È improbabile che Washington riesca a sganciare l’Asia centrale dalla Russia, anche se falsamente descriverà alcune iniziative commerciali come grandi successi o come qualcosa di molto innovativo.
Di Ahmed Adel, ricercatore di geopolitica ed economia politica che fa base a Il Cairo, per South Front, 5 dicembre 2022
L’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) ha finanziato nella seconda metà del 2022 il cosiddetto “sostegno alla democrazia” per un importo di 248 milioni di dollari nei Paesi della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). In confronto, i “falchi umanitari”, come l’amministratore dell’USAID Samantha Power descrive l’agenzia, investirono solo 243 milioni di dollari nell’intero 2021.
La CSI, che comprende gli ex Stati sovietici quali Russia, Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Kazakhistan, Kirghizistan, Moldavia, Tagikistan e Uzbekistan, è un blocco di Paesi per il quale gli Stati Uniti si sono a lungo sforzati per espandere al loro interno la propria influenza e il proprio soft power. Per questa ragione, l’USAID ha significativamente aumentato i suoi investimenti nella regione, con Armenia, Georgia e Moldavia, Stati periferici della CSI, che risultano essere i più grandi beneficiari delle nuove sovvenzioni, specialmente per quelle riguardanti le Ong e i media.
L’USAID ha stanziato 15 milioni di dollari a scopi educativi per la sola Georgia nella seconda metà di quest’anno, con un’enfasi particolare posta sulla necessità di abolire la presunta discriminazione di genere. Gli Americani intendono plasmare l’istruzione georgiana secondo il loro stampo, riqualificando gli insegnanti; per questo motivo fu assegnata una sovvenzione di 250.000 dollari a professori di giornalismo provenienti dalle università locali che soddisfano i loro criteri. Nel 2021, l’USAID lanciò un programma quinquennale in Georgia del costo di 330 milioni di dollari.
Nella seconda metà del 2022, l’USAID ha concesso due sostanziose sovvenzioni – rispettivamente del valore di 120 e 4 milioni di dollari – per lo “sviluppo della democrazia” e l'”indipendenza dei media” in Armenia. Questo aiuto è stato criticato perché non fornisce l’assistenza umanitaria necessaria per assistere 100.000 Armeni sfollati a causa della guerra del Nagorno-Karabakh del 2020.
Il fatto stesso che nella seconda metà del 2022 siano stati concessi 124 milioni di dollari di aiuti, un importo considerevole per un Paese che nel 2021 aveva un PIL di 13,86 miliardi di dollari, per influenzare i media e la società civile invece di assistere gli sfollati armeni, dimostra la volontà di mantenere quella situazione, o in effetti che l’amplificazione del necessario grado di retorica antirussa nei mass media locali è uno degli obiettivi principali del lavoro dell’USAID nei Paesi post-sovietici.
Comunque, in Moldavia e nei Paesi dell’Asia centrale, l’agenzia americana pone particolare enfasi sul finanziamento dell’economia. Ovvero, stanno cercando di indebolire i legami economici che questi Paesi hanno con la Russia e di riorientare i flussi di merci e i flussi finanziari. Nell’ultimo semestre, l’USAID ha stanziato 50 milioni di dollari per la Moldavia, la maggior parte dei quali si presume saranno spesi per espandere il commercio con l’Unione Europea e creare un’adeguata infrastruttura di trasporti e logistica.
A ottobre USAID annunciò che intende investire 15,2 milioni di dollari nel commercio in Kazakhistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, poiché Washington vuole “aiutare la regione ad abbandonare la dipendenza” da Mosca.
“Ridurre la dipendenza dell’Asia centrale dai mercati e dalle rotte di esportazione russe, fornendo alternative, era una priorità a lungo termine, ma ora è una necessità impellente e un’opportunità dato che cerchiamo di aiutare la regione ad allontanare la dipendenza dalla Russia”, diceva il documento di USAID
Secondo il documento dell’USAID, la guerra in Ucraina e le sanzioni anti-russe hanno un “enorme impatto” sull’economia dell’intera regione. Le sanzioni e il ritiro delle aziende occidentali dalla Russia “hanno portato a una contrazione dell’economia russa, che probabilmente continuerà a lungo termine”, ma da cui risulterà anche una diminuzione delle importazioni russe dall’Asia centrale.
“Le aziende della regione hanno urgentemente bisogno di trovare nuovi mercati per le loro esportazioni, sia di beni che di servizi”, aggiungeva il documento.
Il programma è pensato per “rispondere alle conseguenze economiche” causate dalla guerra in Ucraina, come il calo delle rimesse, il deflusso dei lavoratori immigrati dalla Russia, la svalutazione della moneta, l’inflazione e la perdita di rotte e mercati di esportazione. Si spera che ai Paesi della regione verrà fornito un “supporto tecnico” per incrementare il commercio sui mercati internazionali e per aiutare le imprese nelle questioni logistiche.
In precedenza, il vicedirettore dell’USAID, Anjali Kaur, affermava che l’obiettivo della politica statunitense dovesse essere la separazione delle economie dell’Asia centrale e della Russia. In questo modo, Washington non cerca nemmeno di nascondere le sue nefaste azioni anti-Russia in una regione che è forse una delle più lontane dal continente nordamericano, e non solo in termini geografici, ma anche per cultura, tradizioni e storia.
Incrementando i finanziamenti alle Ong e ai media in Moldavia, Georgia e Armenia, l’USAID cerca di trovare qualche successo. Tale successo sarebbe per la maggior parte da attribuire alla vicinanza di questi Paesi all’Europa occidentale e alla loro comune identità cristiana, rendendo così molto più facile la penetrazione dell’influenza liberale dell’Occidente.
Tuttavia, è estremamente improbabile che Washington riuscirà a sganciare l’Asia centrale dalla Russia, anche se rappresenterà falsamente alcune iniziative commerciali come grandi successi o come qualcosa di molto innovativo. Questo perché la Russia è una grande potenza economica e militare da cui l’Asia Centrale non ha alcun buon motivo per separarsi.
“Il mio contratto rescisso con la Rai”, di Michelangelo Severgnini
Il professore Alessandro Orsini si vede sfumare un contratto con la RAI per le partecipazioni al programma televisivo “Carta Bianca”, in seguito alle pressioni esercitate dal Partito Democratico.
Durante il programma avrebbe offerto al pubblico italiano le sue oneste analisi geopolitiche da fedele atlantista e convinto europeista.
E’ comunque uno scandalo.
Il servizio pubblico. La mancanza di pluralità. La censura anche nei confronti di chi ha visioni simili.
Sconcertante. Proteste (sempre più sparute) e indignazione (sempre più inconcludente).
Bene.
Voglio fare anch’io “outing”, come dicono gli anglosassoni: voglio confessare.
Nell’aprile 2019, come da foto, avevo firmato un pre-contratto per la RAI (certamente non il lauto contratto offerto al professor Orsini, ma vuoi mettere per le mie finanze?).
Il feldmaresciallo Khalifa Haftar aveva appena lanciato la campagna militare “Operazione Diluvio di Dignità” e aveva mosso le sue truppe verso Tripoli
Nella morsa si erano trovati decine di migliaia di migranti-schiavi ostaggio delle milizie in Tripolitania.
A me denunciavano di essere usati come scudi umani dalle milizie, non da Haftar. E la quasi totalità di coloro con cui parlavo in quelle settimane (diverse decine di loro) chiedeva di essere rimpatriata. Chiedeva di essere tirata fuori da una zona di guerra ed essere riportata a casa. Non c’era un minuto da perdere: rischiavano la vita in ogni momento, ancora più di quanto normalmente non sia per loro.
Il programma della RAI (di cui per riservatezza non faccio il nome) mi aveva chiesto l’acquisto di un’ora di messaggi vocali ricevuti via internet da migranti-schiavi in Libia. In quest’ora c’erano moltissimi messaggi che chiedevano, imploravano, il rimpatrio immediato, così come la denuncia delle milizie di Tripoli responsabili delle stragi poi attribuite ad Haftar.
Dopo alcune settimane di contatti di circostanza con gli autori del programma, spesi da parte loro a giustificare inspiegabili ritardi, scomparvero e non se ne fece più nulla.
Gli autori del programma sono di area piddina, altre volte avevano lavorato a stretto contatto con le ONG.
Se ci sono state pressioni, e ci sono state, io non lo saprò mai. O meglio: lo so che ci sono state ma non avrò mai il piacere di vederle confessate.
Né nessun parlamentare farà un’interrogazione sul mio caso.
Né nessun cittadino-spettatore si indignerà per ciò che il servizio pubblico gli ha negato.
Per me “L’Urlo” significa questo.
Quando nel tuo Paese, nel tuo continente, nella tua società, l’informazione è diventata narrazione al punto da trasformare i carnefici in salvatori umanitari di fronte a fenomeni disumani come la schiavitù, la tortura e la tratta di esseri umani, allora è finita.
Allora la sola libertà che mi resta è quella di urlare al cielo.
Perché non ho altro potere. Non tanto di fronte alla menzogna, di fronte alla menzogna posso usare la Parrhesia. Quanto di fronte allo stato di ipnosi collettiva in cui è caduta la mia gente.
Quella in Libia era una guerra nostra, combattuta con le nostre armi, vendute alle milizie libiche in cambio del petrolio saccheggiato allo Stato libico e inviato sotto banco all’Europa. Ma l’errore prospettico mostrava la campagna militare di Haftar come un’aggressione, non come una liberazione, così come invece la definivano i Libici di Tripoli.
Anni di soldi inviati alla Libia per fermare i migranti, dicevano. No signori, quei soldi servivano per armare le milizie libiche e difendere Tripoli dalla legittima richiesta di sovranità libica, dando mano libera alle bande armate che trafugavano il petrolio per conto nostro, dopo aver ridotto in schiavitù decine di migliaia di Africani.
Ancora oggi ti raccontano che i Libici non riescono a mettersi d’accordo, ora ci sono persino 2 premier! Come il compianto Edward Said ci aveva insegnato, il mito del mediorientale litigioso è da sempre stato uno strumento retorico per giustificare il colonialismo occidentale.
Infatti ora ci sono 2 premier perché uno è il premier legittimo votato dal parlamento (Fathi Bashagha) e l’altro è il Guaidò della Libia (Abdelhamid Dabaiba), quello riconosciuto solo dalla NATO.
Non sono i Libici a litigare. E’ la NATO a umiliare la sovranità libica e a coltivare il caos, per poterne saccheggiare le risorse.
Ma forse il paradigma in Libia sta cambiando. I cavalli della NATO sono zoppi. Se i Libici chiudono i rubinetti all’Europa ci sarà un’altra guerra. Diranno che il processo democratico è in pericolo e la dittatura sta tornando in Libia.
Haftar, definito oggi come allora “signore della guerra” dalla NATO, era ed è niente meno che la figura militare più legittima che si potesse trovare in Libia, a capo dell’Esercito Nazionale Libico istituito con voto del Parlamento nel marzo del 2015.
Gli esperti europei hanno studiato sui libri delle fiabe, non sul libro della realtà.
La realtà era che i migranti-schiavi nell’aprile del 2019 (come in qualsiasi altro momento) volevano tornare a casa. Quella era informazione, quella che volevo fare io.
Queste voci e molte altre stanno nel film “L’Urlo” che nessuno vuole trasmettere o distribuire. Questo è il trailer.
Ma in RAI gli elementi piddini si potevano permettere di fare informazione. Dovevano puntellare la narrazione della NATO.
Come fanno oggi: Putin ha sostituito Haftar nello schema e ciò che davvero succede sul campo è lavoro di fantasia, è prodotto di narrazione fiabesca, oggi in Ucraina come allora in Libia.
Giù la saracinesca. Niente contratto. Per altro io non fornivo analisi politiche, io fornivo fonti dirette sul campo che parlavano liberamente in forma anonima con la loro voce.
Tu da che parte stai? Io sto dalla parte della verità. La verità è rivoluzionaria. “Quasi tutte le guerre iniziate negli ultimi 50 anni sono state il risultato di bugie dei media” ci dice Julian Assange.
Non c’è altro interesse da difendere. Le notizie vanno date.
La censura di guerra è partita da molto lontano ed è da più di un decennio, dalla sbornia colorata del 2011, che siamo abbondantemente sotta la linea di galleggiamento. Dirottare l’opinione pubblica di un intero continente in queste forme significa una sola cosa: preparare la guerra.
La menzogna ha intaccato in profondità ogni nostro ragionamento sull’esistente.
Quando chiudi entrambi gli occhi puoi solo andare a sbattere.
Io ho urlato più che ho potuto.
Ora teniamoci forte prima dello schianto.
Michelangelo Severgnini è un regista indipendente, esperto di Medioriente e Nord Africa, musicista. Ha vissuto per un decennio a Istanbul. Ora dalle sponde siciliane anima il progetto “Exodus” in contatto con centinaia di persone in Libia. Di prossima uscita il film “L’Urlo”.
Sono circa 50.000 le organizzazioni non governative che svolgono attività a livello internazionale. Nel 2012, si calcolava che l’ammontare del denaro che esse utilizzano superasse i 1.100 miliardi di dollari. Le 36 fondazioni “caritatevoli” più ricche del mondo, fra le quali 23 sono statunitensi, hanno una dotazione complessiva di oltre 300 miliardi; la sola Open Society di George Soros, che non fa parte di queste 36 più facoltose, avrebbe elargito 11 miliardi di dollari in ventiquattro anni.
La storia del dominio economico, politico e culturale ha visto per secoli la Chiesa protagonista e i suoi missionari come emissari di Paesi e popoli conquistatori. Al posto loro oggi, nell’epoca del capitalismo fattosi globale, sempre più troviamo i “filantropi”, cioè vere e proprie aziende che non amano farsi chiamare tali ma fondazioni benefiche, organizzazioni no profit, organizzazioni non governative (ONG): i “missionari” dell’Occidente post-industrializzato.
A parte quella di fare denaro, il capitalista non ha infatti più alcuna vocazione. Non è un produttore di merci, legato a certi tipi di materiali, strumenti, tecniche e conoscenze, ma piuttosto un nomade che esplora territori per trovare dove è più redditizio “investire”, un avventuriero che crea mercati dal nulla, servendosi di mode e bisogni indotti e anche creando il bisogno mediante la destrutturazione delle economie locali. Terre, acque, foreste, sottosuoli, i paesaggi e persino i sentimenti umani diventano merci, che possono essere commercializzate e scambiate. E’ questo il “lavoro” del capitalista e dei suoi satelliti.
E tra questi ultimi ci sono anche buona parte delle organizzazioni “filantropiche”, che svolgono il compito di preparare il terreno al “mercato” in molteplici modi e funzioni.
La scrittrice e giornalista Sonia Savioli, autrice di ONG. Il cavallo di Troia del capitalismo globale, edito da Zambon, è nata a Milano nel 1951, in un vecchio quartiere del centro storico pieno di immigrati, da padre veneto e madre pugliese.
Dopo aver studiato lingue, ha fatto la commessa, la dimafonista, l’impiegata, la traduttrice, la fotografa.
Nel 1987 si trasferisce in campagna e da allora, insieme a marito e figlio, coltiva un piccolo podere sulle colline tra Siena e Firenze. E scrive.
Altri suoi libri pubblicati sono: Campovento (ed. Santi Quaranta); Slow life. Del vivere lento, sobrio e contento (Iacobelli ed.); Alla città nemica. Diario di una donna di campagna (Edizioni per la Decrescita Felice); Il gallo di Misme. Fiabe chiantigiane, Brumba sull’albero, Il possente coro (ed. Era Nuova); Scemi di guerra. Ascesa, apoteosi, marasma e fine della società di guerra e progresso (ed. Punto Rosso).
I suoi articoli appaiono su il Cambiamento.
“Con questo notevole e documentato libro Sonia Savioli ci rende edotti del ruolo effettivo che queste organizzazioni svolgono aprendoci gli occhi sulle infinite menzogne che, quotidianamente, ci sono riversate dall’informazione a senso unico in cui siamo immersi e da cui siamo soffocati.
E’ un libro di piacevole lettura, l’autrice possiede una forte carica ironica che rende la lettura oltre che istruttiva anche molto gradevole.
Lo scritto della Savioli, oltre ad informarci sulle varie ONG, traccia una mappa in cui sono evidenziati e dimostrati i rapporti e le interconnessioni esistenti tra di loro e tra i finanziatori sia privati che statali, con i relativi obiettivi, sia quelli dichiarati sia quelli non dichiarati, ma reali.
Scopriamo così un mondo di conquistatori e di sfruttatori mascherati da integerrimi benefattori.
Molti, se non tutti, iniziano ad avere dubbi sull’efficacia e sul ruolo delle ONG, sui costi, sulle continue richieste di firme e di aiuti in denaro che queste strutture, quotidianamente, richiedono ai cittadini tramite annunci, volantini e soprattutto via internet; una forma di elemosina a tutto campo, una S. Vincenzo universale di cui siamo vittime, non conosciamo l’utilizzo di queste donazioni che però ci fanno sentire con la coscienza a posto, ci danno la sensazione, in qualche modo, di dare un contributo per risolvere i problemi del mondo.
Possiamo dire che questo libro ci apre gli occhi sugli effetti nefasti che le ONG provocano nelle varie parti del mondo e sul loro spregiudicato modo di operare dall’Africa alla Birmania, ci parla del cinismo assoluto che distrugge intere popolazioni costringendole a una miseria, prima mai vista, con la distruzione delle culture locali che le rende schiave, che le usa come cavie umane, obbligandole a sperimentare farmaci dannosi, spacciandoli per una insperata salvezza, mettendole in condizioni di emigrare per giungere in Europa con un sogno che non si realizzerà, ma diverrà un doloroso incubo.
E’ un libro che smitizza falsi miti e finte buone azioni con gli aiuti internazionali, non richiesti, che giovano solamente alle grandi multinazionali, aumentandone a dismisura i guadagni.”
Fulvio Grimaldi intervista alcuni esponenti dell’opposizione al governo Tsipras in Grecia.
F.G. Cos’è il Plan B? Alekos Alavanos (economista, psicoterapeuta, già presidente di Synaspismos e poi capogruppo di Syriza, oggi segretario della formazione “Plan B”, staccatasi da Syriza dopo il referendum consultivo del luglio 2015) E’ un’idea alternativa per una politica totalmente diversa rispetto a quelle dettateci da Bruxelles, Francoforte e Berlino e che hanno distrutto la società e l’economia della Grecia. Non siamo io e altri compagni che abbiamo cambiato idea, è stata Syriza a cambiare totalmente. La rottura avviene nel 2011 quando Syriza sostiene che non era possibile avere una linea autonoma nel quadro dell’eurozona e dell’UE.
F.G. Che Grecia sarebbe quella del Piano B? A.A. Nessuno può pensare che ogni cosa possa essere fatta senza correre rischi, trappole, difficoltà. Proponiamo una cosa molto semplice: le politiche che la maggioranza dei Paesi evoluti ha attuato dopo una prolungata recessione. Significa liquidità, domanda, salari e pensioni in grado di far girare la ruota. Significa un ruolo diverso dello Stato, creativo e dinamico, una politica di bilancio opposta a quella dell’UE.
F.G. Pensi che ci possa essere vita fuori dall’UE? A.A. Certamente c’è vita fuori dall’Europa. Ma non c’è alcuna Europa, non è Europa. Per oltre vent’anni sono stato un membro del Parlamento europeo, amo l’Europa, tengo al confronto con gli altri Paesi, le altre forze politiche. Abbiamo bisogno di cooperazione in Europa. Ma deve essere una cooperazione basata sulla solidarietà, sul mutuo beneficio, sul rispetto. Se vuoi essere filo-Europa devi essere contro l’UE e la sua valuta. Siamo all’ennesimo memorandum: ancora tagli, riduzione delle pensioni, più tasse, meno esenzioni. Tutto questo mentre già stiamo in una gravissima depressione.
F.G. Il popolo greco aveva deciso diversamente… A.A. Il venerdì, prima del referendum della domenica in cui vinse il no alla Troika, vidi la Merkel in tv che diceva che se i Greci avessero votato no, il lunedì non sarebbero più stati membri dell’UE e dell’euro. Ci minacciò. Usano campagne terroristiche, ora anche in Italia, di fronte alla rivolta della gente. I Greci non si fecero intimidire: oltre il 60% votarono no. Poi furono traditi, ingannati. Se io voto no e il governo il giorno dopo dice sì, ciò che si perde sono l’autostima, la fiducia, la prospettiva, la dignità morale.
F.G. E adesso? A.A. Credo che ci siano dei buoni segni, che non ci vorrà molto prima che il popolo greco si svegli e riprenda in mano il fucile, il fucile della politica.
F.G. Anche noi abbiamo vinto un referendum contro i desideri della Troika. Credi che l’UE abbia per l’Italia un progetto come quello imposto a voi? A.A. Spero che i poteri sistemici in Italia non si comportino come i nostri e le sinistre come le nostre sinistre. In effetti l’Italia è un boccone grosso. Ma potrebbe anche essere la leva per cambiare l’intera Unione. Le recenti elezioni, chiunque governi ora, hanno espresso una chiara volontà della maggioranza contro quanto all’Italia viene imposto. L’Europa non può sopravvivere nella forma e con i contenuti di adesso. Brexit è la soluzione. Spero che i popoli italiano e greco ritrovino la propria autostima e lottino, insieme ai Francesi, ai Tedeschi, a tutti, per un’Europa diversa, senza la BCE, senza questa valuta tossica. Un’Europa della libertà, creatività e della capacità sovrana dei popoli di autogovernarsi.
F.G. Vedi un filo che corre dalla vostra guerra contro i nazifascisti, alla guerra civile, a quella partigiana contro i britannici, alla dittatura NATO di Papadopulos, fino alla Troika? A.A. C’è un filo, un filo assai pericoloso. E’ il filo della dipendenza, della subordinazione, militare, politica, anche psichica. La Grecia, inizio e simbolo della nazione che resiste, fin dall’800, è un simbolo increscioso, intollerabile. Dobbiamo farla finita. Non siamo agli inizi dell’800, quando qui comandavano i sultani. Sai, non c’è più sovranità nazionale. Una sovranità che non sarebbe in contraddizione con la collaborazione internazionale. Anzi. C’è sovranità nazionale quando il popolo si autogoverna e quando la cooperazione internazionale rispetta e favorisce una sovranità nazionale democratica. Il frutto è sull’albero. Lasciamolo maturare. Arriverà sulle nostre tavole.
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F.G. Sembra che in Grecia rinasca una resistenza. Panagiotis Lafazanis (segretario di “Unità Popolare”, già dirigente del partito comunista greco KKE e ministro nel primo governo Tsipras) Per la prima volta dopo molto tempo si sono viste manifestazioni popolari di massa davanti al parlamento e in molte città contro la Troika, l’alleanza con Israele di un paese da sempre vicino ai palestinesi, la cessione del nome Macedonia (“Macedonia del Nord”), nome greco di terra greca, al vicino slavo. E si è vista la brutalità della repressione di un governo che si dice di sinistra, per quanto alleato all’estrema destra. Pensiamo che il movimento risponderà e si rafforzerà, in vista anche di una data molto importante, quella del referendum vittorioso contro l’austerità e la Troika, il 5 luglio.
F.G. Come siete messi, dopo l’ennesimo memorandum? P.L. La condizione della società greca è catastrofica, una situazione in cui non ci si vuol far vedere nessun futuro. Il 34,6% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, 3.796.000 persone su 10 milioni. E il debito che dovremmo pagare con questo strangolamento continua a crescere. E’ ancora forte la sensazione che tutto è perduto. Ma c’è anche l’altra faccia della luna: resta un potenziale sociale in grado di riprendere in mano la situazione e reagire. Insomma, c’è un corpo sociale che si convince di essere fottuto e un altro che è deciso a uscire dal vicolo cieco impostoci da Tsipras.
F.G. Basteranno le sole forze greche, o ci vorrà il concorso di altri Paesi? P.L. In effetti, perché il popolo greco possa liberarsi, gli occorre il concorso di altri popoli europei, in prima linea di quello italiano. Però a noi tocca l’impegno di non aspettare che si muova un popolo vicino. Dovremo comunque essere i primi a rompere le sbarre del carcere tedesco. Forse saremmo l’ispirazione per altri, fino all’affondamento di tutta l’eurozona, come di questa Unione Europea.
F.G. Qual è il progetto strategico dei vostri nemici? P.L. Per la Grecia è la distruzione del Paese, non c’è dubbio. Per l’Europa si tratta di una nuova feudalizzazione che elimini i soggetti nazionali in modo da riunire sotto il controllo dell’oligarchia tutte le ricchezze dei singoli Paesi. Per noi del Sud si tratta dell’applicazione di classici criteri colonialisti. Sono questi i caposaldi del progetto europeo. Sono caposaldi razzisti, ma a dispetto del suo razzismo, l’Europa sta conoscendo l’inserimento massiccio nel suo seno di altre popolazioni spodestate e sradicate e chi nutre dubbi sull’onestà del fenomeno, che non nasconda qualcosa di letale, viene accusato di xenofobia.
F.G. Potrebbe trattarsi di una strategia dei globalisti finalizzata a svuotare delle proprie generazioni giovani il Sud del mondo, ricco di risorse appetite dall’imperialismo? P.L. Evidentemente. Ma si noti che i Paesi costretti a ricevere queste masse di migranti sono la Grecia e l’Italia. Non è un caso. E si prevede che queste masse aumenteranno man mano che l’Africa viene impoverita e si diffondono altre guerre. Non per nulla gli USA e la NATO hanno intensificato in questi giorni i bombardamenti su Iraq e Siria, mentre si accentua la militarizzazione dell’Africa. Di questi sviluppi Grecia e Italia sono le grandi vittime.
F.G. Siamo tutti figli della civiltà greca. E’ per questo che la Grecia deve essere punita? P.L. E’ da qualche secolo che ci si vendica della nostra civiltà. Poi, per le élite euro-atlantiche punire la Grecia alla vista di tutti gli altri ha lo scopo di fornire un esempio. Se voi non accettate incondizionatamente l’impero, sarete puniti come i Greci. Ma potrebbe anche succedere che la Grecia si riveli il tallone d’Achille di questo progetto.
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F.G. Anche qui per certe finte sinistre del neoliberismo globalista la parola sovranità è diventata reazionaria e sovranismo sinonimo di destra? Grigoriou Panagiotis (antropologo, sociologo, economista, giornalista, autore di Asimmetrie sulla vicenda UE-Grecia) Posso solo dirti che il governo Tsipras ha ceduto controllo e sovranità del Paese, compresi i beni pubblici, ai creditori, titolari di un debito sistematicamente creato da dominanti esterni e complici interni. E questo per 99 anni. Si è perso il 40% dell’industria, il 40% del commercio, il 30% del turismo, tutti i porti, tutti gli aeroporti. Il 30% dei greci sono esclusi dalla sanità pubblica e al 30% è anche la disoccupazione reale. Per un po’ si è ricevuta un’indennità di 450 euro, poi più niente. Tutto questo si chiama effetto Europa, effetto euro. L’ingresso della Grecia nell’UE e nell’euro ha comportato il progressivo smantellamento della nostra economia produttrice. Importiamo addirittura gran parte dei nostri viveri. E’ una condizione di totale dipendenza. Non c’è patria, non c’è autodeterminazione e, ora con il vicino slavo titolato “Macedonia del Nord”, non ci sono più neppure gli spazi e confini della nazione greca. Un processo che interessava a UE e NATO che ora possono incorporare anche Skopje.
F.G. Come e più dell’Italia questo massacro sociale ed economico è stata aggravato dall’afflusso di decine di migliaia di migranti da Siria e altri Paesi. G.P. Un gravame terribile, insostenibile e sicuramente non innocente da parte della Turchia e di coloro che hanno messo queste persone in condizione di dover fuggire. E’ sconcertante come a questi profughi sia garantita, giustamente, un minimo di copertura sociale, mentre a milioni di Greci è stata tolta. Le ONG straniere sollecitano l’immigrazione, per esempio affittando abitazioni a basso prezzo e riempiendole di migranti, cui pagano anche elettricità, gas e acqua. Migliaia di Greci rimangono senza casa e senza niente.
F.G. Stavo filmando un gruppo di persone dell’OIM (Organizzazione Internazionale Migranti), un organismo a metà tra ONU e privati. Non gradivano essere ripresi. Poi mi è piombato addosso un arcigno poliziotto che mi ha intimato di cancellare quelle riprese, se no mi avrebbe addirittura arrestato. Cosa significa tutto questo? G.P. Non appena si affrontano queste cose si viene accusati di razzismo. Qui abbiamo una strategia contro certi Paesi del Sud. Da un lato la gente viene indotta a lasciare casa sua dalla violenza o dalla miseria importate a forza; dall’altro, chi li riceve non deve sentirsi più padrone a casa sua. Tanto meno, in quanto forze ed enti esterni assumono il controllo della tua economia nazionale. E qui, a difenderla, sei tacciato di nazionalismo. I Greci pensano a ragione di aver perduto la loro sovranità. E’ come essere sotto occupazione. Di nuovo un’occupazione tedesca. Pensa che in tutti i settori dello Stato ci sono dei controllori della Troika! Ricevono i ministri all’Hotel Hilton. Della Costituzione non c’è più traccia e neppure i diritti fondamentali del lavoro sanciti dall’UE sono rispettati.
F.G. Perché si impedisce di filmare migranti e chi se ne occupa? Cosa si vuole nascondere? G.P. Il fatto è che altri decidono sulle sorti del tuo Paese e che devi fare o non fare quello che vogliono loro. Sempre di più la vicenda dei migranti, come in Italia, diventa un segreto. Un segreto delle ONG e dei loro finanziamenti occulti o, comunque, finalizzati a fargli assumere un ruolo che non è il loro e che sottrae prerogative allo Stato nazionale, uno Stato che non è più padrone delle proprie frontiere, del proprio territorio, delle persone che vuole o può accogliere. Tutte queste decisioni sono prese altrove, con le ONG che gestiscono un fenomeno, in effetti nella piena illegalità, dato che non esiste un quadro giuridico entro il quale farle agire. A cosa ti fa pensare un Paese mandato in default dall’Europa e a cui l’Europa, Dublino, impongono di ricevere e tenersi decine di migliaia di migranti che ne sono la rovina definitiva? Dobbiamo integrare chi non lo vorrebbe quando dalla nostra comunità nazionale, costituzionale, espelliamo tre quarti dei Greci? A cosa ti fa pensare un Paese mandato in default dall’Europa e a cui l’Europa, Dublino, impongono di ricevere e tenersi decine di migliaia di migranti che ne sono la rovina definitiva?
La località svizzera di Chateaux-d’Oex è nota per le sue mongolfiere. La località svizzera di Davos è conosciuta per l’aria fritta. O almeno per una settimana all’anno, quando alcuni dei più grandi chiacchieroni del mondo si incontrano per discutere di questioni “significative”.
Quest’anno, la cosa interessante e di tendenza circa la quale esprimere preoccupazione per il World Economic Forum è (stata) la “disuguaglianza”. Ok, yes? Tutti sembravano d’accordo sul fatto che bisognava fare qualcosa per restringere lo “sconcertante” divario tra ricchi e poveri – per ripetere la frase usata dal Primo Ministro liberale hipster canadese Justin Trudeau, l’uomo con quei graziosi calzini gialli e viola.
Il presidente francese Emmanuel Macron, che ci è stato detto essere stato salutato come una “rockstar”, ha dichiarato: “Nel processo globale, il capitalismo è diventato un capitalismo di superstar, la diffusione del valore (a quelli più in basso della scala) non è più equa.”
Ma le soluzioni che avrebbero effettivamente ridotto la disuguaglianza erano meno imminenti. Mi ha ricordato le espressioni annuali di “preoccupazione” quando gli aumenti delle tariffe dei treni al di sopra dell’inflazione sono annunciati in Gran Bretagna, il Paese con le tariffe più alte in Europa. I politici che sostengono il governo dicono che “questo è deludente” – e indovinate un po’ – l’anno prossimo le tariffe saliranno di nuovo. Nessuno vuole essere citato per dire che sono favorevoli al fatto che l’82% della ricchezza è goduto dall’1% più ricco, ma allo stesso tempo non sono disposti a prendere i provvedimenti che renderebbero ciò impossibile.
Questo l’estratto dal discorso del Primo Ministro britannico Theresa May: “Dobbiamo fare di più per aiutare la nostra gente nella mutevole economia globale, per ricostruire la loro fiducia nella tecnologia come motore del progresso e garantire che nessuno rimanga indietro mentre facciamo il prossimo salto in avanti… Dobbiamo ricordare che i rischi e le sfide che affrontiamo non superano le opportunità. E nel cercare di aggiornare le regole per affrontare le sfide di oggi, non dobbiamo perdere quelle di domani”.
Qualcuno sa capire di cosa stesse effettivamente parlando la May? C’era verbosità in abbondanza nel suo discorso, ma soluzioni pratiche?
È la cosa più facile del mondo affermare che “dobbiamo fare in modo che nessuno resti indietro mentre facciamo il prossimo salto in avanti”, ma farlo è tutta un’altra cosa.
In un certo senso, Davos ci fa rimpiangere i tosti thatcheriani del passato che, almeno, erano onesti riguardo a ciò che speravano di ottenere. Ora abbiamo dei thatcheriani mascherati da “centristi” sdolcinati in una stazione alpina del jet set dove il costo di un hamburger in piatto ha raggiunto i 59 dollari americani e una camera d’albergo oltre i 500 dollari a notte – e ciò non sembra giusto. Continua a leggere →
Il mondo è minacciato da Russia, Cina, Iran, Corea del Nord – e oh sì, lo Stato Islamico – e la sua unica speranza è l’America, sostenuta da alleati fedeli di tutto il mondo. Questa è la visione dipinta dal capo del Pentagono, con il presidente Hillary Clinton in mente.
Il Segretario alla Difesa USA Ashton “Ash” Carter ha delineato la sua visione delle sfide strategiche dell’America in una conferenza ospitata dal Center for New American Security (CNAS) lunedi [20 maggio – n.d.t.] a Washington, DC. Mentre il capo del Pentagono ha detto che sarebbe stato “estremamente attento a non rilasciare commenti sulle elezioni,” il contenuto della sua presentazione si è molto chiaramente allineato alla posizione oligarchica abbracciata dalla Clinton e minacciata dagli appelli di Donald Trump di mettere “l’America prima.”
Mentre Trump è stato critico del coinvolgimento degli Stati Uniti in tutto il mondo, Carter ha sostenuto che l’America è “il tutore della sicurezza globale” grazie alla sua “rete di lunga data di alleati e partner in ogni angolo del mondo”.
Il che non è esagerato. Allo stato attuale, gli Stati Uniti hanno 187.000 militari schierati in 140 Paesi, secondo il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito generale Mark Milley. Si noti, anche, che il Dipartimento della Difesa USA ha diviso il mondo in sei “comandi di combattimento”. Il Pentagono è così impegnato ad occupare il mondo che il governo degli Stati Uniti ha dovuto istituire un separato Dipartimento per la Sicurezza Nazionale dopo gli attacchi terroristici dell’11 Settembre. Continua a leggere →
“Dato il grande successo delle rivoluzioni colorate negli anni 2000 in diversi Paesi in Europa orientale o repubbliche ex-sovietiche, sono state identificate le missioni politiche di molte ONG (Organizzazioni Non Governative). Sotto il falso pretesto di esportare democrazia, diritti umani e libertà di espressione, tali organizzazioni, in sostanza delle GO (organizzazioni governative), seguono gli ordini degli strateghi della politica estera dei Paesi occidentali. In quest’ambito, il premio va sicuramente agli Stati Uniti per l’elevata potenza assoluta, difficile da eguagliare. In effetti, il Paese dello Zio Sam ha un’ampia gamma di organizzazioni politiche e di beneficenza specializzate nella destabilizzazione non violenta dei Paesi considerati “non-friendly” o “non-vassalli”. Tali organizzazioni hanno quadri politici prescelti, risorse materiali colossali e finanziamenti regolari. Agendo metodicamente, le tecniche utilizzate sono estremamente efficaci soprattutto contro Paesi autocratici o con gravi problemi socio-economici. Le agenzie d’esportazione della democrazia più note sono USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale), NED (National Endowment for Democracy), IRI (International Republican Institute), NDI (National Democratic Institute), Freedom House e OSI (Open Society Institute). Tranne l’ultima, tali organizzazioni sono finanziate dal governo degli Stati Uniti. L’OSI, nel frattempo, fa parte della Fondazione Soros, dal nome del fondatore George Soros, miliardario e illustre speculatore finanziario statunitense. Inutile dire che Soros e la sua fondazione collaborano con il dipartimento di Stato degli Stati Uniti per la “promozione della democrazia”. E la lista delle conquiste è eloquente: Serbia (2000), Georgia (2003), Ucraina (2004), Kirghizistan (2005) e Libano (2005). Nonostante certi gravi errori, Venezuela (2007) e Iran (2009), il successo è stato ancora una volta raggiunto con l’impropriamente denominata “primavera” araba (2011). Il coinvolgimento delle agenzie degli Stati Uniti nell’”esportare” la democrazia è stata chiaramente dimostrata nelle rivolte che hanno scosso i Paesi arabi “prioritari”, Tunisia ed Egitto, e quelli con una guerra civile ancora in corso, Libia, Siria e Yemen. L’efficienza relativa con cui furono destabilizzati e l’apparente spontaneità riflettono il ruolo di cavallo di Troia di tali “ONG”, sostenute da una rete di attivisti indigeni adeguatamente addestrati da enti specializzati.”
ONG: Organizzazione Non Grata di Ahmed Bensaada continua qui.
Kabul, 11 maggio – Centossettantadue organizzazioni non governative sono state sciolte in Afghanistan, molte delle quali per ”cattiva amministrazione”. Lo ha annunciato il Ministero dell’Economia di Kabul in un comunicato.
La speciale commissione di controllo, guidata dal ministro Abdul Hadi Arghandiwal, era stata istituita dal presidente Hamid Karzai per verificare l’attività di circa 1.500 organizzazioni di aiuti umanitari operanti nel Paese, come parte di un programma di lotta alla corruzione. Dall’invasione americana del 2001, decine di miliardi di dollari di aiuti sono stati destinati all’Afghanistan, ma gran parte dei fondi sono finiti in tasche private senza lasciare tracce.
(ASCA-AFP)
I sostenitori di Mousawi non sono semplicemente “quattro gatti”: sono quattro gatti ben finanziati e istruiti da chi tenta di utilizzarli per garantirsi un maggior controllo sulla politica interna del paese, nonché ottimamente sostenuti e pubblicizzati dall’intera stampa filoamericana internazionale. Solo uno scemo potrebbe pensare che una manifestazione di protesta possa tenersi nel centro di Teheran, contro le disposizioni del governo, in una congiuntura così delicata, senza essere appropriatamente sostenuta, favorita e logisticamente diretta da un apparato di potere di qualche rilevanza. Per gestire una simile manifestazione occorre garantire che i trasporti funzionino, che le comunicazioni siano efficaci, che i leader dell’adunata siano ben protetti e ciascuno al proprio posto, che i poliziotti entro certi limiti lascino fare e che la stampa internazionale assicuri una copertura tale da scongiurare un’azione di forza opportunamente drastica. In questo senso Repubblica, giornale-maggiordomo dei nostri colonizzatori, ha svolto un lavoro eccellente, riferendo senza esitazione dei “milioni di persone” in piazza a Teheran (immagino non si tratti di dati della questura), delle terribili e antidemocratiche manganellate buscate dai facinorosi (come se ci si potesse difendere dall’ingerenza di potenze straniere nella politica nazionale con le orazioni francescane) e supportando senza esitazione la tesi dei brogli elettorali basandosi sulla pura parola d’onore di Mousawi. Chi crede che le manifestazioni di protesta di questo tipo sorgano “spontaneamente” dall’anima del popolo ha urgente bisogno di darsi una ripassata alla fenomenologia delle “rivoluzioni colorate” dell’est europeo. Anche la mia scala dai molti pioli potrebbe essergli utile.
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Per capire ciò che sta succedendo a Teheran sarebbe sufficiente, ad un lettore appena smaliziato, ascoltare ciò che i padroni del mondo hanno da dire sugli avvenimenti in corso. La Casa Bianca ha appena espresso la sua “preoccupazione” sulla regolarità delle elezioni” (le irregolarità di casa loro sono evidentemente meno preoccupanti). E il dipartimento di Stato è “profondamente turbato” dalle notizie delle violenze seguite al voto. Il primo ministro inglese Gordon Brown ha detto che Teheran dovrà rispondere (a chi?) su “seri interrogativi” riguardo al voto. Anche un idiota capirebbe, a questo punto, per chi parteggiano questi marpioni. E si sa che nel loro modus operandi non esiste il parteggiare privo di sostegno finanziario e organizzativo.
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La nuova amministrazione di Barack Obama ha riavviato, in sostanza, la vecchia politica aggressiva dei neocon dell’amministrazione precedente; ha solo fatto ricorso al maquillage ‘ecologico’ e a dei termini e a un linguaggio ‘moderati’. In pratica, tutte le promesse avanzate in campagna elettorale: chiusura di Guantanamo, ritiro dall’Iraq, rientro della politica interventista unilaterale, abolizione delle pratiche utilizzate nella ‘Guerra al Terrore’ (tortura, omicidi mirati, bombardamenti indiscriminati, ecc.); rivisitazione del Patriot Act, ecc., sono rimaste lettera morta. Solo la promessa a un maggior impegno in Afghanistan/Pakistan, è stata mantenuta da parte di Obama.
I circoli che consigliano e guidano Obama, comprendono la famiglia Brzezinsky e la famiglia Clinton, concentrati sulla politica internazionale, nonché componenti decisive dell’amministrazione Bush jr., come Geithner e Gates, ai ministeri dell’economia e della difesa.
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Costretti dalla contingenza, gli USA devono mostrare ‘fermezza’ verso Tel Aviv, soprattutto ora che l’impegno del Pentagono si concentra sull’Heartland, ovvero Afghanistan/Pakistan, compito che riesce facile a Brzezinsky, da sempre poco innamorato della causa sionista e molto interessato a destabilizzare la Russia o, quanto meno, le regioni ad essa adiacenti. Quindi, le chiacchiere ecumeniche di Obama al Cairo, hanno solo un carattere strumentale, come favorire indirettamente le forze filo-occidentali, durante le elezioni in Libano; forze per le quali il discorso cairota ha avuto un effetto positivo.
Discorsi strumentali e insinuanti, come anche nel caso della videocassetta che Obama ha inviato al Popolo Iraniano, nello stesso stile attribuito a Osama bin Ladin. La ‘mano tesa’ di Obama era chiaramente un trucco; non solo una rozza forma d’influenzare l’esito elettorale iraniano, ma anche un messaggio di sostegno incondizionato alle forze antinazionali di Mussavi. Da ciò deriva il comportamento del candidato presidenziale iraniano ‘moderato’. Il suo atteggiamento e le sue azioni ricalcano quelle adottate dalle ‘forze arancioni’ in Jugoslavia e in Ucraina; il proclamarsi vincitore ad urne aperte, il minacciare il ricorso alla piazza se i risultati elettorali non rispecchiano le proprie ‘previsioni’ o i sondaggi prodotti dei soliti organismi ‘internazionali’, ‘no-profit’ e ‘imparziali’, ma tutti basati in territorio statunitense o britannico. Tutto ciò dimostra che quel che sta succedendo a Teheran è stato concordato e studiato; la borghesia iraniana è rimasta legata culturalmente ed ideologicamente agli Stati Uniti d’America; in fondo è stata Washington a plasmarla e a crescerla, ai tempi di Reza Pahlavi. Nessuna sorpresa che Mussavi e Karrubi riescano a mobilitare 100mila persone, cosa non difficile in una città di 12 milioni di abitanti. Chiaramente, la cricca ‘geopolitica’, quella dei ‘realisti’ alla Brzezinsky, Soros e Clinton, sta giocando sul ‘fascino’ e sull’effetto internazionale del marketing elettorale di Obama, spingendo l’acceleratore, prima che questo effetto di trascinamento pubblicitario svanisca. Perciò vediamo che i vecchi trucchi colorati vengono tirati fuori in ogni ambito e angolo del mondo in cui gli USA hanno interessi immediati. La Moldavia è stata la prima, con l’amministrazione Obama in sella a Washington, a subire tale aggressione ‘non violenta’ a base di teppisti, politicanti ‘democratoidi’ e sabotatori vari. E’ l’impiego delle ‘Quinte Colonne’, dettato dalla carenza di fondi e dalla mancanza di marines, impegnati nell’ostico fronte afgano.
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“L’Iran nel caos” secondo la testimonianza di un italiano
Col nome di Dio, mi trovo in Iran da un mese, ho seguito la campagna elettorale e il voto e leggendo queste righe, come altre in questi giorni (“Iran nel caos”…?!?…”la rivolta dell’Iran”…?!?) viene da ridere….quattro teppisti (sicuramente manovrati dall’interno dai filo-occidentali su istruzioni provenienti forse dall’esterno) che bruciano cassonetti, auto, bus, banche ecc in attesa che la polizia intervenga per poi lanciare i filmati e le foto sui media internazionali e gridare alla dittatura vengono presentati come l’avanguardia della “rivoluzione verde”…
Mentre milioni e milioni di iraniani lavorano tranquillamente, fanno pic nic come sempre e vanno avanti per la propria strada, alcuni indifferenti e altri sopresi da tanto clamore esterno, e sicuramente molti altri adirati per i danni subiti ai propri beni da questa marmaglia. Giuseppe Mahdi Aiello
A Venezia, un gruppo di attivisti dei centri sociali (i soliti smidollati che tra una canna e l’altra giocano a fare i rivoluzionari di professione) ha occupato per un’ora (dopodiché avranno ripreso la ricreazione a base di oppio e di hashish) il padiglione iraniano della Biennale d’arte di Venezia al fine di esprimere solidarietà al popolo iraniano.
I debosciati socialimbecilli dei centri sociali hanno voluto così contestare la “terribile violenza dispiegata dal ‘regime’ di Ahmadinejad nel reprimere le proteste di questi giorni”.
Le scimmie antropomorfe dell’esercito di liberazione metropolitano dei fancazzisti (SAELMF) si sono poi arrampicate sui balconi del palazzetto che ospita l’Iran, in campo San Samuele, e qui hanno sostituito l’insegna d’ingresso con un lenzuolo dove era scritto: ”Freedom for Iran now”.
Lo slogan, in inglese, la dice lunga sull’intelligenza di questi primati che utilizzano la lingua imperiale per esprimere il loro insensato e servile dissenso, così come la dice lunga sulla natura delle contestazioni che stanno avvenendo in Iran in questi giorni, laddove “folle oceaniche” di prezzolati contestatori scrivono sui loro cartelloni, in perfetto farsi: Where is my vote? Tutto ciò dovrebbe far aprire gli occhi sulla reale consistenza delle proteste in atto e sul sentimento patriottico che le anima. La stampa internazionale amplifica la portata dell’indignazione “popolare” iraniana, alimentando nella pubblica opinione di tutto il mondo l’idea dei brogli elettorali e della rete dei “cacicchi” di regime che avrebbero pilotato le elezioni a favore di Amadinejad. Eppure, l’atteggiamento di Moussavi, che ad urne ancora aperte aveva già proclamato la vittoria del suo partito e la differenza abissale di voti tra i due contendenti a spogli avvenuti (si parla di circa 10 milioni di voti di distacco, a favore del Presidente in carica), nonchè la preparazione con la quale i seguaci dell’opposizione si erano subito mossi (qualcuno li aveva istruiti a dovere?) avrebbe dovuto instillare, nelle persone di buon senso, per lo meno il germe del sospetto. Ma il buon senso è ormai una merce unica quanto rara e non alberga nemmeno più in quella sinistra estrema che, in altri tempi, era stata in grado di prendere posizioni meno supine all’imperialismo americano. Anche sul Manifesto, quotidiano pretenziosamente comunista, non si fa altro che dar voce, al pari di tutta la stampa capitalista filo-americana e filo-sionista, ai dissenzienti e fuoriusciti del regime, vagheggiando inoltre, con stolta eccitazione giornalistica, le enormi opportunità dischiuse da questa protesta popolare, la quale dovrebbe infine aprire delle brecce nel regime degli Ayatollah per l’avvio di una nuova fase di democratizzazione. Ma dire democratizzazione oggi significa esprimere ben altro concetto: quello di riallineamento alla prepotenza americana, a costo di una più pesante subordinazione dei popoli.
Nel 1979, quando ancora eravamo giovani e sognatori, in Iràn ebbe luogo una rivoluzione. Quando chiesi agli esperti cosa sarebbe successo, si divisero in due campi.
Il primo gruppo d’iranisti sosteneva che lo Scià ne sarebbe senz’altro uscito indenne: i disordini non erano altro che un evento ciclico agevolmente gestibile dalla sua polizia, ed il popolo iraniano sosteneva compatto il programma di modernizzazione promosso dalla monarchia. Questi esperti avevano maturato la loro previsione parlando con gli stessi funzionari e affaristi iraniani con cui colloquiavano da anni: potenti persiani cresciuti nell’opulenza sotto lo Scià e che parlavano inglese, dato che di frequente gl’iranisti non parlavano il farsi molto bene.
Il secondo gruppo d’esperti considerava lo Scià un tiranno oppressore, e attribuiva alla rivoluzione l’intento di liberalizzare il paese. Le loro fonti erano professionisti e accademici sostenitori dell’insurrezione: persiani che conoscevano le idee della guida suprema ayatollah Ruholla Khomeini, ma non credevano avesse molto seguito nel popolo. Pensavano che la rivoluzione avrebbe aumentato i diritti umani e la libertà. Gli esperti di questo gruppo parlavano il farsi ancor meno di quelli del primo.
Limitandosi alle informazioni che giungevano dagli oppositori anglofoni del regime, entrambi i gruppi d’iranisti avevano maturato una visione erronea degli esiti della rivoluzione: la rivoluzione iraniana, infatti, non era portata avanti dalla gente che parlava l’inglese. Era fatta dai mercanti dei bazar cittadini, dai contadini, dai chierici: persone che non parlavano agli Statunitensi, non conoscendone la lingua. Questa gente dubitava dei pregi della modernizzazione, e non era per niente certa di quelli del liberalismo; ma fin dalla nascita coltivava le virtù musulmane ed era convinta che lo Stato iraniano dovesse essere uno Stato islamico.
Europei e Statunitensi stanno male interpretando l’Iràn da 30 anni. Anche dopo la caduta dello Scià, è sopravvissuto il mito d’un movimento massiccio di popolo che guarderebbe alla liberalizzazione: un movimento che, se incoraggiato dall’Occidente, riuscirebbe alfine a formare una maggioranza e governare il paese. Noi definiamo questo punto di vista “liberalismo iPod”: l’idea che chiunque ascolti rock ‘n’ roll su un iPod, tenga un blog e sappia cosa significhi “Twitter” debba essere un entusiasta sostenitore del liberalismo occidentale. Ancor più significativo che questa corrente non sia riuscita a capire che i possessori di iPod sono una ristretta minoranza in Iràn – un paese povero, religioso e complessivamente soddisfatto degli esiti della rivoluzione di trent’anni fa.
Senza dubbio c’è gente che vorrebbe liberalizzare il regime iraniano. La si può trovare tra le classi professionali di Tehran così come tra gli studenti. Molti parlano inglese, cosa che li rende accessibili a giornalisti, diplomatici e agenti segreti di passaggio. Sono loro quelli che possono parlare agli occidentali; anzi, sono loro quelli che vogliono parlare agli occidentali. E questa gente dà agli occidentali una visione assolutamente distorta dell’Iràn. Possono dare l’impressione che una fantastica liberalizzazione sia a portata di mano. Finché non si capisce che gli anglofoni possessori di iPod, in Iràn, non sono esattamente la maggioranza.
Venerdì scorso il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad è stato rieletto coi due terzi del voto. I sostenitori dei suoi rivali, dentro e fuori dall’Iràn, sono rimasti basiti. Un sondaggio dava per vincitore l’ex primo ministro Mir Hossein Mousavi. Sarebbe ovviamente interessante meditare su come si possa condurre un sondaggio in un paese dove il telefono non è universalmente diffuso, e fare una chiamata, anche dopo aver trovato un telefono, resta una scommessa. Un sondaggio, perciò, raggiungerebbe probabilmente la gente dotata di telefono che abita a Tehran e nelle altre aree urbane. Probabile che tra questi Mousavi abbia vinto. Ma fuori da Tehran e dalla gente facile da contattare, i numeri sono cambiati parecchio.
Alcuni accusano ancora Ahmadinejad di brogli. È possibile che vi siano stati, ma è difficile capire come si possa rubare un’elezione con un margine tanto ampio. Farlo avrebbe richiesto il coinvolgimento d’un numero incredibile di persone, ed avrebbe rischiato di generare numeri palesemente in disaccordo coi sentimenti prevalenti in ciascuna circoscrizione. Brogli su ampia scala implicherebbero che Ahmadinejad abbia manipolato i numeri a Tehran senza alcun riguardo per il voto. Ma ha tanti potenti nemici che l’avrebbero subito rilevato e denunciato. Mousavi insiste ancora d’essere stato frodato, e dobbiamo rimanere aperti alla possibilità che sia così, per quando sia arduo immaginare il meccanismo attraverso cui ciò sarebbe accaduto.
(…)
Forse il principale fattore della popolarità di Ahmadinejad è che Mousavi ha parlato per i distretti-bene di Tehran – un po’ come correre per le presidenziali statunitensi facendosi portavoce di Georgetown e del Lower East Side. Questa cosa ti segna, e Mousavi ne è uscito segnato. Brogli o no, Ahmadinejad a vinto e pure di tanto. Che abbia vinto non è un mistero; il mistero è come gli altri potessero pensare che non avrebbe vinto.
Questo non ha bisogno di presentazioni [dedicato ad Alessandro]:
Lo schema è più o meno il seguente:
1) Prima di tutto si ricercano contrasti politici interni al paese da destabilizzare su cui far leva per scatenare la guerra civile. In questo caso gli antichi contrasti fra Rafsanjani e Khamenei – l’uno sostenitore di Mousawi, l’altro di Ahmadinejad – capitavano a fagiolo. Ahmadinejad è un leader particolarmente sgradito a una parte del regime degli ayatollah, avendo spesso denunciato la corruzione dei suoi esponenti (particolarmente di quelli che fanno capo a Rafsanjani) guadagnandosi in questo modo un forte sostegno popolare.
2) Si organizza all’interno del paese o nelle sue vicinanze una rete di istituzioni fittizie (solitamente ONG), finanziate dall’esterno, che apparentemente perseguono nobili fini democratici, ma che mirano in realtà a fornire fondi e organizzazione agli elementi politici in grado di destabilizzare il potere in carica; in questo caso, come era già avvenuto in Georgia e Ucraina, un ruolo di primo piano è stato giocato dall’organizzazione nota come NED (National Endowement for Democracy) guidata dal neoconservatore americano Kenneth Timmerman (ci torniamo più avanti).
3) Infine, il momento di passare all’azione è quello delle elezioni. Il candidato sostenuto dalla CIA quasi sempre perde rovinosamente, visto che il popolo non è del tutto fesso. A questo punto scatta la denuncia di brogli. Il candidato della CIA dichiara, con qualche ora di anticipo rispetto alla chiusura dei seggi, di aver vinto le elezioni, pur sapendo benissimo di star dicendo una baggianata sesquipedale. E’ un tipico espediente della CIA per screditare in anticipo il risultato di segno opposto. Una volta compiuta tale affermazione, il lasso di tempo che intercorre tra la dichiarazione di vittoria preventiva e l’arrivo delle prime proiezioni dei risultati verrà visto come un tentativo delle autorità di manipolare il voto. E’ un trucco vecchissimo, ma il popolino (soprattutto se lavorato ideologicamente a dovere dai propri leader del cuore eterodiretti) ci casca sempre.
4) Si supporta tutto il caos così creato con una massiccia campagna propagandistica gestita dai media internazionali. Nella campagna mediatica i manifestanti che sfasciano vetrine e danno fuoco alle automobili vengono presentati immancabilmente come “in lotta per la democrazia”, anche se ciò che in realtà stanno facendo, consapevolmente o inconsapevolmente, è lavorare per l’asservimento del proprio paese ad una potenza straniera. Si dà abbondante risalto alle “vittime della repressione del regime”, a volte vere, a volte inventate, sempre esagerate e insignite dello status di martiri. Particolarmente schifosa l’ipocrisia dei media italiani, che dedicarono chilometri di esorcismi ai “black bloc” del G8 di Genova e ora inneggiano alle violenze dei manifestanti mascherati di Teheran come ad eroiche gesta di arcangeli della pace e della giustizia.
Veniamo a Kenneth Timmerman e alla sua NED (National Endowement for Democracy, cioè Sostegno Nazionale alla Democrazia), creata dai servizi segreti come intermediario e strumento di copertura per i fondi destinati alla destabilizzazione di una nazione. Timmerman è uno che la sa lunga. Come fa notare Daniel McAdams in questo articolo, egli aveva dichiarato, il giorno prima delle elezioni in Iran: “Gira voce che ci sarà una rivoluzione verde a Teheran”. Il fatto che Timmerman sapesse della “rivoluzione verde” prima ancora dello svolgimento delle elezioni basterebbe da solo a dimostrare il coinvolgimento americano nei disordini di Teheran. Ma lasciamo che sia lo stesso Timmerman, con sconcertante sincerità, ad esporre quali siano i reali obiettivi della sua NED (cito le sue dichiarazioni tratte dall’articolo di McAdams):
“La National Endowement for Democracy ha speso milioni di dollari nell’ultimo decennio per promuovere “rivoluzioni colorate” in paesi come Ucraina e Serbia, addestrando gli operatori della politica nell’utilizzo di moderne tecniche organizzative e di comunicazione.
Parte di quel denaro sembra essere arrivato [ovviamente andando a zonzo per conto suo, NdT] nelle mani dei gruppi pro-Mousawi, che hanno legami con organizzazioni non governative esterne all’Iran che sono a loro volta finanziate dalla National Endowement for Democracy”.
Per capire come si è arrivati ad attribuire questi fondi alle Ong finanziate dalla NED si può continuare a leggere qui.
[grassetti nostri]
Spingendosi più oltre, i servizi segreti anglosassoni e israeliani hanno sviluppato metodi di guerra psicologica basati sull’utilizzo estensivo dei cellulari. Nel luglio 2008, dopo lo scambio di prigionieri e cadaveri tra Israele e Hezbollah, i robot hanno inviato decine di migliaia di chiamate ai cellulari libanesi. Una voce in arabo avvertiva di non partecipare in alcun modo alla resistenza e denigrava Hezbollah. Il ministro libanese delle Telecomunicazioni Jibran Bassil, ha presentato una denuncia all’ONU contro questa flagrante violazione della sovranità del Paese.
Sulla stessa linea, decine di migliaia di libanesi e siriani ricevettero una chiamata automatica, nell’ottobre 2008, che offriva 10 milioni di dollari per qualsiasi informazione che permettesse di localizzare e liberare i soldati israeliani prigionieri. Le persone interessate a collaborare dovevano rivolgersi a un numero nel Regno Unito.
Questo metodo viene ora utilizzato in Iran per intossicare la popolazione con la diffusione di notizie allarmistiche e per canalizzare il malcontento che suscitano.
In primo luogo è stata diffusa via SMS durante la notte dello scrutinio la notizia che il Consiglio dei Guardiani della Costituzione (equivalente al Tribunale Costituzionale) aveva informato Mir Hossein Moussavi della sua vittoria. Così l’annuncio, diverse ore dopo, dei risultati ufficiali -la rielezione di Mahmud Ahmadinejad con il 65% dei voti- apparve come un’enorme frode. Tuttavia, tre giorni prima, Moussavi e i suoi amici consideravano sicura la netta vittoria di Ahmadinejad e si sforzavano di spiegarla con gli squilibri nella campagna elettorale. Così l’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani articolava le sue lamentele in una lettera aperta. Gli istituti statunitensi di sondaggi in Iran pronosticavano un vantaggio di Ahmadinejad di 20 punti su Moussavi. In nessun momento è parsa possibile la vittoria di Moussavi, anche se è probabile che i brogli abbiano accentuato il margine tre i due candidati.
Successivamente sono stati selezionati dei cittadini tra quelli che si sono fatti conoscere in Internet per conversare su Facebook o tra gli abbonati alle linee di informazione Twitter. Quindi hanno ricevuto, sempre tramite SMS, le informazioni -vere o false- sull’evoluzione della crisi politica e sulle manifestazioni in corso. Si trattava di messaggi anonimi che diffondevano notizie di sparatorie e di numerosi morti; notizie che ad oggi non hanno avuto conferma. Per una sfortunata coincidenza di calendario, l’impresa Twitter ha dovuto sospendere il servizio per una notte, il tempo necessario per la manutenzione delle sue installazioni. Ma il Dipartimento di Stato USA è intervenuto per obbligarla a sospendere questa operazione. Secondo il New York Times, queste azioni hanno contribuito a seminare la sfiducia nella popolazione.
Simultaneamente, con un nuovo sforzo, la CIA ha mobilitato i militanti anti iraniani negli Stati Uniti e nel Regno Unito per aumentare il disordine. E’ stata distribuita una Guida pratica della rivoluzione in Iran, che comprende vari consigli pratici tra i quali:
impostare gli account Twitter sul fuso orario di Teheran.
Centralizzare i messaggi sugli account Twitter@stopAhmadi, iranelection e gr88.
Non attaccare i siti internet ufficiali dello Stato iraniano. «Lasciate fare all’esercito» USA per questo (sic).
Una volta attuati, questi consigli impediscono qualsiasi autentificazione dei messaggi Twitter. Non si può più sapere se li inviano testimoni delle manifestazioni a Teheran o agenti della CIA da Langley, e non si può distinguere il vero dal falso. L’obiettivo è quello di creare ancora più confusione e spingere gli iraniani a combattersi tra loro.
Gli stati maggiori di tutto il mondo seguono con attenzione gli avvenimenti a Teheran. Tutti cercano di valutare l’efficacia di questo nuovo metodo di sovversione nel laboratorio iraniano. E’ ovvio che il processo di destabilizzazione ha funzionato. Ma non è sicuro che la CIA possa canalizzare i manifestanti perché essi stessi facciano quello che ha rinunciato a fare il Pentagono se non desiderano farlo: cambiare il regime, chiudere con la rivoluzione islamica.
Washington, 22 giugno – Se il movimento popolare che sta protestando in questi giorni in Iran verrà sconfitto esistono seri rischi di una guerra nucleare in Medio Oriente. E’ l’allarme lanciato dal figlio dell’ultimo shah dell’Iran, Reza Pahlavi, attualmente in esilio. ”La loro sconfitta incoraggerebbe l’estremismo da oriente a occidente”, ha detto nel corso di una affollata conferenza stampa a Washington. ”L’ipotesi peggiore è che questi fanatici tiranni, una volta capito che per loro non c’è futuro, diano vita ad un olocausto nucleare”. Pahlavi, che lasciò l’Iran un anno prima della Rivoluzione Islamica del 1979 che rovesciò suo padre, ha esortato i media occidentali a continuare a diffondere le informazioni ”che provengono da diverse parti del movimento per la libertà in Iran”.
(ASCA-AFP)
Ci perdoni, sua Maestà, ma da che pulpito!
Quando lei parla di “fanatici tiranni”, a noi viene subito in mente il suo caro babbo.
E poi, per scatenare “l’olocausto nucleare”, gli iraniani a chi rubano le atomiche, ad Israele?
Bene: mi assumo la responsabilità di ciò che dico e se arriveranno delle smentite sono pronto a prenderne atto, ma mi sembra proprio che il video della “morte di Neda”, che ha fatto il giro del web e ha creato l’ennesimo simbolo di “eroismo democratico” ad uso e consumo dei telepecoroni internazionali sia un falso, anche piuttosto pacchiano, fabbricato dagli stessi registi che ci hanno offerto gli spettacoli citati più sopra. E ancora una volta il film ha avuto grande successo, almeno a giudicare dalle reazioni isteriche dei benpensanti indignati che hanno saturato la rete. Ci tengo a precisare che l’autenticità o meno del video non cambia di una virgola la mia opinione sull’indegnità di Mousawi e sullo schifo che provo per i suoi sostenitori, branco di venduti e decerebrati che stanno consegnando il proprio paese al colonialismo statunitense. Stroncare una protesta finanziata e gestita da potenze straniere e nemiche, anche a costo di provocare qualche vittima, sarebbe un atto doveroso di autodifesa nazionale. Se una protesta simile fosse scoppiata negli Stati Uniti, sarebbe stata stroncata a colpi di mitraglia – dopo poche ore, non dopo una settimana – dalla Guardia Nazionale e nessun giornale occidentale ci avrebbe trovato nulla da ridire. Israele, pochi mesi fa, ha trucidato circa 1.500 palestinesi con lanci di missili e di fosforo bianco e non ho visto sui media nazionali neanche un miliardesimo dell’indignazione sollevatasi per il (presunto) decesso di una manifestante filoamericana. E non parliamo dell’Iraq, dove gli americani hanno sterminato milioni di persone, riducendo il paese a un deserto: i morti ammazzati diventano “eroi” solo quando vengono fatti fuori dai loro stessi governi per difendersi dalle ingerenze americane. Se li ammazzano direttamente i marines, i democraticissimi media occidentali si dedicano anima e corpo ai flirt di Jennifer Lopez.
Fatta questa lunga premessa, spiego i motivi che mi spingono a ritenere che il video della “morte di Neda” sia una bufala, fabbricata pure coi piedi, il che è marchio distintivo di questo tipo di operazioni. Non c’è bisogno di sforzarsi troppo per prendere per il culo i teledipendenti occidentali, poiché essi sono convinti di sapere già tutto. E’ sufficiente fornir loro dei bias di conferma, anche dozzinalmente realizzati, a ciò che già alberga nelle loro teste. In ogni caso:
1) La mancanza di informazioni precise sulla manifestante defunta dovrebbe essere già, per il lettore attento, un segnale d’allarme. Il suo nome sarebbe Neda Agha Soltani, di cui circola su internet una foto (vedi sopra) che ben poco somiglia alla ragazza che si vede nel video. Secondo alcuni avrebbe 16 anni, secondo altri (wikipedia) sarebbe una studentessa di filosofia di 27 anni. Non sappiamo nulla della sua famiglia, non sappiamo se l’uomo con la maglietta a strisce bianche e blu che si vede vicino a lei nei video diffusi su internet sia davvero il padre, né quale sia il suo nome. Non possediamo commenti o interviste ai suoi amici, parenti o familiari. Di Carlo Giuliani conoscevamo, già poche ore dopo la sua morte in piazza Alimonda, nome, cognome, indirizzo, generalità dei genitori, vita privata e segno zodiacale. Su Neda abbiamo poche e contraddittorie informazioni, provenienti quasi esclusivamente dai social network come Facebook e Twitter.
2) Come fonte di notizie, Facebook e Twitter sono estremamente sospetti.
(…)
Sempre Twitter ha fatto sapere che “Neda è stata sepolta al cimitero Behest Zahra” e che “le autorità hanno vietato i funerali” (lieve contraddizione). Nessuno sembra aver assistito al funerale, né i parenti sembrano aver diffuso immagini delle esequie, il che contribuisce ad alimentare i dubbi.
3) Lo stesso nome “Neda” (“voce” in lingua farsi) sembra tradire una progettazione a scopo di propaganda. Oltretutto esso richiama, con inquietante omonimia, l’acronimo del National Endowment for Democracy (NED), l’organizzazione diretta dal neocon USA Kenneth Timmerman che ha finanziato e organizzato le rivolte pro-Mousawi.
4) Il video della “morte” è completamente decontestualizzato. Non si vedono punti di riferimento che permettano di capire in che luogo si svolge il dramma. Intorno alla scena si vedono alcuni signori che passeggiano tranquillamente, il che è curioso in presenza di una ragazza che, secondo le testimonianze, sarebbe appena stata colpita da un cecchino. Su Youtube c’è un altro video che mostra la ragazza in compagnia del signore dalla maglietta a strisce bianche e blu durante un corteo in via Karegar, ma nel video della “morte” l’ambientazione sembra del tutto diversa.
5) Nel video della “morte”, il signore con la maglietta a strisce grida alcune frasi (“Neda, resta con me! Non lasciarmi!”) che mi sembrano troppo hollywoodiane per essere autentiche (io non conosco il farsi, ma questa è la traduzione del sonoro che circola su internet).
6) E’ curioso che Youtube non abbia rimosso il video della morte di Neda, che è estremamente truculento e contrario alla policy del sito. Evidentemente Youtube è felice che tutti vedano quel video. Youtube è proprietà di Google, che è stato tra i principali sostenitori della campagna elettorale di Obama. Se l’amministrazione USA decide di rovesciare il governo dell’Iran, Google offre il proprio contributo alla disinformazione. Ormai non è più solo da TV e giornali che dobbiamo guardarci.
7) Ciò che ho elencato finora sono soltanto sospetti. Ma l’elemento che mi ha convinto della grossolana inautenticità del video è il seguente, ed è sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di osservare il filmato con un minimo di attenzione. All’inizio del video la ragazza sembra tenere nella mano sinistra una specie di fialetta, il cui contenuto (un liquido rosso che serve per l’effettaccio speciale) si versa poi sulla faccia, con gesto visibilissimo, durante la concitazione. Quando il videofonino che sta filmando la recita inquadra la “fialetta” ben visibile nella mano, la ragazza rivolge uno sguardo interrogativo all’operatore, come a chiedere: “Ma che fai, idiota, sveli il trucco?”. La sua mano si muove su e giù due volte, in corrispondenza della comparsa sul viso delle due prime strisce di “sangue”. Qui di seguito ci sono i fotogrammi a cui mi riferisco. Sono un po’ sfocati, ma visionando il video nella sua interezza la cosa risulta di lapalissiana evidenza.
Lo slogan con cui i seguaci di Mousawi stanno inondando la rete è: «Neda è morta con gli occhi aperti, facendo vergognare noi che viviamo con gli occhi chiusi». D’accordo per il vergognarvi, ma prima di abboccare a certe baggianate non potreste sforzarvi di aprirli un pochino quegli occhi?
Da N.E.D.A. (National Endowments for Democracy Associated), di Gianluca Freda.
[grassetti nostri]
La stragrande maggioranza degli iraniani ha votato per Ahmadinejad, poiché egli è un uomo modesto e devoto alla sua gente, si è preso cura dei poveri e ha tenuto l’Iran fuori dalle grinfie imperialiste. Il suo lavoro sul programma nucleare gode di vasta popolarità e nemmeno il suo sfidante sconfitto ha osato pronunciare una sola parola contro di esso. Ahmadinejad ha ricevuto forte sostegno in tutto il paese, perfino nel Nord-Ovest a maggioranza azera. E’ popolare anche nel resto del globo come simbolo della ribellione del Terzo Mondo, alla pari con Castro e Chavez. Mantiene buone relazioni con le confinanti Russia e Cina, oltre che con l’Iraq e l’Afghanistan occupati dagli USA. La visita lampo di Ahmadinejad alla conferenza dello SCO a Yekaterinenburg nel bel mezzo della rivolta ha dato prova delle sue qualità di uomo di Stato. Nel suo discorso, orgoglioso e acclamato, non ha mai fatto riferimento alla crisi in patria e ha ricevuto le congratulazioni dei suoi alleati, il presidente Medvedev e il presidente Hu Jintao, per la sua vittoria elettorale. Le sue coraggiose posizioni antisioniste lo hanno reso popolare ai vicini arabi dell’Iran, seppur con fastidio da parte dei governanti arabi locali. Nel 2006 le sue armi hanno salvato il Libano dall’essere divorato da Israele. A volte si spinge troppo oltre, ma d’altronde in quale altro modo potrebbe capire quanto lontano può spingersi?
Le accuse di brogli elettorali sono del tutto prive di fondamento, come ben spiegato dal nostro amico James Petras, mentre Thierry Meissan ha esposto le tecniche utilizzate per convincere gli iraniani di essere stati imbrogliati. Ma al di là delle accuse di “brogli”, c’è un’altra osservazione che è veritiera: le elite spesso non amano la democrazia e le decisioni a maggioranza. Chi è ricco, istruito e potente sente che la sua voce non dovrebbe avere lo stesso peso di quella di un comune lavoratore o contadino. Essi sono a favore di “un governo delle elite e di un voto la cui rilevanza per ciascun individuo sia determinata dalla sua posizione in quella stessa elite”, come era solito dire un personaggio di Ian Fleming, Henderson, investigatore australiano e ubriacone, amico di James Bond, in “Si vive solo due volte”.
Solitamente le elite trovano il modo di “manovrare” la democrazia, in modo che la gente normale debba necessariamente votare per un rappresentante dell’elite. E’ il sistema che vige dall’India agli Stati Uniti. Tuttavia in alcuni momenti critici questo sistema non funziona più. In questi casi le elite ignorano il voto della maggioranza ed agiscono in modo diretto. E’ quello che successe in Russia nel 1993, quando le nuove elite filo-occidentali non si trovarono d’accordo con la maggioranza rappresentata nel Parlamento e mandarono i carri armati a cannoneggiare il Parlamento stesso. Sulle sue rovine, essi instaurarono il nuovo sistema di governo diretto. E’ quello che successe a Belgrado, dove i serbi dovettero votare più e più volte finché non fosse confermato il candidato sostenuto dalle elite. Perciò, a livello psicologico, i sostenitori di Mousawi sentono di essere stati derubati del potere che gli spetta. Ma le elezioni in Iran non sono rare: costoro possono ancora aggiustare il tiro delle proprie aspirazioni, offrire maggior considerazione ai desideri della gente comune e attendere le prossime elezioni.
(…)
Gli iraniani hanno adesso l’importante compito di rammendare gli strappi e le sfilacciature provocate dalla campagna “colorata” dei sionisti. Dovrebbero ricordarsi che esistono tecniche molto avanzate di manipolazione psico-sociale che permettono ai malfattori di sfruttare i social network come Twitter per catturare e distruggere una società. I comuni cittadini iraniani che sono stati catturati da questa forma di controllo mentale sono innocenti come se fossero stati avvelenati. Il tempo di lanciare pietre è finito, ora è tempo di rimetterle insieme.
In questi giorni, a chi segue le notizie provenienti dall’Iran e cerca d’interpretare la portata degli eventi in corso, non sarà sfuggito il totale allineamento pro-“dimostranti” di tutte le opinioni ammesse dal sistema mediatico occidentale. Non solo quello “ufficiale” delle tv e dei giornali ad alta visibilità (garantita dal meccanismo delle rassegne stampa), ma anche di gran parte di quello per così dire “alternativo” dei siti e delle agenzie “pacifiste”. La voce unanime che accomuna tutti costoro è che le elezioni presidenziali iraniane sono state “falsate da brogli” e che gli iraniani vogliono “libertà e democrazia”. E tanto basterebbe per convincere un pubblico naturalmente distratto e non qualificato della bontà dei motivi per cui “gli iraniani” scendono in piazza per protestare contro “il regime”.
Tra tutti i motivi messi in giro dalla macchina disinformativa ci ha colpito in particolare quello di chi è giunto – in una sede considerata “autorevole”, gestita da “accademici” – a definire “resistenza” un’organizzazione come quella dei “Mujahidin del Popolo” resasi responsabile di una catena ininterrotta di attentati in tutto l’Iran (v. il famoso “terrorismo” contro cui tutti dovremmo unirci). Forse costoro credono sia giunto il loro momento di gloria? Ci si può documentare facilmente sulle imprese di questa organizzazione e la scia di sangue che sin dall’inizio della Rivoluzione del ’79 ha colpito la Repubblica Islamica dell’Iran. Purtroppo per gli sponsor di questi “resistenti”, accolti non molto tempo fa con grandi onori presso il Parlamento Europeo (!) dagli agenti che in quella sede ha il partito americano-sionista, la nuova “rivoluzione colorata” (di verde!) pare già abortita prima di condurre all’agognato abbattimento del “regime”. Non ce la possono fare dall’esterno, militarmente, sia perché impantanati in Iraq e Afghanistan, sia perché l’Iran è inattaccabile, iperprotetto ed armato com’è fino ai denti, quindi hanno scelto di giocare la carta della sovversione interna, resa difficilissima però dall’assenza in loco delle ONG delle “rivoluzioni colorate” e delle tv private.
La macchina della propaganda occidentale, come detto, va a tutto gas, sempre più patetica e dalla fervida immaginazione. Gli inviati-fotocopia che si dolevano di non poter più “informare” a causa della scadenza dei visti (hanno mai intervistato, questi “professionisti”, un sostenitore di Ahmadinejad?) si sono ridotti a smanettare su Facebook e su qualche altro arnese simile alla ricerca dell’ultimo “video-verità”.
(…)
Ma chiediamoci: perché tutta questa agitazione intorno all’Iran? Perché il risultato delle elezioni (alle quali ha partecipato l’85% degli aventi diritto, a differenza delle nostre elezioni, che ormai non entusiasmano più nessuno) dovrebbe essere “falsato”? Chi lo dice? Qualche istituto “indipendente”? E chi è che ha l’autorità per ficcare il naso in questo modo in casa d’altri? Noi lo sopporteremmo (in effetti lo facciamo, dal ’45 in poi, passando per i “casi” Mattei, Moro, “misteri d’Italia”, servizi cosiddetti “deviati” e “terrorismo rosso” e “stragismo nero”, Cermis, Mani Pulite, fino alle ultime uscite su “Papi&Noemi”, e la cosa non ci fa molto onore come “popolo italiano”). Insomma, qual è il “problema” con l’Iran? Quale “pericolo” rappresenta per noi? Parliamone, magari in un confronto tra “punti di vista” divergenti così come piace alla retorica “democratica”, così vediamo di chiarire una cosa che altrimenti rischia di non assumere connotati chiari (le manfrine sui “diritti umani” lasciamole perdere, perché chi ne fa uno strumento di pressione in giro per il mondo è il primo che dovrebbe starsene zitto).
La verità – oltre al dato geopolitico – è che non si vuol prendere atto da trent’anni che nel 1979 in Iran è avvenuto un evento di quelli che andrebbero studiati sui manuali di Storia, come l’89 della Rivoluzione francese o il ’17 della Rivoluzione bolscevica, che a torto o a ragione sono considerate delle date-simbolo. Questo rifiuto di accettare che anche i non europei possano scrivere pagine di “storia universale” è uno dei tanti segni della boria della cosiddetta “civiltà occidentale” e dei suoi rappresentanti. Una cosa è certa: dall’esito di questa situazione in Iran dipenderà molto di quel che resta di speranza, per noi italiani ed europei, di affrancarsi dalla presa del dominio occidentale.
Libera stampa e manifestanti pacifici
Teheran, 25 giugno – ‘Press tv’, canale pubblico iraniano, accusa oggi dalle pagine del suo sito web la ‘Cnn’, emittente americana, di riportare notizie false sull’Iran, “in linea con i tentativi dei media stranieri di mettere a repentaglio la stabilità della Repubblica Islamica”. La televisione iraniana punta il dito, in particolare, contro i “testimoni” citati dalla ‘Cnn’ durante gli scontri avvenuti ieri a piazza Baharestan, davanti alla sede del Parlamento di Teheran, che hanno riferito “di massacri” ad opera delle milizie paramilitari filo-governative.
(Adnkronos/Aki)
Teheran, 25 giugno – Venti persone, tra le quali otto volontari delle milizie Basij, sono stati uccisi durante gli scontri scoppiati a Teheran dopo le elezioni presidenziali del 12 giugno scorso. E’ l’ultimo bilancio fornito dalle autorità iraniane, secondo quanto riferisce il sito web dell’emittente televisiva iraniana ‘Press Tv’. “Tutti i membri dei Basij sono stati uccisi da colpi d’arma da fuoco e ciò dimostra che c’erano uomini armati a fomentare i disordini tra i manifestanti”, si legge sul sito web, che cita fonti ufficiali iraniane.
(Adnkronos/Aki)
Si presti attenzione al seguente passaggio di un articolo pubblicato sul quotidiano Il Foglio nel novembre di quattro anni fa.
“L’Amministrazione americana sponsorizza attualmente quattro nuovi programmi quotidiani dell’emittente “The Voice of America”, che secondo un recente sondaggio vengono visti (malgrado un divieto ampiamente evaso sulle antenne satellitari) da circa il 10% della popolazione iraniana. Questi programmi hanno recentemente mandato in onda alcune interviste a un leader studentesco e a un militante politico, che hanno criticato i religiosi iraniani per aver impedito a centinaia di candidati di presentarsi alle recenti elezioni presidenziali.”
«Hai fatto un grave errore a schierarti dalla parte dei manifestanti»: Mahmud Ahmadinejad tuona alla volta di Barack Obama, in coincidenza con le notizie che rimbalzano da Washington sulla scelta del Dipartimento di Stato di mettere a disposizione del dissenso fondi per almeno 20 milioni di dollari.
Il presidente iraniano ha attaccato frontalmente l’inquilino della Casa Bianca pronunciando un discorso a dipendenti del ministero della Giustizia. «Siamo molto sorpresi da Mister Obama – ha detto Ahmadinejad, ripreso in diretta dalla tv statale – non ci aveva forse detto che perseguiva un cambiamento? E allora perché ha scelto di interferire in Iran?». E ancora: «Gli americani continuano a dire che vogliono dialogare con l’Iran ma il metodo che hanno scelto non è quello corretto». Da qui l’affondo: «Schierarsi a sostegno dei manifestanti responsabili di gravi disordini e violenze è stato un grave errore».
Le parole di Ahmadinejad arrivano all’indomani della nuova condanna della repressione pronunciata da Obama ricevendo alla Casa Bianca la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma ciò che più potrebbe aver irritato Teheran è la decisione presa dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, di mettere a disposizione degli attivisti di opposizione fondi federali per 20 milioni di dollari. A darne l’annuncio sono le 31 pagine del bando denominato «Support for Civil Society and Rule of Law in Iran» (Sostegno per la società civile e lo Stato di diritto in Iran), che prevede l’assegnazione di «grants» da parte di UsAid, l’Agenzia per lo sviluppo internazionale del Dipartimento di Stato.
I finanziamenti andranno a chi presenterà progetti e programmi per «promuovere la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto in Iran» compilando gli appositi moduli disponibili sul sito http://www.grants.gov e inviandoli all’«Office of Acquisition and Assistance» della UsAid al numero 1300 di Pennsylvania Avenue. I «grant» potranno essere richiesti da singoli o gruppi di cittadini iraniani entro il 30 giugno e sarà poi l’UsAid ad esaminarli ed assegnarli, elargendo cifre da un minimo di 100 mila dollari ad un massimo di 3 milioni di dollari: somme apparentemente non ingenti ma che in Iran possono garantire ampi margine di azione.
Il bando suggerisce ai concorrenti alcuni «esempi» di programmi possibili: denuncia della corruzione, migliore organizzazione delle ong, uso dei nuovi media. Si tratta di una strategia di sostegno all’opposizione in Iran che venne inaugurata dall’amministrazione Bush e che ora Obama dimostra di voler continuare attraverso la «Near East Regional Democracy Initiative». «Parte dei fondi di questa iniziativa sono destinati ad aumentare l’accesso da parte degli iraniani alle informazioni e comunicazioni via Internet» spiega a «UsaToday» David Carle, portavoce della sottocommissione del Congresso che li ha autorizzati, lasciando intendere la volontà di rafforzare le potenzialità del popolo di twitter che nelle ultime settimane si è dimostrato molto attivo nel sostenere le proteste.
Per la Casa Bianca questa scelta non implica comunque «interferenze in Iran». Tommy Vietor, portavoce del presidente, lo dice così: «Gli Stati Uniti non finanziano alcun movimento o fazione politica in Iran, sosteniamo però i principi universali dei diritti umani, della libertà di parola e dello Stato di Diritto». Ian Kelly, portavoce di Hillary Clinton, aggiunge: «Rispettare la sovranità iraniana non significa restare in silenzio su questioni inerenti a diritti fondamentali di libertà, come il diritto a protestare pacificamente». Si tratta di un approccio che ricalca quello avuto dagli Stati Uniti con l’Urss dopo la Conferenza di Helsinki del 1975 quando la Realpolitik del dialogo bilaterale si coniugò al sostegno di singoli gruppi di attivisti per i diritti umani. La differenza rispetto al precedente programma di finanziamenti di Bush – il Segretario di Stato Condoleezza Rice stanziò 66 milioni di dollari per l’Iran nel 2006 – sta proprio nel fatto che allora i fondi andavano a gruppi politici organizzati mentre in questo caso l’assegnazione dei «grant» è a singoli cittadini. [grassetto nostro]
Veniamo da lontano…
Ieri in Jugoslavia (2000), oggi nella “rivoluzione verde” in Iran, passando attraverso le “colorate” rivoluzioni destabilizzatrici, tentate in Bielorussia, Ucraina, Georgia, Kirghizistan, Russia… puntualmente ricompaiono alcuni noti esponenti del movimento giovanile serbo, che fu finanziato e addestrato dalla CIA per rovesciare il governo di unità nazionale della RFJ.
Nel tentato colpo di stato di queste settimane in Iran, sponsorizzato e sostenuto dalla “intelligence” USA, conscia della non convenienza di un’aggressione armata aperta, per molteplici motivi, sia militari che geopolitici nell’area mediorientale, stanno pian piano venendo alla luce i “lati oscuri” della “spontanea” protesta popolare a Teheran. Per esempio che il “ Centro di documentazione dei diritti umani in Iran”, situato presso l’Università di Yale, è finanziato con milioni di dollari fin dal 2004, soldi stanziati dal governo USA e giustificati come: “…un piccolo programma di aiuto del governo americano destinato all’opposizione iraniana all’interno del Paese…”.
Nell’aprile 2005 a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, Washington ha patrocinato e organizzato dei corsi segreti nei quali “attivisti” iraniani pagati, venivano istruiti sul come fare per rendere vacillante la posizione di Ahmadinejad. Ed ecco che si scopre che uno degli “istruttori” che Washington portò a Dubai per insegnare ai giovani iraniani come destabilizzare il loro paese ed offrirlo all’occidente per “democratizzarlo”, non era altri che il venditore delle rivoluzioni colorate nel mondo, pianificate dal Dipartimento di Stato degli USA, l’attivista serbo e fondatore di Otpor, Ivan Marovic.
In una intervista pubblica lo stesso Marovic ha dichiarato: «…Il programma dei lavori è consistito nello spiegare le tecniche di mobilitazione della popolazione nella situazione in cui la paura fosse alta e ci fossero tensioni nella società, il che significa che si è nel bel mezzo di una crisi politica… Si è discusso su come superare quel tipo di crisi senza distruzioni di proprietà e perdita di vite umane. Queste sono strategie non violente di mobilitazione civica. Questo è un lavoro standard basato sugli esempi di Otpor, ossia la nostra lotta contro Slobodan Milosevic…»
Nel 2006 l’amministrazione Bush aveva chiesto 75 milioni di dollari al Congresso degli Stati Uniti per sostenere l’opposizione al governo iraniano. Con lo stesso schema operativo, usato da Otpor e ritentato nelle cosiddette “rivoluzioni colorate” seguenti, i contestatori iraniani hanno usato le elezioni come scusa, seguendo un copione infallibile preordinato, che prevede l’inizio delle denunce di probabili brogli prima del voto e poi, anche immediatamente prima della chiusura dei seggi, iniziando a manifestare massicciamente e tumultuosamente, reclamando che le elezioni non sono valide e che il popolo è stato ingannato; “Dove è il mio voto? “ lo slogan ad uso mass mediatico, usato a Teheran.
Tutto questo appoggiato e sostenuto dal pronto e roboante martellamento mediatico delle zelanti agenzie di stampa occidentali, con una copertura mediatica 24 ore su 24, che fanno vedere o ripetono le stesse scene in continuazione in ogni angolo del mondo. I contestatori iraniani sono istruiti affinché continuino ad insistere che il “loro” presidente non è quello che ha vinto le elezioni (Ahmadinejad), ma invece sarebbe l’uomo che Washington e l’occidente sostengono (Mousavi, che è salutato dai media filo-occidentali come un candidato per le riforme), chiedendo, come fece Otpor in Serbia nel 2000, il riconteggio dei voti o nuove elezioni. In entrambi i casi, deve essere un centro “indipendente” (finanziato da Washington o dall’occidente) ad avere il compito di dichiarare il vero vincitore.
I contestatori iraniani, come Otpor, Kmara, Pora e gli altri prima di loro, sebbene pubblicizzino le loro proteste come un “movimento non violento”, attaccano e provocano le forze di sicurezza con atti di violenza usando pietre e molotov, attaccando poliziotti isolati, insultando o provocando, cercando di provocare reazioni violente, con altri elementi pronti a riprendere con macchine fotografiche o videocamere, che in pochi minuti fanno il giro del mondo e dimostrano la repressione violenta dei “regimi antidemocratici”… E, se lo stato od il governo attaccato, non usano la forza contro la piazza manovrata, può essere rovesciato. Nel caso contrario il rischio è che qualcuno ci lasci la vita, solitamente qualche giovane inconsapevole di essere una pedina in un gioco geostrategico, molto distante dalla ricerca di maggiori diritti o progresso nella vita delle masse popolari.
(…)
Nel paese delle meraviglie iraniano le cose si fanno sempre più curiose. Pensate a quello che è successo la scorsa settimana durante le preghiere del venerdì a Teheran (17 luglio u.s. – ndr), condotte personalmente dall’ex presidente Ayatollah Hashemi Rafsanjani, anche detto “Lo Squalo”, l’uomo più ricco dell’Iran che deve parte delle sue fortune all’Irangate, cioè ai contratti segreti degli anni Ottanta con Israele e gli Stati Uniti per l’acquisto di armamenti.
Com’è noto, Rafsanjani sta dietro al raggruppamento conservatore pragmatico Mir-Hossein Mousavi-Mohammad Khatami che ha perso la recente battaglia per il potere – più che le elezioni presidenziali – contro la fazione ultra-conservatrice Ayatollah Khamenei-Mahmud Ahmadinejad-Guardie della Rivoluzione. Durante le preghiere, i sostenitori della fazione egemonica urlavano il solito “Morte all’America”, mentre i conservatori pragmatici se ne sono usciti, per la prima volta, con “Morte alla Russia!” e “Morte alla Cina!”
Ops. Diversamente dagli Stati Uniti e dall’Europa Occidentale, sia la Russia che la Cina hanno accettato quasi istantaneamente la contestata rielezione di Ahmadinejad. È questo a renderli nemici dell’Iran? Oppure i conservatori pragmatici non sono stati informati che l’“eurasiomane” Zbig Brzezinski – che gode dell’attenzione incondizionata del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama – va predicando dagli anni Novanta che è essenziale spezzare l’asse Teheran-Mosca-Pechino e silurare l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Shanghai Cooperation Organization, SCO)?
E non sanno, poi, che i russi e i cinesi – come gli iraniani – sono decisi propugnatori della fine del dollaro come valuta di riserva globale a vantaggio di un paniere (multipolare) di valute, una divisa comune della quale il Presidente russo Dmitrij Medvedev ha avuto l’ardire di presentare un prototipo durante il summit del G-8 svoltosi all’Aquila, in Italia? A proposito, bella monetina. Battuta in Belgio, sfoggia i volti dei capi del G-8 e un motto: “Unità nella diversità”.
“Unità nella diversità” non era esattamente quello che ha in mente l’amministrazione Obama quando si parla di Iran e Russia, indipendentemente dai miliardi e miliardi di byte di retorica.
(…)
Da un’intervista della CNN con Farred Zacharia, il 9 agosto 2009, al Segretario di Stato USA, Hillary Clinton.
– Fareed Zakaria: “A proposito dell’Iran, come lei sa, molte persone dicono che il Presidente e lei siete stati troppo lenti nel condannare ciò che sembravano essere state delle elezioni fraudolente e troppo lenti a offrire sostegno alle persone del popolo, perché si voleva preservare la possibilità di negoziare con l’Iran. Potete davvero negoziare con l’Iran in questa situazione? Capisco che, in generale, dobbiamo negoziare con tutti i tipi di regimi. Ma, in pratica, adesso, con Ahmadinejad nominato presidente in una atmosfera assai conflittuale, non lo legittimerete negoziando con lui?”
– Hillary Clinton: “Permettetemi di rispondere alla prima parte della sua domanda sulla nostra reazione. Vi è stato un altro aspetto molto importante. Non ci volevamo trovare tra le proteste e le manifestazioni legittime del popolo iraniano e il potere. E sapevamo che se si interveniva troppo presto, e troppo decisamente, l’attenzione avrebbe potuto oscillare e il potere avrebbe cercato di utilizzarci per unificare il Paese contro i manifestanti. E’ stata una decisione difficile, ma credo che, in retrospettiva, ne siamo usciti bene. Tuttavia, dietro le quinte, abbiamo fatto molto. Come sapete, i giovani … uno dei nostri giovani del Dipartimento di Stato ha scritto a Twitter “Continuate”, nonostante il fatto che avevano previsto una sosta tecnica. Così abbiamo fatto molto per rafforzare i manifestanti senza esporci. E continuiamo a parlare ed a sostenere l’opposizione.” [Fonte: eurasia-rivista.org]
Continua?
Eccome se continua!
Ed il nostro (?) ineguagliabile ministro degli Esteri non si fa certo trovare impreparato all’appuntamento:
Roma, 30 dicembre – ”Abbiamo chiesto che tutte le capitali europee convochino gli ambasciatori iraniani e che, contemporaneamente, vi sia un passo formale della presidenza UE, ancora svedese per qualche giorno, a Teheran presso il governo locale”. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri Franco Frattini ad Affaritaliani.it sottolineando quali passi potrebbe e dovrebbe compiere l’Unione Europea per fermare le violenze in Iran contro l’opposizione.
”E’ chiaro – ha aggiunto il ministro – che questo presuppone anche una forte intesa con gli Stati Uniti d’America, che evidentemente nei prossimi giorni si concretizzerà nei contatti che ci saranno, e che gia’ ci sono, attraverso i nostri segretari generali dei rispettivi ministeri degli Esteri, al fine di coordinare una posizione sin dai primi giorni dell’anno prossimo”.
(ASCA)
Un doveroso ripasso
Per quanto mi sforzi, mi vengono in mente ben poche nazioni al mondo i cui cittadini non parteciperebbero con gioia ad una pubblica impiccagione dei propri governanti. Forse farebbero eccezione giusto la Svizzera, il Lussemburgo e il Principato di Monaco, ma nemmeno su questo metterei la mano sul fuoco. Anzi, mi vengono in mente pochissimi paesi nel cui organismo sociale non siano presenti, in potenza, le condizioni di furore represso che potrebbero portare da un giorno all’altro alle stesse scene di guerriglia urbana che vediamo oggi nelle città dell’Iran. O nel quale, se tali condizioni non sono presenti, non possano comunque essere create con poco sforzo. E questo non certo da oggi e non certo a causa dell’impazzare della crisi, ma in ogni tempo e in ogni condizione storica. L’Italia è pronta da tempo per una guerra civile, che è stata accuratamente gestita e fomentata; lo stesso vale per la stragrande maggioranza dei paesi europei; negli Stati Uniti basterebbe una scintilla qualsiasi per dare fuoco alle polveri dell’insicurezza, dell’invidia, del razzismo, dell’antagonismo congenito, della disuguaglianza sociale, della disoccupazione dilagante; eccetera eccetera, trovatemi un paese (un paese di rilievo nello scacchiere geopolitico) che non sia pronto, almeno in teoria, ad assaltare in letizia la propria sede del Parlamento o il proprio palazzo dell’Esecutivo. Eppure questo accade solo in alcuni paesi e solo in particolari congiunture politiche.
(…)
Di fronte a qualunque evento rivoluzionario o simil-rivoluzionario, le prime domande che una persona con i piedi per terra dovrebbe porsi sono: da quale élite è stato progettato e gestito? A quale scopo? Sulla base di quali interessi nazionali e/o internazionali? Senza chiedersi questo si finisce per concepire la politica e la storia come narrazioni favolistiche, che hanno più a che fare con l’immaginario cinematografico di massa che non con le effettive meccaniche geostrategiche degli interessi in campo. Chiediamoci dunque: quale ristretto gruppo ha progettato e sta attualmente coordinando l’ennesima rivoluzione colorata di questi anni, quella “verde” iraniana? Il lettore di cui sopra non vuol sentire nominare né la CIA (coacervo di interessi sparsi in cui le mire americane giocano un ruolo di rilievo) né i “disinformatori reazionari” del Mossad (dove prevalgono le prospettive di controllo israeliano sul Medio Oriente). Okay, lo faccio contento e non li nomino. Però ci dica allora lui, se ne è in grado, quali soggetti sono più interessati (e dunque più sospettabili) di questi a dirigere quello che appare a tutti gli effetti come un colpo di stato volto a sovvertire le istituzioni (democraticamente elette o no, poco importa) della Repubblica Islamica. I servizi segreti pakistani? Stephanie di Monaco? Il Dalai Lama? Sono aperto ad ogni ipotesi. Basta che non si tirino fuori le “persone” che si ribellano al “regime oscurantista, obsoleto e tirannico”. Per questo Natale ho già accompagnato le bambine al cinema a vedere il film della Disney e la mia razione di principesse e ranocchi me la sono già sorbita, grazie.
Del resto non è per semplice idiosincrasia o paranoia che i nomi di queste due agenzie vengono evocati a proposito della crisi iraniana. Esiste, prima di tutto, una cosa che si chiama “modus operandi”, a cui ogni buon investigatore fa riferimento quando si tratta di ipotizzare le responsabilità di un crimine. La rivoluzione iraniana somiglia a molte altre “rivoluzioni” già viste in passato per i simboli che utilizza (il colore), per le modalità con cui ha preso avvio (la contestazione di brogli inesistenti, la proclamazione preventiva della vittoria dello sfidante fatta prima degli exit poll allo scopo di invalidare il risultato dello spoglio), per l’escalation di tensione generato attraverso omicidi “mirati” e opportunamente propagandati (quello finto di Neda, con un noto contatto dell’intelligence occidentale, Arash Hejazi, che nel video rovescia in faccia alla ragazza la fialetta di liquido rosso; quello più recente del nipote di Mousawi), per l’utilizzo di social network come Twitter e Facebook a scopo di mobilitazione della massa, per le tattiche di guerriglia utilizzate nelle strade, sempre uguali in ogni paese in cui vi sia da rovesciare un “tiranno”, dall’Europa al Medio Oriente. Di fronte a modalità operative così simili, ipotizzare l’esistenza di una stessa regia dietro i disordini non è semplicemente il vezzo di chi ama accusare dei mali del mondo sempre lo stesso babau: è invece una possibile conclusione logica a cui puntano mille differenti indizi e che solo uno sciocco accecato dall’ideologia rifiuterebbe di prendere in considerazione.
Inoltre, cerchiamo di stare ai fatti e di non farci distrarre dai nostri aneliti ad un mondo perfetto di pace e giustizia: abbiamo un paese che sta sfidando l’intera comunità dei dominanti di questa fase storica per dotarsi di tecnologia nucleare da sfruttare in campo energetico e militare; un paese ricco di petrolio, che ha già attivato una borsa internazionale in cui l’oro nero può essere scambiato in valute diverse dal dollaro; un paese con un’influenza militare e territoriale sulla regione che è cresciuta a dismisura dopo l’invasione americana dell’Iraq, dove gli sciiti filo-iraniani tengono in pugno molte zone cruciali del sud; un paese che aspira ad entrare nello SCO, che ha iniziato a intrattenere rapporti sempre più stretti con grandi potenze emergenti come Cina e Russia, che da esse acquista tecnologia militare all’avanguardia e con esse stringe accordi commerciali ed energetici privilegiati. In sostanza, l’Iran è un paese che sta dirigendosi a tutta velocità verso lo status di grande potenza indipendente sul piano economico, militare, commerciale, politico, diplomatico, minacciando i visibilissimi piani di predominio israelo-americani sulla regione. Usiamo il rasoio di Occam: è più probabile che ad aver progettato la caduta del governo di Ahmadinejad siano i grandi interessi geostrategici dei paesi dominanti – che non sono certo nuovi a questo tipo di operazioni e possiedono le risorse e il know how per portarle a termine – minacciati dalla crescita senza freni dell’Iran, oppure un pugno di scalmanati vestiti di verde, che non sembrano in grado di approntare strategie politiche diverse dall’intonazione di slogan e dall’incendio di autoveicoli in sosta? E’ legittimo porsi questa domanda e cercare di darsi una risposta? O siamo condannati a ragionare in eterno in termini grezzamente e videocraticamente moralistici, dove “libertà” e “oppressione” sono le due uniche categorie di riflessione che ci è consentito utilizzare?
(…)
L’Iran è oggi un paese in ascesa. Ha un’economia in forte sviluppo, un apparato militare in grado di garantirgli la dovuta protezione, buoni rapporti diplomatici e commerciali con le potenze orientali, un sistema d’istruzione di alto livello, una posizione territoriale invidiabile che promette di consolidarsi nel futuro, possiede risorse energetiche che possono garantirgli la ricchezza. Ha una classe politica che sarà anche corrotta e “oscurantista” (qui bisognerebbe capire quale classe politica non lo è), ma che eventualmente lo è in proprio, non per imposizione di manovratori esterni che dettano direttive e politiche nazionali in nome di interessi contrastanti con quelli della nazione. I manifestanti che vediamo in questi giorni scatenare la violenza nelle strade iraniane rappresentano una miserabile minoranza della popolazione che – consapevolmente o no, poco importa – vorrebbe svendere a una potenza straniera e nemica questa invidiabile posizione geostrategica del paese per averne in cambio le fumose chimere consumistiche martellate nelle loro teste dagli stessi strumenti di propaganda che hanno ridotto un paese un tempo ricco come l’Italia a dibattersi nella melma schiavile in cui oggi la vediamo affondare. Non c’è un solo paese che, caduto dopo il 1989 nelle grinfie coloniali dell’unica superpotenza rimasta, non sia diventato l’ombra di se stesso. Ne sanno qualcosa i paesi dell’est, molti dei quali rimpiangono ormai apertamente il defunto sistema sovietico. Lo sanno ancor meglio paesi come la Georgia o l’Ucraina, che hanno incautamente e giovanilmente appoggiato le loro rivoluzioni colorate per trovarsi oggi a combattere – e ad essere repressi con straordinaria efficacia – contro gli stessi governanti a favore dei quali avevano a suo tempo sventolato le bandierine arcobaleno.
Pertanto, l’essere contrario o favorevole al governo iraniano, contrario o favorevole al popolo vociante, è un problema che non mi pongo nemmeno. Quello che voglio è agevolare, in ogni modo possibile, il declino ormai avanzato del sistema monocentrico che ha caratterizzato nell’ultimo ventennio le dinamiche geopolitiche. E’ più che evidente che ciò che si prospetta all’orizzonte è una fase policentrica, in cui i vecchi equilibri del potere globale saranno scossi dall’ingresso nell’agone politico-economico di nuovi soggetti di rilievo. La Cina, la Russia, l’India, forse lo stesso Iran, potrebbero dare il colpo di grazia a questa tirannia monocratica della quale anche il nostro Paese – forse più ancora di altri – è rimasto vittima.
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Cosa pensa il popolo iraniano di quanto sta accadendo nel proprio Paese? Qual’è la posizione degli iraniani di fronte ai “verdi”, presentati dai mass-media e governi occidentali come “amanti della libertà e della democrazia”? E qual’è il loro sentimento verso la Guida della Rivoluzione, Ayatollah Khamenei, descritto in Occidente come un “crudele dittatore”?
Lasciamo parlare queste immagini.
A più miti consigli?
Teheran, 1 maggio 2010 – Uno dei capi dell’opposizione iraniana, Mehdi Karubi, ha detto che né lui, né Hussein Mussavi, hanno intenzione di rovesciare Ahmadinejad. Lo riporta uno dei siti dell’opposizione.
‘Non siamo persone che vogliono rovesciare il regime, né lacchè degli stranieri’, ha dichiarato Karubi, citato dal sito ‘Rahesabz’. ‘Io e Mussavi abbiamo occupato posti (di responsabilità) nel regime ma non ci consideriamo proprietari (del regime), solo soldati della rivoluzione e della Repubblica islamica’.
(ANSA)