“La nostra bandiera”


Un commento pubblicato a margine di un mio recente post sul 25 aprile “ucro-atlantista” mi offre lo spunto per una considerazione sul “tricolore” italiano.
Partiamo da un’esperienza personale. Circa vent’anni fa, il Campo Antimperialista (qualcuno se lo ricorda?) organizzò alcune iniziative per “l’Iraq che resiste”. Si era alle porte dell’invasione americana dell’Iraq e questo piccolo gruppo “trozkista”, capeggiato da Moreno Pasquinelli, ebbe l’ardire di aprire le porte a chiunque, senza alcuna “pregiudiziale”. Una delle teste pensanti che si associò a quell’operazione politico-culturale fu Costanzo Preve, col quale, all’epoca, mi sentivo abbastanza spesso.
Se qualcuno si ricorda bene, quell’iniziativa dette parecchio fastidio ai piani alti che comandano nella colonia Italia, perché in un certo senso era “avanti” rispetto al sentire medio degli “antagonisti” di ogni risma. Era stata violata, nei fatti, quella muraglia innanzitutto mentale tra “destra” e “sinistra”, tra “fascismo” e “antifascismo”. Le accuse di “leso antifascismo”, rivolte da “sinistra” ai promotori del Campo Antimperialista, piovvero come chicchi di grandine. Dalle illazioni sui “fascisti infiltrati” di anonimi “commissari telematici” (termine che coniai all’epoca) su Indymedia (anche di questa si ricorda qualcuno?) alla pubblicazione, all’unisono, su tutti i quotidiani, alla vigilia della marcia sull’ambasciata americana di Via Vittorio Veneto, dei nomi dei “fascisti” che, “scandalosamente”, avevano firmato, insieme a nomi importanti della cultura italiana (ricordo tra gli altri Franco Cardini e Angelo Del Boca) l’appello del Campo (a “sinistra” c’è la mania degli “appelli da firmare”, ma quello, con tutti quei nomi così disomogenei per cultura politica, aveva comunque un suo perché). Leggere “Il Manifesto” e il “Corriere” che si ponevano la medesima domanda (“che ci fanno i fascisti in un’iniziativa di sinistra”?) fu l’ennesima conferma che questo è un regime dove le differenze sono pura facciata. Intendiamoci bene: non si trattò di un’alleanza di questo movimento “trozkista” con qualche partitino della cosiddetta “estrema destra”, ma solo dell’adesione di singole individualità che il regime (da Indymedia al “Corriere”) aveva l’interesse a dipingere come il Male con l’etichetta infamante di “fascisti”. Di lì a breve, scatenato l’inferno mediatico scattarono pure degli arresti per tre esponenti di punta del Campo, tanto per far capire chi comanda in Italyland.
Ma dopo questa lunga premessa veniamo al punto. Sempre se qualcuno ricorda bene, quella volta, alla viglia dell’invasione americana dell’Iraq (20 marzo 2003), a Roma venne organizzata una manifestazione oceanica di protesta (alcuni parlarono di un milione di persone!). Sui balconi e alle finestre delle case comparvero tantissime “bandiere della pace”. Sì, quelle arcobaleno che lasciano il tempo che trovano. Ad ogni modo, erano indice di un sentimento diffuso contro quella guerra (di fatto una strage a senso unico). Altri tempi rispetto ad oggi, quando dopo vent’anni di ulteriore istupidimento dell’italiano medio troviamo una maggioranza di persone pronte ad andare al macello per l’Ucraina testa di ponte della NATO.
Dicevo della “bandiera della pace”. Bene, in alcune conversazioni con Costanzo Preve, che era ascoltato a volte sì a volte no dal Pasquinelli (sono le classiche dinamiche tra “il braccio” e “la mente”), mi trovai a perorare la necessità, per dare un segnale forte, di mettere il tricolore italiano al tavolo degli oratori nelle varie iniziative. La cosa, detta oggi, sembra di nessuna importanza, ma vent’anni fa – lo ricordo ai più giovani – era considerato “scandaloso” per un gruppo comunque “di sinistra” adottare la bandiera nazionale, storicamente appannaggio delle destre d’ogni tipo. Con quel tricolore, a mio avviso, si sarebbe data plastica rappresentazione al superamento delle obsolete categorie politiche che tanto male hanno fatto, a danno del popolo. E così effettivamente fu fatto, perché – anche se in questo momento la memoria mi tradisce – a Roma, anche se il corteo non venne fatto arrivare all’ambasciata americana benché fosse del tutto pacifico, sventolarono anche dei tricolori.
Ma oggi, dopo altri vent’anni di scatafascio (penso al tradimento dell’alleato libico, ad oltre dieci anni di “governi tecnici” blindati dal Quirinale, alla follia del covid governata in senso pseudo-patriottico), mi chiedo: ha ancora senso il “tricolore” come simbolo dell’unità della Nazione? La mia risposta è no, e qui mi aggancio al mio post dell’atro giorno in cui, “provocatoriamente” ma non troppo, mi definivo “etrusco” e “italico”. La risposta è no perché quel tricolore è ormai completamente squalificato, in quanto, anche facendo la tara alle sue origini “giacobine”, è la bandiera di una massa di abbrutiti, di gente senza cervello che specialmente in questi ultimi due anni ha dato prova di non avere alcuna consistenza. Ed anche se s’è convinta – come lo è stato – di essere in guerra (in “guerra contro il covid”), ‘stringendosi a coorte’ attorno al governo, alle virostar e alle guardie che multavano per una mascherina abbassata, ciò non cambia d’un millimetro la mia convinzione che quel “tricolore” sia da lasciare a tutti costoro: a quelli che seguono ancora lo sport dei triplodosati, dei bollettini farlocchi sulla “pandemia” e le relative assurde “regole”, fino a quest’ultima pagliacciata di una Nazione che dovrebbe, sempre per chissà quale “patriottismo” (“atlantico”) andare al sacrificio estremo per salvare una banda di marionette e accodarsi alla russofobia di regime.
Enrico Galoppini

Il vero socialismo

“Il cittadino di una grande nazione è più libero del cittadino di una piccola nazione.
Ogni cittadino partecipa alla potenza della sua patria, quindi alla sua indipendenza e alla sua libertà. Ma partecipa anche alla dominazione e all’umiliazione del suo Paese. Non ci possono essere uomini liberi in una nazione dominata o in una nazione satellizzata.
Noi vogliamo una patria potente, l’Europa, perché vogliamo essere uomini liberi.
Vogliamo una patria potente, perché vogliamo essere uomini giusti: ancora una volta la giustizia sociale è condizionata imperativamente dall’indipendenza reale della nostra patria.
Un Paese che è dipendente politicamente, è dipendente anche economicamente: è illusorio e ridicolo pretendere di attuare il vero socialismo in un qualsiasi Paese d’Europa finché il suddetto Paese sarà sotto una tutela politica straniera.”

Da La grande nazione. 65 tesi sull’Europa di Jean Thiriart, 1965, ora in Europa nazione, AGA editrice, 2021, p. 151.

Covid-19: la Grande Risistemazione – rivisitata


Minacce spaventose, ricompense per l’ubbidienza…
E’ adesso il momento di resistere

Di Peter Koenig per Global Research
Del medesimo autore abbiamo pubblicato La Risistemazione Globale, dove potete leggere anche una sua breve nota biografica. Quello a seguire è un aggiornamento davvero importante.

Covid-19: la Grande Risistemazione è il titolo del libro di Klaus Schwab, Presidente Esecutivo del WEF (World Economic Forum = Forum Economico Mondiale), e di Thierry Malleret che ricopre la carica di Direttore Senior del Network sul Rischio Globale presso lo stesso Forum Economico Mondiale.
La presente analisi è basata sulla recensione del libro scritta da Steven Guinness, del 4 settembre 2020.

“Questa importante recensione a cura di Steven Guinness (Regno Unito) rivela lo stesso vecchio linguaggio di “interdipendenza”, collaborazione e cooperazione che si era sentito da parte della Commissione Trilaterale nel 1973. Allora come ora l’obiettivo è lo Sviluppo Sostenibile, ovvero la Tecnocrazia, e il risultato sarà la più grande predazione di risorse nella storia del mondo”. Commento a cura dell’editore di Technocracy News.

Il libro presenta uno scenario “bastone e carota”; uno per le spaventose minacce e l’altra riguardante le ricompense per l’ubbidienza. Schwab e Malleret offrono The Brave New World [Il Mondo Nuovo descritto da Aldous Huxley nell’omonimo romanzo – n.d.c.] come il “Nuovo Paradiso” dopo la Grande Risistemazione.
I Poteri Forti che stanno dietro alla Grande Risistemazione , abilmente lavorano con due invisibili armi che sono:
1) un virus probabilmente artificiale, ora chiamato Covid-19 che nessuno vede ma che la propaganda unificata ci fa credere sia spaventoso e mortale – la paura è l’arma associata, e
2) il 5G (e successivamente il 6G, già in preparazione ), un forte campo magnetico mai sperimentato prima, di cui non si è parlato, non nel libro del Forum Economico Mondiale, non nei media ufficiali, ma che sta per essere lanciato in tutto il mondo, coprendo ogni centimetro quadrato della superficie terrestre, irradiato da centinaia di migliaia di satelliti a bassa quota.
Quest’arma elettro-magnetica che probabilmente infliggerà danni a lungo termine, includendo possibilmente danni mortali, è stata studiata da centinaia di scienziati il cui lavoro non è stato mai ufficialmente pubblicato ma resta nascosto. Noi, il Popolo, siamo tenuti all’oscuro. Qui un video di otto minuti sul 5G come arma.
Il libro Covid-19: la Grande Risistemazione è pieno di previsioni di cose che accadranno e che potrebbero accadere, come “il mondo non sarà mai più lo stesso” e “siamo solo all’inizio della Risistemazione, il peggio deve ancora avvenire” – ovvero la “Grande Trasformazione” come il Fondo Monetario Internazionale chiama ciò che sta per avvenire. Continua a leggere

Kemi Seba e il panafricanismo

“Pensavamo che Thomas Sankara fosse morto definitivamente e invece ci sbagliavamo. Il leader burkinabé assassinato nel 1987 sopravvive nell’immaginario africano anche grazie a Kemi Seba, giovane attivista e fondatore della organizzazione non governativa Emergenze Panafricaniste, appena rientrato da un tour italiano per ampliare il campo d’azione, presentare il nuovo libro L’Africa libera o la morte ma soprattutto diffondere tra i popoli subsahariani della diaspora le sue tesi di autodeterminazione delle nazioni dal neocolonialismo. L’obiettivo è quello di liberare il continente africano da una moneta di subordinazione, il franco CFA, e di convincere tutti quegli immigrati che hanno rischiato la vita per attraversare il mar Mediterraneo alla ricerca di un futuro migliore, a re-immigrare in patria per combattere contro le proprie élite africane colluse con gli interessi occidentali di saccheggio delle risorse autoctone.
Con Kemi Seba ci scambiammo delle mail nel lontano 2013 quando per la prima volta mi interessai alla sua figura. Si era trasferito da un paio di anni in Senegal dopo una vita trascorsa in Francia (è nato a Strasburgo) per unire, con estrema coerenza ideologica, teoria e prassi, e disseppellire una vasta cultura letteraria anticoloniale che da Marcus Garvey giunge a Frantz Fanon passando da personalità politiche come Thomas Sankara, Patrice Lumumba, e ancora Muammar Gheddafi. Dopo molto tempo e tante corrispondenze virtuali le nostre strade si sono incrociate a Roma dove Kemi Seba è arrivato giovedì scorso [12 luglio – n.d.c.] in tarda serata in vista di un incontro pubblico che si è tenuto sabato al Baobab, uno spazio abitativo situato in zona Tiburtina. Venerdì abbiamo avuto l’occasione di trascorrere un intero pomeriggio insieme in un bar del Pigneto per conoscerci di persona, discutere del momento storico, e parlare di immigrazione e sfruttamento dell’Africa. Kemi Seba indossava il solito vestito tradizionale colorato, ricamato con le sue iniziali al centro della sagoma dell’Africa. È accompagnato dal suo braccio destro Hery Djehuty e alcuni amici camerunesi che vivono in Italia da diversi anni e che hanno organizzato la visita. La nostra chiacchierata durerà circa tre ore.”

Kemi Seba, l’Africa o la morte, di Sebastiano Caputo continua qui.

“Mi considero e siamo tutti figli di Sankara. Sankara ci ha insegnato che difendere la propria patria è un dovere, ma difendere la propria patria non ci deve spingere a odiare gli altri. Perché come diceva Frantz Fanon, qualunque sia il colore della pelle noi siamo dei dannati della Terra di fronte all’oligarchia capitalista. Noi siamo d’accordo affinché l’immigrazione cessi, ma è necessario che a partire da adesso le autorità occidentali cessino di fare emigrazione delle materie prime.”

Una storia di asservimento ma non solo

L’Espresso e Repubblica mantengono da tempo un archivio on line di documenti segreti o riservati “spifferati” da Wikileaks e che riguardano l’Italia. Si tratta per la maggior parte di cablogrammi dell’ambasciata americana. In questo archivio si trova di tutto: dal caso Calipari ai tentativi italiani di salvare gli USA dalle inchieste della corte dell’Aia al rapimento di Abu Omar. Emerge un ritratto a tinte fosche dei protagonisti della storia recente, specie a confronto con le immaginette oleografiche proposte dalla stampa nostrana.
Purtroppo, non tutti i documenti sono tradotti. In questo articolo ne presento tre. Mi sembrano utili per affrontare il problema della sovranità nazionale e del patriottismo da un punto di vista che – è bene che lo dichiari subito – è quella di un uomo della sinistra. Dai documenti che ho scelto emerge con chiarezza come alcuni personaggi-chiave della politica italiana recente abbiano svolto il ruolo di rappresentante degli interessi statunitensi in Italia, tanto nei governi di centrosinistra quanto in quelli di centrodestra. E’ anche molto chiaro come l’interesse nazionale italiano sia stato spesso sacrificato sull’altare dell’amicizia nei confronti dello scomodo alleato.”

Wikileaks rivela i garanti politici degli interessi USA in Italia di Francesco Galofaro continua qui.
La lettura integrale dell’articolo è vivamente consigliata!

La demonizzazione del sovranismo

C’è una parola, “sovranismo” che è sotto attacco propagandistico dal giorno della sua introduzione nel linguaggio politico nella primavera del 2012. Coloro che si rifanno a questo concetto, i sovranisti, assistono impotenti alla sua quotidiana delegittimazione, alimentata da un flusso costante, sebbene strisciante, di notizie che accostano il termine a significati apparentemente simili che tuttavia non ne colgono il significato profondo. Ricordate l’espressione TINA (There Is Not Alternative)? Quell’acronimo è l’emblema di una comunicazione politica il cui contenuto informativo è di zero bit, cioè assenza di scelta. Affinché sia possibile operare una scelta è infatti necessario almeno un bit, che sia 0 oppure 1, ma questo nel mondo della comunicazione politica modello TINA è precluso. Nel suo significato più profondo, dunque, “sovranismo” è il bit mancante nell’informazione politica, grazie al quale si può ricostruire il primo indispensabile operatore politico, l’operatore NOT. La sola presenza del NOT fa sì che diventi riconoscibile l’operatore nascosto che, ormai da decenni, è l’unico adoperato, l’operatore NOP, che sta per No-Operation (nessuna operazione).
Tutta la comunicazione politica di sistema agisce al fine di promuovere l’operatore NOP, il sovranismo invece proclama il NOT. Solo la possibilità di negare una tesi, una visione, una proposta politica, ne permette l’affioramento e, dunque il riconoscimento. Il globalismo, cioè l’idea della libera circolazione, della società vista come somma aritmetica di individui ognuno con la sua libertà che dipende solo dal suo capitale finanziario e umano (ricordate la Thatcher: “la società non esiste”), insomma l’ordine internazionale dei mercati posto come dato “naturale”, emerge nella sua qualità di scelta politica solo nel momento in cui si impugna l’operatore NOT. Ecco perché la parola sovranismo è entrata nel mirino della propaganda politica dei media liberisti, che hanno ricevuto il compito di distruggerla demonizzandone l’uso.
Un’operazione che viene portata avanti ricorrendo all’unico mezzo possibile, consistente nel riassorbirla nelle pieghe del linguaggio politico unico. Lo stratagemma usato è quello di far sì che essa venga inserita all’interno di narrazioni politiche apparentemente anti liberiste, che del liberismo sono varianti cosmetiche. Ecco allora che il sovranismo viene proposto con significanti limitati, dall’uscire dall’euro – la sovranità monetaria, alla rivendicazione etnica – prima gli Italiani, fino al risibile decideranno gli elettori con un referendum. Vediamo i movimenti No-Vax assimilati ai sovranisti (come se non ci fossero i No-Vax liberisti, europeisti, atlantisti e chi più ne ha più ne metta), si usa la parola “fascismo” come sinonimo, come pure “populismo”, fatto quest’ultimo indubbiamente meno grave, ma altrettanto capzioso.
Ora il punto cruciale da capire per intendere il significato profondo della parola sovranismo, e dunque il suo potenziale eversivo rispetto alla logica TINA, è già stato enunciato, e sono le parole della Thatcher, “la società non esiste”. Parole che possono essere intese, in fondo, come un manifesto a posteriori del marginalismo, oppure, per farci capire anche da vegani e new agers, come affermare che “il tutto è la somma delle parti”, ovvero che, per spiegarlo, basta studiare e comprendere il comportamento delle singole parti che lo compongono. Ecco, il sovranismo opera su tutto questo con un NOT: non è vero che la società non esiste, la società esiste eccome! Il tutto è più della somma delle parti.
Il che significa che le entità collettive esistono, siano esse le classi sociali, le etnie, le nazioni, i popoli, i sindacati, le associazioni capitaliste, le società segrete, le religioni, i legami di sangue, quelli tribali; insomma tutto quello che era pacificamente ammesso ancora cento anni fa e, da allora, è stato prima messo in discussione, e infine negato e annichilito, per effetto dell’azione politica di un movimento di idee, nato nella seconda metà del XIX secolo, che risponde al nome di marginalismo, con un’operazione NOT analoga a quella che oggi ripropone il sovranismo. Ed è stato annichilito perché, così facendo, il marginalismo ha camuffato la sua tesi da sintesi, elevandola a tale dignità usando in modo spregiudicato gli strumenti della comunicazione pubblicitaria di massa. Dunque un’operazione culturale di grande successo, certamente sofisticata ma anche promossa grazie all’enorme dispiegamento di mezzi messi a disposizione dalla ricchezza finanziaria e dall’impetuoso sviluppo dei mezzi di comunicazione.
Ora questo problema si pone, in Occidente, soprattutto al livello della percezione delle masse europee, in particolare italiane, perché altrove, perfino negli USA, l’idea che c’è un “noi” e un “loro” è ancora presente, e dunque che questa poltiglia che ci viene venduta come modernità, costituita dalla fiaba “dell’allocazione efficiente delle risorse all’interno di un mercato a concorrenza perfetta e cioè all’interno di un mercato in cui vi è un’ottima diffusione di informazioni”, posta a fondamento della loro idea di democrazia, è una boiata pazzesca.
L’intuizione sovranista, dunque, consiste nella riscoperta della realtà concreta – oltre la narrazione TINA – che la società esiste e non è formata dalla somma aritmetica di singoli individui, ma è attraversata da confini e confitti di ogni genere, che essa stessa genera continuamente in un processo senza fine in cui il tempo gioca un ruolo fondamentale. Se ieri c’era la classe degli operai, oggi c’è il terziario impoverito; se appena due secoli fa un popolo non esisteva e non aveva coscienza di sé, oggi pretende di difendere la sua identità. E lo stesso – chiamiamolo così – campo sovranista, è attraversato da divisioni, perché ci sono quelli che si definiscono costituzionali e democratici, ma anche i sovranisti nazionalisti; non è un caso se, nel 2012, decidemmo di raccattare da terra questo termine, sovranismo, proprio per distinguerci dai nazionalisti. Ma resta vero che il nemico ideologico comune è il marginalismo, quell’ideologia fatta propria dal grande capitale (quello sì) internazionalista, e usata per dire a tutti i suoi nemici “voi non esistete”. E’ in questo modo, convincendo tutti del fatto di non esistere, che costoro hanno vinto. Per il momento.
Quanto appena esposto potrebbe essere inteso come uno sdoganamento della possibilità di unire tutti i sovranisti, ma questo sarebbe un errore imperdonabile. Non basta, per unire, il fatto di denunciare l’idea farlocca della fine della storia, così come non basterebbe, in una società per azioni, prendere coscienza che un socio di minoranza ha fatto credere a tutti di avere la maggioranza delle quote e che non ci fosse alternativa al suo dominio, per unire tutti gli altri in un’alleanza durevole. La fine della narrazione TINA, la rinascita della consapevolezza crescente che la società è divisa in classi, che le nazioni e i popoli esistono, segna solo il momento in cui il bluff della minoranza, che era riuscita a porsi come unico soggetto della storia del mondo, è stato scoperto. Dunque siamo sì, oggi, tutti “sovranisti”, ma torneremo presto a dirci socialisti, comunisti, popolari, democristiani, repubblicani e, feccia della feccia, perfino liberali.
Dalle parti di questo blog oggi siamo sovranisti, ma domani saremo socialisti.
Fiorenzo Fraioli

Fonte

Quando la sinistra non aveva paura della sua ombra

“Cos’è successo tra il 1973 e il 2017? Mezzo secolo fa, la sinistra francese ed europea era generalmente solidale – almeno a parole – con i progressisti e i rivoluzionari dei Paesi del Sud. Senza ignorare gli errori commessi e le difficoltà impreviste, non sparava alla schiena dei compagni latinoamericani. Non distribuiva responsabilità ai golpisti e alle loro vittime con giudizi salomonici. Si schierava, a costo di sbagliare, e non praticava, come fa la sinistra attuale, l’autocensura codarda e la concessione all’avversario a mo’ di difesa. Non diceva: tutto questo è molto brutto, e ognuno ha la sua parte di responsabilità in queste violenze riprovevoli. La sinistra francese ed europea degli anni ‘70 era certamente ingenua, ma non aveva paura della sua ombra, e non beatificava a ogni piè sospinto quando si trattava di analizzare una situazione concreta. È incredibile, ma pure i socialisti, come Salvador Allende, pensavano di essere socialisti al punto da rimetterci la vita.
A guardare l’ampiezza del fossato che ci separa da quell’epoca, si hanno le vertigini. La crisi venezuelana fornisce un comodo esempio di questa regressione perché si presta a un confronto con il Cile del 1973. Ma se si allarga lo spettro dell’analisi, si vede bene che il decadimento ideologico è generale, che attraversa le frontiere. Nel momento della liberazione di Aleppo da parte dell’esercito nazionale siriano, nel dicembre 2016, gli stessi “progressisti” che facevano gli schizzinosi davanti alla difficoltà del chavismo, hanno cantato insieme ai media detenuti dall’oligarchia per accusare Mosca e Damasco delle peggiori atrocità. E la maggior parte dei “partiti di sinistra” francese (PS, PCF, Parti de Gauche, NPA, Ensemble, i Verdi) hanno organizzato una manifestazione davanti all’ambasciata russa a Parigi, per protestare contro il “massacro” dei civili “presi in ostaggio” nella capitale economica del Paese.
Certo, questa indignazione morale a senso unico nascondeva il vero significato di una “presa di ostaggi” che c’è stata, in effetti, ma da parte delle milizie islamiste, e non da parte delle forze siriane. Lo si è visto non appena sono stati creati i primi corridoi umanitari da parte delle autorità legali: i civili sono fuggiti in massa verso le zone governative, a volte sotto le pallottole dei loro gentili protettori in “casco bianco” che giocavano ai barellieri da una parte, e ai jihadisti dall’altra. Per la sinistra, il milione di siriani di Aleppo Ovest bombardata dagli estremisti abbigliati da “ribelli moderati” di Aleppo Est non contano, la sovranità della Siria nemmeno. La liberazione di Aleppo resterà negli annali come un tornante della guerra per procura combattuta contro la Siria. Il destino ha voluto che, purtroppo, segnasse un salto qualitativo nel degrado cerebrale della sinistra francese.
Siria, Venezuela: questi due esempi illustrano le devastazione causati dalla mancanza di analisi unita alla codardia politica. Tutto avviene come se le forze vive di questo Paese fossero state anestetizzate da chissà quale sedativo. Partito dalle sfere della “sinistra di governo”, l’allineamento alla doxa diffusa dai media dominanti è generale. Convertita al neoliberismo mondializzato, la vecchia socialdemocrazia non si è accontentata di sparare alla schiena degli ex compagni del Sud, si è anche sparata nei piedi.
(…)
Potrà anche rompere con la socialdemocrazia, ma questa sinistra aderisce alla visione occidentale del mondo e al suo dirittumanismo a geometria variabile. La sua visione delle relazioni internazionali è direttamente importata dalla doxa pseudo-umanista che divide il mondo in simpatiche democrazie (i nostri amici) e abominevoli dittature (i nostri nemici). Etnocentrica, guarda dall’alto l’antimperialismo lascito del nazionalismo rivoluzionario del Terzo Mondo e del movimento comunista internazionale. Invece di studiare Ho Chi Min, Lumumba, Mandela, Castro, Nasser, Che Guevara, Chavez, Morales, legge “Marianne” [una sorta di “l’Espresso” francese – n.d.t.] e guarda France 24 [la Rainews24 francese – n.d.t.]. Pensa che ci siano i buoni e i cattivi, che i buoni ci somigliano e che bisogna bastonare i cattivi. È indignata – o disturbata – quando un capo della destra venezuelana, formata negli USA dai neoconservatori per eliminare il chavismo, viene incarcerato per aver tentato un colpo di Stato. Ma è incapace di spiegare le ragioni della crisi economica e politica del Venezuela. Per evitare le critiche, è restia a spiegare come il blocco degli approvvigionamenti sia stato provocato da una borghesia importatrice che traffica con i dollari e organizza la paralisi delle reti di distribuzione sperando di abbattere il legittimo presidente Maduro.
Indifferente ai movimenti di fondo, questa sinistra si contenta di partecipare all’agitazione di superficie. In preda a una sorta di scherzo pascaliano che la distrae dall’essenziale, essa ignora il peso delle strutture. Per lei, la politica non è un campo di forze, ma un teatro di ombre. Parteggia per le minoranze oppresse di tutto il mondo dimenticando di domandarsi perché certe sono visibili e altre no. Preferisce i Curdi siriani ai Siriani tout court perché sono una minoranza, senza vedere che questa preferenza serve alla loro strumentalizzazione da parte di Washington che ne fa delle suppellettili e prepara uno smembramento della Siria conformemente al progetto neo-conservatore. Rifiuta di vedere che il rispetto della sovranità degli Stati non è una questione accessoria, che è la rivendicazione principale dei popoli di fronte alle pretese egemoniche di un occidente vassallo di Washington, e che l’ideologia dei diritti umani e la difesa del LGBT serve spesso come paravento per un interventismo occidentale che si interessa soprattutto agli idrocarburi e alle ricchezze minerarie.
(…)
Drogata di “moralina”, intossicata da formalismo piccolo-borghese, la sinistra radical-chic firma petizioni, intenta processi e lancia anatemi contro i capi di Stato che hanno la brutta abitudine di difendere la sovranità del proprio Paese. Questo manicheismo le impedisce il compito di analizzare ciascuna situazione concreta e di guardare oltre il proprio naso. Pensa che il mondo sia uno, omogeneo, attraversato dalle stesse idee, come se tutte le società obbedissero agli stessi principi antropologici, evolvessero secondo gli stessi ritmi. Confonde volentieri il diritto dei popoli all’autodeterminazione e il dovere degli Stati di conformarsi ai requisiti di un Occidente che si erge a giudice supremo. Fa pensare all’abolizionismo europeo del XIX secolo, che voleva sopprimere la schiavitù presso gli indigeni, portando la luce della civiltà con la canna del fucile. La sinistra dovrebbe sapere che l’inferno dell’imperialismo oggi, come il colonialismo ieri, è sempre lastricato di buone intenzioni. Nel momento dell’invasione occidentale dell’Afghanistan, nel 2001, non abbiamo mai letto tanti articoli, nella stampa progressista, sull’oppressione delle donne afghane e sull’imperativo morale della loro liberazione. Dopo 15 anni di emancipazione femminile al cannone 105, queste sono più coperte e analfabete che mai.”

Da 1973-2017 : il collasso ideologico della “sinistra” francese (ed europea), di Bruno Guigue.

La società del capitale si perpetua attraverso la cultura

13012600_1705047733100720_8031095956961714636_nL’avanguardia della globalizzazione, del mondialismo, è rappresentata, oggi, dall’élite del sapere, dal “circo mediatico” formato dagli intellettuali di sinistra. Un gruppo sociale che affonda le proprie radici culturali «nella Nuova Sinistra degli anni Sessanta, i cui interessi si concentravano, per citare una felice espressione di Denning, sul modo di “inventare un marxismo senza classe”», senza nazione, senza Stato, senza famiglia, senza religione, senza territori, senza identità e appartenenze collettive. Questa élite del sapere si propone infatti come «sempre più “transnazionale”», globalizzata, unificata al Pensiero Unico Neoliberale. Questa sinistra intellettuale postmoderna sa perfettamente che, nell’ambito di un capitalismo totalmente finanziarizzato, «i mercati di capitali e dei prodotti si sono trasferiti in un nuovo spazio socialmente extraterritoriale che si colloca ben al di sopra dello Stato-Nazione, e dunque ben oltre la capacità di questo di sovrintendere/riequilibrare/ridurre», e interpreta la soggezione degli Stati nazionali al «processo di globalizzazione del capitale» come una tappa verso la costruzione di un mondo de facto già potenzialmente “comunista”, poiché privato dei “residui borghesi” (lo Stato), “patriarcali” (la nazione) e “repressivi” (la morale sessuale borghese otto-novecentesca, fino al Sessantotto), costituenti ostacoli all’affermazione del “comunismo consumistico globalizzato” postmoderno, auspicato dagli intellettuali di sinistra come fattore di risoluzione dei conflitti intercapitalistici e interimperialistici. L’élite del sapere vive entusiasticamente «la propria condizione come “transnazionale”», rielabora se stessa (attraverso una gigantesca operazione trasformistica e autoapologetica) «nell’idea di “cultura globale”, la cui tendenza prevalente è l’“ibridazione”» e stigmatizza come “fascista” il resto dell’umanità, in particolar modo le classi popolari e piccolo-borghesi periferiche, pauperizzate e sradicate dai processi di globalizzazione, non altrettanto disponibili o consenzienti alla “mobilità” postmoderna, ossia alla «sostituzione di gruppi e associazioni definiti su basi territoriali con “reti” elettronicamente mediate» e all’adattamento «della propria realtà quotidiana» alla forma mentis cosmopolita, neoedonistica e neoborghese. Tutti coloro i quali, attori socio-politici piccolo-borghesi “nazionalisti” o ceti popolari provinciali legati a particolari identità collettive (religiose, comunitarie, ecc.), si dimostravano, a livello più o meno riflessivo, contrari al processo di omogeneizzazione culturale cosmopolita e di mediatizzazione della sfera privata, tramite lo strumento del web in generale e del social network in particolare, venivano immediatamente diffamati, dall’élite del sapere politicamente corretta, come “fascisti” e “trogloditi”.
Paolo Borgognone

Fonte

Per una critica del radicalismo liberale

immaginesinistramurosam“Il radicalismo liberale postmoderno è l’unico e solo totalitarismo del nostro tempo storico e per legittimarsi strumentalmente come suo contrario, ossia come “religione identitaria salvifica” apportatrice di “libertà” e di “democrazia”, deve costruirsi un vero e proprio “bestiario” di eterogenei nemici ideologici, di volta in volta identificati nel nazionalismo di matrice anti-coloniale (il moderno, ma incline al recupero di elementi riconducibili a determinate specificità culturali tradizionali, soprattutto religiose, di popoli e nazioni, patriottismo solidaristico dei movimenti di liberazione antimperialisti del XX secolo), nel socialismo come teoria economica e come laborioso, difficoltoso e non privo di contraddizioni e di interessanti risvolti troppo spesso misconosciuti, processo di apprendimento finalizzato alla costruzione di moderne società postcapitalistiche, nel Tradizionalismo metafisico alla radice della cultura e dell’identità europea, nella spiritualità tradizionale cristiano-ortodossa quale vettore del patriottismo neobizantino, nell’eurasiatismo come originale “Quarta Teoria Politica” alternativa alla società liberale tecno-mercantile, al comunismo utopico e al fascismo storicamente concretizzatosi, nell’Islam (in particolar modo nello sciismo rivoluzionario, ma non solo) come fattore identitario di resistenza anti-coloniale e antimperialista (Iran, resistenza nazionale libanese, resistenza nazionale palestinese, ecc.). Inoltre, il crollo del comunismo storico novecentesco, avvenuto in Europa tra il 1989 e il 1991, ha contribuito all’innesco di un conflitto ideologico tra liberalismo totalitario contemporaneo, uscito “vittorioso” dalla pressoché cinquantennale confrontazione bipolare USA-URSS, e le varie ipotesi di Rivoluzione Conservatrice, una corrente di pensiero marginalizzata dopo il 1933 e ritornata di attualità, principalmente in Russia ma non solo, come alternativa “tradizional-socialista” sia al modello di liberalismo concretizzato sia al comunismo come utopico, messianico e apocalittico determinismo storicista di proletarizzazione sociale integrale, nonché tra Rivoluzione Conservatrice e residui, più o meno organizzati, del pensiero di sinistra novecentesco (sia nella variante veteromarxista, sia nella variante trasformistico-postmoderna).
Gli esiti di questo conflitto ideologico sono incerti (essendo il futuro imprevedibile per definizione), ma il dato imprescindibile è quello concernente il fatto che fino a quando le sinistre persevereranno nel proprio settarismo centrato sulla sacralizzazione della simulazione dicotomica destra/sinistra e privilegeranno il confronto e l’alleanza politica con i liberali e i “democratici” in chiave genericamente “anti-destra”, “anti-populista” e “antifascista” (in totale assenza di fascismo), il capitalismo americano e la globalizzazione di McMondo avranno già vinto, a causa dell’inesistenza di un coerente e praticabile progetto politico, ideologico, culturale e programmatico alternativo. La sinistra infatti non rappresenta, oggi come in passato, un campo di azione politica alternativo al capitalismo in nome della costruzione di una società socialista. Storicamente infatti, socialismo e sinistra non sono definizioni coincidenti.
(..)
napolitano-dalema-e-occhettoIl comunismo storico novecentesco dunque, levatosi miseramente dai piedi (in Europa) nel 1989, lasciò dietro di sé una scia di riciclati e convertiti al dogma liberaldemocratico anglosassone, rappresentanti, oggi, a livello continentale, l’espressione del più triste e marcescente degrado intellettuale e politico, generalmente e giornalisticamente indicato come «cultura di sinistra». Tuttavia, l’affermazione, in Europa, dopo il 1991, di una «cultura di sinistra» espressione di élite postcomuniste convertitesi al liberalismo anglosassone (adesione degli ex piccisti alla vulgata filosofica rappresentata da Hannah Arendt, Popper, Rawls, Bobbio, Habermas, allo scetticismo liberale, ecc.) o al radicalismo postmoderno (attraverso l’adozione, da parte dei gruppi sedicenti antagonisti o della stessa maggioranza del Partito della Rifondazione Comunista, dell’anarchismo postoperaistico e ultralibertario di Toni Negri) non può essere ricondotta alla categoria politica di «tradimento» (trahison des clercs) bensì più propriamente a quella filosofica di nichilismo (fine dell’hegelismo e sconfitta della filosofia, trionfo dell’ultimo uomo nicciano, ecc.), a quella politica di «opportunismo mercenario» e a quella psicologica di «mancata elaborazione del lutto» (per la fine del comunismo storico novecentesco e, soprattutto, per la supposta mancata attuazione dei propositi di «rivoluzione anarco-individualistica» e di liberalizzazione integrale dei costumi borghesi contenuti nel movimento del Sessantotto).
La sinistra odierna non si stanca di tributare sperticate lodi a quelle che definisce le «virtù del mercato globale senza frontiere e di ogni forma di affrancamento da appartenenze e identità date (comprese quelle sessuali)». La sinistra è il fattore di riproduzione, nella cultura, attraverso il Politicamente Corretto, della società liberale tecno-mercantile. La sinistra, nelle sue varianti liberaldemocratica, radicallibertaria e paleocomunista, combatte strenuamente la destra cosiddetta «reazionaria » (monarchici, clericali, fascisti) quando quest’ultima categoria politica, con i suoi apparati partitici e burocratici, è dileguata a seguito della stagione del Sessantotto, polverizzata dal travolgente incedere del capitalismo speculativo (americano), un capitalismo liberale totalmente incompatibile con ogni soggettività, fondamento storico-culturale e abitudine tradizionalista.
(…)
Il socialismo non aveva nulla a che spartire con la filosofia (e la mitologia) del progresso così come la costruzione di un impero tradizionale tellurocratico eurasiatico (il suolo prima del sangue) aveva nulla a che vedere (e anzi si situava in perfetta antitesi) con la categoria del moderno nazionalismo etnocentrico (il sangue prima del suolo) di impronta sciovinista (e inevitabilmente liberale). La democrazia liberale, a sua volta, è l’autogoverno dei ceti ricchi, proprietari, integrati, cosmopoliti e borghesi. Un regime crematistico-oligarchico che consente (e talvolta, subdolamente finanche agevola, al preciso scopo di autolegittimazione) il pluralismo delle opinioni individuali nell’ambito della chiacchiera televisiva, giornalistica e amicale ma che non tollera forme politiche organizzate di resistenza, critica incompatibile e opposizione a esso. I democratici liberali (di destra e di sinistra) definiscono infatti «comunismo», «fascismo» e «populismo» qualsivoglia proposta ideologica, culturale, politica e programmatica di alternativa pubblica alla cosiddetta democrazia di libero mercato e libero desiderio consumistico (perché, in regime di liberalismo reale, lo spazio pubblico è integralmente appaltato ai fautori della perpetuazione del sistema demoliberale vigente e le critiche non compatibili possono essere tollerate esclusivamente nel momento in cui restano confinate alla dimensione privata, individuale).
La democrazia patriottica (sia nella sua variante moderata di democrazia sovrana sul modello patrocinato da Vladimir Putin in Russia, sia nella sua variante radicale di democrazia organica tratteggiata dagli eurasiatisti quali Aleksandr Dugin) intesa come potere popolare di indirizzo politico della comunità storica di appartenenza, sia essa una comunità nazionale o nazional-statale, è un’ideologia e un processo politico decisamente difforme dalla democrazia liberale. Il potere popolare infatti ha nulla a che vedere con la democrazia liberale perché i ceti popolari, tradizionalmente orientati alla spiritualità religiosa degli avi (le Tradizioni d’Europa descritte da Alain de Benoist in un libro pubblicato da Controcorrente nel 2006), al patriottismo ancestrale, radicale e comunitario, al socialismo nazionale (peronismo) e al nazional-populismo, nonché istintivamente conservatori dal punto di vista culturale, rifiutano, come estranei alla loro forma mentis, il liberalismo e il cosmopolitismo.
(..)
putinLo Stato liberale, con la sua malcelata e falsa pretesa di “neutralità politica” rispetto alle opinioni dei propri consociati, non fa che veicolare la «perdita dei riferimenti, il materialismo pratico e il nichilismo. La religione idolatrica del mercato (monoteismo del mercato), del denaro e delle “libertà individuali” veicolata dai liberali postmoderni, stermina i popoli, favorisce il dileguare delle differenze (di nazionalità, di religione, di classe, di genere) e sostituisce alle classi sociali indistinte moltitudini biopolitiche snazionalizzate, dedite esclusivamente alle variabili attitudinali dei flussi di desiderio e dei modelli di consumo consentiti nell’ambito della subcultura del nomadismo cosmopolitico della rete internet globale (World Wide Web).
Il celebre giornalista Massimo Fini ha scritto che, nel mondo postcontemporaneo, vi sono «due totalitarismi. Da un lato quello occidentale», egemonizzato da «coloro che hanno scelto un certo modello di sviluppo e vorrebbero imporlo al mondo intero, dall’altro quello jihadista che vorrebbe imporre la sua legge a tutti». Peccato che questi due totalitarismi siano di fatto alleati nella strategia americanocentrica di smantellamento di ogni fattore di resistenza all’incedere dei processi di fine capitalistica della Storia (e di ogni tentativo di elaborazione di una filosofia alternativa all’odierno pensiero dominante liberal-progressista) e che solo il primo (fondamentalismo liberale contemporaneo, di ascendenza illuministica e anglosassone) sia riconducibile alla categoria di totalitarismo (un totalitarismo tecnomercantile, sentimentalistico e pubblicitario non repressivo, espressione della società liquido-moderna) mentre il secondo, (il jihadismo di ascendenza wahhabita) non sia che una risorsa d’intelligence, in funzione anti-europea, anti-russa, anti-cinese e anti-iraniana, dell’attuale totalitarismo neoliberale.
L’affermazione, in Europa, di una precaria quanto pervasiva e unificante cultura politica mondialista americanocentrica di questo tipo non è che la dimostrazione di quanto, nell’era del capitalismo assoluto e della relativa «impotenza della filosofia» come «invito alla trasformazione del mondo», quello di Europa sia ormai un concetto geopolitico e, soprattutto, culturale, tramontato e precipitato nell’abisso della subalternità e dell’asservimento coloniale. Il radicalismo liberale postmoderno unifica “destra” e “sinistra” in nome dell’antropologia della fine capitalistica della Storia. Esso è la cultura politica funzionale all’affermazione dell’“Idea di America” e alla negazione dell’“Idea di Europa” e dell’“Idea di Eurasia”.”

Dalle considerazioni conclusive in L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, di Paolo Borgognone, Zambon editore, 2016, pp. 1015-1024.

Paolo Borgognone, nato nel 1981 in provincia di Cuneo, membro del comitato scientifico del CIVG, è autore di diversi saggi, tra cui una trilogia sul tema della “disinformazione strategica” ed il controverso e discusso Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche.

Un altro agente all’Avana

“Il cubano sa da sempre chi è il vero nemico di Cuba”
Raul Capote*

Un’esperienza di ordinario “regime change” raccontata da chi l’ha vissuta direttamente sulla propria pelle.
In un momento in cui sembra che i media stiano “sdoganando” la questione Cuba ma in effetti stanno invece aumentando la ridda delle contraddittorie e “improbabili” informazioni, questa è l’occasione – straordinariamente utile e propizia – per fare luce e chiarezza, per conoscere e capire il vero stato dell’arte del processo di normalizzazione delle relazioni in corso tra Cuba e Stati Uniti dalla viva e orgogliosa voce di un eroe della Rivoluzione.
Raul Capote, docente dell’Università dell’Avana, è stato “reclutato” dall’Ufficio di Interessi degli Stati Uniti per selezionare e aggregare studenti con il fine di costituire piccole cellule di “dissenso” al soldo della CIA.
Raul Capote accettò l’incarico, ma lavorò al fianco dei Servizi di Sicurezza cubani per raccogliere le prove e smascherare l’ennesimo tentativo di destabilizzazione perpetrato dal Governo degli Stati Uniti.
Un altro agente all’Avana (Zambon, 2015) è la denuncia di come la CIA abbia destinato centinaia di milioni di dollari a piani di sovversione politico-ideologica orientati ai giovani, il settore chiave della popolazione.
Dice Capote: “I nemici della Rivoluzione sanno di aver perso la guerra contro la leadership storica della Rivoluzione, l’ho sentito dire da tanti funzionari della CIA. Così hanno deciso di scommettere su quelli che loro chiamano i nipoti della Rivoluzione. Non dobbiamo dimenticare che viviamo in un mondo governato dalla cultura capitalistica e i nostri giovani conoscono il capitalismo attraverso di noi. I nostri detrattori lo sanno bene: è una guerra che si combatte soprattutto nella testa, e vogliono vincerla imponendo i valori della cultura capitalista tra le nuove generazioni. Se il libro aiuterà a chiarire la verità, se servirà come strumento di interpretazione, come argomento ai combattenti nella lotta delle idee, se contribuirà a dare coraggio ai timidi, a istruire gli ignoranti, a convincere gli scettici, a preoccupare gli indifferenti e a infastidire e denunciare i traditori, allora avrà raggiunto il suo scopo. Una cosa da poco, no?”.

Raúl Antonio Capote Fernández (La Habana, 1961). Laureato in Storia dell’Arte, Master in Relazioni Internazionali, dottore in Scienze Politiche. Scrittore, Investigatore, analista dei problemi di Sicurezza Nazionale, membro dell’Unione degli Storici Cubani, dell’Unione dei Pedagoghi Cubani e della Giunta Nazionale della Società Culturale José Martì, professore dell’Università di Scienze Pedagogiche Enrique José Varona e dell’Istituo Superiore di Arte.
Autore dei libri ‘El caballero ilustrado’ (Romanzo, Editorial Letras Cubanas, Cuba, 1998); ‘Juego de Iluminaciones’ (Racconti, Casa editora Abril, Cuba, 2000); ‘El adversario’ (Romanzo, Editorial Plaza Mayor, Puerto Rico, 2005; Editorial Letras Cubanas, Cuba, 2014); ‘Enemigo’ (Testimonianza, Editorial José Martí, Cuba, 2011; Grupo Editorial AKAL, España, 2015).
Diversi suoi testi sono stati inclusi nelle antologie nazionali e internazionali. Collabora con diversi siti digitali come ‘Cubadebate’, ‘Las Razones de Cuba’, ‘Cubasí’; i periodici ‘Granma’, ‘Juventud Rebelde’ y ‘Trabajadores’ hanno pubblicato suoi lavori così come la rivista ‘Calle del Medio’. Ha lavorato dagli anni ’90 per agenzie e organizzazioni del Governo degli Stati Uniti come la USAID e la ‘Fundación Panamericana para el Desarrollo’. E’ stato reclutato dalla CIA nel 2004 e ha servito nelle sue fila fino al 2011, quando partecipò alla denuncia pubblica, trasmessa dalla televisión cubana nella serie conosciuta come ‘Las Razones de Cuba’, dei piani del Governo degli Stati Uniti contro Cuba, in cui si rivelò che in tutti quegli anni c’era stato un agente della Sicurezza di Stato cubano che aveva difeso il suo Paese dai piani di aggressione del Governo degli Stati Uniti, infiltrandosi nel lavoro dei Servizi Speciali statunitensi.
Recentemente ha fatto parte della delegazione cubana alla VII Conferenza delle Americhe che si è svolta a Panama, partecipando ai forum della società civile e al Vertice dei Popoli.

*Fonte

La battaglia è appena iniziata

paese libero“Per quanto riguarda la popolazione italiana, le recenti elezioni hanno dimostrato che l’ondata sovranista ha toccato poco la nostra nazione. Non sopravvalutiamo il «successo» del PD, sostanzialmente ha funzionato l’operazione di unire al PD, il centro moderato che alla precedenti elezioni politiche aveva votato Monti (10% circa), non sono neanche da escludere consistenti brogli (di cui ha parlato apertamente Grillo), tuttavia, è chiaro anche da questi risultati che ancora non si intravvede in Italia il formarsi di una volontà collettiva che vada in direzione di un movimento sovranista. C’è da tenere nel debito conto questa importante differenza: la Francia ha solo da correggere una deviazione da un percorso di quella che resta una nazione sovrana, mentre in Italia il contesto è piuttosto diverso, in quanto nazione che, come la Germania e a differenza della Francia, ha un gran numero di basi militari statunitensi, a che partire da Tangentopoli, per concludere con il colpo finale che ha visto la definitiva sottomissione, a furia di attacchi scandalistici internazionali e di statuette in faccia che raggiungevano con facilità la faccia dell’allora nostro Presidente del Consiglio, l’incauto pagliaccio Berlusconi, provocando le sue dimissioni dal governo e la collaborazione forzata con i successivi governi, da Monti in poi. Da allora abbiamo perso anche del tutto la «sovranità limitata» di cui abbiamo goduto dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, già seriamente compromessa con Tangentopoli (sovranità limitata che gli aveva fornito quella libertà di manovra, soprattutto in medio-oriente, necessaria al suo sviluppo). Per questi motivi, si tratta obiettivamente di una lotta molto più difficile. Inoltre, l’Italia ha completato la sua modernizzazione, il suo passaggio da paese prevalentemente agricolo a paese industriale sotto l’egemonia statunitense (un passaggio che era iniziato in realtà ben prima, dall’inizio del secolo, e che probabilmente ci sarebbe stato lo stesso anche se non fosse stata sotto la sfera d’influenza statunitense). Si fa fatica ad accettare che gli USA hanno da tempo concluso la fase egemonica, che lasciava un certo spazio di manovra agli «alleati» (subordinati) europei, e che senza una riconquista della sovranità nazionale, subordinandoci del tutto agli USA, non conserveremo nemmeno parte dell’attuale tenore di vita, già fortemente compromesso, mentre la nuova generazione è già senza prospettive. Finora non si vede una volontà collettiva intenzionata ad incamminarsi su di un percorso di recupero della sovranità. Se non si tratta di un opportunistico attendere l’evoluzione degli eventi, tipico della mentalità italiana, ma di un’incapacità permanente di reazione della nostra collettività, vedremo il declino dell’Italia come nazione significativa e il suo ritorno allo status di nazione povera.
10155523_705267379532435_6400827348388679339_nNon si possono considerare il Movimento 5 Stelle o la Lega di Salvini espressione di una volontà sovranista. Non bastano certo le recriminazioni sull’euro a fare del primo un movimento sovranista, anzi il voto favorevole all’abolizione del reato di immigrazione clandestina lo pone decisamente dalla parte dei movimenti non sovranisti. Detto per inciso, il controllo dell’immigrazione di per sé non ha nessuna connotazione razzista, in quanto una popolazione che risiede stabilmente su di un territorio ha tutto il diritto di stabilire chi, come e quanti individui provenienti da altre nazioni accettare sul proprio territorio. Questo diritto è uno degli attributi fondamentali della sovranità.
Per quanto riguarda la Lega, seppure essa ha una connotazione identitaria-comunitaria, un elemento essenziale della sovranità, il fatto che si manifesti in termini localistici, dimostra come ancora una volta in Italia il fattore identitario finisce per acquisire delle connotazioni patologiche (per usare un concetto previano che definiva nazionalismo e razzismo «patologie del comunitarismo», e tra queste, a mio parere, si può annoverare anche il localismo).
La non perdita di consensi del PD, nonostante il disastro economico e sociale, è preoccupante, perché tale partito è il principale nemico della sovranità nazionale e tra i principali responsabili del disastro economico in cui versa l’Italia (svendita delle aziende italiane pubbliche e private, intossicazione della vita politica ed economica attraverso un utilizzo distorto della magistratura, favoreggiamento di un’immigrazione finalizzata all’abbassamento del costo del lavoro). Cerchiamo di ricostruire per sommi capi questa degenerazione del principale partito della sinistra: il PCI non è nato come un partito anti-nazionale, Gramsci ne aveva fatto una questione centrale e in merito aveva avanzato analisi importanti e innovative, anche rispetto al dibattito di allora nei partiti comunisti; la lotta dei partigiani comunisti voleva essere anche una lotta di liberazione nazionale, anche se poi alla fine si trattò di scegliere tra due eserciti invasori; il PCI del dopoguerra nel suo simbolo aveva la bandiera italiana insieme alla bandiera rossa. Al crollo del comunismo, la seconda generazione cresciuta nell’insano recinto della «sovranità limitata», una generazione diversa da quella eroica della guerra e della lotta partigiana, invece che con una seria discussione sulla storia del comunismo ottocentesco, reagì con il puro e semplice rinnegamento della propria storia e passò armi e bagagli sul carro statunitense, passaggio che aveva già una sua storia quando Berlinguer guardava con favore all’«ombrello della NATO» e quando l’attuale presidente della repubblica faceva il suo viaggio «culturale» nel 1976 negli USA, guadagnandosi già da allora il titolo, non conferito ufficialmente, di referente della politica statunitense in Italia. Costoro come rinnegati si sono dimostrati disposti a svendere non solo la storia del loro partito, ma l’intera Italia.
(…)
L’evoluzione del contesto politico globale oggi pone al centro la riconquista della sovranità e bisogna attrezzarsi con le categorie adatte, nonché, ovviamente, con gli altrettanto necessari strumenti politici e militari
La battaglia è appena iniziata, ma il quadro politico acquisisce una maggiore chiarezza, si intravvedono le questioni dirimenti degli anni futuri e tra queste, lo possiamo dire con certezza, vi sarà la difesa della sovranità. Chiunque ritiene questo un obiettivo da perseguire è nostro amico, chi è contro è nostro nemico.
L’irrompere sulla scena della lotta per la difesa della sovranità deriva dalla nuova fase dello scontro in direzione di un mondo multipolare che vede una più netta contrapposizione tra Stati Uniti e Russia e relative manovre dei primi per subordinare i paesi europei alla proprio politica di aggressione alla Russia, una politica contraria agli interessi europei, basti considerare la sola questione energetica. Tali manovre hanno visto la perdita a partire dal governo Monti della residua sovranità limitata dell’Italia. Subordinazione che comporta la deindustrializzazione dell’Italia e la sua integrazione subordinata all’interno della sfera politica statunitense. Le conseguenze della deindustrializzazione vengono patite principalmente dalle classi inferiori e dai ceti medi produttivi.
Per principio, la difesa della sovranità non può essere né di «destra» né di «sinistra», se vogliamo rappresentare con queste categorie fuorvianti, sempre alla moda, le differenze ideologiche, in quanto senza sovranità qualunque sia l’indirizzo politico, economico e sociali delle forze politiche al governo esse dovranno sottostare alle imposizioni di chi detiene la sovranità effettiva. Quindi, chi antepone le differenze ideologiche alla difesa della sovranità è nostro nemico, qualunque sia il suo orientamento ideologico.
La difesa della sovranità è antecedente alle questioni ideologiche, agli indirizzi politici e sociali, ma può avere diverse declinazioni, di «destra» e di «sinistra», ad es. associate alla questione sociale, all’equità sociale (che non coincide con l’eguaglianza) e alla possibilità di un futuro dignitoso per ogni cittadino italiano. (E qui ad un eventuale lettore di «sinistra», scatterà subito una molla: «non ad ogni cittadino italiano, ma ad ogni essere umano». Ed è qui che sta l’errore, siccome la lotta avviene in un contesto determinato, noi lotteremo insieme a coloro che vivono in questo contesto, quello dello Stato dove si stabiliscono le leggi che regolano i rapporti tra i gruppi sociali, chi vive in altri contesti porterà invece avanti le sue lotte per migliorare la società in cui vive).
Non siamo che agli inizi di una era, se la Russia proseguirà nello scontro contro il sistema occidentale dovrà affrontare i problemi interni proponendo nuove soluzioni rispetto a quelle liberal-capitalistiche, perché soltanto con il coinvolgimento popolare potrà affrontare tale scontro (il consenso e l’appoggio popolare è l’unico autentico fattore di superiorità rispetto alla sola superiorità tecnica su cui punta l’Occidente), e tale coinvolgimento lo si realizza percorrendo una via opposta alle economie occidentali che vedono l’esclusione di fasce sempre più ampie di popolazione. Soltanto ridando una patria agli uomini, un contesto in cui la loro vita, il loro agire e patire, abbia un senso e una continuità questi sono disposti a compiere dei sacrifici, fino al massimo sacrificio della vita.”

Da La difesa della sovranità nelle lotte future, di Gennaro Scala.

Facciamo i conti, hic et nunc, con l’occupante a stelle e strisce

elezioni

Alla faccia di PisciaLetta e di tutti gli scodinzolanti ominicchi di destra, centro e sinistra…

“Sessant’anni di subordinazione politica e geoeconomica agli Stati Uniti hanno ormai quasi definitivamente privato il nostro paese d’industrie attive nei settori high tech e ridotto la classe politica italiana ad un insieme di smidollati e pagliacci che in nome del deficit, dei parametri dell’euro e della “carta”, sono disposti a sacrificare il “ferro”, interi comparti industriali medi e soprattutto high-tech. Tutto il contrario di quello che fanno gli USA, come abbiamo visto, o di quello che fanno i francesi e i tedeschi.
Per invertire la rotta bisognerebbe dotarsi di un ceto dirigente sovranista ed europeista in senso forte che smascheri quello euroatlantico, annichilendo tanto le correnti culturali domestiche decrescetiste, tecnofobe, antiscientifiche, romantiche, pacifiste e primitiviste – vero cancro del paese che l’hanno infettato alle radici – tanto quanto quelle politiche piccolo-nazionali ed atlantiste.
Ma anche se, nella più ottimistica delle previsioni, ciò dovesse accadere, l’Italia da sola non avrebbe i numeri per fare una politica di sviluppo (e potenza) sostenibile; nell’era dei continenti e dei grandi spazi, l’Italia da sola non può fare “Big Science” e competere con quei giganti aziendali che stanno alla base del dominio USA. Nel XXI secolo ci vuole stazza continentale ed è pertanto necessaria una stretta alleanza con uno o più delle potenze nazionali vicine, siano queste la Francia, la Germania o la Russia. E’ indispensabile una scelta paneuropea dell’industria high-tech italiana, che passi attraverso la fusione dei diversi comparti nazionali europei, avendo la forza di contrattare un accorpamento che tuteli il più possibile gli interessi della nostra popolazione. Alla radice ci deve essere una condivisa scelta politica di creazione di un blocco continentale autonomo dagli USA.
(…)
Un’Italia guidata da un gruppo dirigente sovranista ed europeista forte, dovrebbe però chiedere alla Germania (e in subordine alla Francia) di giocare allo scoperto e mettere le carte sul tavolo per capire se vale veramente la pena di puntare ad un’aggregazione paneuropea attorno al nucleo tedesco, e magari poi aiutarla e fiancheggiarla in questo duro percorso che preveda la creazione di un reale blocco continentale, con una vera unificazione dotata di un esercito europeo, di un bilancio comune, di una “Big Science” comune, di una politica estera ed economica autonoma dagli USA.
Con l’inizio del nuovo mandato di Angela Merkel, con le contrattazione sul TAFTA che stanno per partire, con le decisioni del nuovo management di Siemens e tanti altri segnali, si riuscirà a stanare meglio le reali intenzioni della Germania.
Ma è certo che ad aiutare o addirittura a pretendere dalla nazione tedesca non può essere la “puttana” atlantica che dall’8 settembre del ’43 – e ancora più negli ultimi vent’anni – siamo soliti chiamare Italia, cavallo di troia statunitense nell’Unione Europea tanto quanto la Gran Bretagna.
(…)
Se vogliamo che nei cieli della nostra terra risplenda un barlume di dignità e di patriottismo europeo; se vogliamo che tra le sue valli rimbombi di nuovo dieci e cento volte “Eureka” – la gioia della scoperta e l’orgoglio del progresso tecnico e scientifico oggi possibile solo con la “Big Science” e con la stazza continentale – facciamo i conti, hic et nunc, con l’occupante a stelle e strisce e liberiamoci da una classe dirigente che sembra saper dire solo: “Yes, Sir”.”

Da La battaglia per le aziende strategiche, di Michele Franceschelli.

L’americanizzazione che avanza

“Quando ho sentito per la prima volta, l’anno scorso, che le istituzioni stavano organizzando i “150 anni dell’Unità d’Italia”, di prim’acchito ho pensato si trattasse del consueto gorgo in cui far sparire, un bel po’ di soldi pubblici, alla faccia della “crisi”, con l’abituale condimento di retorica insulsa; ma quando quest’anno è scattata l’aggressione militare alla Libia, e Roma, malgrado il Trattato di amicizia e collaborazione con Tripoli (ostentato come un fiore all’occhiello fino al giorno prima), ha subitamente aderito, mi si è chiarito il perché di tanta enfasi su questa “ricorrenza patriottica”…
Siamo in guerra ma non lo si può ammettere, questa è la verità. Siamo in guerra al fianco dell’America e dell’Occidente (non mi stancherò mai di ripetere che si tratta di sinonimi, per indicare la civiltà dell’ateismo e del “regno della quantità”). Ma come ci siamo scivolati in questa situazione che solo vent’anni fa sarebbe stata impresentabile?
La musica è cambiata un po’ per volta, a partire dalla prima Guerra del Golfo (1991): l’Italia che “ripudia la guerra” (art. 11 della Costituzione) è ormai un pallido ricordo, poiché di fatto oggi la sua “classe dirigente” non fa nulla per evitare di finirvi dentro, né di fiancheggiarla o di giustificarla, se a volerla sono i “nostri alleati” (altrimenti è “condanna senza se e senza ma”: mi pare di sentirlo un Frattini che condanna uno “Stato canaglia”!). Abbiamo poi assistito in tutti questi anni post-Urss ad un progressivo protagonismo militare del nostro Paese, dalla partecipazione allo sbarco in Somalia con tanto di riprese in diretta all’ignobile attacco all’ex Jugoslavia, fino alle decine di costosissime “missioni di pace”, dal Libano (dove peraltro c’eravamo già stati nei primi anni Ottanta, ma con altre motivazioni perché non eravamo così impelagati con NATO & soci) all’Iraq, all’Afghanistan, dove – colmo della mistificazione – manderemmo i nostri “scarponi” a far da “sentinelle della democrazia” e della “ricostruzione” (dopo che gli “alleati” hanno volutamente ridotto quella terra a un cumulo di rovine!) .
Per carità, non sono così fesso da pensare che ogni volta l’Italia partecipi entusiasticamente (siamo o non siamo una colonia americana? ad ogni ordine bisogna battere i tacchi! e chi non lo fa è morto); o che nelle recondite pieghe di qualche tentennamento o attacco ai nostri contingenti (v. la famosa “strage di Nassiriyya”) non si nascondano chissà quali “pugnalate alle spalle” da parte di quelli che la propaganda presenta invariabilmente come “amici”. Non sono neppure così ingenuo da ritenere che alla fine un qualche vantaggio, talvolta, vi sia più nello “starci dentro” che nel “rimanere fuori”… Ma con questa giravolta libica – l’ennesima della nostra disonorevole storia nazionale – si rende davvero un’impresa disperata presentare la cosa in termini di “interesse nazionale”.
Infatti non avevamo alcun interesse ad associarci a quest’ennesimo odioso crimine, di cui siamo ragguagliati ancor meno di quanto ci illusero di sapere in occasione delle precedenti “guerre democratiche” degli ultimi vent’anni. Siamo passati da Peter Arnett della CNN e la guerra tipo videogioco sul cielo di Baghdad alla sparizione pura e semplice di ogni notizia, tant’è che la Libia è passata in secondo o terzo piano, messa dopo le trite scaramucce centro-destra e centro-sinistra, le notizie relative ai disastri meteorologici e il periodico caso di cronaca nera sul quale i notiziari indugiano morbosamente con ogni dovizia di particolari sempre più scabrosi e inquietanti. Dell’aggressione alla Libia ci fanno vedere solo e sempre la solita scena dei “ribelli” che al “ciak si gira” dell’operatore televisivo si mettono a sparare a vanvera in aperta campagna… tanto le pallottole le paghiamo noi!
Stavolta hanno deciso che è decisamente meglio non parlarne proprio, così sembrerà che il problema non sussiste. Ed il risultato è assicurato perché la gente, in giro, non alcuna cognizione del fatto che a pochi chilometri noi anche i “nostri ragazzi” sganciano bombe addosso a persone che non ci hanno fatto alcun male, né avevano minacciato di farcene.
La vergogna è troppo grossa per andare in giro orgogliosi di questo ‘capolavoro’. E cosa di meglio, per velare questo scempio, della retorica patriottica per i “150 anni dell’Unità d’Italia”? Ecco che ogni occasione è buona per propinarci l’eroismo dei “nostri ragazzi” e l’efficienza delle nostre Forze Armate, coi balconi di alcune città-simbolo della pretestuosa ricorrenza – Torino su tutte – addobbati fino all’inverosimile col tricolore, come neppure s’era visto per la vittoria ai mondiali di calcio!”

L’americanizzazione che avanza: il “patriottismo senza patria” e la militarizzazione dell’immaginario, di Enrico Galoppini continua qui.

Qualcosa che non accadrà più

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Arlington, 11 novembre – ”I nostri veterani in Vietnam hanno servito il Paese con grande onore. Ma spesso al loro ritorno a casa non sono stati accolti con gratitudine e sostegno, ma con parole di condanna e di disprezzo. Questo è qualcosa che non accadrà più”.
La promessa, rivolta ai militari statunitensi attualmente impegnati nei conflitti in Iraq ed Afghanistan, è stata pronunciata dal presidente Barack Obama, che oggi al Cimitero Nazionale di Arlington ha presieduto le commemorazioni della Giornata dei Veterani. ”Se dobbiamo essere onesti con noi stessi, dobbiamo ammettere che alcune volte come nazione abbiamo tradito la fiducia dei nostri soldati”, ha aggiunto Obama. ”Per generazioni i nostri uomini e le nostre donne in divisa hanno fatto il loro dovere e fino a che resterò il comandante in capo, l’America farà il suo dovere con loro”.
Accompagnato dalla moglie Michelle, Obama ha rivolto un pensiero a ”coloro che stanno svolgendo oggi il loro servizio in posti lontani: quando vedranno la nostra bandiera, quando torneranno a casa, capiranno che l’America è sempre qui con loro, così come loro sono andati laggiù per noi. Questa è la mia promessa, la promessa della nostra nazione”.
(ASCA-AFP)

E non dubitiamo che la manterrai, Barack.

Chi ride e chi piange

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“Ed il punto essenziale sta in ciò, che la religione olocaustica sancisce l’asservimento dell’Europa agli USA. Non è neppure così difficile capirlo. Hitler è morto nel 1945, il nazismo non ha alcuna possibilità di ritornare, ma la Germania (chiave geopolitica dell’Europa) deve restare inchiodata per i secoli dei secoli alla colpa originaria. Persino l’allievo sciocco e politicamente corretto dei suoi ben migliori maestri francofortesi Jürgen Habermas è costretto a sostenere che la Germania, essendo colpevole del crimine unico e incomparabile di Auschwitz, non potrà avere mai più un “patriottismo” nazionale, ma soltanto un “patriottismo della costituzione”, e cioè una totale mancanza di legittimo patriottismo nazionale. E perché, di grazia, in un’ottica di razionalismo universalistico di matrice illuministica, l’Inghilterra, l’Olanda e Israele possono essere “patriottiche” e la Germania no? Perché c’è stato Hitler dal 1933 al 1945? Ma tutti i paesi, nessuno escluso, hanno avuto personaggi criminali nella loro storia (persino i socialdemocratici scandinavi hanno schiavizzato la gente per un millennio nel loro periodo vichingo-normanno-variago).
E allora? Forse che le giovani generazioni nate dopo devono esservi inchiodate?
Certo. Devono esservi inchiodate. E devono esservi inchiodate perché la nuova religione imperiale USA deve poter giustificare il mantenimento delle basi militari in Europa e la trasformazione della NATO da alleanza difensiva europea a mercenariato militare occidentalistico globalizzato (Afghanistan, eccetera) press’a poco con questo ragionamento: “Voi Europei siete come bambini incoscienti che vi fareste male da soli, se noi vi lasciassimo fare a modo vostro. Avete fatto la mattanza della prima guerra mondiale, avete permesso che la diarchia Hitler-Stalin vi dominasse, ed avete soprattutto permesso Auschwitz, incomparabile con qualsiasi altro evento (Hiroshima è stato uno spiacevole mezzo per salvare le vite dei nostri ragazzi). E allora meritate di essere occupati in sæcula sæculorum. Se poi qualcuno vi dice che lo facciamo per ragioni geopolitiche, sappiate che si tratta di un fanatico antiamericano e certamente anche antisemita.”

In Dalla giudeofobia alla giudeolatria, di Costanzo Preve, da “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” anno VI, numero 2, maggio-agosto 2009, pp. 176-177.

[Dello stesso autore: Una vera storia infinita]