicate e chi nutre dubbi sull’onestà del fenomeno, che non nasconda qualcosa di letale, viene accusato di xenofobia.
F.G. Potrebbe trattarsi di una strategia dei globalisti finalizzata a svuotare delle proprie generazioni giovani il Sud del mondo, ricco di risorse appetite dall’imperialismo? P.L. Evidentemente. Ma si noti che i Paesi costretti a ricevere queste masse di migranti sono la Grecia e l’Italia. Non è un caso. E si prevede che queste masse aumenteranno man mano che l’Africa viene impoverita e si diffondono altre guerre. Non per nulla gli USA e la NATO hanno intensificato in questi giorni i bombardamenti su Iraq e Siria, mentre si accentua la militarizzazione dell’Africa. Di questi sviluppi Grecia e Italia sono le grandi vittime.
F.G. Siamo tutti figli della civiltà greca. E’ per questo che la Grecia deve essere punita? P.L. E’ da qualche secolo che ci si vendica della nostra civiltà. Poi, per le élite euro-atlantiche punire la Grecia alla vista di tutti gli altri ha lo scopo di fornire un esempio. Se voi non accettate incondizionatamente l’impero, sarete puniti come i Greci. Ma potrebbe anche succedere che la Grecia si riveli il tallone d’Achille di questo progetto.
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F.G. Anche qui per certe finte sinistre del neoliberismo globalista la parola sovranità è diventata reazionaria e sovranismo sinonimo di destra? Grigoriou Panagiotis (antropologo, sociologo, economista, giornalista, autore di Asimmetrie sulla vicenda UE-Grecia) Posso solo dirti che il governo Tsipras ha ceduto controllo e sovranità del Paese, compresi i beni pubblici, ai creditori, titolari di un debito sistematicamente creato da dominanti esterni e complici interni. E questo per 99 anni. Si è perso il 40% dell’industria, il 40% del commercio, il 30% del turismo, tutti i porti, tutti gli aeroporti. Il 30% dei greci sono esclusi dalla sanità pubblica e al 30% è anche la disoccupazione reale. Per un po’ si è ricevuta un’indennità di 450 euro, poi più niente. Tutto questo si chiama effetto Europa, effetto euro. L’ingresso della Grecia nell’UE e nell’euro ha comportato il progressivo smantellamento della nostra economia produttrice. Importiamo addirittura gran parte dei nostri viveri. E’ una condizione di totale dipendenza. Non c’è patria, non c’è autodeterminazione e, ora con il vicino slavo titolato “Macedonia del Nord”, non ci sono più neppure gli spazi e confini della nazione greca. Un processo che interessava a UE e NATO che ora possono incorporare anche Skopje.
F.G. Come e più dell’Italia questo massacro sociale ed economico è stata aggravato dall’afflusso di decine di migliaia di migranti da Siria e altri Paesi. G.P. Un gravame terribile, insostenibile e sicuramente non innocente da parte della Turchia e di coloro che hanno messo queste persone in condizione di dover fuggire. E’ sconcertante come a questi profughi sia garantita, giustamente, un minimo di copertura sociale, mentre a milioni di Greci è stata tolta. Le ONG straniere sollecitano l’immigrazione, per esempio affittando abitazioni a basso prezzo e riempiendole di migranti, cui pagano anche elettricità, gas e acqua. Migliaia di Greci rimangono senza casa e senza niente.
F.G. Stavo filmando un gruppo di persone dell’OIM (Organizzazione Internazionale Migranti), un organismo a metà tra ONU e privati. Non gradivano essere ripresi. Poi mi è piombato addosso un arcigno poliziotto che mi ha intimato di cancellare quelle riprese, se no mi avrebbe addirittura arrestato. Cosa significa tutto questo? G.P. Non appena si affrontano queste cose si viene accusati di razzismo. Qui abbiamo una strategia contro certi Paesi del Sud. Da un lato la gente viene indotta a lasciare casa sua dalla violenza o dalla miseria importate a forza; dall’altro, chi li riceve non deve sentirsi più padrone a casa sua. Tanto meno, in quanto forze ed enti esterni assumono il controllo della tua economia nazionale. E qui, a difenderla, sei tacciato di nazionalismo. I Greci pensano a ragione di aver perduto la loro sovranità. E’ come essere sotto occupazione. Di nuovo un’occupazione tedesca. Pensa che in tutti i settori dello Stato ci sono dei controllori della Troika! Ricevono i ministri all’Hotel Hilton. Della Costituzione non c’è più traccia e neppure i diritti fondamentali del lavoro sanciti dall’UE sono rispettati.
F.G. Perché si impedisce di filmare migranti e chi se ne occupa? Cosa si vuole nascondere? G.P. Il fatto è che altri decidono sulle sorti del tuo Paese e che devi fare o non fare quello che vogliono loro. Sempre di più la vicenda dei migranti, come in Italia, diventa un segreto. Un segreto delle ONG e dei loro finanziamenti occulti o, comunque, finalizzati a fargli assumere un ruolo che non è il loro e che sottrae prerogative allo Stato nazionale, uno Stato che non è più padrone delle proprie frontiere, del proprio territorio, delle persone che vuole o può accogliere. Tutte queste decisioni sono prese altrove, con le ONG che gestiscono un fenomeno, in effetti nella piena illegalità, dato che non esiste un quadro giuridico entro il quale farle agire. A cosa ti fa pensare un Paese mandato in default dall’Europa e a cui l’Europa, Dublino, impongono di ricevere e tenersi decine di migliaia di migranti che ne sono la rovina definitiva? Dobbiamo integrare chi non lo vorrebbe quando dalla nostra comunità nazionale, costituzionale, espelliamo tre quarti dei Greci? A cosa ti fa pensare un Paese mandato in default dall’Europa e a cui l’Europa, Dublino, impongono di ricevere e tenersi decine di migliaia di migranti che ne sono la rovina definitiva?
La località svizzera di Chateaux-d’Oex è nota per le sue mongolfiere. La località svizzera di Davos è conosciuta per l’aria fritta. O almeno per una settimana all’anno, quando alcuni dei più grandi chiacchieroni del mondo si incontrano per discutere di questioni “significative”.
Quest’anno, la cosa interessante e di tendenza circa la quale esprimere preoccupazione per il World Economic Forum è (stata) la “disuguaglianza”. Ok, yes? Tutti sembravano d’accordo sul fatto che bisognava fare qualcosa per restringere lo “sconcertante” divario tra ricchi e poveri – per ripetere la frase usata dal Primo Ministro liberale hipster canadese Justin Trudeau, l’uomo con quei graziosi calzini gialli e viola.
Il presidente francese Emmanuel Macron, che ci è stato detto essere stato salutato come una “rockstar”, ha dichiarato: “Nel processo globale, il capitalismo è diventato un capitalismo di superstar, la diffusione del valore (a quelli più in basso della scala) non è più equa.”
Ma le soluzioni che avrebbero effettivamente ridotto la disuguaglianza erano meno imminenti. Mi ha ricordato le espressioni annuali di “preoccupazione” quando gli aumenti delle tariffe dei treni al di sopra dell’inflazione sono annunciati in Gran Bretagna, il Paese con le tariffe più alte in Europa. I politici che sostengono il governo dicono che “questo è deludente” – e indovinate un po’ – l’anno prossimo le tariffe saliranno di nuovo. Nessuno vuole essere citato per dire che sono favorevoli al fatto che l’82% della ricchezza è goduto dall’1% più ricco, ma allo stesso tempo non sono disposti a prendere i provvedimenti che renderebbero ciò impossibile.
Questo l’estratto dal discorso del Primo Ministro britannico Theresa May: “Dobbiamo fare di più per aiutare la nostra gente nella mutevole economia globale, per ricostruire la loro fiducia nella tecnologia come motore del progresso e garantire che nessuno rimanga indietro mentre facciamo il prossimo salto in avanti… Dobbiamo ricordare che i rischi e le sfide che affrontiamo non superano le opportunità. E nel cercare di aggiornare le regole per affrontare le sfide di oggi, non dobbiamo perdere quelle di domani”.
Qualcuno sa capire di cosa stesse effettivamente parlando la May? C’era verbosità in abbondanza nel suo discorso, ma soluzioni pratiche?
È la cosa più facile del mondo affermare che “dobbiamo fare in modo che nessuno resti indietro mentre facciamo il prossimo salto in avanti”, ma farlo è tutta un’altra cosa.
In un certo senso, Davos ci fa rimpiangere i tosti thatcheriani del passato che, almeno, erano onesti riguardo a ciò che speravano di ottenere. Ora abbiamo dei thatcheriani mascherati da “centristi” sdolcinati in una stazione alpina del jet set dove il costo di un hamburger in piatto ha raggiunto i 59 dollari americani e una camera d’albergo oltre i 500 dollari a notte – e ciò non sembra giusto. Continua a leggere →
Oh stupore, oh meraviglia della libertà d’informazione, i media delle “grandi democrazie” occidentali hanno appena scoperto un argomento suscettibile di destare la compassione dei nostri focolai, dei nostri salotti e ambienti dove si pensa “bene”: dopo un’indagine dobbiamo credere molto difficile e una caccia spossante dato che avrebbe richiesto quasi sette anni, alcuni giornalisti d’inchiesta di canali TV “internazionali”, insieme a “grandi ONG” non meno “internazionali”, hanno stanato mercati degli schiavi, in pieno ventunesimo secolo…
È vero che gli schiavisti, venditori e compratori, non sono di casa nostra, e che schiavi in vendita per pochi centinaia di dollari al pezzo provengono da Niger, Nigeria, Mali, Costa d’Avorio e Africa sub-sahariana (come si dice). Pare non ci sia nessun Francese, né tra le vittime, né tra i colpevoli. È anche vero che la storia sta accadendo in Libia, dove ci eravamo abituati alle “maniere” di Gheddafi e alle stranezze della sua Jamahiriyya, che avrebbe potuto spiegare già tutto…
Il guaio – i nostri personaggi televisivi, tra microfoni e riviste patinate forse non lo sanno o l’hanno dimenticato – è che non è rimasto nessuno Stato libico e che i nostri Paesi sono direttamente responsabili della sua scomparsa e del “caos costruttore” che lo ha distrutto, per non parlare dell’assassinio del Colonnello ribelle che sfidava l’Occidente: è tutto così lontano nel tempo, sono già sette anni e fuori dalle nostre acque territoriali. I capi dell’Asse del Bene, tuttavia, si erano fatti in quattro per il popolo libico e per i suoi rivoluzionari improvvisati, a colpi di bombardamenti umanitari, di distruzione delle installazioni militari e civili, afferrando di passaggio “i miliardi di Gheddafi” per impedirgli di massacrare la sua gente. Che dolore per i nostri intellettuali o leader che hanno detto di essere “orgogliosi del bilancio della Francia in Libia…”.
“Confondete tutto”, e “Non capisco” mi diranno i nostri propagandisti e incondizionati dell’ideologia della stampa. Hanno ragione: la vendita di schiavi, non è la stessa cosa. E poi al limite i nostri media finiranno per dire che ogni persona normale e mediamente intelligente poteva saperlo. Bastava leggere o ascoltare: ascoltare dei “complottisti”? Non ci pensate, si scuseranno molti di loro per continuare ad essere ammessi al club dei falsari. Noi, quelli veri, abbiamo fiducia nella stampa del nostro Paese…
Non esigiamo troppo, nonostante la nostra indignazione di fronte all’ipocrisia, al cinismo e alla vigliaccheria. Rallegriamoci per questo risveglio quasi postumo. La massiva mobilitazione dei network dell’informazione si concentrerà presto sulla vendita degli schiavi di Raqqa in Siria, sotto l’egida del DAESH, protetto dai nostri amici Americani, e islamisti turchi e arabi ? Verrà denunciata l’esfiltrazione di terroristi dall’”Organizzazione dello Stato Islamico” alla luce e alla consapevolezza della “Coalizione internazionale” e dei suoi protetti? O le mortali distruzioni causate dai bombardamenti della stessa “coalizione” su Raqqa e Mosul in Iraq? Sarebbe finalmente ora di sollevare il muro d’omertà sul martirio del popolo dello Yemen dove tutto è andato distrutto e dove i Sauditi e i loro alleati si accaniscono su tutto ciò che si muove, gli Yemeniti essendo esposti a bombe, alla fame e al colera, in un silenzio siderale della “Comunità internazionale”.
Allora forza voi, uomini e donne dell’informazione, della politica e del pensiero, aprite gli occhi, aprite le orecchie, spremetevi le meningi, per dire finalmente la verità su queste azioni di morte prima che conducano a un esito che non avevate forse previsto. Nel disastro mediatico, intellettuale e politico, salvate almeno le apparenze e ciò che rimane dell’onore dei nostri Paesi. O presto non potrete proprio più guardarvi neppure allo specchio…
*Già ambasciatore di Francia in diversi Paesi, dopo il ritiro professionale si dedica alla scrittura.
L’ultima sua opera pubblicata è Tempête sur le Grand Moyen-Orient, Editions Ellipses, Parigi, 2017, seconda edizione arricchita e aggiornata.
Sollecitato dall’amico Geri, vorrei esprimere una personale opinione sull’ondata di retorica e di sospetto pietismo con cui viene affrontato, specie nella sedicente “sinistra” il fenomeno dei “migranti” (ma perché “migranti”? Migranti casomai sono gli uccelli migratori che si spostano secondo cicli naturali…).
Preciso che ho sempre militato nelle file dell’estrema “sinistra” (se questo termine ha ancora un significato, fatto su cui ho molti dubbi, ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano…).
Sono lontanissimo da qualsiasi suggestione razzista, di superiorità dell’uomo bianco europeo o di missione dei popoli “civilizzati”.
Tuttavia trovo il pietismo nei confronti del fenomeno “migranti” caratterizzato da enormi dosi di ipocrisia e falsa retorica.
La prima causa dell’intensificarsi del fenomeno negli ultimi anni è certamente il contemporaneo intensificarsi di una serie di guerre scatenate dai Paesi “civili” contro Stati nuovi ed ex-coloniali, spesso su iniziative della “sinistra” (mentre la “destra” è stata in genere molto più prudente ed attenta) per presunti motivi “umanitari” e con formule del tipo “responsabilità di difendere i civili” dai “regimi” e dai “dittatori” locali.
Queste motivazioni sono state alla base della distruzione della Libia ad opera della NATO (con l’aiuto dei jihadisti locali). Il risultato è stato che un Paese che era, secondo le statistiche ufficiali dell’ONU, quello con il tenore e la qualità della vita più alti dell’Africa, ha visto la fuga di circa 2 milioni di Libici e di altri 2 milioni di Africani che lavoravano nel paese.
Ora la Libia, che prima funzionava da filtro per i lavoratori che si spostavano dall’Africa centrale, è diventato un buco nero dominato da milizie estremiste e scafisti che speculano sugli spostamenti di torme di disperati. Questi ultimi si spostano da Paesi tuttora sottoposti a sfruttamento post-coloniale da parte dei vecchi padroni (ad esempio la Francia) che in realtà non hanno mai mollato l’osso e organizzano colpi di Stato (come in Costa d’Avorio) se qualche presidente locale si mostra troppo indipendente. Oltre tutto uno dei motivi per cui fu fatto fuori Gheddafi era perché stava creando una Banca Africana per sottrarre il continente nero alle grinfie della grande finanza internazionale.
Altri Paesi riottosi, come il Sudan, o la Somalia, sono stati fatti a pezzi e altri, come l’Eritrea, sono indicati come “Stati canaglia” e sottoposti a sanzioni. Tutto questo alimenta spostamenti di popolazione e fenomeni di destabilizzazione.
Analogo discorso vale oggi per la Siria, sottoposta dal 2011 a sanzioni durissime e ad un attacco concentrico da parte dei Paesi occidentali, alleati con le peggiori dittature confessionali (come l’Arabia Saudita) e bande di jihadisti sunniti fanatici. Sei milioni di Siriani hanno lasciato il Paese, mentre altrettanti si sono dovuti spostare all’interno dalle zone occupate da Al Qaeda e dallo Stato Islamico a quelle poste sotto la protezione dell’esercito. Si badi bene che prima del 2011 nessuno fuggiva dalla Siria o si spostava all’interno. Il Paese era un modello di laicismo e tolleranza interreligiosa (Sunniti, Sciiti, Cristiani, Drusi, atei). Oggi la gente fugge, non dal “regime”, ma dalla guerra e dai terroristi fanatici diretti dall’esterno.
Discorsi analoghi possono farsi per l’Iraq, distrutto e fatto a pezzi dopo l’attacco anglo-americano del 2003 giustificato con la bugia delle “armi di distruzione di massa” e per l’Afghanistan invaso nel 2001 con la scusa della “guerra al terrore” e dove i combattimenti infuriano da 16 anni. Siriani, Afghani, Iracheni, Libici, Africani sub-sahariani formano almeno i due terzi dell’immigrazione complessiva.
E non dimentichiamo l’immigrazione dall’Est Europa, sottoposta alle delizie del capitalismo internazionale. Molti immigrati vengono dalla Romania che, ai tempi del tanto deprecato Ceausescu, conosceva una situazione di piena occupazione e non aveva debito estero. Oggi la popolazione rumena è diminuita di vari milioni rispetto a quei tempi per l’emigrazione massiccia. Situazioni analoghe si hanno, ad esempio, per Ucraina e Moldavia, mentre la Bielorussia, dove il presunto “dittatore” Lukaschenko ha mantenuto molte delle vecchie istituzioni sovietiche, se la passa molto meglio.
Infine, come ultimo esempio, ricordiamo la sfortunata Jugoslavia: prima massacrata dal Fondo Monetario Internazionale cui i dirigenti “riformatori” post-Tito si erano incautamente affidati; poi travolta dagli odi interreligiosi ed interetnici opportunamente alimentati dall’esterno (il presidente musulmano della Bosnia, Itzebegovic, appoggiato dagli estremisti di Al Qaeda, fu fatto passare per un “democratico”); infine bombardata e smembrata definitivamente dalla NATO (con la benedizione del nostro baffetto D’Alema).
Ma, anche se le ragioni dell’immigrazione clandestina, che cresce ogni giorno, fossero puramente economiche, avrebbe un senso la parola d’ordine: “facciamoli entrare tutti”?
Una parola d’ordine del genere può essere forse giustificata in bocca al Papa, visto che la Chiesa pratica il pietismo e la carità per motivi ideologici ed identitari, ma suona stonata e demagogica se pronunciata dai portavoce dell’ex-sinistra o addirittura da settori movimentisti dell’estrema “sinistra”. Sembra quasi che certi settori politici (come il PD, ma non solo), per far dimenticare il fatto di aver abbandonato tutti i loro programmi e le parole d’ordine più qualificanti, si affidino ad una demagogia umanitaria, di cui la difesa dei “migranti” è uno dei punti più caratteristici.
Nel mondo siamo ormai circa 7 miliardi. Ben oltre la metà della popolazione è povera o sull’orlo della povertà. Si può ragionevolmente risolvere il problema con emigrazioni di massa, di stampo biblico? Si può pensare che fenomeni del genere non abbiano effetti destabilizzanti e che possano risolvere il problema della povertà di massa?
E’ evidente che solo assicurando uno sviluppo adeguato dei Paesi di provenienza, rinunciando a sfruttarli, a sottoporli al ricatto finanziario del debito, alle aggressioni militari se cercano di rendersi indipendenti, si potranno dare soluzioni al problema. Altrimenti molti degli ex-Paesi coloniali faranno da soli, come ha fatto la Cina che è diventata la massima potenza mondiale di produzione di beni.
Intanto il fenomeno corrente non può non essere regolamentato, accettando solo quelle persone che richiedono realmente un asilo politico (ad esempio, so per esperienza diretta che molti ragazzi eritrei in cerca di fortuna ed avventura si fingono perseguitati per essere accolti) e, per quanto riguarda gli immigrati “economici”, accettare solo quelli che possano essere integrati con mutua soddisfazione, nostra e loro, evitando che siano ferocemente sfruttati in nero, o ridotti all’accattonaggio, alla prostituzione, o alla delinquenza. Si tratta di razionalizzare e sveltire tutte le procedure finalizzate a questa strategia.
Infine, non si possono non denunciare tutti quei settori che alimentano e si servono del fenomeno per propri fini, ammantandoli di bugie umanitarie. Schematicamente questi settori possono essere così indicati:
– alcuni settori capitalisti dei Paesi sviluppati che si servono dell’ondata immigratoria per abbassare i salari e le pretese dei lavoratori locali. In questa ottica vedo anche le dichiarazioni irresponsabili della Merkel di un paio di anni fa “venite tutti”, fatte in un momento in cui l’economia tedesca era in ascesa ed aveva bisogno di braccia, salvo poi essere costretta a fare marcia indietro. In quest’ottica ritengo sbagliato liquidare alcune obiezioni della Lega o di alcuni governi europei (ad esempio, Ungheria) come pure manifestazioni di razzismo;
– alcuni settori capitalisti e finanziari statunitensi, o di altri Paesi concorrenti della UE, che cercano di favorire il fenomeno in funzione destabilizzante della “concorrenza”. Questo tipo di azioni può avere anche risvolti di destabilizzazione politica e ricatto (vedi ad esempio i ricatti e le minacce della Turchia di Erdogan che si riserva di aprire i rubinetti dell’emigrazione);
– alcune ONG, opportunamente finanziate e manovrate da alcuni Paesi, che alimentano il traffico di carne umana, mandando, ad esempio, le loro navi in prossimità delle coste libiche a prelevare orde di disperati con la complicità di milizie jihadiste e scafisti locali. Alcune di queste ONG vanno per la maggiore, come Amnesty International e Save the Children, notoriamente finanziate da istituzioni e finanzieri USA (come George Soros) e che si attengono strettamente alla politica statunitense in tutte le crisi internazionali. Medici senza Frontiere è invece più legata alla politica francese, com’è dimostrato dalla figura del suo carismatico ex-presidente Kourchner, divenuto poi Ministro degli Esteri di Sarkozy, e grande sponsor delle guerre in Jugoslavia e Libia. Esiste poi una galassia di ONG più piccole create appositamente per gestire questo nuovo commercio degli schiavi sotto sembianze solidaristiche. Tutte queste ONG, così come molte istituzioni legate all’accoglienza gestiscono una fiorente “industria dell’immigrato”. Vincenzo Brandi
Il mondo è minacciato da Russia, Cina, Iran, Corea del Nord – e oh sì, lo Stato Islamico – e la sua unica speranza è l’America, sostenuta da alleati fedeli di tutto il mondo. Questa è la visione dipinta dal capo del Pentagono, con il presidente Hillary Clinton in mente.
Il Segretario alla Difesa USA Ashton “Ash” Carter ha delineato la sua visione delle sfide strategiche dell’America in una conferenza ospitata dal Center for New American Security (CNAS) lunedi [20 maggio – n.d.t.] a Washington, DC. Mentre il capo del Pentagono ha detto che sarebbe stato “estremamente attento a non rilasciare commenti sulle elezioni,” il contenuto della sua presentazione si è molto chiaramente allineato alla posizione oligarchica abbracciata dalla Clinton e minacciata dagli appelli di Donald Trump di mettere “l’America prima.”
Mentre Trump è stato critico del coinvolgimento degli Stati Uniti in tutto il mondo, Carter ha sostenuto che l’America è “il tutore della sicurezza globale” grazie alla sua “rete di lunga data di alleati e partner in ogni angolo del mondo”.
Il che non è esagerato. Allo stato attuale, gli Stati Uniti hanno 187.000 militari schierati in 140 Paesi, secondo il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito generale Mark Milley. Si noti, anche, che il Dipartimento della Difesa USA ha diviso il mondo in sei “comandi di combattimento”. Il Pentagono è così impegnato ad occupare il mondo che il governo degli Stati Uniti ha dovuto istituire un separato Dipartimento per la Sicurezza Nazionale dopo gli attacchi terroristici dell’11 Settembre. Continua a leggere →
“Già Oscar Wilde nel suo “L’anima dell’uomo sotto al socialismo” aveva colto ed evidenziato il paradosso di un sistema, quello capitalista, che genera sia delle feroci diseguaglianze che la filantropia, falsamente determinata a risolverle. “I migliori tra i poveri – scrisse Wilde – non sono mai riconoscenti [ai benefattori n.d.r.]. Sono scontenti, ingrati, disobbedienti e ribelli, e hanno ragione di esserlo. […] Perché dovrebbero essere grati delle briciole che cadono dalla mensa del ricco? Dovrebbero esser seduti intorno al tavolo con gli altri commensali condividendo la festa!”.
Utilizzando l’immagine dei super-ricchi in abbuffata e delle briciole che cadono dalla tavola, Oscar Wilde è riuscito – forse senza neppure esserne consapevole – a raffigurare plasticamente l’assurdità della cosiddetta “trickle-down theory” (letteralmente teoria dell’effetto del gocciolamento), in seguito smentita dalla storia e da schiere di premi Nobel. Purtroppo ritorna ciclicamente in auge per bocca degli entusiasti del capitalismo, secondo i quali viviamo nel migliore dei mondi possibili. La loro argomentazione è tanto semplice quanto imbarazzante per la sua fallacia: ciò che importa è la crescita economica, a prescindere dall’aspetto distributivo e di governance della ricchezza prodotta, poiché – sempre secondo tali entusiasti del modello capitalista – una crescita economica in valore assoluto aumenterà proporzionalmente anche il numero di briciole che cadranno dalla mensa dei capitalisti. Questo è il massimo della giustizia sociale che riescono ad immaginare ed è il primo pilastro teorico che sostiene la filantropia nella nostra epoca. Una carità “compatibile” al sistema, che non sconvolga l’ordine sociale capitalista, la sua organizzazione del lavoro, della produzione e della proprietà.
L’attuale tendenza che sta travolgendo il mondo della cooperazione, definita nel titolo filantrocapitalismo, sarà analizzata prendendo ad esempio il caso più eclatante e quantitativamente imponente: il ruolo della fondazione Bill e Melinda Gates (Microsoft Corporation) nella governance di uno dei settori più importanti della cooperazione internazionale, ovvero la salute globale.
La Bill & Melinda Gates Foundation (BMGF o The Gates Foundation) è una delle più grandi fondazioni private al mondo. Prende il nome dai loro fondatori Bill Gates e sua moglie Melinda French, sebbene la direzione sia affidata anche a un terzo fiduciario, Warren Buffet. Quest’ultimo è un business-man americano, considerato uno degli investitori di maggior successo del ventesimo secolo, onnipresente nelle liste degli uomini più ricchi del mondo e tuttora uno dei più influenti “potenti” del pianeta.
(…)
Il modello filantropico di Gates non intende rendere il mondo del business più caritatevole quanto piuttosto rendere il mondo della carità il più simile possibile a quello del business: un universo di piccole ONG che competono tra loro per accaparrarsi i fondi – sulla base di parametri econometrici aziendalistici – messi a disposizioni dai big (tipo la BMGF) che dettano contemporaneamente anche l’indirizzo globale delle politiche umanitarie, materia per materia. Come dicevamo, il sogno del grande capitale di gestire brevi manu le relazioni internazionali controllabili tramite soft power e dunque abbandonare la mediazione degli stati e quella delle agenzie multilaterali (che hanno dominato la cooperazione internazionale nel secolo scorso) si è fatto realtà. Secondo i Gates i migliori risultati sono raggiungibili attraverso progetti finanziati “verticalmente” – interventi targettizzati su specifiche malattie – bypassando largamente gli esistenti sistemi sanitari nazionali e limitando, di fatto, lo sviluppo di nuovi nel sud del mondo. Viceversa, un modello di integrazione “orizzontale” con i sistemi sanitari pubblici non paga agli occhi dei venture philanthropists, che vogliono un pay-off misurabile velocemente e di grande impatto, specie per il proprio capitale reputazionale. Ciò sta contribuendo alla diffusione massiccia nel sud del mondo di sistemi sanitari “all’americana”. Quando nei prossimi decenni gli aiuti internazionali saranno ragionevolmente ridotti, o comunque la volatilità di questi non consentirà di garantire la stabilità dell’assistenza primaria di base, i principi di eguaglianza ed universalità del diritto alle cure resteranno fuori la porta insieme a chi non è provvisto di assicurazione sanitaria privata. Avendo ostacolato senza mezzi termini la costituzione e lo sviluppo dei sistemi sanitari pubblici, la fondazione Gates ha contribuito a mantenere un regime di dipendenza che vincola la salute dei popoli del sud del mondo alla presunta generosità dei super-ricchi di turno in Occidente.
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La “venture philanthropy” è il risultato di un sistema iniquo che favorisce enormi ricchezze e atroci disparità: tagliando contemporaneamente le tasse per i super ricchi e gli investimenti in servizi sociali e sanitari pubblici il sistema crea allo stesso tempo la capacità della filantropia privata e il bisogno di questa. Appellarci alla generosità dei miliardari non è la soluzione per la salute globale, così come per lo sviluppo dei paesi del sud del mondo in generale. Occorre un sistema che non crei mega-miliardari e il bisogno della loro generosità per redistribuire le briciole. Il filantrocapitalismo non rappresenta soltanto un utile “distrazione di massa” ma un pericoloso deterrente per eventuali cambiamenti – anche solo in senso riformista – di politica economica.
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E’ stata venduta al mondo l’idea che la soluzione ai problemi dell’umanità sia la filantropia, quando in realtà è una parte significativamente rappresentativa del problema. Il mondo della cooperazione tutto si sta mettendo in riga di fronte all’affermazione di questo modello; la fondazione Gates ha regolare accesso ai leaders globali e finanzia quotidianamente centinaia di università, organizzazioni internazionali, ONG e media. Può contare sulla sua forza economica per silenziare gli esperti dello sviluppo più critici ma generalmente non ce n’è bisogno, la sua voce è diventata la più influente nel mondo della cooperazione e sembrano tutti pronti ad allinearsi a questa. L’influenza della fondazione è così pervasiva da rendere impossibile per molti attori dello sviluppo esporsi pubblicamente contro le politiche promosse dai Gates fintanto che la loro esistenza materiale e quella delle loro organizzazioni dipende da questo colosso della carità business-friendly.”
“Dato il grande successo delle rivoluzioni colorate negli anni 2000 in diversi Paesi in Europa orientale o repubbliche ex-sovietiche, sono state identificate le missioni politiche di molte ONG (Organizzazioni Non Governative). Sotto il falso pretesto di esportare democrazia, diritti umani e libertà di espressione, tali organizzazioni, in sostanza delle GO (organizzazioni governative), seguono gli ordini degli strateghi della politica estera dei Paesi occidentali. In quest’ambito, il premio va sicuramente agli Stati Uniti per l’elevata potenza assoluta, difficile da eguagliare. In effetti, il Paese dello Zio Sam ha un’ampia gamma di organizzazioni politiche e di beneficenza specializzate nella destabilizzazione non violenta dei Paesi considerati “non-friendly” o “non-vassalli”. Tali organizzazioni hanno quadri politici prescelti, risorse materiali colossali e finanziamenti regolari. Agendo metodicamente, le tecniche utilizzate sono estremamente efficaci soprattutto contro Paesi autocratici o con gravi problemi socio-economici. Le agenzie d’esportazione della democrazia più note sono USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale), NED (National Endowment for Democracy), IRI (International Republican Institute), NDI (National Democratic Institute), Freedom House e OSI (Open Society Institute). Tranne l’ultima, tali organizzazioni sono finanziate dal governo degli Stati Uniti. L’OSI, nel frattempo, fa parte della Fondazione Soros, dal nome del fondatore George Soros, miliardario e illustre speculatore finanziario statunitense. Inutile dire che Soros e la sua fondazione collaborano con il dipartimento di Stato degli Stati Uniti per la “promozione della democrazia”. E la lista delle conquiste è eloquente: Serbia (2000), Georgia (2003), Ucraina (2004), Kirghizistan (2005) e Libano (2005). Nonostante certi gravi errori, Venezuela (2007) e Iran (2009), il successo è stato ancora una volta raggiunto con l’impropriamente denominata “primavera” araba (2011). Il coinvolgimento delle agenzie degli Stati Uniti nell’”esportare” la democrazia è stata chiaramente dimostrata nelle rivolte che hanno scosso i Paesi arabi “prioritari”, Tunisia ed Egitto, e quelli con una guerra civile ancora in corso, Libia, Siria e Yemen. L’efficienza relativa con cui furono destabilizzati e l’apparente spontaneità riflettono il ruolo di cavallo di Troia di tali “ONG”, sostenute da una rete di attivisti indigeni adeguatamente addestrati da enti specializzati.”
ONG: Organizzazione Non Grata di Ahmed Bensaada continua qui.
Da settimane la capitale del Libano è sconvolta da manifestazioni antigovernative. Il pretesto iniziale per queste manifestazioni, che appaiono ben organizzate e coinvolgono una media di 20.000 o 25.000 persone, è la mancata raccolta dei rifiuti che ha causato indubbiamente disagi alla cittadinanza. Ma è credibile che per un motivo del genere vada avanti da settimane una protesta politica che ora chiede le dimissioni del governo e nuove elezioni? E’ possibile che solo per questo i manifestanti invochino una “rivoluzione” che sconvolga gli equilibri faticosamente raggiunti con gli accordi di Taez tra le fazioni che posero fine alla guerra civile degli anni ’70?
Il Libano è da molti mesi bloccato dal fatto che i due principali schieramenti contrapposti non riescono ad accordarsi sulla nomina del nuovo Presidente che per costituzione deve essere un cristiano. Lo schieramento definibile come “progressista” che aveva finora governato è quello che fa capo ai partiti sciiti Hezbollah e Amal, ed ai cristiani nazional-progressisti del generale Aoun. Questo schieramento è su posizioni antisioniste e filo-siriane.
Le agguerrite milizie di Hezbollah, sostenute dall’Iran, dopo aver clamorosamente costretto Israele a ritirarsi dal Libano nel 2000 e dopo aver frustrato nel 2006 l’ultimo tentativo di Israele di invadere il Libano, combatte ora a fianco dell’esercito siriano e si oppone ai tentativi dei jihadisti provenienti dalla Siria (come l’ISIS o Al Nusra) di fare irruzione anche in Libano. Lo schieramento opposto è quello che fa capo al partito sunnita legato all’Arabia Saudita, egemonizzato dalla potente famiglia Hariri. Suoi alleati sono i cristiani di estrema destra (già responsabili del massacro di Sabra e Chatila del 1982), ora guidati dal famigerato fascistoide Geagea. Questo schieramento appoggia i cosiddetti “ribelli” siriani e flirta con Israele e con gli USA.
A questo punto non è difficile intravvedere nei disordini in corso un nuovo tentativo di “rivoluzione colorata” come quelli già attuati nel colpo di stato contro il governo di Milosevic in Jugoslavia tramite il gruppo pseudo-rivoluzionario e studentesco “Otpor”; in Ucraina con la “rivoluzione arancione” che portò al potere Yuschenko e la Timoschenko e poi, dopo il fallimento di questa “rivoluzione”, con il colpo di Stato di piazza Maidan; in Georgia con la “rivoluzione delle rose”, ecc. Anche le cosiddette “primavere arabe” rientrano in questo schema: sono state mandate in piazza persone inizialmente attratte da parole d’ordine formalmente “progressiste”, che poi si sono trasformate in incubi jihadisti appoggiati dall’esterno, come in Libia o in Siria, o hanno portato al potere la “Fratellanza musulmana” come in Egitto.
Anche a Beirut i manifestanti, organizzati presumibilmente dalle solite ONG “umanitarie” internazionali che in realtà sono iscritte nel libro paga della CIA, esibiscono slogan “progressisti” come quello di richiedere che il sistema elettorale non si basi più sulle tre confessioni principali (musulmani sciiti o sunniti, e cristiani) ma diventi laico. Dietro questi paraventi ideologici atti a sedurre settori della gioventù borghese progressista si intravvedono però le mire dei monarchi oscurantisti dell’Arabia Saudita e degli altri emirati feudali del Golfo, e dei loro alleati come USA, Turchia, Francia e Gran Bretagna. In questa fase i disordini servirebbero solo a destabilizzare il governo libanese che finora, anche perché spaventato dalla prospettiva di un’estensione della ribellione jihadista anche al Libano, ha di fatto sostenuto il governo di Bashar Al-Assad che resiste ai jihadisti in Siria.
Anche lo slogan assunto dai manifestanti testimonia dell’attenta programmazione della protesta che certamente gode del supporto di abili agenzie pubblicitarie come già le precedenti “rivoluzioni colorate”. A Belgrado lo slogan unificante era “Resistenza!”, a Kiev “E’ ora!”, a Tiflis “Basta!”. A Beirut è “You stink!”, ovvero “Voi puzzate!” rivolto al governo libanese (giocando sulla presenza della spazzatura in strada, fenomeno “normale” per un napoletano, come chi scrive). La strategia del caos in tutto il Vicino Oriente portata avanti dagli USA va avanti inesorabilmente. Ma il Libano degli Hezbollah è un osso duro, così come la Siria di Bashar Al-Assad che resiste ostinatamente da 4 anni e mezzo ad una potente coalizione internazionale (cosiddetti “Amici della Siria”, oggi “Gruppo di Londra”) che vorrebbe fare a pezzi il Paese, come già riuscito in Libia e – parzialmente – in Irak. Vincenzo Brandi
Un libro diretto, sanguigno, di agevole e rapida lettura. Non un testo per soli addetti ai lavori; al contrario, pur non lasciando delusi questi ultimi, esso sa anche come descrivere la realtà e la storia del Tibet a chi è novizio della materia.
Attraverso le sue pagine, si scopre un mondo sconosciuto alla maggior parte dei lettori occidentali, composto dalle ambiguità e dalle trame segrete di uno tra gli uomini più noti, apprezzati ma anche discussi del pianeta: Sua Santità il Dalai Lama.
Chi è il Dalai Lama? Qual è la sua storia? E, soprattutto, quali sono le sue reali intenzioni nei confronti della Cina e del Tibet? Perché l’Occidente sbaglia a fidarsi del suo disarmante sorriso, e chi sono coloro che traggono vantaggio dalla sua lotta per l’autonomia e l’indipendenza del Tibet? Dietro il sorriso cerca di rispondere a tutte queste domande.
“L’operazione mediatica imbastita dallo “Stato Islamico” è una piccola opera d’arte. Ripugnante quanto basta per il pubblico occidentale, per spingerlo a credere alla necessità delle opzioni che i suoi dirigenti sciorineranno con disinvoltura, a dispetto del gioco delle tre carte da loro condotto dietro le quinte. Ammaliante quanto basta per parlare agli strati disperati della Umma, presso i quali i vari cartelli dell’islamismo reazionario tentano di accreditarsi come punti di riferimento, promettendo loro, grazie ad un presunto ritorno alle radici del messaggio coranico, il riscatto dalle loro condizioni umilianti. Quindi le vittime occidentali di tali bande vengono presentate alle telecamere nella tunica arancione, tristemente nota per via della famigerata base-prigione di Guantanamo, che, per inciso, Obama si è guardato bene dal chiudere.
Ovviamente a questa strada di presunto riscatto, disperata e falsa, subentra in realtà il gioco delle parti. Più che l’Occidente, queste bande hanno di mira proprio quelle realtà del mondo arabo-islamico che non si piegano all’imperialismo ed ai suoi alleati locali. Ed ecco apparire l’odio confessionale, settario, distruttivo… Tutto quanto abbiamo visto all’opera in Siria, per chi vuole vedere.
Di fronte all’avanzata dello “Stato Islamico”, Washington sostiene l’opzione dei bombardamenti, un impegno limitato. L’applicazione del trattato di amicizia tra Baghdad e Washington porterebbe a ben altre implicazioni. Ma quel trattato non è evidentemente lì perché l’Irak possa chiedere al piromane di spegnere l’incendio.
I bombardamenti chirurgici statunitensi, a detta dello stesso generale Mayville dello Stato Maggiore USA, non sono affatto efficaci per far collassare lo “Stato Islamico”; però permettono a Washington di controllare la situazione, arginando il possibile straripare delle orde del “Califfo” oltre la linea ritenuta conveniente.
(…)
I vantaggi per gli USA sono potenzialmente due. La radicalizzazione dello scontro innescata dal “Califfato” accelera il processo di sgretolamento dello Stato iracheno perseguito tenacemente da anni. Lo “Stato Islamico” è certo una minaccia: per le popolazioni della regione, per lo Stato iracheno, per la Siria, per l’Iran, per il Libano, in prospettiva per tutte le realtà contro le quali può essere giocata la carta della “guerra santa” della CIA.
(…)
In secondo luogo, l’espansione dello “Stato Islamico” potrebbe offrire il pretesto per un intervento diretto nella crisi siriana, ufficialmente contro il “Califfato”, ma di fatto contro lo Stato siriano.
(…)
La vicenda dello “Stato Islamico” e quella della crisi siriana vanno inserite nel contesto più ampio dello scontro geopolitico in corso tra la tendenza all’egemonia unipolare statunitense da una parte e le forze della coalizione antiegemonica che vorrebbe ripristinare un equilibrio di potenza per garantire al mondo un equilibrio multipolare che, solo, può essere capace di garantire la sovranità delle Nazioni e dei popoli.
Da un anno a questa parte ci siamo confrontati con un intensificarsi di crisi internazionali che hanno portato le grandi potenze a un passo dalla guerra: dalla crisi coreana a quella siriana dell’estate scorsa [2013 – ndr], a quella ucraina di oggi. In questo quadro va inserito il Vicino Oriente con il suo recente, drammatico travaglio.
Se si volesse veramente disinnescare la minaccia rappresentata dallo “Stato Islamico”, non resterebbe in realtà che una cosa da fare: chiudere i rubinetti del finanziamento e del sostegno a 360° a queste bande; dove per 360° si intende: fornitura di armi, di soldi, di assistenza tecnica e di intelligence, assistenza logistica, assistenza nell’organizzazione delle retrovie. Bisognerebbe anche far luce sulle troppe zone d’ombra che coprono le attività cosiddette caritative ed assistenziali di tante ong e di tanta brava gente che pensa di aiutare un popolo a liberarsi da una dittatura e invece si fa complice dei più efferati delitti, del collasso di uno Stato e del tracimare di bande criminali capaci di tutto.
Ma il rubinetto è nella mani di Washington e dei suoi alleati mediorientali. Se non viene chiuso, ci sarà pure un perché.”
L’eredità coloniale ancora presente nelle culture imperialiste ha portato a ribaltare il significato delle parole attraverso la colonizzazione del linguaggio progressista e la banalizzazione del ruolo degli altri popoli.
In questi tempi di ‘rivoluzioni colorate’ il linguaggio è stato ribaltato. Le banche sono diventate i protettori dell’ambiente naturale, i fanatici settari sono ora ‘attivisti’ e l’impero protegge il mondo dai più grandi crimini, di cui non è mai responsabile.
La colonizzazione della lingua è in atto in tutto il mondo, fra le popolazioni con alti livelli di istruzione, ma è particolarmente virulenta nella cultura coloniale. ‘L’Occidente’, l’autoproclamatasi epitome della civiltà avanzata, sta reinventando con vigore la propria storia, col fine di perpetuare la mentalità coloniale.
Scrittori come Fanon e Freire hanno notato che i popoli colonizzati hanno subito danni psicologici e che è necessario ‘decolonizzare’ le loro menti, al fine di renderli meno deferenti verso la cultura imperiale e di affermare i valori positivi delle loro culture. D’altra parte, l’eredità coloniale è ben evidente nelle culture imperiali. I popoli occidentali continuano a mettere la loro cultura al centro o a considerarla universale, e hanno difficoltà ad ascoltare o ad imparare dalle altre culture. La modifica di ciò richiede uno sforzo notevole.
Le potenti élites sono ben consapevoli di questo processo e cercano di cooptare le forze vitali all’interno delle loro società, colonizzando il linguaggio progressista e banalizzando il ruolo degli altri popoli. Per esempio, dopo l’invasione dell’Afghanistan nel 2001, venne promossa l’idea che le forze della NATO stessero proteggendo le donne afghane ed essa ottenne molta popolarità. A dispetto dell’ampia opposizione all’invasione e all’occupazione, questo fine umanitario faceva appello al sentimento missionario della cultura occidentale. Nel 2012, Amnesty International poteva innalzare cartelli che affermavano ‘NATO: sosteniamo il progresso’, in riferimento ai diritti delle donne in Afghanistan, mentre l’Istituto George W. Bush raccoglieva fondi per promuovere i diritti delle donne afghane.
Il bilancio della situazione, dopo tredici anni di occupazione NATO, non è però così incoraggiante. Il rapporto 2013 dell’UNDP mostra che solo il 5,8% delle donne afghane ha un’istruzione secondaria (la settima posizione più bassa al mondo), la donna afghana ha una media di 6 figli (un tasso pari al terzo più alto del mondo, e legato al basso livello d’istruzione), la mortalità materna è di 470 su 100,000 (pari alla nona-decima fra le più alte del mondo) e l’aspettativa di vita è di 49,1 anni (pari alla sesta più bassa del mondo). Questo ‘progresso’ non è di certo impressionante. Continua a leggere →
“Invece, un incidente ci sarebbe stato se Roma non avesse risposto alle richieste di Astana, poiché il ‘perseguitato politico’ in questione, appunto Mukhtar Abljazov, è sì ben perseguitato in Kazakhstan, Paese da cui è fuggito. Ma è fuggito nel Regno Unito dopo aver sottratto diversi miliardi di dollari della BTA Bank, la banca che aveva contribuito a fondare in Kazakhstan grazie alla privatizzazione di una ex-banca pubblica. In sostanza, Abljazov è l’ennesimo speculatore che ha saccheggiato l’economia di una delle Repubbliche dell’ex-URSS. Ed infatti, per far comprendere chi detta i toni di quest’ennesima storielletta sui ‘diritti umani violati’, ecco Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL), la radio gestita dalla CIA e da George Soros, elogiare l’eroica figura di Abljazov, ex-tecnocrate del processo avviato da Nursultan Nazarbaev, presidente del Kazakhstan, per modernizzare la nazione: “Abljazov a gli altri avevano rotto i ranghi, adducendo a motivo il disincanto per la corruzione endemica che prosperava nelle cerchie che si muovevano attorno a Nazarbaev”. Va ricordato che Nazarbaev, una decina di anni fa, espulse tutte le ONG legate agli USA e allo speculatore miliardario statunitense George Soros, da cui l’acrimonia di questi paladini della ‘democracy&liberty’ e dei relativi dipendenti verso Nazarbaev e il Kazakhstan.
Nel novembre 2001, Abljazov e altri suoi colleghi banchieri fondarono la Democratic Choice of Kazakhstan (DCK), movimento di opposizione al governo Nazarbaev. La DCK era composta da boss politici e ricchi affaristi che rivendicavano soprattutto il ‘decentramento del potere politico’, ovvero la balcanizzazione del Kazakhstan. Nel luglio 2002, Abljazov fu dichiarato colpevole di “abuso di potere compiuto in qualità di ministro” (accusa più che fondata, vista la carriera successiva di questo ennesimo eroe di cartone della democracy-export) e condannato a sei anni di prigione. Ovviamente i soliti Parlamento europeo e Amnesty International si mobilitarono, su ordine di Soros, per salvare la quinta colonna statunitense in Kazakhstan. Comunque, il ‘perseguitato politico’ Abljazov, già nel 2003 era a Mosca, e nel periodo 2005-2009 fu il presidente del consiglio di amministrazione della BTA Bank. Insomma, contrariamente a quello che ci raccontano e ci racconteranno le varie agenzie di propaganda atlantiste, Abljazov non è mai stato in carcere; anzi Abljazov avrebbe speso “milioni di dollari per finanziare gruppi di opposizione e mass media indipendenti” in Kazakhstan, secondo un altro agente d’influenza al servizio di Washington, Evgenij Zhovtis, capo del Kazakhstan International Bureau for Human Rights and Rule of Law.
Con Abljazov, i prestiti effettuati dalla BTA Bank dal 2005 al 2009 crebbero rapidamente, ma non altrettanto i depositi bancari, trascinando la banca nell’insolvenza. Tra il 2003 e il 2007, i crediti insoluti della BTA Bank crebbero del 1.100%.
(…)
Ma nonostante tutto, e forse grazie al fatto di aver formulato accuse indimostrate contro Nazarbaev, Abljazov si vide attribuire l’asilo politico nel Regno Unito. La richiesta di estradizione proveniente dal Kazakhstan fu quindi ignorata. Nel novembre 2012, una corte britannica ingiunse ad Abljazov di versare 1,63 miliardi di dollari e relativi interessi, disponendo “contro Abljazov nuovi blocchi giudiziari dei beni per un ammontare illimitato e nuovi ordini di blocco in relazione ad alcuni altri imputati“. Difatti Abljazov vive a Londra in una casa di lusso, protetto dall’imperialismo inglese in vista di future possibili rivoluzioni colorate in Asia centrale. In effetti, la vicenda del rimpatrio da Roma della moglie e della figlia del bancarottiere ‘democratico’, non a caso viene collegata, proprio dalla stampa inglese, ai buoni rapporti economico-commerciali che l’Italia ha stabilito con il Kazakhstan. Un nuovo tentativo di far subire all’Italia un’altra debacle strategica, e questa volta mortale, poiché dopo la Libia, restano all’Italia quali fonti energetiche disponibili l’Algeria e il Kazakhstan, appunto. L’inconsistenza di questo governo, pieno di anime belle e guidato da una nullità come Enrico Letta, nipotino di suo zio Gianni, non promettono nulla di buono per il Paese.
Abljazov, infatti, attraverso un’intervista a La Stampa del 5 luglio 2013, ha chiesto ad Enrico Letta di far luce sull’episodio. Il servizievole Presidente del Consiglio dei ministri non si è fatto attendere nel rispondere positivamente alle pretese del criminale protetto da Londra. Il premier ha dichiarato di aver chiesto privatamente delucidazioni al ministro dell’Interno e vicepremier Angelino Alfano. Non avendo ottenuto risposta, Letta ha reiterato la richiesta pubblicamente. Emma Bonino, ministro degli Esteri, ha definito la vicenda una “figura miserabile” per l’Italia, opportunamente dimentica la figura miserabile racimolata da lei e dal suo governo con il Presidente boliviano Evo Morales, al cui velivolo hanno negato il passaggio nello spazio aereo italiano. Ma si sa, nel canile italiano i cagnetti dirittumanitaristi vengono addestrati ad eseguire gli ordini del padrone e a ringhiare contro i suoi nemici. Compiti in cui eccellono i meticci di sinistra.”
Chávez rieletto presidente del Venezuela.
54,4% contro il 44,3% del candidato del FMI – Votanti 80,1%
A nulla è servito il lancio solitario dell’ABC di Madrid che -molte ore prima dell’annuncio del risultato ufficiale – aveva sparato che il rampante magnate della hight di Caracas stava vincendo con il 51,3% contro un 48,06 di Chávez. L’avevamo anticipato (qui), ma ai mestatori non è riuscito di provocare tumulti e teppismo giovanile da sfruttare poi contro il detestato “dittatore”. Una affluenza di elettori massiccia 80,1%, senza precedenti in Venezuela, contrasta con il crescente astensionismo e disaffezione esistente in Europa e USA
e conferisce una legittimità inquestionabile alla nuova istituzionalità bolivariana. Chávez è confermato presidente con un consenso sociale d’una ampiezza inarrivabile per la quasi totalità dei suoi colleghi stranieri.
I più di diecimila giornalisti internazionali arrivati a Caracas -più numerosi di quelli che seguirono le Olimpiadi di Londra- per scrutare tra le pieghe e nella penombra, testimoniano dell’importanza geostrategica raggiunta dal Venezuela bolivariano e le implicazioni derivanti dalla rotta che dovevano tracciare gli elettori. Han mostrato il pollice verso al cambio di rotta e a un timoniere fondomonetarista, ostile al welfare, sionista e nemico del blocco sudamericano. Esce riconfermata la continuità, cioè la crescita con redistribuzione sociale, la sovranità come condizione basilare dell’equità, e la difesa a testuggine dei beni strategici come patrimonio collettivo, costituzionale e inalienabile.
Chávez è vittorioso in una campagna in cui hanno partecipato anche gli insidiosi poteri esterni. Esce sconfitto non solo il familio dell’ingorda -ma miope- oligarchia interna. E’ stata ancora una volta sbarrata la strada “ai mercati”, alle elites globaliste occidentali con la bava alla bocca, impazienti di controllare la maggiore riserva di idrocarburi del mondo. E’ una lezione ai loro guardaspalle mediatici, ai maggiordomi politici, alla nebulosa di organismi sovvenzionati dai vari Soros, fondazioni europee e dalle partite segrete degli USA. Dovranno aspettare sei anni, perchè il popolo venezuelano ha dato una lezione morale a tutti costoro, svelandone la natura mercenaria e la faccia di bronzo.
Potranno criticare l’istituzionalità del Venezuela e del suo presidente, solo dopo che i cittadini spagnoli, britannici, olandesi, svedesi, danesi potranno votare quale re li governi.
Quando negli USA la campagna presidenziale non sarà più una caccia grossa ai finanziamenti dei colossi imprenditoriali o finanziari, dove vince chi raccatta di più, in una elezione di secondo grado. I venezuelani hanno dimostrato che c’è un’alternativa al neoliberismo ed è percorribile e vantaggiosa, e che il neo-golpismo finanziario che flagella l’Europa non è una calamità biblica, ma delirio di potenza dell’1%. Tito Pulsinelli
Come la CIA, le bande criminali e le ONG realizzano stragi di massa e distorcono le informazioni per manipolare l’opinione pubblica
Un libro per colpire i bombardamenti, svelare la Grande Bugia in tempo, per fermare l’ennesima guerra “umanitaria”. La situazione della Siria è drammatica. Il Paese si dibatte in una cruenta guerra civile, oggetto di spietati attacchi da parte di nemici interni ed esterni. La cosiddetta “rivolta siriana” fa in realtà parte di una cinica strategia statunitense che si serve di provocatori, mercenari, fanatici fondamentalisti e ONG corrotte.
Essi sono decisi a colpire uno Stato arabo indipendente, dove la ricchezza generata dal petrolio viene impiegata per finanziare lo Stato sociale, proprio come avveniva in Libia prima che questa fosse annientata con analoghe modalità. I Paesi vicini partecipano al massacro, come sciacalli e iene che strisciano ai piedi del leone americano.
“Obiettivo Siria” è un ammonimento sul modo di operare dell’onnipotente “Impero del Dollaro”. La trama americana, finanziata dai “petrodollari” delle monarchie del Golfo, attiva la tattica delle “counter-gang”: terroristi – mercenari e irregolari, la “legione straniera” della CIA – che fanno saltare in aria edifici e massacrano gli innocenti, per poi addossare le responsabilità della carneficina al governo preso di mira.
ONG come NED – National Endowment for Democracy – incoraggiano gli “attivisti”, i cui leader sono ambiziosi sociopatici, intenti ad aggiudicarsi avidamente una parte delle spoglie dello Stato abbattuto. I mezzi d’informazione credono alla Grande Bugia e la celebrano propagandisticamente, creando una realtà falsificata attraverso cui non è possibile farsi una opinione critica, libera e indipendente.
“Obiettivo Siria” mostra come queste guerre siano architettate attraverso la strumentalizzazione degli istinti più nobili dell’animo umano, tramite l’inganno di coloro che altrimenti tenderebbero a contrastare l’intervento armato, manipolandoli al servizio dell’assassinio di massa e della dittatura globale del potere economico.
Gli autori Tony Cartalucci, ricercatore e scrittore di geopolitica che vive a Bangkok, in Thailandia, è il principale animatore del sito di informazione indipendente Land Destroyer. Nile Bowie è uno scrittore e fotografo statunitense che collabora con il Centro per la Ricerca sulla Globalizzazione di Montreal, in Canada.
“Il nuovo video di Ryuzakero, attivista della controinformazione, dal titolo “La Verità contro la PROPAGANDA NATO“, montato e sottotitolato in due lingue (italiano e inglese), ha per tema la propaganda che viene riversata sui media occidentali a proposito di ciò che accade in Siria. Questo filmato, della durata di poco meno di 15 minuti, ci permette di approfondire, con specifico ricorso ad esempi documentati, come si realizzi la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso una studiata ingegneria della notizia, costruita ad arte per muovere le coscienze, farle commuovere, dirigerle docilmente, oppure trascinarle, verso l’approvazione morale di provvedimenti immorali ed illegali, come la destabilizzazioni di stati sovrani, l’infiltrazione di milizie prezzolate, definite ‘rivoluzionarie’, l’istituzione di no-fly zone a protezione dei civili che consentono, invece, martellanti campagne aeree sulla popolazione, ribattezzate opportunamente bombardamenti umanitari.
Un modus operandi messo in atto in maniera spietata in Libia, dove lo stesso genere di propaganda ha mosso l’opinione pubblica verso un consenso quasi unanime all’intervento;
(…)
Il nuovo video di Ryuzakero dà un assaggio, attraverso fatti documentati, di alcuni meccanismi dell’apparato propagandistico, messo all’opera contro la Siria (e che a suo tempo è stato rivolto contro l’Iraq e più recentemente contro la Libia), illustrando fatti specifici:
– come l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani sia in realtà formato da una sola persona che lavora in Inghilterra;
– esempi delle menzogne di Amnesty International e Human Right Watch;
– esempi delle menzogne della propaganda NATO in generale;
– notizie ed eventi censurati in occidente;
– eventi propagandati con il significato opposto rispetto a quello reale;
– il modo di agire dei “ribelli”, definiti di volta in volta “manifestanti pacifici” o “rivoluzionari”.
Buona visione”.
Così GilGuySparks conclude la sua ottima presentazione, che riporta anche tutte le fonti utilizzate dall’autore della video-inchiesta inserita qui sotto.
“Il loro incubo è tornato. Vladimir Putin s’invola alla presidenza della Federazione russa (dal marzo 2012), e intanto, giusto per fargli assaggiare un ‘antipasto’ del boccone amaro che dovranno digerire, è uscito vincitore dalle elezioni per il rinnovo della Duma (parlamento) col suo partito Russia Unita.
Ma uno che ha seguito i media italiani potrebbe obiettare: “Veramente Putin non ha vinto, ha perso!”.
Eh già, questo è quel che si capisce se ci s’informa sui soliti media-zerbino a senso unico, che da giorni hanno imbastito una martellante campagna anti-Putin che, alla faccia della più elementare logica, suona all’incirca “Putin ha vinto, ma in pratica ha perso”.
Il loro chiodo fisso è la “caduta dello zar”, annunciata con servizi del tipo che segue: ansa.it .
Non pare, piuttosto, che l’unica “caduta”, sia quella “di stile”, da parte della più grande agenzia di stampa italiana?
Che brutti scherzi che fa voler vedere quel che si desidera e non quel che realmente accade!
Accade infatti che la Russia non è terreno di caccia per i predoni del “Nuovo ordine mondiale” (com’è a questo punto l’Italia, l’Europa…), e non lo sarà per un bel po’, almeno fino al 2024, perché la legge russa prevede il rinnovo della carica presidenziale per altri sei anni… E il risultato delle recenti consultazioni elettorali è che la Russia è davvero “unita”, perché il popolo russo è concorde su una cosa essenziale: la Russia non è in vendita! Magari, noialtri, avessimo anche lontanamente chiaro questo semplice ma fondamentale concetto…”
007, dalla Russia con… livore, di Enrico Galoppini continua qui.
Per capire come funzionano i raggiri mediatici delle liberaldemocrazie, c’è un sistema che funziona discretamente bene. Si ascoltino le “notizie” fornite dai loro “media” e si considerino bene il luogo e i protagonisti. Ci si renderà conto che a scatenare “severe condanne” non sono “i fatti” in sé, quanto il contesto in cui avvengono situazioni perfettamente analoghe da una parte all’altra del mondo.
Infatti la differenza, per i “media”, non la fa tanto la “notizia” (perché non esistono per Lorsignori le “questioni di principio”), quanto il condimento di valutazioni negative, giudizi spietati e aggettivi demonizzanti a seconda del contesto in cui la medesima situazione si verifica. E si faccia caso anche se chi altrove fa le pulci a tutto elevando “autorevoli condanne”, in altri specifici casi tace sommamente.
Prendiamo il caso della protesta chiamata “Occupare Wall Street”. Senza entrare nel merito di chi la guida e con quali parole d’ordine viene portata avanti, è comunque trapelato almeno sulle agenzie (poco sui tg) che i manifestanti sono stati malmenati e arrestati a decine, non solo a New York, ma anche a Chicago.
Su vari siti è possibile vedere spezzoni video che mostrano la dura repressione condotta dagli agenti di polizia contro i manifestanti, con tanto di manganelli, gas al peperoncino e reti per catture di massa. Si vedono giovani che non hanno commesso alcuna “violenza” ammanettati e trascinati sanguinanti fino ai furgoni delle forze dell’ordine.
Una prima domanda sorge spontanea: ma la repressione di chi “manifesta” non porta dritti alle risoluzioni dell’ONU e poi ai bombardamenti della NATO? Va bene, non pretendiamo pari trattamento per tutti, ma almeno due “parole di condanna” da parte dei bellimbusti dell’UE (quelli che si alzano “scandalizzati” quando Ahmadinejad parla all’ONU), quelle sì!
Ma se impediscono un “Gay pride” a Mosca o a Belgrado, le tv si compiacciono nel mostrarci le “brutali” polizie russa o serba mentre arrestano i “manifestanti”, che in tal caso vengono definiti “pacifici” e “inermi”: si è senz’altro di fronte ad una “violazione dei diritti umani”!
e al contrario i poliziotti sono americani, i commenti negativi sono interdetti, si strozzano nella gola dei giornalisti, o magari – in virtù di quello spettacolare meccanismo che è l’autocensura – neppure sorgono nella mente di chi lavora nelle redazioni dei principali tv e giornali. In Gran Bretagna, al culmine delle insurrezioni nelle periferie, il primo ministro dichiarò d’aver preso in considerazione l’oscuramento dei “social network”, ma nessun “professionista dell’informazione” rilevò la comicità di tale affermazione, proprio mentre dalla stessa bocca – e da quella dei suoi omologhi occidentali – uscivano ‘lamentazioni funebri’ sulla “censura” dei medesimi Facebook e Twitter in Siria!
Lo stesso dicasi per gli onnipresenti “Amnesty” o “Human Rights Watch”: sempre in prima linea nel denunciare la “repressione del dissenso” negli Stati invisi all’Occidente, non fiatano quando la stessa cosa avviene in casa. Nei “Paesi canaglia” han plasmato così dei “santi profani” (i “dissidenti”), mentre in Occidente vi sono solo dei “teppisti”, dei “facinorosi” o tutt’al più delle persone indegne di figurare nel loro ‘martirologio democratico’ perché sotto la scure della Democrazia Incarnata. Enrico Galoppini