Vae victis

L’Italia e la Germania hanno perso la guerra.
Negli ultimi settant’anni ogni tanto si sono presi la briga di ricordarcelo, ma non hanno potuto calcare troppo la mano altrimenti si sarebbe potuta spezzare la corda.
Ci hanno fatto vivere al di sopra delle nostre possibilità perchè era il modo più intelligente per controllarci e perchè dovevamo fungere da vetrinetta per far schiattare d’invidia i cittadini del Patto di Varsavia e facilitare l’inoculazione di quel sentimento anti-russo che tanto utile sta tornando in questi tempi per tenere lontana l’Europa Occidentale dall’unica possibilità che ha per affrancarsi dal giogo imperiale: un’alleanza strategica con la Russia (il nostro posto nel frattempo è stato preso dai Polacchi, dai Baltici, dai Cechi, che ora vivono nell’illusione che ha caratterizzato i nostri anni più belli).
Caduto il Muro, hanno polverizzato un’intera classe dirigente ambigua (per loro) e fatto avanzare le quinte colonne storiche (Napolitano in primis) e le seconde linee preventivamente indottrinate all’atlantismo, al neoliberismo, al carrierismo (in Germania con la Baerbock addirittura stanno per promuovere le seste linee: ma è gggiovane, è donna, è “green”, cosa si può voler di più dalla vita ? Forse si accorgeranno tra una decina d’anni del calibro che hanno usato per spararsi nelle mutande; del resto noi ancora non l’abbiamo capito).
Nel momento stesso in cui hanno rimosso la minaccia del socialismo reale, hanno iniziato a richiedere indietro, un poco alla volta, tutti i fringe benefit che avevano concesso per rammollire la popolazione, nascondere lo status di Paesi occupati, disinnescare la resistenza e per marcare la differenza con l’Impero del Male (diritti sociali, garanzie costituzionali, standard di vita tra i più alti al mondo) e sono gradualmente passati, modello rana bollita, dal soft power (cit. Joseph Samuel Nye) allo hard power che stiamo vivendo in questi giorni.
Questo cambio di paradigma nei Paesi sotto occupazione mascherata è estremamente pericoloso visto che non può essere indolore e pertanto necessita di provvedimenti da Paese sotto controllo militare: sistemi di sorveglianza di massa, coprifuoco, Stato di polizia, chiusura delle frontiere, check point, pass sul modello dell’ahnenpass nazista, amministrazione controllata dell’economia con particolare riferimento alla libera impresa, normalizzazione dell’autoritarismo a partire dalle scuole, criminalizzazione del dissenso, propaganda sfrenata, promozione sociale dei collaborazionisti, apartheid…
Il passaggio dal soft allo hard power richiede un periodo di transizione, necessario per riprogrammare attraverso la propaganda e la manipolazione occulta le menti dei popoli sotto occupazione e per costruire le infrastrutture necessarie per l’esercizio del governo autoritario.
E questo è esattamente il momento che stiamo vivendo: il Sistema sta velocemente abbandonando la vecchia pelle democratica, ormai troppo stretta e lacerata, e sta consolidando all’aria la nuova, più robusta e adatta a contenere un corpo sociale non ancora pronto per la svolta autoritaria.
Questa è l’ultima occasione che abbiamo, dobbiamo agire mentre sono in muta, è l’unico momento di vulnerabilità del Sistema; una volta cambiata la pelle, inizierà l’epoca della repressione manu militari del dissenso oppure, in caso estremo, la guerra civile.
E’ chiaro che per uscirne non c’è altra via che una guerra di liberazione, prima ce ne rendiamo conto, meglio sarà per tutti.
Bisogna spiegarlo anche ai nostri fratelli oltre le Alpi e oltre cortina sanitaria, perchè una cosa sola è certa, da soli non ne usciremo liberi.
Giorgio Bianchi

“Una strategia fallita ma che ha lasciato un effetto duraturo”

L’intervento del dott. Guido Salvini, magistrato presso il Tribunale di Milano, presentato al convegno “La rete eversiva di estrema destra in Italia e in Europa (1964-1980)”, svoltosi a Padova l’11 novembre 2016.

“Il quinquennio 1969-1974 rappresenta il periodo cruciale e più sanguinoso, l’apice di quella che è stata chiamata la strategia della tensione: in Italia si verificano ben cinque stragi, un’altra mezza dozzina di stragi almeno, soprattutto su linee ferroviarie, falliscono per motivi tecnici perché l’ordigno non esplode o il convoglio riesce a superare il tratto di binario divelto, vi è il tentativo di colpo di Stato del principe Valerio Borghese seguito da altri progetti che durano fino al 1974, vi è infine un attentato in danno dei Carabinieri quello di Peteano, con tre vittime, del maggio ‘72 caratterizzato, come vedremo, da una propria specificità.
Già l’anno 1969 in Italia anno è denso di avvenimenti politici.
In quel momento il governo è un debole monocolore guidato dall’on. Rumor che si muove in una situazione incandescente per il rinnovo dei più importanti contratti e la mobilitazione quindi di centinaia di migliaia di operai; inizia la protesta studentesca nei licei e nelle università con un anno di ritardo rispetto al 1968 francese. Sono poi in discussione in quella fase politica riforme decisive sul piano strutturale e culturale come lo Statuto dei Lavoratori, l’approvazione del sistema delle Regioni, la legge sul divorzio.
Nixon è presidente gli Stati Uniti e sono gli anni della dottrina Kissinger, quella secondo cui i governi italiani e i partiti politici di centro dovevano respingere ogni ipotesi di accordo e di compromesso con il PCI e le forze di sinistra, scelta facilitata in passato, come ha ricordato anche Aldo Moro nel suo memoriale scritto dalla prigionia, da continui flussi di finanziamenti distribuiti nascostamente dall’amministrazione americana a partiti e organizzazioni di centrodestra talvolta tramite il SID del gen. Miceli. Il 27 febbraio 1969 il presidente della Repubblica americano fa una visita in Italia ed incontra al Quirinale il presidente Saragat. Vi è stata da poco la scissione del PSI e attorno al PSDI, cui Saragat appartiene, si radunano le correnti più determinate in senso filo-atlantico e più contrarie al mantenimento dell’esperienza di centro-sinistra.
Secondo un dossier contenuto negli archivi di Washington e desecretato il Presidente italiano concorda con quello americano sul “pericolo comunista” e afferma che agli occhi degli italiani il PCI si fa passare per un partito rispettabile ma è dedito agli interessi del Cremlino.
Il giorno della visita del presidente Nixon a Roma la città è blindata e scoppiano gravissimi incidenti tra la polizia ed extraparlamentari di sinistra cui seguono nell’Università scontri tra questi ultimi e militanti dell’estrema destra: vi è la prima vittima di quell’anno Domenico Congedo, uno studente anarchico, Congedo che durante un attacco dei fascisti alla facoltà di Magistero precipita da una finestra.
Del resto a livello internazionale la situazione è critica per il blocco occidentale in quanto molti Paesi afro-asiatici sotto la spinta della decolonizzazione entrano nell’orbita dei Paesi socialisti e alcuni passaggi di campo vengono impediti solo attraverso guerre civili o colpi di Stato molto sanguinosi da quello in Indonesia nel 1965 a quello in Cile nel 1973.
Non sembra un caso che la stagione delle stragi si collochi all’interno di questo quadro internazionale e coincida quasi perfettamente con la durata della presidenza Nixon e declini nel 1974 dopo la crisi del Watergate e lo sfaldarsi dei regimi dittatoriali in Europa, la Grecia, la Spagna, il Portogallo con il conseguente venir meno dell’ipotesi di un colpo di Stato anche in Italia che s’ispiri a quelle esperienze.”

Gli anni 1969-1974 in Italia: stragi, golpismo, risposta giudiziaria continua qui.

Intermarium, chi era costui?

“Dopo la guerra combattuta tra la Russia e la Polonia e conclusasi il 18 marzo 1921 col trattato di pace di Riga, il Maresciallo Józef Piłsudski (1867-1935), capo provvisorio del rinato Stato polacco, lanciò l’idea di una federazione di Stati che, estendendosi “tra i mari” Baltico e Nero, in polacco sarebbe stata denominata Międzymorze, in lituano Tarpjūris e in latino, con un neologismo poco all’altezza della tradizione umanistica polacca, Intermarium. La federazione, erede storica della vecchia entità politica polacco-lituana, secondo il progetto iniziale di Piłsudski (1919-1921) avrebbe dovuto comprendere, oltre alla Polonia quale forza egemone, la Lituania, la Bielorussia e l’Ucraina. È evidente che il progetto Intermarium era rivolto sia contro la Germania, alla quale avrebbe impedito di ricostituirsi come potenza imperiale, sia contro la Russia, che secondo il complementare progetto del Maresciallo, denominato “Prometeo”, doveva essere smembrata nelle sue componenti etniche.
Per la Francia il progetto rivestiva un certo interesse, perché avrebbe consentito di bloccare simultaneamente la Germania e la Russia per mezzo di un blocco centro-orientale egemonizzato dalla Polonia. Ma l’appoggio francese non era sufficiente per realizzare il progetto, che venne rimpiazzato dal fragile sistema d’alleanze spazzato via dalla Seconda Guerra Mondiale.
Una più audace variante del progetto Intermarium, elaborata dal Maresciallo tra il 1921 e il 1935, rinunciava all’Ucraina ed alla Bielorussia, ma in compenso si estendeva a Norvegia, Svezia, Danimarca, Estonia, Lettonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia, Jugoslavia ed Italia. I due mari diventavano quattro, poiché al Mar Baltico ed al Mar Nero si venivano ad aggiungere l’Artico e il Mediterraneo. Ma anche questo tentativo fallì e l’unico risultato fu l’alleanza che la Polonia stipulò con la Romania.
L’idea di un’entità geopolitica centroeuropea compresa tra il Mar Baltico e il Mar Nero fu riproposta nei termini di una “Terza Europa” da un collaboratore di Piłsudski, Józef Beck (1894-1944), che nel 1932 assunse la guida della politica estera polacca e concluse un patto d’alleanza con la Romania e l’Ungheria.
Successivamente, durante il secondo conflitto mondiale, il governo polacco di Władisław Sikorski (1881-1943) – in esilio prima a Parigi e poi a Londra – sottopose ai governi cecoslovacco, greco e jugoslavo la prospettiva di un’unione centroeuropea compresa fra il Mar Baltico, il Mar Nero, l’Egeo e l’Adriatico; ma, data l’opposizione sovietica e la renitenza della Cecoslovacchia a federarsi con la Polonia, il piano dovette essere accantonato.
Con la caduta dell’URSS e lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’idea dell’Intermarium ha ripreso vigore, rivestendo forme diverse quali il Consiglio di Cooperazione nel Mar Nero, il Partenariato dell’Est e il Gruppo di Visegrád, meno ambiziose e più ridotte rispetto alle varianti del progetto “classico”.
Ma il sistema di alleanze che più si avvicina allo schema dell’Intermarium è quello teorizzato da Stratfor, il centro studi statunitense fondato da George Friedman, in occasione della crisi ucraina. Da parte sua il generale Frederick Benjamin “Ben” Hodges, comandante dell’esercito statunitense in Europa (decorato con l’Ordine al Merito della Repubblica di Polonia e con l’Ordine della Stella di Romania), ha annunciato un “posizionamento preventivo” (“pre-positioning”) di truppe della NATO in tutta l’area che, a ridosso delle frontiere occidentali della Russia, comprende i territori degli Stati baltici, la Polonia, l’Ucraina, la Romania e la Bulgaria. Dal Baltico al Mar Nero, come nel progetto iniziale di Piłsudski.
Il 6 agosto 2015 il presidente polacco Andrzej Duda ha preconizzato la nascita di un’alleanza regionale esplicitamente ispirata al modello dell’Intermarium. Un anno dopo, dal 2 al 3 luglio 2016, nei locali del Radisson Blue Hotel di Kiev ha avuto luogo, alla presenza del presidente della Rada ucraina Andriy Paruby e del presidente dell’Istituto nazionale per la ricerca strategica Vladimir Gorbulin, nonché di personalità politiche e militari provenienti da varie parti d’Europa, la conferenza inaugurale dell’Intermarium Assistance Group, nel corso della quale è stato presentato il progetto di unione degli Stati compresi tra il Mar Baltico e il Mar Nero.
Nel mese successivo, i due mari erano già diventati tre: il 25-26 agosto 2016 il Forum di Dubrovnik sul tema “Rafforzare l’Europa – Collegare il Nord e il Sud” ha emesso una dichiarazione congiunta in cui è stata presentata l’Iniziativa dei Tre Mari, un piano avente lo scopo di “connettere le economie e infrastrutture dell’Europa centrale e orientale da nord a sud, espandendo la cooperazione nei settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni digitali e in generale dell’economia”. L’Iniziativa dei Tre Mari, concepita dall’amministrazione Obama, il 6 luglio 2017 è stata tenuta a battesimo da Donald Trump in occasione della sua visita a Varsavia. L’Iniziativa, che a detta del presidente Duda nasce da “un nuovo concetto per promuovere l’unità europea”, riunisce dodici paesi compresi tra il Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico e quasi tutti membri dell’Alleanza Atlantica: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Austria, Slovenia, Croazia, Ungheria, Romania, Bulgaria.
Sotto il profilo economico, lo scopo dell’Iniziativa dei Tre Mari consiste nel colpire l’esportazione di gas russo in Europa favorendo le spedizioni di gas naturale liquefatto dall’America: “Un terminale nel porto baltico di Świnoujście, costato circa un miliardo di dollari, permetterà alla Polonia di importare Lng statunitense nella misura di 5 miliardi di metri cubi annui, espandibili a 7,5. Attraverso questo e altri terminali, tra cui uno progettato in Croazia, il gas proveniente dagli USA, o da altri Paesi attraverso compagnie statunitensi, sarà distribuito con appositi gasdotti all’intera ‘regione dei tre mari’” .
Così la macroregione dei tre mari, essendo legata da vincoli energetici, oltre che militari, più a Washington che non a Bruxelles ed a Berlino, spezzerà di fatto l’Unione Europea e, inglobando prima o poi anche l’Ucraina, stringerà ulteriormente il cordone sanitario lungo la linea di confine occidentale della Russia.”

Da Il cordone sanitario atlantico, editoriale di Claudio Mutti del n. 4/2017 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.

“Il 9 novembre 1989 segnò la fine del ciclo storico socialdemocratico, il 9 novembre 2016 invece l’elezione di Trump a Presidente USA rappresenta la fine di quello neoliberale”

Intervista allo storico Paolo Borgognone (1981), autore di diversi saggi, tra cui presso Zambon editore una trilogia sulla disinformazione strategica, Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche, L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, Deplorevoli? L’America di Trump e i movimenti sovranisti in Europa, nonché di Generazione Erasmus. I cortigiani della società del capitale e la “guerra di classe” del XXI secolo in corso di pubblicazione presso Oaks Editrice.
A cura di Federico Roberti.

Il tuo ultimo libro, “Deplorevoli? L’America di Trump e i movimenti sovranisti in Europa”, prende le mosse con l’affermazione che il 9 novembre 2016 è caduto il muro invisibile caratterizzato, nel suo lato economico, dal neoliberalismo e, in quello culturale, dalla retorica dell’antifascismo in assenza di fascismo volta a fidelizzare alla sinistra politicamente corretta i ceti popolari. Possiamo quindi considerare questa data una sorta di 9 novembre 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino, al contrario?
Sì, perché il 9 novembre 1989 il Muro di Berlino fu abbattuto da una controrivoluzione di ceti medi cosmopoliti che desideravano recarsi all’Ovest per guadagnare di più, acquistare prodotti e merci capaci di assicurare loro maggior comfort e riconoscimento in termini simbolici e di status, ovvero accedere ai modelli di consumo e stili di vita europei e americani, entrare in possesso legalmente di valuta pregiata e gestire la propria esistenza secondo i ritmi scanditi dalla società di mercato. La retorica mainstream volta a celebrare la ritrovata libertà di opinione dei tedesco-orientali è poco meno che un orpello propagandistico utilizzato ad hoc per legittimare quello che l’Ottantanove esteuropeo in effetti fu, ossia il trionfo della pseudocultura della mobilità e delle velleità individuali al successo imprenditoriale di una parte rilevante delle società preconsumistiche dei Paesi fino a quel momento interni alle logiche del Patto di Varsavia, del Comecon e del socialismo concretizzato. Il 9 novembre 1989 segnò la fine del ciclo storico socialdemocratico. Il 9 novembre 2016 invece, Brexit e l’elezione di Trump a Presidente USA rappresentarono la fine del ciclo storico neoliberale, poiché questi fenomeni si verificarono all’intersezione tra la destra politico-culturale e la sinistra economica, ovvero ebbero come propria base di consenso un postproletariato nazionale sradicato dai processi di globalizzazione e ostile nei confronti della summenzionata, elitaria, sottocultura della mobilità. Ventisette anni prima il conflitto geopolitico e ideologico in corso tra USA e URSS fu vinto da attori sociali che avevano fatto propria l’articolazione concettuale e simbolica, nichilista, del capitalismo liberale, poiché la proposta politica che scaturì da quel ciclo storico di rivolte controrivoluzionarie si basava sull’egemonia di una cultura gauchiste e libertaria, tutta protesa alla retorica dei diritti cosmetici e sul predominio del neoliberismo in economia. Esattamente l’opposto accade oggi, per questo le citate élite del denaro che “non dorme mai” e della mobilità globale che avevano celebrato l’Ottantanove esteuropeo attivano tutto il potere di fuoco multimediale di cui dispongono per demonizzare, riproponendo l’ormai antistorica dicotomia novecentesca fascismo/antifascismo, l’ascesa degli eterogenei movimenti di insorgenza populista in Europa e Stati Uniti.

A tuo parere, sono fondati i timori che possa verificarsi una rivoluzione di velluto nei confronti del neoeletto Presidente USA? Oppure è più probabile che possa essere messo da parte attraverso un golpe che potremmo definire psichiatrico? Per non affrontare la complessa procedura congressuale prevista per il cosiddetto “impeachment”, infatti qualcuno potrebbe essere tentato di ricorrere al paragrafo 4 del 25° emendamento della Costituzione USA, che prevede la destituzione del Presidente nel caso non sia più in grado fisicamente o mentalmente di assolvere alle sue funzioni, le quali verrebbero assunte almeno temporaneamente dal Vice Presidente. Nella fattispecie, una diagnosi di psichiatri di chiara fama, sostenuti da un certo numero di membri dell’esecutivo, sarebbe sufficiente a rimuovere Trump.
Il ricorso alla psichiatria dovrebbe essere lo strumento di analisi con cui interpretare le idiosincrasie ideologiche di chi, e mi riferisco a Bernie Sanders e sodali, alle primarie del Partito Democratico ha fatto continuamente appello al richiamo populista e alla proposta economica socialdemocratica per sfidare le élite del capitalismo finanziario e l’establishment di Wall Street contigui a Hillary Clinton e poi, in sede elettorale, è rifluito sul sostegno alla paladina dello stato di cose presenti. Ora, non dico che Sanders avrebbe dovuto appoggiare Trump ma il sostegno che l’anziano esponente socialista democratico ha regalato incondizionatamente a Hillary Clinton è la riprova, ulteriore, della subalternità ideologica della sinistra al campo liberale. Una subalternità giustificata tramite il ritornello del “nemico principale” identificato nella destra populista e non nel capitalismo di libero mercato in quanto tale. Non dubito che i Millennials che alle primarie del Partito Democratico appoggiarono Sanders, oggi potrebbero fungere da massa di manovra controrivoluzionaria per un “golpe colorato” avente l’obiettivo di neutralizzare l’outsider Donald Trump. Le centrali ideologiche di questo golpe in itinere io le cercherei più nella Silicon Valley (culla degli apologisti dell’ideologia del progresso fondata sulle potenzialità taumaturgiche delle nuove tecnologie sulla strada della transizione al postumano) che non a Wall Street mentre le corporation dell’industria dello spettacolo hollywoodiana potrebbero offrire la sponda di copertura e legittimazione scenica di questa “rivoluzione colorata”. L’impeachment potrebbe essere una strada percorribile da parte degli oppositori di Trump, così come lo sono il sabotaggio parlamentare delle procedure di Brexit. Tuttavia, non credo che i cicli storici di cambiamento epocale dell’approccio pubblico alle questioni interne e internazionali possano essere fermati a colpi di decreto.

A seguito dell’elezione di Trump e degli eventi politici che hanno costellato il 2016 – citiamo, fra gli altri, la vittoria del “leave” al referendum sulla Brexit e la netta maggioranza con la quale in Italia è stato respinto il progetto di riforma costituzionale avanzato dal governo Renzi – quale è, se esiste, la strada tracciata dinanzi a quelli che tu chiami movimenti sovranisti in Europa, più frequentemente e spregiativamente denominati populisti?
Una strada che appare simile a un labirinto. I sovranisti sono attori politici con un’identità ideologica incerta, tra loro eterogenei e spesso incompatibili (la galassia politica sovranista si articola in un perimetro che va dal PVV olandese, liberal-liberista, atlantista, filoisraeliano e interno alla narrativa islamofoba fallaciana fino allo Jobbik ungherese, un partito eurasiatista e antisionista), frutto dei caratteri nazionali dei rispettivi contesti d’origine e piuttosto inclini alle logiche del partito imprenditore della rappresentanza dei ceti genericamente incazzati nei confronti di un’oligarchia i cui contorni politico-affaristici e i cui legami internazionali gli stessi sovranisti esitano a delineare con precisione. Detto questo, i sovranisti sono accomunati da alcune proposte programmatiche condivise, ad esempio il ripristino dei poteri pubblici statali sulle frontiere nazionali dei singoli Paesi, la contestualizzazione del conflitto di classe in corso su linee verticali (chi sta in alto vs chi sta in basso) e la narrativa anti-immigrazione. Quest’ultima sembrerebbe, per ovvi motivi di appeal in quanto l’immigrazione è un problema che tocca, nei Paesi della UE, la quotidianità delle persone assai più di altri sconvolgimenti frutto delle politiche neoliberali sistemiche, la direttrice propagandistica foriera di maggiori consensi pubblici ai partiti sovranisti. Certo, non sarebbe male se i sovranisti inquadrassero il fenomeno migratorio nel contesto del regime dei flussi imposto dal capitalismo finanziario e digitale globale, invece che ingannare l’opinione pubblica perseverando a sentenziare che, una volta giunti al governo dei rispettivi Paesi, avrebbero rispedito i migranti a casa propria con il proverbiale “calcio in culo” di leghista memoria. Nel momento in cui i partiti sovranisti della destra si convinceranno che il “calcio in culo” di cui sopra va assestato, più che agli immigrati, agli esponenti di quella upper class creativa di mode e stili di consumo, desiderio e capriccio forgiate ad hoc per dettare il tono della vita di tutti, potranno costituire un’alternativa di sistema ai partiti globalisti tuttora al governo nei principali Paesi della UE. Sull’altro versante, i partiti populisti di sinistra, qualora vi fossero forze politiche organizzate di questo tipo in Europa (e, francamente, a parte alcune eccezioni, come Unità Popolare in Grecia e spezzoni minoritari della Linke in Germania, non sono in grado di scorgerne), potranno risultare convincenti nel momento in cui si risolveranno a convenire sull’assunto concernente l’irriformabilità dall’interno della UE, abbandonando ogni velleità di “uscire” dalla crisi di sovranità in cui le politiche neoliberali dell’élite finanziaria globalista hanno precipitato popoli e nazioni rimanendo “dentro” le strutture di governance multilivello stabilite proprio dai ceti finanziari che, a parole, la sinistra ambisce contrastare.

In Francia, la pressione mediatica e giudiziaria sui candidati alle prossime elezioni presidenziali considerati filo-russi, François Fillon e Marine Len Pen, sta crescendo vertiginosamente. Con il paradossale esito che i consensi persi dal primo vadano a rafforzare ulteriormente la seconda…
E’ noto che un’eventuale vittoria elettorale di Marine Le Pen in Francia alle prossime presidenziali sconvolgerebbe definitivamente gli assetti neoliberali della UE e pertanto questa vittoria è, da parte di chi si ritrova nella prospettiva politica antiglobalista, auspicabile, al di là delle critiche che si possono muovere alla candidata del FN, come ad esempio l’essere piuttosto filoisraeliana in politica estera, il guidare un partito a direzione familiare o l’aver approntato un programma economico semi-liberista. C’è sempre qualche rivoluzionario più rivoluzionario di tutti pronto a giocare il gioco di un candidato come Macron prestando il fianco, da schizzinoso, agli strali anti-lepenisti della sinistra radicale.
In definitiva, se Marine Le Pen, che parla esplicitamente di fuoriuscita della Francia da UE, euro e strutture militari della NATO, nonché di dar vita a un’Europa di patrie, popoli e nazioni da Lisbona a Vladivostok, dunque alleata con la Russia in funzione anti-atlantista, è avversata dal 100 per cento dei media mainstream internazionali, significa che codesta candidata costituisce il male minore, ossia il bene maggiore, per il suo Paese. E le caste globaliste dei media aziendali faranno di tutto per gettare discredito su Marine Le Pen, rivolgendosi al discorso antifascista di autocelebrazione dello stato di cose presenti e costruendo pretesti scandalistici per incastrare la leader del FN. La strategia è infatti il “metodo Fillon”, utile per levare dai piedi a Macron un avversario potenzialmente urtante in termini di spartizione dei consensi dei ceti medi urbani pro-UE ma, rispetto al giovane banchiere dei Rothschild, percepito come “filo-russo” in politica estera (in passato infatti, Fillon, non si sa se per convinzione personale o per drenare alla propria causa politica, liberale di destra e dunque sistemica, voti appannaggio del FN, aveva denunciato l’«imperialismo americano» nel perimetro geopolitico ex sovietico e condannato le sanzioni imposta dall’amministrazione Obama contro la Russia). Tuttavia, credo che la Commissione Europea e la Merkel ripongano molta fiducia in Macron e abbiano mobilitato tutte le forze di cui dispongono per giungere, in Francia, a un ballottaggio presidenziale tra questi e Marine Le Pen, archiviando la prospettiva, inizialmente coltivata ma divenuta impraticabile nel dopo-Trump, di una presidenza Fillon più difficile da inquadrare nell’ottica di quel conflitto culturale e di classe che oppone flussi a luoghi e globalisti a sovranisti. Dopo Trump i ceti globalisti hanno deciso di serrare i ranghi, puntando tutto sullo showdown finale tra il loro candidato, Emmanuel Macron, banchiere internazionale fedelissimo alla linea liberale di centrosinistra, atlantista, filosionista e clintoniano ideologico, e Marine Le Pen. Le prossime elezioni francesi, il ballottaggio soprattutto, vedranno il concretizzarsi politico e mediatico del conflitto multilivello in corso tra i vincenti della globalizzazione e gli sradicati in cerca di sicurezza, identità e rappresentanza.

La serie di elezioni che sta per prendere il via in Europa rischia di ridisegnare la geografia politica del continente, seppellendo nelle urne l’eurozona e le istituzioni di Bruxelles. Quali potranno essere, a tuo parere, i nuovi possibili scenari di politica internazionale? Sarà possibile trovare una soluzione diplomatica ai conflitti in Siria e Ucraina, nonché avviarsi alla pacificazione del teatro libico? Diminuiranno le tensioni con la Russia oppure la NATO proseguirà nella sua strategia di accerchiamento-avvicinamento ai confini del gigante eurasiatico?
Accolgo con favore i patti di reciproca collaborazione firmati a Mosca tra Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, e alcuni soggetti politici a vario titolo considerati “populisti” dei Paesi della UE, come la Lega Nord e la FPӦ. Forse, e mi perdonerai se pecco di ottimismo, un comune sentire filo-russo da parte di questi partiti potrebbe smorzarne l’elemento sciovinistico interno, aiutandoli a convergere in direzione di una più spiccata sensibilità antiglobalista, rinunciando al nazionalismo e a una visione schematica e mistificatoria dell’Islam come sorta di unitario blocco terroristico antioccidentale. Penso che i populismi (reattivi e patrimoniali) europei odierni siano molto eterogenei tra loro e poco inclini alla prospettiva, propria di uno studioso come Dominique Venner, di uno Stato identitario europeo da contrapporre alla UE neoliberale e transatlantica. Tuttavia, i partiti populisti, esito finale della conversione ideologica della sinistra da partito delle classi lavoratrici autoctone a sponda politica privilegiata dei ceti medi creativi, cosmopoliti e affluenti, i cosiddetti figli della globalizzazione liberale, hanno il merito, pur nella loro inequivocabile eterogeneità ideologica di fondo, di contribuire a far emergere quelle contraddizioni interne al capitalismo globale che probabilmente contribuiranno a cortocircuitare questo regime della paranoia e del nichilismo istituzionalizzati. Per quanto riguarda la NATO, penso che continuerà a puntellare i pericolanti governi sciovinisti di destra dei Paesi baltici e dell’Ucraina in funzione anti-russa. Il tutto mentre il ceto politico-intellettuale pseudo-progressista europeo da un lato persevererà nel condannare colui che definisce il “dittatore” Putin e a sfilare, bandiera rossa (o meglio, arcobaleno) in pugno alle manifestazioni di memorialistica e folklore antifascisti del 25 aprile e, dall’altro, utilizzerà litri d’inchiostro per consolidare, nell’immaginario stereotipato dei lettori dei giornali liberal dove codesti intellettuali organici al politically correct ricoprono il ruolo di strapagati editorialisti, l’idea secondo cui la NATO, insieme ai “combattenti per la libertà” ucraini e baltici, costituirebbe un “baluardo democratico” per proteggere i “valori cosmopoliti europei” dall’“aggressione” russa. I media mainstream sono unanimi nella condanna di una invero inesistente “Internazionale Sovranista” coordinata, secondo tale vulgata, di volta in volta da Trump o Putin nonché finalizzata alla demolizione della UE transatlantica, liberista e cosmopolitica e, al contempo, si prodigano nell’apologia diretta e indiscutibile della, concreta e tangibile, “Internazionale Liberal” il cui scopo manifesto è annientare ogni traccia di etica comunitaria e identità collettiva caratteristiche dell’Europa come spazio geopolitico tradizionale propriamente inteso.

25 anni dalla Guerra del Golfo. Stessa guerra, stesso bisogno di pace

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Il 16 gennaio, a 25 anni dall’inizio della Guerra del Golfo, varie forze anti-guerra manifesteranno a Roma e in altre città contro le guerre in corso.

Venticinque anni fa, nelle prime ore del 17 gennaio 1991, iniziava nel Golfo Persico l’operazione «Tempesta del deserto», la guerra contro l’Iraq che apriva la fase storica che stiamo vivendo.
Questa guerra, preparata e provocata da Washington, veniva lanciata nel momento in cui, dopo il crollo del Muro di Berlino, stavano per dissolversi il Patto di Varsavia e la stessa Unione Sovietica. Approfittando della crisi del campo avversario, gli Stati Uniti rafforzavano con la guerra la loro presenza militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo.
La coalizione occidentale, formata da Washington, inviava nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui il 70 % statunitensi, agli ordini di un generale USA. Per 43 giorni, l’aviazione statunitense e alleata effettuava, con 2800 aerei, oltre 110 mila sortite, sganciando 250 mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciavano oltre 10 milioni di submunizioni.
Partecipavano ai bombardamenti, insieme a quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole, portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi.
Il 23 febbraio le truppe della coalizione, lanciavano l’offensiva terrestre. Essa terminava il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato dal presidente Bush.
La Guerra del Golfo fu la prima guerra a cui partecipava, sotto comando USA, la Repubblica Italiana, violando l’articolo 11, uno dei principi fondamentali della propria Costituzione. I caccia Tornado dell’aeronautica italiana effettuarono 226 sortite, bombardando gli obiettivi indicati dal comando statunitense.
Nessuno sa con esattezza quanti furono i morti iracheni nella guerra del 1991: sicuramente centinaia di migliaia, per circa la metà civili. Alla guerra seguiva l’embargo, che provocava nella popolazione più vittime della guerra: oltre un milione, tra cui circa la metà bambini.
Subito dopo la Guerra del Golfo, gli Stati Uniti lanciavano ad avversari e alleati un inequivocabile messaggio: «Gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana» (Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, agosto 1991).
La NATO, pur non partecipando ufficialmente, in quanto tale, a quella guerra, mise a disposizione le sue forze e le sue strutture. Pochi mesi dopo, nel novembre 1991, il Consiglio Atlantico varava, sulla base della guerra del Golfo, il «nuovo concetto strategico dell’Alleanza». Nello stesso anno in Italia veniva varato il «nuovo modello di difesa» che, stravolgendo nuovamente la Costituzione, indicava quale missione delle forze armate «la tutela degli interessi nazionali ovunque sia necessario».
Nasceva così la strategia che ha guidato le successive guerre sotto comando USA – contro la Jugoslavia nel 1999, l’Afghanistan nel 2001, l’Iraq nel 2003, la Libia nel 2011, la Siria dal 2013 – accompagnate nello stesso quadro strategico dalle guerre di Israele contro il Libano e Gaza, della Turchia contro i curdi del PKK, dell’Arabia Saudita contro lo Yemen, dalla formazione dell’ISIS e altri gruppi terroristi funzionali alla strategia USA/NATO, dall’uso di forze neonaziste per il colpo di stato in Ucraina funzionale alla nuova Guerra Fredda e al rilancio della corsa agli armamenti nucleari.
Su tale sfondo il Comitato No Guerra No NATO ricorda la Guerra del Golfo di 25 anni fa, nel massimo spirito unitario e allo stesso tempo nella massima chiarezza sul significato di tale ricorrenza, chiamando a intensificare la campagna per l’uscita dell’Italia dalla NATO, per una Italia sovrana e neutrale, per la formazione del più ampio fronte interno e internazionale contro il sistema di guerra, per la piena sovranità e indipendenza dei popoli.
Noi non mettiamo tutti sullo stesso piano. Questa guerra viene dall’Occidente. Il terrorismo viene dall’Occidente. La crisi mondiale viene dall’Occidente.
Tutti coloro che hanno firmato l’appello di questo comitato, e che ne condividono l’analisi e gli scopi, sono invitati a partecipare alla manifestazione romana del 16, e alle manifestazioni che verranno realizzate nei centri minori di ogni parte d’Italia, con queste precise posizioni. Noi chiediamo a tutti i cittadini italiani di unirsi a noi nella richiesta di un’Italia neutrale.
Comitato No Guerra No NATO

Fonte

L’espansione NATO trascina l’Europa alla guerra

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Comunicato del Comitato No guerra No NATO

La decisione del Consiglio Nord Atlantico di invitare il Montenegro a iniziare i colloqui di accesso per divenire il 29° membro dell’Alleanza, getta benzina su una situazione già incandescente. Tale decisione conferma che la strategia USA/NATO mira all’accerchiamento della Russia.
Il Montenegro, l’ultimo degli Stati nati dallo smantellamento della Federazione Jugoslava con la guerra NATO del 1999, ha, nonostante le sue piccole dimensioni, un importante ruolo geostrategico nel Balcani. Possiede porti utilizzabili a scopo militare nel Mediterraneo e grandi bunker sotterranei che, ammodernati, permettono alla NATO di stoccare enormi quantità di munizioni, comprese armi nucleari.
Il Montenegro è anche candidato a entrare nell’Unione Europea, dove già 22 dei 28 membri appartengono alla NATO sotto comando USA. Nonostante che perfino l’Europol (l’Ufficio di polizia della UE) abbia messo sotto inchiesta il governo di Milo Djukanovic, perché il Montenegro è divenuto il crocevia del traffico di droga dall’Afghanistan all’Europa e il più importante centro di riciclaggio di denaro sporco.
Dopo aver inglobato dal 1999 al 2009 tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre della ex Unione Sovietica e due della ex Federazione Jugoslava, la NATO vuole ora impadronirsi del Montenegro per trasformarlo in base della sua strategia aggressiva. Si avvale a tal fine della complicità del governo Djukanovic, che all’interno reprime duramente la forte opposizione democratica all’entrata del Montenegro nella NATO.
La NATO mira oltre. Si prepara ad annettere Macedonia, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Ucraina e altri Paesi, per espandersi, con le sue basi e forze militari comprese quelle nucleari, sempre più a ridosso della Russia.
In questa gravissima situazione, in cui l’Europa viene trascinata nella via senza uscita della guerra, il Comitato No Guerra No NATO

  • chiama alla più ampia mobilitazione per l’uscita dell’Italia dalla NATO, per un’Italia neutrale e sovrana che si attenga all’Art. 11 della Costituzione;
  • chiama i movimenti europei anti-NATO a unire le forze in questa battaglia decisiva per il futuro dell’Europa;
  • esprime la sua solidarietà ai movimenti e alle persone (politici, giornalisti e altri) che, in Montenegro, si battono coraggiosamente contro la NATO per la sovranità nazionale.

Catania, 5 dicembre 2015

L’Unione Europea è soltanto una colonia degli Stati Uniti

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“L’Unione Europea è governata da una classe di persone completamente vendute agli Stati Uniti. Esempio tipico e classico è stata la debacle libica, dove gli Stati Uniti e la Francia hanno completamente distrutto il Paese più sviluppato in Africa. Ottenendo che centinaia di migliaia di profughi attraversino il Mediterraneo e cerchino rifugio dalla guerra in Europa. Tale risultato avrebbe potuto essere molto facile da prevedere, e tuttavia i Paesi europei non ha fatto nulla per impedirlo. In realtà, tutte le cosiddette Obamawars (Libia, Siria, Afghanistan, Irak, Yemen, Somalia, Pakistan) hanno portato a enormi flussi di rifugiati. Si aggiunga anche il caos in Egitto, Mali e la povertà in tutta l’Africa. Assistiamo a un esodo di massa che nessun muro-frontiera, fosso di scavo o bombe lacrimogene fermeranno.
Se non bastasse, l’UE ha realizzato quello che può solo essere chiamato un suicidio politico ed economico, consentendo all’Ucraina di esplodere in una guerra civile che coinvolge 45 milioni di persone, che ha distrutto completamente un’economia e installato al potere un vero e proprio regime nazista. Anche questo risultato era facile da prevedere. Ma la reazione degli Euroburocrati e’ stata di imporre sanzioni economiche masochiste alla Russia. Il che che ha finito per creare esattamente le condizioni e l’incentivo necessario per l’economia russa a diversificare e a produrre localmente invece di importare tutto dall’estero.
Vale la pena di ricordare che alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’Europa era praticamente un territorio occupato. I Sovietici avevano la parte centro-orientale, mentre gli Stati Uniti/Regno Unito avevano la parte occidentale. Siamo stati condizionati a pensare che le persone che vivevano sotto “l’oppressione” di ciò che la propaganda degli Stati Uniti ha denominato il “Patto di Varsavia” (in realtà chiamato “Organizzazione del Trattato di Varsavia”) siano stati meno liberi rispetto a quelli che vivevano sotto la “protezione” del Trattato Nord Atlantico.
A parte il fatto che il termine “Nord Atlantico” è stato coniato deliberatamente per legare l’Europa occidentale agli Stati Uniti, la questione centrale è che mentre in molti modi le persone in Occidente hanno avuto più libertà rispetto a quelli in Oriente, gli Stati Uniti/Gran Bretagna occupavano parte di un’Europa che non si è mai ripresa la propria sovranità. E proprio come i Sovietici hanno coltivato un’élite compradora locale in ogni Paese dell’Europa orientale, così hanno fatto gli Stati Uniti in Occidente.
La grande differenza è apparsa solo alla fine degli anni ’80 e ai primi ’90, quando l’intero sistema a conduzione sovietica è crollato mentre il sistema gestito dagli Stati Uniti è uscito rafforzato a seguito del crollo sovietico. Sicché, a partire dal 1991, la morsa di ferro degli Stati Uniti sopra l’UE è diventata ancora più forte di prima.
La realtà è triste e semplice: l’Unione Europea è una colonia degli Stati Uniti, gestita da marionette degli Stati Uniti che non sono in grado di lottare per gli interessi fondamentali ed evidenti degli Europei.”

Da L’Europa è in caduta libera, del Saker.
[Il collegamento inserito è nostro]

Perché dobbiamo uscire dalla NATO

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Questo blog ha aderito alla “Campagna per l’uscita dell’Italia dalla NATO”.
A seguire, il relativo appello che invitiamo i lettori a sottoscrivere.

L’Italia, facendo parte della NATO, deve destinare alla spesa militare in media 52 milioni di euro al giorno secondo i dati ufficiali della stessa NATO, cifra in realtà superiore che il SIPRI quantifica in 72 milioni di euro al giorno.
Secondo gli impegni assunti dal governo nel quadro dell’Alleanza, la spesa militare italiana dovrà essere portata a oltre 100 milioni di euro al giorno.
È un colossale esborso di denaro pubblico, sottratto alle spese sociali, che potrebbe essere fortemente ridotto se l’Italia uscisse dalla NATO.
L’Alleanza Atlantica persegue una strategia espansionistica e aggressiva.
Dopo la fine della guerra fredda, ha demolito con la guerra la Federazione Jugoslava; ha inglobato tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre dell’ex URSS e due della ex Jugoslavia; ha occupato militarmente l’Afghanistan; ha demolito con la guerra la Libia e tentato di fare lo stesso con la Siria.
Ha addestrato forze neofasciste e neonaziste ucraine, organizzando il putsch di piazza Maidan che ha riportato l’Europa a una situazione analoga a quella della Guerra Fredda, provocando un nuovo pericoloso confronto con la Russia.
Ha iniziato a proiettare le sue forze militari nell’Oceano Indiano nel quadro di una strategia che mira alla regione Asia-Pacifico, provocando un confronto militare con la Cina.
In tale quadro, le forze armate italiane vengono proiettate in Paesi esterni all’area dell’Alleanza, per missioni internazionali che, anche quando vengono definite di «peacekeeping», sono guerre finalizzate alla demolizione di interi Stati (come già avvenuto con la Federazione Jugoslava e la Libia).
Uscendo dalla NATO, l’Italia si sgancerebbe da questa strategia di guerra permanente, che viola la nostra Costituzione, in particolare l’Art. 11, e danneggia i nostri reali interessi nazionali.
L’appartenenza alla NATO priva la Repubblica Italiana della capacità di effettuare scelte autonome di politica estera e militare, decise democraticamente dal Parlamento sulla base dei principi costituzionali.
La più alta carica militare della NATO, quella di Comandante supremo alleato in Europa, spetta sempre a un generale statunitense nominato dal presidente degli Stati Uniti. E anche gli altri comandi chiave della NATO sono affidati ad alti ufficiali statunitensi. La NATO è perciò, di fatto, sotto il comando degli Stati Uniti che la usano per i loro fini militari, politici ed economici.
L’appartenenza alla NATO rafforza quindi la sudditanza dell’Italia agli Stati Uniti, esemplificata dalla rete di basi militari USA/NATO sul nostro territorio che ha trasformato il nostro Paese in una sorta di portaerei statunitense nel Mediterraneo.
Particolarmente grave è il fatto che, in alcune di queste basi, vi sono bombe nucleari statunitensi e che anche piloti italiani vengono addestrati al loro uso. L’Italia viola in tal modo il Trattato di non-proliferazione nucleare, che ha sottoscritto e ratificato.
L’Italia, uscendo dalla NATO, riacquisterebbe la piena sovranità: sarebbe così in grado di svolgere la funzione di ponte di pace sia verso Sud che verso Est.
Sostieni la campagna per l’uscita dell’Italia dalla NATO.
La pace ha bisogno anche di te.

Inviare le adesioni a: comitatononato@gmail.com

(Fonte)

Senza un cattivo, la NATO non esisterebbe

red-iceberg“Ora, la NATO è pronta ad aggiungere l’Ucraina, ma nessuno a Berlino, Washington, Parigi o Londra sembra porsi la domanda fondamentale: “Permettere a Kiev di entrare nella NATO rende i loro Paesi più sicuri?”.
Le alleanze militari non sono come locali notturni, dove un gestore può lasciare che un cliente passi la corda di velluto perché ha un aspetto piacente. Piuttosto, tali raggruppamenti sono destinati a rafforzare la sicurezza dei propri membri, di solito reciprocamente. Ad esempio, la NATO si è formata a causa di una minaccia sovietica post-bellica, che tutti i membri fondatori credevano di affrontare. Più tardi, l’avversario Patto di Varsavia aveva lo stesso obiettivo, tranne il nemico percepito che era costituito dagli Stati Uniti. Quando quella preoccupazione svanì, altrettanto fece il Patto. Ma quando l’Unione Sovietica si sciolse, la NATO non ebbe uguale destino. Ora si è giunti a una situazione in cui la NATO è fine a se stessa, non uno strumento per proteggere tutti i suoi membri da una minaccia chiara. Affinché la NATO rimanga rilevante e giustifichi il suo enorme bilancio e la burocrazia che sostiene, essa deve inventare pericoli. In altre parole, la leadership dell’Alleanza sta tutelando il proprio posto di lavoro. Senza un cattivo, la NATO non esisterebbe.”

Da Cosa guadagnano gli Stati Uniti col finanziare la sicurezza dell’Europa?, di Bryan MacDonald.

Gli Stati Uniti vogliono distruggere il “ponte” ucraino tra l’UE e la Russia – intellettuali tedeschi sostengono Putin

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Membri della società civile tedesca hanno scritto una lettera aperta al presidente russo Vladimir Putin, condannando la russofobia nei mass media e nell’establishment politico tedesco, mostrando supporto per le azioni di Mosca nella crisi ucraina in corso.
Il tenente colonnello dell’aviazione tedesca in pensione Jochen Scholz ha scritto una lettera aperta al leader russo in risposta al discorso che Putin ha fatto il 18 Marzo 2014 a margine della riunificazione della Crimea con la Russia. La lettera è stata controfirmata da centinaia di tedeschi, tra cui avvocati, giornalisti, medici, militari, studiosi, scienziati, diplomatici e storici.
In tale lettera gli intellettuali tedeschi affermano che il discorso di Putin “si è appellato direttamente al popolo tedesco” e meritava una “risposta positiva che corrisponda ai veri sentimenti dei tedeschi.”
La lettera riconosce che l’Unione Sovietica ha infatti svolto un ruolo decisivo nella liberazione dell’Europa dalla Germania nazista e ha sostenuto la riunificazione della Germania e la sua adesione alla NATO dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione del Patto di Varsavia.
All’epoca, il presidente degli Stati Uniti George Bush Sr. aveva assicurato alla Russia che la NATO non si sarebbe allargata verso est, eppure nonostante la dimostrazione di fiducia da parte di Mosca, gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno violato tale impegno, dice Scholz.
“L’espansione della NATO nelle ex repubbliche sovietiche, la creazione di basi militari nei Paesi dell’ex Patto di Varsavia e la messa a punto di un sistema di difesa antimissilistico in Europa orientale, in contemporanea con il ritiro unilaterale dal trattato ABM degli Stati Uniti, costituiscono una flagrante violazione delle promesse,” si legge nella lettera.
Secondo l’autore, tale è la dimostrazione del potere e della disponibilità dell’Occidente a confrontarsi con Mosca in risposta al recente consolidamento economico e politico della Russia, che è diventato evidente dopo che Vladimir Putin è stato eletto presidente nel 2000.
In un’intervista con RT, Scholz ha elaborato la sua posizione sostenendo che gli interessi degli Stati Uniti e la visione dell’ordine mondiale, in cui al continente è assegnato il ruolo di “vassalli” di Washington, sono diversi dagli interessi europei.
“Durante la Guerra Fredda, gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Europa erano quasi il cento per cento identici. Ma dal 1990 le cose sono cambiate. Gli interessi europei sono oggettivamente diversi da quelli degli Stati Uniti”, ha detto a RT. “Quindi il nostro compito qui in Europa, e certamente anche la Russia appartiene ad essa, è quello di prendere le nostre cose nelle nostre mani. Per lavorare reciprocamente in pace e cooperazione nel rispetto dei diritti umani”.
Gli europei sono ora “considerati un ostacolo sulla via delle intenzioni americane nella regione”, come rivelato dalla conversazione telefonica trapelata tra l’Assistente Segretario di Stato per l’Europa Victoria Nuland e l’ambasciatore degli Stati Uniti, afferma Scholz.
Avendo a mente l’obiettivo geopolitico principale degli Stati Uniti di neutralizzare la Russia, il colonnello in pensione crede, come indicato nella lettera, che Washington ha utilizzato il malcontento ucraino come “strumento” per raggiungerlo.
“Questo modello è stato utilizzato più volte: in Serbia, Georgia e Ucraina nel 2004, in Egitto, Siria, Libia e Venezuela,” recita la lettera indirizzata a Putin.
Discutendo la crisi ucraina più in dettaglio, Scholz ha sottolineato che l’obiettivo principale degli Stati Uniti era quello di “negare all’Ucraina un ruolo di ponte tra l’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea.”
“Al contrario, vogliono portare l’Ucraina sotto il controllo della NATO,” il militare in pensione ha detto a RT, sottolineando che egli sostiene la proposta di Putin di costruire una “casa comune europea,” unita mediante una “zona economica comune da Lisbona a Vladivostok”.
Pertanto, l’autore e i co-firmatari della lettera sostengono le azioni intraprese dalla Russia come contrappeso agli interessi statunitensi.
“Basandoci sullo sfondo degli sviluppi in Europa dal 1990, la creazione di circa 1.000 basi militari statunitensi in tutto il mondo, il controllo da parte statunitense degli stretti di mare, così come il pericolo rappresentato dall’abuso di Maidan nei confronti della flotta russa nel Mar Nero – consideriamo la separazione della Crimea come misura difensiva e, allo stesso tempo, come un avvertimento: questa è una linea che non può essere attraversata”, afferma la lettera aperta.
Pur accettando la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo nel 2008 come un precedente per l’autodeterminazione della Crimea, la lettera sostiene che la differenza di principio in confronto è chiara. A differenza della Crimea, nel caso del Kosovo è stata “violata la legge internazionale dalla guerra aerea della NATO in cui la Germania, purtroppo, ha partecipato.”
In conclusione della sua lettera Scholz ha espresso la speranza che le nazioni europee possano concordare di non interferire negli affari di altre nazioni, ciò agendo come garanzia di pace nel resto del mondo. Ha chiamato Vladimir Putin un alleato dell’Europa e gli ha augurato “forza, resistenza e saggezza.”
Commentando la posizione del governo tedesco nei confronti della Russia, al momento, Scholz ha detto a RT che Berlino è in una “posizione molto difficile”, in quanto come membro della UE e della NATO gli obiettivi di questi blocchi sono in contraddizione con il desiderio tedesco “di sviluppare una più stretta relazione con la Russia.”
“Dobbiamo sviluppare la nostra politica di vicinato con la Russia e in quel modo possiamo andare avanti. Ma in ogni caso non ci dovrebbe essere un’ulteriore espansione della NATO verso i confini russi”, ha detto a RT.

[Fonte – traduzione di F. Roberti]

Fuori la NATO

Al via la petizione di Stato & Potenza

““Gli Stati che aderiscono al presente Trattato riaffermano la loro fede negli scopi e nei principi dello Statuto delle Nazioni Unite e il loro desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i governi. Si dicono determinati a salvaguardare la libertà dei loro popoli, il loro comune retaggio e la loro civiltà, fondati sui principi della democrazia, sulle libertà individuali e sulla preminenza del diritto. Aspirano a promuovere il benessere e la stabilità nella regione dell’Atlantico settentrionale. Sono decisi a unire i loro sforzi in una difesa collettiva e per la salvaguardia della pace e della sicurezza” (Washington DC, 4 aprile 1949).
Così esordisce il testo ufficiale del Trattato Nord-Atlantico nella sua versione originale del 1949. Oggi, a sessantatre anni dalla sua pubblicazione, la funzione politica e militare di questo trattato è da considerarsi esaurita oltre che ancor più contraddittoria che in passato. Creata con lo scopo di costituire un organismo di contenimento, di aggressione e di minaccia nei confronti dell’Unione Sovietica e dei Paesi socialisti dell’Europa centro-orientale, la NATO, per decenni, è stata presentata da gran parte della classe politica del nostro Paese come un semplice “ombrello difensivo” finalizzato a prevenire la fantomatica minaccia di un’invasione sovietica. Sarebbe bastato osservare che il Patto di Varsavia fu creato soltanto nel 1955 e che, ancor più tardi, Mosca riconobbe ufficialmente e definitivamente il governo della Repubblica Democratica Tedesca, per comprendere il ribaltamento propagandistico operato dai governi degli Stati Uniti, del Canada e dell’Europa occidentale, allo scopo di scatenare un’offensiva contro chiunque fosse sospettato di intrattenere rapporti con i Paesi socialisti. Negli anni della Guerra Fredda, la NATO, attraverso la struttura integrata dello SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe), si macchiò di gravissime responsabilità nell’operazione Stay Behind, nota nel nostro Paese con l’etichetta “Gladio”: una rete dedita al terrorismo politico, all’intimidazione e all’eversione.
Tuttavia, la dimostrazione definitiva è giunta nel 1991, cioè quando, con la dissoluzione dell’alleanza militare guidata dal Cremlino, la NATO non soltanto non intraprese mai un percorso di riduzione progressiva del suo peso geostrategico in Europa secondo i binari della “finlandizzazione” del Continente garantita ai leader sovietici, ma addirittura avviò gli iter di integrazione di nuovi Stati membri. Tra il 1999 e il 2009, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Lituania, Lettonia, Estonia, Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia, Croazia e Albania hanno fatto il loro ingresso nell’Organizzazione. E la tendenza espansionistica non accenna certo a diminuire. In base a quanto è stato stabilito durante l’ultimo vertice di Chicago del maggio 2012, infatti, le intenzioni espresse dalla delegazione del governo statunitense sono quelle di favorire un maggior coinvolgimento dei partner europei attraverso la decantata strategia della Smart Defense e di concludere altre integrazioni nel prossimo futuro (Georgia e Bosnia-Erzegovina, in particolare).
Sommando le spese militari sostenute dai singoli Stati nell’anno 2011, risulta che i Paesi membri della NATO abbiano raggiunto la cifra di 1.033 miliardi di dollari (sui circa 1.670 miliardi di dollari spesi complessivamente da tutti i Paesi del mondo per la Difesa), sacrificando così gran parte dei fondi destinabili alle politiche sociali e occupazionali sull’altare di un pesante riarmo, ingiustificabile sul piano meramente difensivo. Per di più la NATO, ben lungi dall’essere un organismo effettivamente multilaterale, è evidentemente costituita sulla base di precisi rapporti di forza interni che impongono gli Stati Uniti quale membro leader incontrastato alla guida della Coalizione, schiacciando qualunque eventuale margine di sovranità militare (cioè politica) degli altri alleati, che risulti anche soltanto in parte sgradito a Washington, come ben evidenziato dalla crisi di Sigonella nel 1985.
La creazione, da parte del Pentagono, di un comando integrato a proiezione globale, suddiviso nei sei comandi regionali US Northcom, US Southcom, US Eucom, US Centcom, US Pacom e US Africom, impone da anni, ormai, un quadro di dominazione o di predominio territoriale pressoché totale in tutto il pianeta, nel tentativo di prevenire o contenere l’emersione di qualunque soggetto che possa rappresentare un potenziale competitore per gli Stati Uniti.
Questo scenario è inaccettabile e contraddice palesemente lo stesso dettato della Carta delle Nazioni Unite, nella misura in cui garantisce agli Stati Uniti e alla NATO un potere strategico impressionante, sproporzionato e palesemente aggressivo nei confronti di quei soggetti internazionali che mostrino la volontà di intraprendere una via di sviluppo e di crescita autonoma ed indipendente dalla sfera d’influenza occidentale.
La vecchia crisi balcanica e la recente crisi libica hanno, inoltre, messo in evidenza la sussistente presenza di una “doppia morale” dei Paesi della NATO di fronte ai fenomeni terroristici, nella misura in cui migliaia di guerriglieri e criminali provenienti dai più insidiosi ambienti del radicalismo wahhabita e salafita, sono stati ripetutamente utilizzati dalla NATO nel ruolo di “ascari”, con lo scopo di integrare lungo le direttrici terrestri ciò che l’Alleanza compiva “a distanza”, attraverso le incursioni navali e aeree, mettendo chiaramente in pericolo la sicurezza collettiva lungo tutte le sponde del Mediterraneo.
Oggi i partenariati strategici degli Stati Uniti e della NATO, dopo decenni di accerchiamento contro l’Unione Sovietica e i suoi alleati, indicano chiaramente l’intenzione di intervenire direttamente negli scenari regionali di maggior interesse strategico con nuovi attacchi militari (Libia, Siria, Iran e Corea del Nord), di assegnare ai Paesi dell’Europa meridionale (messi in crisi attraverso la finanza) un più definito e servile ruolo di “portaerei” verso il Nordafrica e il Medio Oriente, e di pressare la Federazione Russa al fine di coinvolgerla in una rinnovata logica di containment e aggressione nei confronti della Repubblica Popolare Cinese, già preannunciata da diversi analisti statunitensi.

La storia della NATO, la sua struttura de facto unilaterale, la presenza delle sue o di altre strutture ad essa legate sul nostro territorio, l’interventismo militare evidenziato negli scenari dei Balcani, del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia Meridionale, la scarsa trasparenza nei confronti dei fenomeni relativi al terrorismo internazionale, costituiscono fattori che si pongono evidentemente in contrasto con gli articoli 11 e 52 della nostra Costituzione.

Nell’impossibilità legale di richiedere lo strumento referendario per l’autorizzazione alla modifica delle ratifiche dei trattati internazionali, chiediamo, per tanto, al popolo italiano di sottoscrivere la nostra petizione, al solo fine di raccogliere il più ampio consenso possibile su tre punti prioritari:

1) Rinegoziazione di tutti i trattati militari che vincolano l’Italia al comando integrato della NATO.
2) Chiusura definitiva di tutte le basi e tutte le installazioni militari in dotazione all’Esercito degli Stati Uniti e/o al comando integrato della NATO, presenti sul territorio nazionale italiano.
3) Avvio di trattative multilaterali e di mutuo vantaggio con i governi della Federazione Russa, della Repubblica Popolare Cinese e della Repubblica del Kazakistan, per l’ingresso dell’Italia nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai in qualità di partner per il dialogo, sull’esempio di quanto hanno cominciato a fare altri Paesi europei come la Bielorussia o l’Ungheria.

La raccolta delle adesioni avverrà a margine di tutti gli eventi pubblici che prevedano il patrocinio o la partecipazione di Stato & Potenza.

La base di Comiso fu un enorme affare

A trent’anni di distanza, si inizia a fare chiarezza sui retroscena degli assassinii di Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
E sul fatto che la possibilità di schierare i missili a Comiso fu garantita dal controllo della mafia sul territorio…

“I giganteschi lavori cominciarono, per adattare ai missili lo sgangherato e vecchio aeroporto Magliocco di Comiso. Negli anni tra finanziamenti nazionali e statunitensi furono migliaia di miliardi, il cui ammontare definitivo non è calcolabile. Gli appalti per la base furono conferiti direttamente dalle autorità statunitensi col benestare della loro intelligence. Il consenso del Pci fu negoziato direttamente cogli Usa? Il dibattito sugli Euromissili – acceso dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt – cominciò a primavera del 1977. Giorgio Napolitano guidò la delegazione del Pci a Washington per garantire l’affidabilità atlantica del Pci, meno d’un anno dopo. Il tentativo della Democrazia Cristiana di far negare il visto da Washington alla delegazione del Pci fu un clamoroso fallimento. L’ambasciata statunitense a Roma, d’intesa col dipartimento di Stato, garantì il visto. Individuò evidentemente un preciso tornaconto.
La base di Comiso fu un enorme affare in forniture militari ma anche una cuccagna di appalti e di traffici illeciti d’ogni genere. Claudio Fava scrisse anni dopo: “Tutto questo, naturalmente, non è passato su Comiso e dintorni senza lasciare traccia: anzi; si è probabilmente avverata nel corso degli ultimi tre anni la “profezia” di Pio La Torre, il deputato comunista ucciso dalla mafia: «…Si vedrà presto a Comiso lo scatenarsi della più selvaggia speculazione, dal traffico di droga al mercato nero, alla prostituzione, con il degrado più triste della nostra cultura e della nostra tradizione»”. Dalla relazione di minoranza (fra cui il Pci) della Commissione antimafia nel 1984 «(la base NATO di Comiso) rappresenta un elemento che accelera in modo impressionante i processi di degenerazione e di inquinamento della vita sociale e politica». Tutto vero e anche tutto prevedibile: sia mentre il Pci approvava la “doppia decisione della NATO”, sia quando, pochi mesi dopo, l’irriducibile Pio La Torre ricoprì la carica di segretario del Pci siciliano. La guerra per posizionarsi opportunamente per affondare le mani nelle montagne di miliardi cominciò tempestivamente e coinvolse molte parti. Riguardò la politica, la mafia e l’imprenditoria e quanti nelle rispettive organizzazioni avevano i contatti giusti in Italia e negli Usa.
Riguardò anche i servizi europei e statunitensi, senza escludere quelli sovietici. Quando le cifre sono da capogiro ogni accordo è possibile, ogni corruzione è probabile, ogni tradimento è giocabile.”

Da Comiso, la vera trattativa Stato-Mafia di Piero Laporta.

Verità (poco) nascoste

Un estratto delle riflessioni di Maurizio Barozzi a riguardo del libro Intrigo Internazionale, scritto dal giornalista Giovanni Fasanella e dall’ex magistrato Rosario Priore.
In due parti: qui e qui.

“Ma nello specifico di quella “strategia”, invece, tutto nasce dalla delicata situazione che venne a crearsi nel sud Europa e nel mediterraneo in conseguenza della guerra arabo israeliana ovvero l’aggressione sionista all’Egitto e alla Siria che dal 5 giugno 1967 diede vita alla famosa guerra dei “sei giorni”. Una aggressione da tempo progettata a Washington e Tel Aviv e che doveva consentire ad Israele di rapinare territori altrui da sempre agognati e di raggiungere uno stato strategico di definitiva sicurezza nei propri confini.
Il periodo antecedente e susseguente alla “guerra dei sei giorni” è la chiave di volta interpretativa del perchè nel nostro paese si ritenne opportuno applicare le strategie, made CIA, della “guerra non ortodossa”.
Fu proprio in prospettiva di quella guerra, infatti, con la relativa situazione esplosiva che si sarebbe inevitabilmente creata nel mediterraneo (con il pericolo che i sovietici potessero in qualche modo approfittarne per insinuarsi nell’area) che gli Stati Uniti, supporto neppure troppo nascosto alle mire belliche sioniste, intesero premunirsi, soprattutto in virtù del fatto che dal 1966 la Francia di De Gaulle era uscita dalla struttura militare della NATO.
In Italia, più o meno già dal 1965, si era iniziato a gettare le basi per la guerra non ortodossa, uno stato di tensione estrema continuo fatto di infiltrazioni e gestione di movimenti cosiddetti eversivi (altra strategia americana detta Chaos), incrudimento delle violenze studentesche e sociali in atto nel paese e dal 1967 anche un crescendo di attentati sempre più cruenti.
Tutti questi riferimenti si riscontrano facilmente quando si va a considerare che ad aprile del 1967, gli americani pilotarono il famoso golpe dei colonnelli in Grecia, un intervento necessario per avere la certezza che quel paese, molto importante per la NATO e con una situazione politica in ebollizione (si prevedeva una vittoria delle sinistre alle prossime elezioni), potesse garantire, nell’imminente situazione di emergenza, il ruolo che gli era stato assegnato nella NATO.
Lo stesso pericolo di scollamenti dalla collocazione atlantica lo si poteva paventare in Italia a seguito della cronica crisi dei governi di centro sinistra, della presenza del più forte partito comunista europeo, e di un agguerrito fronte sindacale che in quegli anni post boom economico rendevano caotica ed esplosiva anche la situazione sociale.
Insomma, in vista e poi in conseguenza della crisi aperta dalla “guerra dei sei giorni”, occorreva assolutamente evitare che in Italia potessero sorgere iniziative governative che mostrassero una certa autonomia sul piano internazionale (come già era accaduto con quelle di Mattei) e che invece, a tutti i costi, il nostro paese rimanesse ingessato e ancorato indissolubilmente ai suoi impegni NATO. Non essendo possibile in Italia, paese molto più evoluto della Grecia, un golpe risolutivo, la strategia della guerra non ortodossa doveva creare quello stato di insicurezza e di terrore con il fine di “destabilizzare per stabilizzare” la situazione del paese, ovvero ricattare, terrorizzare e tenere sotto pressione i governi e le iniziative politiche affinché non ci fossero “sorprese” e l’ingessamento italiano nella NATO restasse stabile e sicuro.
(…)
A prima vista, per fare un esempio, potrebbe sembrare assurdo che il potente e planetario servizio segreto statunitense, la CIA, fosse dietro una struttura preposta a progettare e ispirare attentati soprattutto contro persone, uffici e caserme americane o della NATO o di paesi alleati.
Ed invece, se solo applichiamo il classico cui prodest, ci accorgiamo che anche queste strategie, per così dire “autolesioniste”, potevano essere indirettamente funzionali al controllo geopolitico del continente. Intanto questi servizi segreti occidentali sapevano benissimo che, per quanto vasti e cruenti potessero essere gli attentati anti americani e anti NATO, militarmente erano pressoché insignificanti, ma sapevano anche che indirettamente potevano contribuire a mantenere le nazioni e i governi europei in un clima di continua tensione e spesso di caos interno, favorendo così quella instabilità politica utile ad impedire ai governanti europei di intraprendere politiche o iniziative tendenzialmente autonome e divergenti dalla loro sottomissione stabilità a Jalta. Una sottomissione imposta a tutto il continente nel 1945, ma che con il passare degli anni, per le naturali e inevitabili dinamiche storiche si sarebbe potuta in qualche modo allentare. Ed infine, dietro la facciata di queste azioni terroristiche, non a caso venivano ad essere spesso eliminati personaggi affatto scomodi proprio per la stabilità di Jalta (vedi Moro) o per certi interessi dell’Alta Finanza (vedi Schleyer).
Per ragionare in quest’ottica bisogna avere una profonda esperienza di relazioni internazionali e di realtà geopolitiche, oltre che ad una certa elasticità mentale. Occorre, infatti, partire dal presupposto vero e sacrosanto che gli accordi di Jalta avevano una funzione strategica (sia pure temporale, perdurarono infatti quasi 45 anni), mentre tutti i dissidi, anche cruenti causati dalla divisione del mondo in due blocchi apparentemente contrapposti e sfociati in anni di guerra fredda e guerre di servizi segreti, avevano una caratteristica sostanzialmente “tattica”, ovvero quella di reagire, anticipare o prevenire a ogni tentativo del blocco opposto di allargare la sua influenza rispetto a quanto stabilito da quegli accordi o in conseguenza dei cambiamenti scaturiti dalla naturale dinamica geopolitica degli avvenimenti storici.
Quindi il vero substrato di Jalta era la “coesistenza pacifica”, lo scambio segreto di “piaceri” e informazioni ad alto livello che garantiva agli USA e all’URSS il mantenimento dello status quo.
Lo stesso giudice Priore osserva giustamente, che i paesi del Patto di Varsavia sapevano bene che gli assetti e la spartizione geografico – politica stabilita a Jalta era immutabile ed infatti mai si è verificato che un paese di uno schieramento sia poi passato dall’altra parte, però poi il magistrato non ne trae la giusta conseguenza quella ovvero che le attività e le rivalità dei servizi segreti dei paesi comunisti contrapposti a quelli occidentali avevano altri scopi e interessi che non quelli di conquistare al proprio blocco un paese dell’altro schieramento.
Questo ovviamente non toglie che al contempo le due superpotenze fossero anche obbligatoriamente costrette a farsi le scarpe a vicenda, a farsi la guerra per interposta persona o a praticare la guerra delle spie.
(…)
Potremmo sbagliarci, ma avvertiamo nel testo un (involontario?) “ridimensionamento”, circa il ruolo e la presenza della CIA e del Mossad negli anni di piombo. Strutture di Intelligence queste che sono state le “vere” vincitrici negli avvenimenti storici successivi che portarono alla “caduta del muro” (1989) e all’implosione e disintegrazione di tutti gli stati dell’Est Europa, Russia compresa.
Chi legge il libro di Fasanella e Priore, invece, e non è bene informato su tutto il resto, potrebbe trarne la errata considerazione che in questi “intrighi internazionali” CIA, Mossad, M16, KGB, Stasi, Palestinesi, ecc., ebbero più o meno le stesse responsabilità nella strategia della tensione e nel terrorismo, quando è vero invece che tutti erano presenti e inzupparono il loro “biscotto”, ma alcuni tirarono i fili dei loro burattini più degli altri e soprattutto ne colsero i frutti molto più degli altri.
Il Fasanella, per fare un esempio, nella introduzione al libro ricorda quando il giudice Priore con il collega Ferdinando Imposimato fecero dei sopraluoghi notturni ed in incognito nei pressi di via Caetani dove era stato ritrovato il cadavere di Moro. Il giorno dopo, ricorda il giornalista, i magistrati trovarono le foto di quella loro ricognizione nelle proprie cassette delle lettere. Una evidente minaccia e un avvertimento a non proseguire in quelle indagini.
Ma il giornalista omette di specificare o comunque di dire chiaramente, che quelle ricognizioni avvennero nel ghetto ebraico, alla ricerca di covi brigatisti, di cui uno si era già trovato in via Sant’Elena e quindi, se di intimidazione trattavasi, non poteva che ipotizzarsi che era finalizzata a tenere nascosta l’ubicazione dell’ultima prigione di Moro e di altre basi brigatiste, sospettate nel ghetto, una zona ben controllata dal Mossad.
Ma anche il giudice Priore fa una affermazione infelice, che lascia trasparire come egli quando esprime osservazioni verso Israele tenda ad andarci con i piedi di piombo.
Ad un certo punto, infatti, egli afferma quanto segue: “Il dato dal quale non si può prescindere è la particolare situazione di quello stato (Israele, n.d.r.), circondato da nazioni arabe ostili, che vogliono distruggerlo fisicamente…”.
Una affermazione questa apparentemente realistica, ma fuorviante perchè dimentica letteralmente il particolare che “quello stato”, circondato da nazioni arabe ostili, fin dalla sua nascita nel 1948, già segnata da sconfinamenti e stragi, espulsioni di residenti e villaggi conquistati a fil di spada e nel corso di altre innumerevoli guerre e aggressioni, ha allargato a dismisura i suoi confini, più che quadruplicando la sua estensione geografica e provocato l’espulsione di popolazioni scacciate dalle proprie abitazioni con operazioni (vedi anche oggi quanto accada a Gaza) da vera e propria “pulizia etnica”.
Semmai il magistrato avesse voluto sottolineare che Israele era costretto a vivere in condizioni di costante vigilanza armata, avrebbe dovuto almeno aggiungere che tutto questo era in conseguenza della sua politica guerrafondaia e di rapina. Anzi, visto che “quelle nazioni arabe confinanti e ostili” (vedi il Libano) erano loro a dover temere aggressioni, Israele doveva considerarsi più carnefice che vittima.”

[grassetti nostri]

La NATO a Lisbona

Dichiarazione del Consiglio mondiale della pace e del Consiglio portoghese per la pace e la cooperazione in vista del vertice NATO di Lisbona (19-20 Novembre 2010)

Il Consiglio mondiale della pace (CMP) e il Consiglio portoghese per la pace e la cooperazione (CPPC) salutano i popoli del mondo che amano la pace ed i movimenti della pace in instancabile mobilitazione per denunciare le guerre imperialiste, le occupazioni illegali e l’ingiustizia sociale, e li invitano a proseguire e rafforzare gli sforzi e la comune lotta contro l’imperialismo e le sue organizzazioni ed in particolare contro la NATO, la più grande macchina di guerra del mondo.
Il CMP denuncia davanti ai popoli del mondo i crimini che la NATO ha commesso e continua a commettere contro l’umanità con il pretesto sia di proteggere i «diritti umani» che di lottare contro il «terrorismo», secondo la propria interpretazione.
Sin da quando è stata fondata, nel 1949, la NATO è sempre stata un’organizzazione aggressiva. A partire dal 1991, con la sua nuova dottrina militare, si è trasformata in «sceriffo» mondiale degli interessi imperialisti. Si è spesso legata a regimi sanguinari ed a dittature, a forze reazionarie ed a Giunte. Ha partecipato attivamente allo smembramento della Jugoslavia, ai barbari bombardamenti della Serbia durati 78 giorni, al rovesciamento di regimi attraverso «rivoluzioni colorate», all’occupazione dell’Afghanistan. La NATO persevera nei suoi piani per un «Grande Medio Oriente», allargando il proprio raggio d’azione con il «Partenariato per la pace» e la «cooperazione speciale» in Asia ed in America Latina, in Medio Oriente, nel Nord Africa, ed anche con l’«Esercito europeo».
Tutti i governi degli Stati membri condividono responsabilità nella NATO, sebbene il ruolo di direzione spetti all’amministrazione statunitense. La presenza di approcci diversi su alcune questioni riflette punti di vista e rivalità particolari, ma conduce comunque ad un confronto aggressivo con i popoli.
Noi condanniamo la politica dell’Unione Europea, che coincide con quella della NATO e con il Trattato di Lisbona che con la NATO va a braccetto in materia politica e militare. Tra il 2002 e il 2009 le spese militari degli Stati Uniti in missioni estere sono aumentate da 30 a 300 miliardi di euro.
I popoli e le forze che amano la pace nel mondo non accettano il ruolo di «sceriffo» mondiale assunto dalla NATO. Respingono tutti gli sforzi tesi a incorporare la NATO nel sistema delle Nazioni Unite. Chiedono lo scioglimento di questa aggressiva macchina da guerra militare. Neanche il falso pretesto dell’esistenza del Patto di Varsavia ha più alcun senso. Continua a leggere

Il nuovo Concetto Strategico della NATO

Di Andrej Fedjašin, per RIA Novosti.

La NATO sviluppa un nuovo Concetto Strategico una volta ogni dieci anni, come un bimbo che abbandona i suoi vestiti vecchi e necessita di acquistarne di nuovi. Il grande paradosso di questi cambiamenti regolari è il fatto che l’originale “zona di ostilità” della NATO negli ultimi 20 anni si è ristretta geograficamente, mentre la sua zona di attività ha continuato ad espandersi. Infatti, tutti i Concetti NATO del passato fornivano semplicemente una formale motivazione per ciò che si doveva fare comunque nel corso di pochi anni, anche se questo superava i compiti ufficiali della NATO.
Tutto ciò costituisce veramente un superamento del limite. A volte le alleanze militari devono adattarsi a tempi mutevoli in un modo che i loro fondatori non avrebbero potuto prevedere. Comunque, è necessario sapere distinguere tra una singola deviazione dalla missione originaria ed una politica di costante espansione della propria autorità.
La NATO corrisponde certamente al secondo caso. I “saggi” guidati dall’ex Segretario di Stato Madeleine Albright hanno recentemente reso note le loro indicazioni per gli obiettivi strategici della NATO nel prossimo decennio. Il documento dovrà essere sottoposto ai 28 governi membri ed approvato al vertice di Lisbona che si terrà a Novembre. Il Concetto Strategico 2010 sostituirà quello del 1999.
Il documento, intitolato “NATO 2020: Sicurezza assicurata: Impegno dinamico”, raccomanda appunto un impegno dinamico della NATO con i Paesi e le organizzazioni poste oltre la regione Euro-atlantica, ovvero ciò che è effettivamente avvenuto negli ultimi 20 anni. Esiste anche la proposta di includere le forze della NATO in una più ampia struttura militare delle Nazioni Unite, che permetterebbe alla NATO di condurre operazioni in ogni parte del mondo, eventualmente in cooperazione con altri Stati (Russia, Cina). Ma ogni possibile intesa sarà chiaramente sbilanciata verso la leadership NATO.
È stato fatto osservare che le raccomandazioni della Albright avrebbero cambiato la rotta della NATO da quando la sua squadra, composta da dozzine di esperti del mondo militare e civile dei settori pubblici e privati, ha iniziato il proprio lavoro l’estate scorsa. L’unico interrogativo era in che misura la trasformazione della NATO in una organizzazione politico-militare globale sarebbe stata (a dispetto del suo Trattato fondativo) istituzionalizzata. La risposta, adesso lo sappiamo, è: in gran parte. Continua a leggere

La libertà dei popoli europei

E’ inutile negare che se l’UE vuole davvero occupare un posto più confacente al suo potenziale, perlomeno regionale, deve fare i conti con questo Paese, il quale non può più essere tenuto ai margini della comunità europea. Ciò che ha impedito di consolidare e rinnovare le relazioni tra Russia e Europa è stata propria l’alleanza con gli USA; quest’ultimo Paese ha sempre visto nel gigante dell’Est un pericolo concreto in grado di causare un assottigliamento della sua influenza nell’area occidentale. Se l’atteggiamento del Patto atlantico verso Mosca va bene al governo degli Stati Uniti esso, al contrario, danneggia gli interessi europei come molti episodi degli ultimi tempi hanno dimostrato. Lo stesso mantenimento della NATO dopo il disfacimento del Patto di Varsavia ha avuto come motivazione propulsiva l’esclusiva volontà americana di allargarsi nella direzione di quegli Stati precedentemente rientranti nell’orbita russa, al fine di approfondire il suo dominio mondiale e conquistare l’heartland. Il grande progetto per un XXI secolo americano è però fallito in virtù della rinascita delle potenze asiatiche. L’Europa ne paga lo scotto impelagata a fronteggiare, per il suo atteggiamento conservativo e privo di visione globale, una situazione che la vede stretta tra due fuochi. In questo senso, aver permesso alla NATO di estendersi ipertroficamente oltre le sue competenze militari e di contingente contenimento del “pericolo rosso”, fino a metamorfosarla in un organismo politico con autorità generale, nelle salde mani degli USA, le impedisce ora di reagire e di ricavarsi spazi di manovra adeguati.
La NATO ha precluso all’Europa persino la capacità di intervenire sulle proprie faccende come ha dimostrato l’aggressione della Serbia nel 1999 e l’ampliamento della stessa alleanza alle ex repubbliche sovietiche [più precisamente, si tratta dei Paesi dell’Europa orientale un tempo dietro la “Cortina di Ferro” – ndr]. Quest’ultime, fedelissime agli USA, hanno sbilanciato i rapporti di forza in seno al patto consolidandone la guida di Washington. Inoltre, essendo alcuni di questi Paesi entrati pure a far parte dell’UE hanno complicato il processo di riavvicinamento alla Russia che viene vista dai suoi ex-vicini come un pericolo ancora troppo presente per la loro sovranità.
Insomma, altrimenti detto, se l’Europa non svilupperà una propria visione del mondo e del suo ruolo in esso, nessun accordo tra i Paesi membri basterà a proiettarla verso un futuro meno misero del suo presente di subordinazione agli USA. Ne va della stessa libertà dei popoli europei. Cominciare a mettere in discussione il Patto atlantico, senza troppi infingimenti, sarebbe di certo un auspicabile inizio.

Da Libera Europa?, di Gianni Petrosillo.

I”Patrioti” di Morag

Lo scorso 20 gennaio, il ministro della Difesa polacco ha annunciato che una batteria di missili Patriot statunitensi, e 100 soldati americani che la faranno funzionare, dovrebbe essere installata non più tardi del prossimo aprile in Polonia. Ma non nei sobborghi della capitale Varsavia come inizialmente previsto bensì nella città di Morag affacciata sul Mar Baltico, ad una cinquantina di chilometri dal confine con la Russia.
A dicembre 2009, Washington aveva firmato uno Status of Force Agreement (SOFA) per formalizzare i progetti miranti ad installare truppe ed equipaggiamento militare statunitensi sul territorio della Polonia, aprendo così la strada ai già promessi missili Patriot come primo passo di un più complessivo rafforzamento del sistema di difesa aerea NATO in Europa.
Il precedente ottobre, poco dopo la visita del vice Presidente USA Joseph Biden in Polonia per concludere l’accordo, il vice ministro della Difesa polacco Stanislaw Komorowski si era incontrato con il suo pari grado statuntense Alexander Vershbow dichiarando che i missili Patriot sarebbero stati “pronti al combattimento”, e non disarmati come inizialmente ipotizzato. Secondo la stessa fonte giornalistica, funzionari degli Stati Uniti e dell’Ucraina avrebbero affermato che il territorio della seconda potrebbe essere interessato in qualche modo dal nuovo progetto di scudo antimissile. Se la Polonia confina con l’enclave russo di Kaliningrad, dal canto suo l’Ucraina condivide con la Russia un confine di oltre 1.500 chilometri…
Il Dipartimento di Stato USA ha rilasciato un comunicato sull’accordo per dispiegare militari statunitensi in Polonia – i primi soldati stranieri ad esservi installati dopo la fine del Patto di Varsavia nel 1991 – secondo il quale “il trattato favorirà una serie di attività concordate fra le parti, inclusi addestramento ed esercitazioni congiunte, il dispiegamento del personale militare USA, ed i prospettati insediamenti per la difesa con missili balistici”.
Un portavoce del Pentagono ha dichiarato che “l’Esercito statunitense in Europa aiuterà le Forze Armate polacche a sviluppare le proprie capacità di difesa aerea e missilistica. Considerando l’addestramento congiunto che già svolgiamo con i polacchi, questo programma relativo ai Patriot è solo un’altra estensione di quello sforzo”.
Se i precedenti piani per installare in Polonia missili di media gittata basati a terra evocavano, per quanto in maniera non plausibile, una presunta minaccia missilistica da parte dell’Iran, i Patriot possono essere diretti solamente contro la Russia.

Meno soldati, meno armi e meno basi

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C’era una volta… Bettino Craxi.
[Grassetti nostri]

“Il futuro che abbiamo davanti poggia su fondamenta economiche, culturali, tecnologiche forti ed estese, che gli straordinari cambiamenti dell’ultimo anno mettono a disposizione della pace e della cooperazione tra i popoli in una prospettiva non più segnata dai rischi e dagli sprechi dei blocchi militari.
Si è aperto un grande dialogo nel mondo. In poco tempo si è determinato un cambiamento profondo, di clima, di rapporti, di possibilità di prospettive.
Le strade della pace e della cooperazione si sono fatte più larghe. Dovremo percorrerle in modo lineare correndo verso nuovi traguardi. Occorre accelerare il processo di disarmo, approfondire il negoziato in ogni campo.
Gli stessi sistemi di alleanze politico-militari, sino a ieri rigidamente contrapposti, stanno mutando i loro rapporti e muteranno alla fine essi stessi.
Anche la NATO, in Europa, è destinata a cambiare la sua natura e la sua qualità. Non c’è niente di più confortante di una notizia che ci raggiunge per annunciare il ritiro di truppe, la riduzione dei contingenti, la riduzione degli armamenti. Tutto deve avvenire in forma negoziata, equilibrata, soddisfacente per tutti, ma deve avvenire. E prima avviene e meglio é.
Moltissime risorse potranno essere liberate dai loro impieghi militari e rivolte verso scopi civili, formativi, umanitari, di sviluppo.”

Da Per un riformismo moderno, per un socialismo liberale.
Relazione introduttiva alla Conferenza Programmatica del PSI, Rimini 22 marzo 1990

***

“La questione tedesca è al centro degli equilibri europei e delle loro crisi, almeno a partire dalla guerra dei trent’anni. Oggi essa ha il vantaggio di poter essere ancorata a solide strutture multilaterali, europee, atlantiche e continentali.
Sotto il profilo della sicurezza, due mi paiono i punti fermi della questione: la permanenza della Germania nella NATO, la necessità di offrire ai Paesi confinanti soprattutto all’Unione Sovietica, le necessarie garanzie di sicurezza. L’appartenenza del nuovo Stato unitario all’alleanza occidentale comporta certamente modifiche nella struttura degli equilibri che vanno adeguatamente negoziate.
Allo stesso modo che l’unificazione tedesca deve servire a dare nuovo impulso alla integrazione comunitaria, così essa renderà più lineare la riflessione sul nuovo ruolo dell’Alleanza Atlantica, sui cambiamenti della sua natura e della sua qualità. Nell’Alleanza penso che si accentueranno le funzioni politiche rispetto a quelle militari, e rispetto a queste ultime crescerà il peso della componente europea.”

Da Unità della Germania, unità dell’Europa.
Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo 4 aprile 1990

***

“Il vento della pace avvolge le alleanze militari e ne provoca a trasformazione. Il Patto di Varsavia è ormai solo una insegna che sta su di un edificio dal quale gli inquilini se ne sono andati. L’Alleanza Atlantica, certo non subisce la stessa diaspora, ma tuttavia non può non predisporsi a realizzare alcuni cambiamenti di fondo. Si tratterà di una sottolineatura maggiore del suo ruolo politico rispetto a quello militare, di una crescita di responsabilità della componente europea, di una grande apertura nei confronti dell’Est, con lo svolgimento di rapporti destinati ad infondere sentimenti di sicurezza e di fiducia.
Delicato anzi delicatissimo è naturalmente il profilo militare della riunificazione tedesca. La Germania unita non potrebbe non stare nella Alleanza Atlantica, ma neppure vi potrebbe stare senza un ulteriore sistema di garanzie da approfondirsi, da negoziarsi, da rendere accettabile per l’Unione Sovietica.
L’unità tedesca è il portato più grande degli sconvolgimenti che stanno rimescolando la vita dell’Europa centrale ed orientale e, in misura diversa, di tutta l’Europa nel suo insieme. Il problema più alto, come segnalavamo noi stessi a Rimini, innalzando un simbolico muro di Berlino, giacché non si tratta solo della libertà e della unità di un popolo, ma essenzialmente anche della pace e della organizzazione della pace in Europa.
Noi ci auguriamo che il processo giunga rapidamente a compimento saldando nel modo più equilibrato tutte le questioni che sono aperte e che vanno risolte nei rapporti con l’URSS, con l’Alleanza Atlantica, con l’Europa comunitaria, con i vicini della Germania.
Sono vie obbligate per la pace del futuro sulla quale non debbono pesare incognite di sorta. Occorrono certezze per tutti e nessuno deve poter neppure fantasticare su di un possibile ritorno dei fantasmi del passato.
E’ una via obbligata la progressione prudente ma continua verso un disarmo generalizzato. Meno soldati, meno armi e meno basi in Europa. Meno soldati, meno armi e meno basi in Italia.

Da Verso una fase importante e difficile della vita nazionale.
Relazione all’Assemblea Nazionale del PSI, Roma 7 giugno 1990

[Sigonella, ottobre 1985]

La NATO del Terzo Millennio tra guerra ed affari

La NATO del terzo millennio, l’unico blocco militare esistente al mondo, dopo essersi espansa da 16 a 28 membri nello scorso decennio, è ora impegnata nella sua prima guerra terrestre e nella sua prima guerra asiatica, in Afghanistan.
Con la frammentazione del Patto di Varsavia e l’implosione sovietica degli anni 1989-1991, la NATO – lungi dal ridimensionare il suo potere militare in Europa e tantomeno dal dissolversi – ha visto l’opportunità di espandersi in tutto il continente e nel mondo.
A cominciare dalla campagna di bombardamenti in Bosnia nel 1995, essa ha prontamente ed inesorabilmente dispiegato la sua forza militare verso est e sud, nei Balcani, in Africa nordorientale e centrale, nell’intero bacino del Mediterraneo, in Asia centrale. Così come nel Caucaso, in Scandinavia includendo le tradizionalmente neutrali Svezia e Finlandia, e nella regione Asia-Pacifico dove ha avviato dei rapporti individuali di cooperazione con Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Oggi la NATO ha le proprie forze armate ed accordi di cooperazione con i Paesi di tutti i sei continenti. Una macchina militare che può vantare due milioni di truppe ed i cui Stati membri contano per oltre il 70% della spesa mondiale in armamenti.
Dopo aver condotto la guerra in Europa, contro la ex Jugoslavia nel 1999, ed in Asia (in Afghanistan, con sconfinamenti in Pakistan) a partire dal 2001 fino a non si sa bene quando, la NATO attualmente è protagonista di operazioni navali al largo delle coste africane nel Golfo di Aden. Essa è inoltre impegnata nella definizione di un nuovo Concetto Strategico che prenda il posto di quello risalente al 1999.
Già nel 2008, l’allora Segretario Generale Jaap de Hoop Scheffer aveva invitato a sviluppare una strategia per affrontare le sfide del nuovo millennio, domandando un incremento di bilancio vista “la crescente lista di responsabilità”. E riferendosi a queste ultime, “miriade” è la parole esatta usata lo scorso 1 ottobre – nell’ambito di una conferenza organizzata congiuntamente dalla NATO e dai Lloyd’s di Londra – dal presidente di questi ultimi Peter Levene: “Il nostro sofisticato, industrializzato e complesso mondo è sotto attacco da parte di una miriade di determinate e mortali minacce”.
Il medesimo giorno della conferenza, sul quotidiano The Telegraph è comparso un articolo a firma dello stesso Levene e dell’attuale segretario generale della NATO, il danese Anders Fogh Rasmussen. In esso si afferma che “i dirigenti industriali, inclusi quelli dei Lloyd’s, sono stati coinvolti nell’attuale processo di elaborazione della nuova linea direttiva della NATO, il Concetto Strategico; il vice-capo del gruppo è l’ex amministratore delegato della Shell [la compagnia petrolifera anglo-olandese, ndr], Jeroen van der Veer”.
Levene e Rasmussen sono stati molto espliciti nel dichiarare la necessità che la NATO protegga gli interessi economici occidentali, affermando che “gli uomini hanno sempre combattuto per le risorse e la terra. Ma adesso stiamo vedendo queste pressioni in una scala più grande… Dobbiamo prepararci a pensare l’impensabile”. L’elenco delle “minacce mortali” comprende: pirateria, sicurezza informatica, cambiamenti climatici, eventi meteorologici estremi, spostamenti improvvisi di popolazioni, scarsità di acqua, siccità, cali nella produzione di cibo, ritiro del ghiaccio artico, sicurezza degli approvvigionamenti energetici e diversità delle loro fonti…
Nel suo discorso alla conferenza, Rasmussen ha auspicato che la cooperazione con gli oltre 40 Paesi con cui la NATO ha accordi individuali o collettivi venga estesa anche a queste nuove “minacce”. Il loro crescente numero rappresenta una appropriazione, da parte della NATO, di responsabilità e funzioni che sono propriamente quelle dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), non certo quelle di un blocco militare non eletto da nessuno ed i cui Paesi membri, messi insieme, rappresentano solo una piccola frazione della popolazione mondiale.

Alle urne, alle urne!

democrazia diretta

Alla vigilia delle elezioni europee gli elettori non stanno mostrando interesse per un Parlamento dalle funzioni limitate e confuse. Sovrastato da una “commissione” che funge da governo autocratico, i cui inamovibili rappresentanti sono designati dai governi. Nessun elettore ha mai scelto Solana o Barroso, ma è reale il rischio che i loro incarichi da vitalizi diventino… ereditari.
Il disinteresse è altresì rafforzato dalla tragicomica vicenda della Costituzione europea, due volte bocciata nelle urne dagli elettori, ma il responso è stato olimpicamente ignorato. Sarà approvata dai deputati nazionali, con raggiri e manovre di corridoi molto stretti. L’unica cosa chiara nell’Unione Europea (UE) alle prese con le raffiche gelide di un crollo del 5% della produzione, è l’indiscussa e totale autorità della Banca Centrale Europea: si impone ai parlamenti nazionali, a quello di Strasburgo e a tutti gli elettorati.
Questo è il veridico governo del blocco europeo, ridotto all’essenza scarnificata dell’utopia ultraliberista: mercato e moneta. Null’altro. Non ha una politica sociale, tantomeno una linea internazionale coerente perché è privo di una visione geo-politica nitida.
Senza una difesa autonoma propria perché ha scelto la subalternità agli Stati Uniti, quando rafforzò la camicia di forza della NATO, all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica e della scomparsa del Patto di Varsavia.
L’integrazione europea, da quando è passata dalle mani dei pochi statisti di rilievo che la fondarono a quelle dei tecnocrati della finanza, si è svilita a mera applicazione di “5 macro-dogmi liberisti”, facendo un ardito salto acrobatico da 6 a 27 Paesi. Grandi quantità, statistiche, PIL, trionfalismi immotivati e zero visione strategica. Proprio nel momento in cui sta tramontando l’unipolarismo e – con esso – la supremazia “occidentale”.
(…)
L’Europa non ha materie prime e neppure l’energia. Per il petrolio dipende dai Paesi arabi e per il gas dalla Russia, ciononostante promuove una politica estera anti-araba ed agressivamente anti-russa.
La dipendenza energetica è un dato di fatto del blocco europeo, come pure la necessità della coperazione con i russi per le forniture di gas. Come si spiega allora il velleitarismo di incorporare l’Ucraina e la Georgia nella NATO? Come si giustificano le provocatorie manovre della NATO in corso nel Caucaso?
E’ una contraddizione schizofrenica tra obiettivi e strumenti per ottenerli, tra proiezione geo-politica ed iniziativa militare che – ahinoi – non è sovrana né autonoma. L’UE è ostaggio delle fobie anti-russe non solo dei polacchi e dei cechi, ma persino delle micro-repubbliche del Baltico. Per di più, la versione osé dell’atlantismo è immutata dal tempo dei Bush.
E’ come se non fosse accaduto nulla. Non hanno assimilato che lo scacco degli Stati Uniti in Iraq ha comportato la perdita definitiva del feudo sudamericano. Che perderá l’UE con la barcollante avventura atlantista in Afghanistan? Con ogni probabilitá, il ritorno della questione sociale al centro del dibattito pubblico e la ripresa della lotta di classe.
La “Commissione” di Bruxelles è ondivaga e non riesce a coniugare gli interessi concreti dell’Europa con quelli di un traballante egemonismo assoluto che gli Stati Uniti cercano di resuscitare con la NATO. Gli Stati Uniti Occidentali o “grande mercato trans-atlantico” sono una chimera da incubo.
(…)

Da Elezioni, ma per quale Europa?, di Tito Pulsinelli.

Il Trattato sulle armi convenzionali in Europa

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Il Trattato sulle armi convenzionali in Europa (CFE), nella sua versione originale, venne siglato nel 1990, un anno prima del collasso dell’Unione Sovietica e tre mesi prima della dissoluzione del Patto di Varsavia. Fu firmato da sedici Paesi membri della NATO e sei appartenenti al Patto di Varsavia, entrando in vigore nel 1992. Esso imponeva strette limitazioni quantitative all’equipaggiamento militare pesante consentito alle parti firmatarie, e stabiliva vincoli ancora più severi al dispiegamento delle truppe russe nei distretti di Leningrado e del Caucaso meridionale, che non potevano quindi essere spostate senza previa notifica e successivo consenso espresso dalla NATO.
La fine della Guerra Fredda e la dissoluzione del Patto di Varsavia privò immediatamente di significato le limitazioni del Trattato CFE. La NATO si è allargata a 26 Stati, con l’ingresso di molti Paesi ex comunisti; sia la NATO che la Russia hanno rapidamente diminuito i loro armamenti scendendo ben al di sotto dei limiti del Trattato.
Per adattare il Trattato CFE alla nuova realtà, nel 1999 ne venne elaborata una versione aggiornata che prevedeva limiti non per blocchi militari ma per singoli Stati. Dei 30 che hanno firmato questa versione “Adattata”, solo quattro – Russia, Bielorussia, Ucraina e Kazakhistan – l’hanno ratificata. I membri della NATO si sono infatti pretestuosamente rifiutati di ratificarla prima che la Russia avesse ritirato le propria presenza militare dalla Georgia (da cui le truppe russe sono state definitivamente sgomberate nel novembre 2007) e dalla Moldavia (dove permane un piccolo contingente di peacekeeping nella regione secessionista della Transnistria), secondo una dichiarazione volontaria che la stessa Russia aveva precisato non ritenere vincolante. Inoltre, quattro nuovi membri della NATO – le tre repubbliche baltiche e la Slovenia – si sono rifiutate di unirsi al Trattato CFE nonostante l’Alleanza Atlantica si fosse pubblicamente impegnata in questo senso.
Il Trattato Adattato non è quindi mai stato operativo ed è servito solo come uno strumento per limitare la libertà russa di occuparsi della propria sicurezza senza imporre simili restrizioni alla NATO, la quale adesso ha un numero tre volte superiore in equipaggiamenti militari pesanti (aerei, carri ed artiglieria) rispetto alla Russia (che, i suoi, li ha pure spostati dietro gli Urali). Ciò ha indotto il presidente Putin a tentare di raggiungere un compromesso con gli altri Stati firmatari nell’ambito di una conferenza convocata nel giugno 2007 a Vienna. La moratoria del Trattato, annunciata nel successivo autunno, è stata provocata dal mancato raggiungimento di un intesa nella capitale austriaca: così facendo, la Russia non si è ritirata ma ha dichiarato che non lo metterà più in pratica sino a quando non sarà ratificato anche dagli altri firmatari. Il principale dei quali, gli Stati Uniti d’America, si sono ritirati unilateralmente dal Trattato anti missili balistici (ABM) nel 2001 ed ora progettano l’installazione di missili intercettori e sistemi radar alle porte del territorio russo.
Al nuovo inviato presso gli uffici NATO di Bruxelles, Dmitry Rogozin, non mancherà certo il lavoro.

NATO: la storia

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La NATO (acronimo di North Atlantic Treaty Organization, Organizzazione del Trattato Nord Atlantico) nasce a Washington il 4 aprile 1949 per volontà di dodici Paesi fondatori: Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Portogallo, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America. Nel 1952 vi furono le adesioni di Grecia e Turchia, che almeno in quella occasione misero tra parentesi la loro storica rivalità. Essa si configurò subito come un sistema militare a carattere esclusivamente difensivo, nel quale ogni Stato aderente si impegnava a dare aiuto militare nel caso di aggressione ad una o più delle parti contraenti. La NATO fu legittimata dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che inseriva nel quadro del diritto internazionale anche il “diritto alla legittima difesa”.
La legittimazione esclusivamente “anticomunista” della NATO perde parte della propria credibilità se si considera che il Patto di Varsavia – l’alleanza militare in chiave antioccidentale dei Paesi del blocco comunista – fu sancito ufficialmente solo il 15 maggio 1955, ben 6 anni dopo l’istituzione della NATO stessa. Alla quale nello stesso anno aderì, non a caso, anche la Repubblica Federale Tedesca.
La strategia militare statunitense degli anni seguenti si è sempre ispirata a due principi fondamentali: da una parte, preservare il territorio degli Stati Uniti da un eventuale attacco nucleare sovietico; dall’altra, limitare l’area del possibile conflitto al solo scacchiere europeo. In questo quadro si inserisce non solo la NATO ma anche la presenza in territorio europeo di basi militari alle dirette dipendenze di Washington, sull’attività delle quali i governi europei hanno sempre avuto un controllo assai debole. Continua a leggere