Una alternativa all’attuale idea europea di Esercito

nato mareVero, Presidente Mattarella?

“Ad ogni tipo di esercito corrisponde un uso peculiare e l’uso (strutturalmente molto più costoso) di quello professionale è di tipo offensivo da spedizione. Non è un caso che abbiamo mutuato questo tipo di organizzazione proprio dagli angloamericani. Non considerare questa evidenza (peraltro ampiamente ufficializzata negli ambienti militari) rischia di viziare ogni tipo di proposta che si vorrebbe “alternativa”.
L’esercito professionale trae il suo stesso senso d’esistere dall’essere impiegato come corpo di spedizione e occupazione, come il più adatto a svolgere questi compiti.
Le forze di occupazione, per loro stessa definizione, hanno la missione di presidiare e combattere permanentemente o temporaneamente in territori situati al di fuori dei confini nazionali.
La potenza o le potenze che invadono tali territori devono disporre dello stesso personale per anni senza ricorrere alla mobilitazione generale che si dà in caso di guerra ufficialmente dichiarata (l’abitudine di formalizzare i conflitti è stata infatti abbandonata). Ecco quindi la necessità di una ferma volontaria di almeno quattro anni.
Non può esistere un altro uso dell’esercito professionale che non sia questo. E’ del tutto scorretto immaginare di poter mantenere questo costoso strumento militare per altri fini che non siano la partecipazione ad avventure militari oltre confine e del resto esso sarebbe del tutto inefficace anche per fare fronte ad una (più che improbabile) occupazione da parte di altri Stati.
L’ipotesi della professionalizzazione vinse praticamente a tavolino in primo luogo perché prospettò la promessa di “liberare” i giovani italiani dal fardello della leva obbligatoria (salvo “imporla” indirettamente ai disoccupati e ad una particolare fascia di territorio nazionale come unico sbocco occupazionale); in secondo luogo perché questa “riforma”, a suo tempo, mise d’accordo un po’ tutti:
gli statunitensi che la esigevano per potere disporre, come già visto, anche delle Forze armate italiane direttamente o indirettamente nei loro piani strategici post 89′;
tutti i partiti rappresentati in Parlamento con l’unica eccezione del PRC;
le aziende del comparto industriale militare, per ovvie ragioni legate all’aumento di commesse con alto valore tecnologico e quindi all’aumento dei dividendi per manager e azionisti (con i sindacati di categoria confederali in una posizione sempre opaca e sulla difensiva nonostante il calo costante dell’occupazione a fronte dell’aumento dei fatturati);
il terzo settore che ha avuto comunque in parte risarcito il suo serbatoio di forza lavoro prima garantito dall’obiezione di coscienza con l’istituzione del Servizio Civile Nazionale e con una corposa esternalizzazione del servizio pubblico. Lo stesso terzo settore che oggi “suggerisce” al governo Renzi l’istituzione della “leva civile” (implicitamente parallela all’esercito professionale stesso).
Questa per sommi capi la genesi.
(…)
piovranatoIl moderno esercito professionale (dal punto di vista democratico in realtà molto più “antico” di quello di leva) ha vinto a tavolino anche perché si è dimostrata la soluzione più collaudata e sicura che gli anglo-americani hanno sviluppato nel corso del secolo scorso. E’ la formula, elevata già da tempo a standard NATO, che garantisce ai governi un’ottima gestibilità del personale militare, anche e soprattutto in caso di morte sul campo dei soldati. La retorica e pomposità dei funerali di Stato accompagna ogni volta la salma del ragazzo di turno con un grande, ipocrita non detto: era un volontario, era il suo mestiere e la responsabilità dei mandanti può così sfumare.
Alla luce di tutto ciò l’attuale forma di esercito andrebbe quindi abbandonata.
Ed ecco imporsi allora la terza domanda, decisiva: come?
Credo sia indispensabile recuperare un approccio organico e propositivo alla questione che sappia andare oltre la contestazione (storicamente ridotta ai minimi termini) e che permetta di operare l’invocata riduzione del danno per incidere concretamente sulle nostre pesantissime responsabilità di guerra.
Il tema di una riforma strutturale dello strumento militare dovrebbe essere posta come punto costituente al pari della revisione dei trattati di Maastricht e Lisbona, della struttura e natura della BCE, ecc.; ossia di tutte le questioni che hanno a che fare con il recupero ed il rilancio della sovranità democratica e popolare.
Risulta sempre più chiaro che le vere minacce alla sicurezza ed incolumità dei cittadini non sono il così detto terrorismo internazionale (contro cui l’impiego delle forze armate è del tutto inutile e contro cui vengono normalmente già impiegate magistratura, forze di polizia e intelligence) ma sono rappresentate dal dissesto idro-geologico, dalle alluvioni, dai terremoti e dagli incendi.
In realtà, anche di fronte a tali minacce, le Forze armate oggi sono fondamentalmente inefficaci perché l’organizzazione, l’addestramento, le macchine, la stessa forma professionale sono finalizzate, come già detto, al mantenimento di un grosso corpo di spedizione operante in varie parti del mondo.
Di fronte a tali reali minacce sarebbe opportuno che la logistica e l’organizzazione venissero rivolte e convertite, in prevalenza, ad un nuovo concetto di difesa territoriale/ambientale, che metta le Forze armate nelle condizioni di gestire sia aspetti di manutenzione e messa in sicurezza ambientale sia soprattutto le sempre più ricorrenti e spesso contemporanee fasi d’emergenza.
Sarebbe più che ragionevole studiare e promuovere la formazione di un nuovo esercito costituzionale, di leva, aperto a donne e uomini.
Ciò di cui si parla non è certo l’esercito-carrozzone di marescialli, spesso imbevuto di “nonnismo” che chi ha fatto la “naja” (compreso il sottoscritto) può ricordare bensì una nuova organizzazione che preveda l’integrazione di una nutrita quota degli obiettori di coscienza in una forza di protezione civile dove non si assista più alla irrazionale moltiplicazione delle responsabilità, delle competenze, dei comandi, dei dirigenti, delle centrali operative, degli eli-aereoporti a fronte di una sempre più drammatica carenza di mezzi adeguati: potremmo avere a disposizione uno strumento popolare, meno costoso e più efficace di salvaguardia e difesa del territorio.
Da ex-amministratore locale di un piccolo comune montano soggetto al divampare di piccoli/grandi incendi boschivi (non dolosi), potrei fare diversi esempi in questo senso. Ma come non pensare anche al ricordo positivo che ebbero i terremotati friulani della massiccia, fattiva e prolungata attività di soccorso, rimozione delle macerie e messa in sicurezza operata dall’esercito di allora e confrontarla con il ricordo certo meno caro dei terremotati abruzzesi, dove il moderno esercito professionale venne sostanzialmente impiegato per sorvegliare la loro cattività nelle tendopoli?
logodelesercitoCiò di cui parlo è quindi un esercito che, senza perdere le sue capacità militari di difesa, sia nei fatti “dual use”; dove lo sviluppo dei sistemi d’arma sia esclusivamente rivolto alle contromisure difensive piuttosto che alle macchine da supremazia aero-spaziale e navale (F-35 e portaerei, per fare solo due costosissimi esempi) e dove le specializzazioni si sviluppino attorno agli aspetti genieristici e medici. Un esercito in grado di essere dispiegato all’estero, in un nuovo contesto di relazioni inernazionali, in missioni di esclusiva e sostanziale interposizione e di competente supporto logistico-medico-umanitario anche nelle crisi ambientali.
Riportare la forma ed il senso delle nostre forze armate nell’alveo costituzionale, al di là dell’aspetto etico, dovrebbe quindi permettere un enorme risparmio di risorse e di logistica ed un più utile e razionale impiego di mezzi e uomini per affrontare le “minacce” di cui sopra.
Questa revisione radicale dello strumento militare consentirebbe di intervenire organicamente su molti aspetti:
renderebbe le ff.aa. strutturalmente inservibili alla NATO e ad operazioni di guerra e occupazione,
“accontenterebbe” il terzo settore con la reintroduzione dell’obiezione di coscienza (istituto di civiltà universale e linfa vitale del no profit),
permetterebbe una conversione della logistica e della organizzazione militare verso una immediata ed efficace compatibilità con la Protezione civile,
permetterebbe di aprire un ragionamento meno vago sul futuro di Finmeccanica,
consentirebbe un consistente risparmio di risorse nel quadro di nuove sinergie d’impiego
ci obbligherebbe a ridefinire una nuova politica estera e commerciale basata sulla cooperazione strategica piuttosto che sulla difesa in armi degli interessi strategici.
Questo approccio richiederebbe naturalmente l’apertura di un dibattito serio, conseguente, multidisciplinare e di largo respiro sul tema della sovranità nazionale e della neutralità, sull’interdizione dal nostro territorio di basi e strutture militari straniere, su una reale politica di pace e cooperazione, sulla conversione energetica. Potrebbe essere l’occasione per rilanciare su questi temi, ad un livello euro-mediterraneo, una alternativa all’attuale idea europea di esercito (ancora schierato in ambito NATO, ancora “professionale”, ancora volto all’offesa e all’aggressione).
Risulta piuttosto evidente come un passaggio del genere sia al momento impraticabile in Parlamento proprio perché, come già sottolineato, questo è ancora occupato dal super partito del Pil, tanto trasversale quanto inamovibile nel suo atlantismo belligerante.
Come eludere questo problema sostanziale? Credo che esista la concreta possibilità di iniziare una manovra di aggiramento costruendo un’azione referendaria intorno all’ipotesi più sopra esposta: la crisi economica, l’incessante susseguirsi di emergenze ambientali, i costi del nostro avventurismo militare hanno già modificato la fiducia popolare nel tricolore armato spedito a destra e a manca per il mondo al seguito degli statunitensi. Certo si parla solo di percezioni e sensazioni diffuse (che pure il Ministero della Difesa ha captato) ma se queste venissero sostanziate e catalizzate in un’alternativa promossa da una campagna referendaria potrebbero rivelarsi inaspettatamente maggioritarie. Se si agisse cioè sulla sfiducia strumentale in questo esercito prospettando una alternativa credibilmente più utile, razionale e meno costosa si potrebbe incrociare anche il favore di quegli enti locali e dei loro sindaci che in tutti questi anni si sono trovati ad affrontare i disastri dell’ambiente e del territorio con mezzi inadeguati. L’effetto potrebbe essere dirompente o comunque certamente in grado di increspare non poco la linearità del folle piano egemonico che continua a sovrastarci indisturbato.”

Da Vent’anni di professionalità (militare) possono bastare, di Gregorio Piccin.

La Russia nel mirino della NATO globale

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Intervista di RT a Rick Rozoff, curatore di Stop NATO e dell’omonimo sito
(traduzione e collegamenti inseriti sono nostri)

RT: Quale è il problema se la NATO svolge più esercitazioni militari? Viviamo in un mondo pericoloso e l’esercizio rende efficienti, non è così?
Rozoff: Certo, dobbiamo contestualizzare le questioni. Se stiamo parlando delle più recenti esercitazioni militari della NATO sul Mar Baltico, le cosiddette operazioni o esercitazione Steadfast Jazz 2013. Dobbiamo considerare che si tratta della più vasta esercitazione militare congiunta svolta dalla NATO negli ultimi sette anni. Ed è stata tenuta in due Paesi che condividono i propri confini con la Russia -Lettonia e Polonia- con l’esplicito obiettivo di compattare la cosiddetta NATO Response Force, che è una forza militare globale di intervento. Si è inoltre svolta su larga scala: 6.000 soldati, con componenti aeree e navali così come di terra e fanteria in Paesi confinanti con la Russia. Non è un fatto di tutti i giorni, come i vostri commenti possono suggerire. Se qualcosa di analogo succedesse al confine americano, a dire in Messico e Canada, e soldati provenienti da 40 Paesi, tutti membri della NATO, e una serie di Paesi partner della NATO dovessero impegnarsi in esercitazioni militari congiunte sul confine americano, si sentirebbe qualcosa da Washington, ve lo assicuro. Peraltro non si tratta di un innocuo affare quotidiano di una o due nazioni che svolgono esercitazioni militari; si tratta del più grande blocco militare nella storia, onestamente parlando, con 24 Paesi membri, con oltre 70 Paesi partner nel mondo, che è oltre un terzo delle nazioni al mondo, e nell’ONU, ad esempio. Questa rappresenta un’ulteriore indicazione che il blocco militare guidato dagli USA, la NATO, ispira, prima di tutto, lo svolgimento di quelle che potrebbero essere interpretate come incaute e forse anche pericolose esercitazione militari vicino ai confini della Russia e allo stesso tempo progetta di sviluppare ulteriormente e dare una veste all’attivazione della propria forza internazionale di intervento.

RT: Queste esercitazioni non sono a buon mercato comunque – e molte nazioni europee non sono finanziariamente nella migliore forma. Ne vale davvero la pena per loro?
Rozoff: Certo che no, è un fantasma, una minaccia immaginaria che è stata contestata. Vale la pena notare che il Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen e altri funzionari dell’Alleanza Atlantica incluso il vice Segretario Generale Alexander Vershbow, che è l’ex ambasciatore statunitense in Russia, hanno precisato che le esercitazioni militari svolte in Lettonia e Polonia erano dirette a consolidare i risultati conseguiti negli ultimi dodici anni in Afghanistan, dove la NATO, attraverso la missione ISAF, ha consolidato – sono le sue parole – l’operatività di forze militari provenienti da 50 diverse nazioni. I popoli europei, i cittadini dei rispettivi 26 Stati membri in Europa possono comprendere questo genere di stravaganza? No, certamente non possono. Così ciò che resta da credere è che gli Stati Uniti trovano il pretesto per utilizzare la NATO e sono pronti a sostenere la maggior parte dei costi derivanti dalle esercitazioni o dalla creazione delle installazioni militari, per rafforzare i propri interessi geopolitici in Europa e nel mondo.

RT: La NATO ha appena terminato le esercitazioni in Polonia e negli Stati baltici. C’è qualche ragione per la scelta di queste precise collocazioni?
Rozoff: Se vi riferite alla forza di risposta rapida, che è un dispositivo dell’Alleanza utilizzato presumibilmente per interferire quando la NATO interviene militarmente, come fa negli ultimi quattordiici anni fuori dalla sua area di responsabilità, l’autodichiarata zona di protezione dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Stiamo parlando ovviamente di una seria azione militare, seria come lo è la guerra, infatti. Quattordici anni fa nell’Europa sud-orientale, nella ex Jugoslavia, per gli ultimi dodici anni in Afghanistan, in Asia, e due anni fa in Libia e Nord Africa, poi hanno scelto un così delicato posizionamento di fronte alla Russia – gli Stati baltici, il confine nord-occidentale della Federazione Russa – a me sembra quasi come una provocazione. Ma la spiegazione ufficiale della NATO è che, essendosi ormai configurata come una forza militare internazionale per missioni che possono essere condotte in Africa, Medio Oriente, nel Golfo di Aden, nell’Oceano Indiano, in Asia Meridionale e Centrale, adesso deve ristabilire la propria capacità di difendere gli Stati membri. Chi altri se non la Russia può essere presa di mira quando gli Stati NATO, e, nel caso di Lettonia e Polonia – devono essere in grado di difendere i nuovi Stati membri dell’Alleanza come Lettonia, Estonia, Lituania a Polonia – nessuna altra nazione potrebbe essere il potenziale aggressore in quel contesto se non la Russia. Perciò questa è un’aperta provocazione nei confronti della Russia.

RT: L’anno prossimo la NATO terminerà la sua missione di combattimento in Afghanistan, che è durata oltre un decennio. Che cosa faranno tutte queste truppe dopo il ritiro del 2014?
Rozoff: Ci sarà un periodo di riposo e recupero per le attuali forze terrestri. E considerate che i comandanti NATO in Afghanistan e i comandanti militari USA hanno discusso circa il mantenimento in territorio afghano di un numero tra gli 8.000 e i 14.000 soldati statunitensi e di altri Paesi NATO per un futuro indefinito. E ciò si aggiunge certamente all’intenzione statunitense di mantenere e forse anche espandere la propria presenza e la propria capacità bellica nelle grandi basi aeree che gli Stati Uniti hanno migliorato a Shandan, Kandahar, e le basi terrestri fuori dalla capitale Kabul, e così via. Pertanto ciò che la NATO evidentemente intende fare, e gli USA in primo luogo, è la compiuta integrazione delle strutture militari di oltre 50 Paesi – un evento molto importante, non c’è nulla di anche lontanamente paragonabile che sia avvenuto prima nella storia. Bisogna essere onesti riguardo ciò. In nessuna guerra, neanche nella Seconda guerra mondiale, c’è stata la presenza di personale militare da 50 Paesi, tanto meno da una sola delle parti in conflitto, tanto meno in un solo teatro di guerra e in un sola nazione. Perciò quello che la NATO ha fatto è stato usare i dodici anni di incerto impegno bellico in Afghanistan al fine di mettere in piedi una NATO globale, nei fatti. E una volta concluso questo percorso con il vertice dell’Alleanza svoltosi a Chigago, lo scorso vertice NATO del Maggio 2012, l’Alleanza ha annunciato la nascita di un altro programma di partenariato. E questo sarà il primo che non è geograficamente connotato, diversamente da quelli che riguardano il Golfo Persico, il Mediterraneo, la regione del Medio Oriente o l’Europa Orientale, il Caucaso, l’Asia centrale. Quest’ultima iniziativa della NATO comprende inizialmente otto nazioni appartenenti alla più grande regione dell’Asia-Pacifico: Iraq, Pakistan, Afghanistan, Nuova Zelanda, Australia, Giappone, Corea del Sud e Mongolia. La Mongolia anche, come il Kazakhistan, che è un membro del programma NATO Partenariato per la Pace, confina sia con la Russia che con la Cina. Ciò cui stiamo assistendo è che a dispetto di tutti i suoi sforzi per convincere il mondo che è diventata un’aggiunta all’ONU, o che costituisce in qualche modo un apparato per il mantenimento della pace, la NATO si è in realtà trasformata in una forza militare globale. Essa può avere una limitata capacità di allargamento, almeno non fino al punto che vorrebbe. Ma le sue intenzioni sono chiare. Il nuovo quartier generale della NATO in costruzione a Bruxelles, che costerà più di un miliardo di dollari, sarà concluso a breve. Bene, la NATO non ha intenzione di accettare un’altra limitazione al bilancio e altri fattori che possano giustificare il suo ridimensionamento, le sue ambizioni al contrario sono più grandiose di quanto siano mai state prima.

RT: Che cosa riserva il futuro per l’Organizzazione in generale? Come può continuare a contare ed essere una forza importante nel mondo?
Rozoff: Lo scopriremo al prossimo vertice di Berlino l’anno a venire, nel 2014. Ciò che sappiamo è che al vertice di Chigago dell’anno scorso, una delle più importanti fra le decisioni prese riguarda il cosiddetto sistema di missili intercettori con approccio adattativo graduale -inizialmente progettato dai soli Stati Uniti sotto l’amministrazione di George W. Bush e ora pienamente integrato con la NATO sotto l’amministrazione di Barack Obama – ha raggiunto la capacità operativa iniziale, con piani per installare infine centinaia di missili intercettori a raggio intermedio e medio a terra in Paesi come Romania e Polonia, e anche su cacciatorpedinieri e altri tipi di unità navali nel Mediterraneo. Alla fine, sospetto, nel Mar Baltico e nel Mar Nero, poichè gli Stati Uniti stanno usando ancora la NATO come un cavallo di Troia, per controllare non solo militarmente ma anche politicamente l’intera Europa Orientale, dal Mar Baltico al Mar Nero. Ogni singolo membro di quello che era il Patto di Varsavia, con l’eccezione della Russia, è ora parte a pieno titolo della NATO. Metà degli Stati appartenenti alla ex Repubblica di Jugoslavia sono adesso membri a pieno titolo della NATO. Vediamo quindi che gli Stati Uniti usano la NATO per estendersi militarmente da Berlino, al termine della Guerra Fredda fin fino al confine russo. E la cosa più allarmante ultimamente è che hanno intensificato i propri sforzi per incorporare l’Ucraina, che possiede un rilevante confine con la Russia, quale importante partner della NATO. L’Ucraina sta per unirsi alla forza di risposta rapida, così come Georgia, Finlandia e Svezia. La Svezia è l’unico fra questi Paesi a non avere un confine con la Russia. Finlandia, Ucraina e Georgia possiedono confini rilevanti. Quello cui assistiamo è che la NATO in un modo o nell’altro sta continuando la spinta verso i confini della Russia e di fatto l’accerchiamento militare della Federazione Russa.

La guerra ambientale è in atto

Dalle mistificazioni scientifiche del Global Warming alle manipolazioni globali della Geoingegneria.
Gli interventi del convegno svoltosi a Firenze lo scorso 27 Ottobre 2012.
Fonte

Enzo Pennetta
Controllo demografico e riscaldamento globale: interessi e obiettivi di una teoria controversa

Antonio Mazzeo
Governare le guerre climatiche e nucleari attraverso comandi satellitari e telematici del MUOS

Fabio Mini
I futuri multipli: quale guerra prepariamo? Guerre ambientali e nuovi scenari geopolitici

Mal d’Africa

mary carlin yates

L’ingerenza negli affari interni di Stati sovrani secondo la consolidata prassi statunitense.

È il traffico di stupefacenti il nuovo nemico di AFRICOM, il neo costituito comando per le operazioni delle forze armate USA nel continente africano. Dopo aver dichiarato guerra alla pirateria nel Golfo di Aden, Washington è intenzionato ad estendere all’Africa l’intervento militare contro la produzione e il traffico di stupefacenti, implementato – con scarso successo – in America Latina. “Il traffico illegale di narcotici rappresenta una minaccia significativa alla stabilità della regione”, ha dichiarato il generale William E. Ward, comandante supremo di Africom, nel corso della sua audizione davanti alla Commissione difesa del Senato, il 17 marzo scorso.
“Secondo l’International Narcotics Control Strategy Report del 2008, l’Africa occidentale è divenuta un punto critico per il transito marittimo della cocaina sudamericana destinata principalmente ai mercati europei”, ha aggiunto Ward. “La presenza di organizzazioni di trafficanti in Africa occidentale, così come l’uso locale di stupefacenti creano seri problemi alla sicurezza. UNODOCS, l’Ufficio contro la droga e il crimine delle Nazioni Unite, stima che il 27% di tutta la cocaina consumata annualmente in Europa transita dall’Africa occidentale, e il trend sta crescendo significativamente. Il valore della droga inviata in Africa dall’America Latina è raddoppiato dal 2005, ed ha sfiorato i due miliardi di dollari nel 2008”.
Per il comando USA è divenuto “significativo” pure il traffico di stupefacenti sulla rotta Asia sud-occidentale – Africa orientale e meridionale. Così, in vista del contrasto dei traffici di droga nel continente africano, il Pentagono ha istituito nel quartier generale Africom di Stoccarda (Germania), un team composto da militari di esercito, marina, aeronautica, corpo dei marines e guardiacoste USA, e da funzionari della Drugs Enforcement Agency (DEA), l’agenzia anti-droga USA, dell’FBI e del Dipartimento di Stato. Alla sua direzione è stata chiamata Mary Carlin Yates, ex ambasciatrice USA in Ghana ed odierna vice-comandante per le attività civili-militari di Africom (l’“assistenza sanitaria ed umanitaria, le azioni di sminamento, l’intervento in caso di disastri naturali, le operazioni di peacekeeping”).
(…)
Il programma preso come modello da Africom è il famigerato Plan Colombia (oggi denominato “Plan Patriota”), miliardi di dollari in armi, apparecchiature radar, diserbanti altamente tossici distribuiti ai partner più fedeli delle regioni andine ed amazzoniche per contrastare la produzione di coca. Anche per questo il comando USA per le operazioni nel continente africano ha avviato una serie di contatti con il suo omologo di Miami che sovrintende all’intervento militare in Centroamerica, America del Sud e Caraibi. “L’US Southern Command ed Africom vogliono lavorare insieme”, ha spiegato l’ambasciatrice Yates. “I narcotrafficanti arrivano in Africa dall’America Latina, così noi dobbiamo lavorare sia in funzione del rafforzamento delle autorità nazionali sia in quello della partnership tra i due comandi e i nostri partner in Africa e Sud America. Ho visitato di recente i reparti di US Southern in Florida, apprezzandone le modalità di coordinamento delle relazioni militari statunitensi con l’America Latina e gli stretti contatti con le autorità internazionali impegnate contro il traffico di droga in centro e sud America”.
Nella proposta di bilancio per l’anno fiscale 2010, il Dipartimento della Difesa ha chiesto di destinare in Africa 52 milioni e 125 mila dollari nell’ambito dell’International Narcotics Control and Law Enforcement, il programma di Washington per combattere il narcotraffico. Si tratta del doppio di quanto è stato previsto per l’anno in corso (29 milioni e 600 mila dollari). Per il Pentagono, i soldi dovranno servire a “combattere il crimine transnazionale e le minacce ad esso collegato e sostenere lo sforzo contro le reti terroristiche che operano nel settore del traffico di droga e in altri affari illeciti”.
(…)
“L’impegno degli Stati Uniti nell’addestramento delle forze navali africane per individuare e sequestrare i carichi di droga è cresciuto negli ultimi anni principalmente grazie all’iniziativa denominata African Partnership Station (APS)”, ha aggiunto l’ambasciatrice Yetes. “L’APS è parte di un piano a lungo termine che vede protagonisti nazioni ed organizzazioni di Africa, Stati Uniti, Europa e Sud America. Una grande attività di cooperazione militare e civile che contribuisce alla crescita della sicurezza nelle coste dell’Africa occidentale e della professionalità dei militari, delle guardia coste e dei marines africani. Il programma è portato avanti attraverso le visite di unità navali, aerei, team di addestramento e progetti d’ingegneria e costruzione navale”.

Da Il Pentagono in guerra contro il narcotraffico africano, di Antonio Mazzeo.

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Il Rwanda è sicuramente uno dei paesi chiave nella nuova strategia di penetrazione politica e militare degli Stati Uniti nel continente africano. Tanto importante che recentemente è stato meta di una visita di tre giorni da parte del generale statunitense William E. Ward, comandante in capo di AFRICOM, il comando delle forze armate USA per l’Africa. Dopo aver assistito ad alcune esercitazioni congiunte USA-Rwanda nei campi-presidi di Gabiro e Gako, Ward ha incontrato i giornalisti preannunciando il “rafforzamento della cooperazione militare” tra i due paesi, specie nel settore della “lotta ai traffici di droga”, nelle acque del Lago Kivu, al confine con la Repubblica Democratica del Congo. AFRICOM rafforzerà la propria azione anche nel campo della “formazione” degli ufficiali locali. Il comando USA collabora già con l’Accademia militare di Nyakinama (istituita nel 2001); adesso, grazie ai fondi dell’International Military Education and Training Program (IMET), una quarantina di appartenenti alle forze armate ruandesi potranno specializzarsi nei principali college di guerra degli Stati Uniti. In aggiunta, Africom offrirà assistenza alla “Scuola Ufficiali” che entrerà in funzione in Rwanda entro il 2012.
È tuttavia l’ambigua operazione di “stabilizzazione del Darfur”, quella che ha assorbito il maggior numero di risorse umane e finanziarie della partnership Washington-Kigali. Attualmente 3,454 “peacekeepers” ruandesi sono impegnati nella regione occidentale del Sudan nell’ambito della missione internazionale voluta dall’ONU e dall’Unione Africana. L’aeronautica militare USA ha garantito tutte le operazioni di trasporto del personale, dei sistemi d’arma e dell’equipaggiamento pesante delle forze armate del Rwanda, sin dall’avvio della missione in Darfur (ottobre 2004). Di conseguenza è frequente la presenza nello scalo aereo di Kigali di aerei cargo C-130 “Hercules” e C-17 “Globemaster” del Comando USA per la Mobilità Aerea (AMC), e di team operativi dell’US Air Force provenienti dalle basi di Ramstein, Mildenhall (Gran Bretagna) e Charleston (South Carolina). L’ultimo grande ponte aereo Rwanda-Darfur è stato attivato da AFAFRICA tra il gennaio e il febbraio di quest’anno. Prima del loro trasferimento, i “peacekeepers” hanno partecipato ad un addestramento specifico a Gako, con l’immancabile presenza dei “consiglieri” di US Army Africa, giunti apposta da Vicenza.
(…)
Nel suo report sui diritti umani del 2007, il Dipartimento di Stato ha infatti stigmatizzato il bilancio del governo del Rwanda in tema di difesa dei diritti dell’uomo. “Ci sono casi di abusi gravi”, segnalava Washington. “Si nota un aumento di esecuzioni extragiudiziarie, di arresti e di detenzioni arbitrarie da parte dei servizi di sicurezza (…) I crimini impuniti rimangono numerosi”. Ciononostante gli aiuti e i programmi di addestramento militare statunitensi sono cresciuti esponenzialmente: il loro valore è stato di 811 milioni di dollari nel biennio 2008-09, più i 500 milioni previsti per il 2010 con l’International Military Education and Training Program (IMET). Altri 200 milioni di dollari in “aiuti militari diretti” dovrebbero arrivare a Kigali il prossimo anno.
La fiducia del Pentagono per la tenuta “democratica” delle forze armate ruandesi non è stata turbata neanche dalle risultanze delle inchieste promosse dalle autorità giudiziarie spagnole e francesi sugli omicidi di cittadini dei due paesi commessi tra il 1990 e il 2002 in Rwanda e nella Repubblica Democratica del Congo. Il 6 febbraio 2008, il tribunale di Madrid ha emesso quaranta mandati di cattura nei confronti di altrettanti militari ruandesi, accusati di genocidio e terrorismo. Tra i principali indiziati, il generale Karake Karenzi, alla guida della forza multinazionale di “peacekeeping” in Darfur. Dopo la conquista Tutsi di Kigali, il generale Karake sarebbe stato tra i responsabili dei massacri scatenati nei campi profughi ai confini con il Congo dove si erano nascosti gli estremisti Hutu responsabili della prima fase del genocidio. Sempre secondo i magistrati spagnoli, nel 2000 l’alto ufficiale era al comando delle truppe che nel corso di uno scontro armato con reparti ugandesi a Kisangani in Congo, causarono la morte di 760 civili innocenti. Grazie alla protezione del presidente Kagame (altro “big” accusato di crimini contro l’umanità) e del grande alleato statunitense, Karake Karenzi è stato mantenuto al suo incarico di vice-comando della missione ONU-UA in Darfur sino al 3 maggio 2009.

Da US Army Vicenza, Africom e il Rwanda: una lezione di cinismo, di Antonio Mazzeo.

Center of Excellence for the Stability Police Units (CoESPU)

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Sovente da queste pagine abbiamo parlato di Vicenza, in merito alla questione del raddoppio della base statunitense presso l’ex aeroporto Dal Molin. Ma nel capoluogo berico sorge un’altra struttura sulla quale vale la pena spendere qualche parola. Dal primo marzo 2005, è stato infatti istituito a Vicenza, presso la caserma Chinotto, il CoESPU (Center of Excellence for the Stability Police Units – Centro di Eccellenza per le Unità di Polizia di Stabilità), struttura nella quale viene addestrato il personale per le PSO (Operazioni per il Supporto della Pace). La creazione del CoESPU venne stabilita (su proposta italiana) nel vertice dei Paesi del G8 tenutosi nel 2004 a Sea Island negli Stati Uniti, occasione nella quale i Paesi partecipanti al vertice hanno formalmente adottato un piano d’azione denominato “Espansione della Capacità Globale nelle Operazioni per il Supporto della Pace”, che mira ad aumentare la capacità globale di sostegno a tali operazioni, in particolare nei Paesi africani.
Le basi erano state gettate nel 2002 al vertice di Kananaskis, dove ci si era prefissi l’obiettivo di far sì che le nazioni africane entro il 2010 potessero partecipare a tali operazioni. La ricerca di un sempre maggiore coinvolgimento dei Paesi africani in questo tipo di operazioni è un chiaro segnale di come gli Stati Uniti siano sempre meno in grado di gestire da soli le situazioni di conflitto da essi stessi generate, in particolare in Afghanistan ed Irak.
L’obiettivo che il Centro si prefigge è l’addestramento entro il 2010 di 7.500 unità, il 10% del quale formato da personale tipo Carabinieri/Gendarmeria. Si conta di aver addestrato entro tale data 3.000 ufficiali e sottufficiali, i quali una volta fatto ritorno al loro Paese di origine potranno addestrare ulteriori 4.500 unità. Il modello al quale ci si ispira è quello delle MSU (Unità Multinazionali Specializzate) che ha fornito personale per le operazioni in Bosnia, Kosovo ed Irak. A tal proposito va evidenziato come la caserma Chinotto sia anche la sede della Gendarmeria Europea, un corpo di oltre 3.000 uomini cui partecipano le forze di polizia militarizzate di Italia, Francia, Spagna, Portogallo ed Olanda. La forza sarà a disposizione dell’Unione Europea ma potrà operare in favore dell’ONU, della NATO, dell’OCSE e di altri organismi internazionali.
Ritornando al CoESPU, il personale che partecipa ai corsi viene preparato ad operare sia in contesti militari che in contesti civili, gestendo la fase di transizione da un contesto di guerra ad un contesto per così dire di normalità.
La durata dei corsi varia dalle 5 alle 7 settimane, le lezioni si tengono in inglese e si concludono con l’assegnazione di un certificato che abilita all’impiego ONU. Va sottolineato che la scuola usufruisce di robusti finanziamenti del governo americano, anche se purtroppo l’ammontare di tali finanziamenti non è noto. Il comando resta interamente italiano, ma il vicedirettore (svincolato dalla catena di comando) è un ufficiale statunitense, ed ulteriori contributi sono stati offerti da Francia e Canada. Al momento i Paesi coinvolti sono una trentina ma sembra siano destinati ad aumentare.
Concludiamo riportando uno dei punti-chiave fra quelli che sono indicati come obiettivi principali del CoESPU, così come riportato sul sito dell’Arma dei Carabinieri: “Interagire con organizzazioni internazionali e regionali, quali le Nazioni Unite, la NATO, l’OSCE, l’Unione Europea […]; accademie ed istituti di ricerca (per es. il George Marshall Center); istituzioni di ricerca militari come il NATO Joint Analysis and Lesson Learned Center o lo US Army Peacekeeping and Stability Operations Institute e lo US Army Center for Lesson Learned”.

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Quello che ricorda per certi aspetti la famigerata “Scuola delle Americhe” che formò migliaia di ufficiali latinoamericani nelle decadi in cui le dittature imperversavano nel continente, si chiama “Center of Excellence for Stability Police Units, (CoESPU)”, e dal marzo 2005 è ospitato presso la Caserma “Chinotto” di Vicenza, sotto il comando dell’Arma dei Carabinieri. Il 4 e 5 maggio, il centro di formazione e addestramento internazionale delle “forze di polizia” africane è stato visitato dal generale William “Kip” Ward, a capo del Comando Africom di Stoccarda. Nell’occasione, Ward ha incoraggiato l’alto ufficiale dei Carabinieri Umberto Rocca, responsabile del CoESPU, a proseguire nello “sviluppo delle abilità degli ufficiali delle forze di polizia africane affinché operino nelle missioni di peacekeeping nel continente”, assicurando che “Africom continuerà a mantenere stretti legami con il Centro d’Eccellenza di Vicenza”. “Fate buon uso di quest’esperienza”, ha poi raccomandato ai militari di Camerun, Nigeria, Mali e Burkina Faso, ospiti di uno dei corsi attualmente in fase di realizzazione nella città veneta. Prima di lasciare la caserma “Chinotto”, lo zar delle nuove campagne USA in Africa ha rivelato che Serbia, Nepal ed Indonesia potrebbero inviare presto propri reparti per potenziare le missioni internazionali di “peacekeeping” nel continente.
(…)
Durante la sua visita a Vicenza, il capo supremo di Africom si è recato pure a Camp Ederle. A conclusione dell’incontro con il generale William B. Garrett III, comandante di US Army Africa, William Ward ha voluto ringraziare ufficialmente i militari statunitensi per il ruolo assunto nelle missioni in terra d’Africa. “US Army Africa sta supportando Africom in una serie d’incarichi finalizzati a migliorare le funzioni dei militari africani, costruire partenariati e promuovere forze militari professionali”, ha dichiarato l’alto comandante USA.
“In Rwanda, il personale US. Army lavora attualmente insieme ai militari della Gran Bretagna per addestrare i soldati ruandesi. In Liberia, più di una dozzina di sottufficiali dell’esercito statunitense appoggiano il Liberia Security Sector Reform, un programma diretto dal Dipartimento di Stato per aiutare la ricostituzione delle forza armate liberiane”, ha aggiunto Ward. “Altre missioni degne di menzione includono i programmi logistici a favore di Botswana, Uganda e Rwanda. Ufficiali dell’US Army operano con la African Partnership Station, la missione della marina statunitense in Africa occidentale, e con la Combined Joint Task Force – Horn of Africa, la forza militare che opera congiuntamente con i nostri partner in Africa orientale”.
Vicenza si conferma sempre più il cuore strategico delle operazioni terrestri di Africom.

Da Vicenza è sempre più Africom, di Antonio Mazzeo.

L’AFRICOM (e l’Italia) in Darfur

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Il Comando USA per le operazioni in Africa, AFRICOM, ha dato il via ad un ponte aereo per trasferire in Darfur, via Ruanda, 75 tonnellate di materiali pesanti (camion per il trasporto carburante, elevatori, depositi d’acqua ed attrezzature varie non meglio specificate), a sostegno dell’ambigua operazione di “peacekeeping” che ONU e Unione Africana sostengono nella regione occidentale del Sudan dal 2004.
La missione aerea, la maggiore mai realizzata da quando il comando è divenuto operativo, prevede l’utilizzo di due aerei cargo C-17 “Globemaster III” dell’Air Mobility Command (AMC), ed è stata autorizzata l’1 gennaio 2009 dal presidente uscente George W. Bush. In una nota inviata alla Segretaria di Stato Condoleezza Rice, è stata definita d’“importanza strategica per gli interessi e la sicurezza degli Stati Uniti d’America”.
Le operazioni di trasporto saranno coordinate dal 618th Tanker Airlift Control Center dell’AMC, con sede presso la Scott Air Force Base, e dalla “Seventeenth Air Force” USA, riattivata nella base tedesca di Ramstein quale principale strumento operativo aereo di AFRICOM.
Secondo Vince Crawley, portavoce del Comando USA per l’Africa, “i velivoli C-17 effettueranno numerosi viaggi tra l’aeroporto di Kigali, Ruanda, ed uno scalo aereo in Darfur non ancora individuato, dove le truppe statunitensi opereranno solo il tempo richiesto per le attività di scarico dei materiali”. Parallelamente al dispositivo attivato dal Pentagono, il Dipartimento di Stato avvierà un analogo intervento in Darfur con fondi propri, che vedrà l’affidamento ad una compagnia aerea privata della movimentazione di circa 240 container di “materiali pesanti” che giungeranno a Port Sudan, città nordorientale sul Mar Rosso.
(…)
Molto probabilmente, il ponte aereo USA-Germania-Ruanda-Sudan coinvolgerà direttamente il nostro paese, in primo luogo la base siciliana di Sigonella, che l’Air Mobility Command vorrebbe trasformare in uno dei principali scali europei dei velivoli cargo e cisterna USA. In un’intervista rilasciata al periodico Air Forces Magazine (novembre 2008), il generale Duncan J. McNabb, la più alta autorità militare nel settore del trasporto aereo statunitense, ha spiegato che “per assicurare il successo dell’intervento in Africa”, è indispensabile “sviluppare le infrastrutture delle basi chiave, come Lajes Field, l’isola Ascensione nell’Atlantico e Sigonella, Sicilia”. “L’Air Mobility Command – ha aggiunto McNabb – sta lavorando con il comando dell’US Air Force in Europa per trasferire in queste installazioni, dalla base aerea di Ramstein, Germania, il traffico aereo di AFRICOM”.
L’Italia, però, non si limiterà a fornire basi logistiche per i velivoli da trasporto delle forze armate USA. Alla vigilia di Natale, il ministro della Difesa Ignazio la Russa, e il capo di stato maggiore Vincenzo Camporini hanno annunciato che le nostre forze armate si stanno preparando a partecipare alla missione congiunta ONU-UA nel Darfur, “mettendo a disposizione i propri velivoli da trasporto e proteggere le popolazioni locali da una sorta di pulizia etnica che in qualche modo si suppone guidata da poteri politici locali”.
(…)

Da Anche l’Italia giocherà un ruolo nel Darfur, di Antonio Mazzeo.

Puglia americana

La base USAF di San Vito dei Normanni (San Vito Air Station), situata circa dieci chilometri a nord-ovest di Brindisi, in una posizione intermedia fra il porto della città pugliese ed il paese di San Vito dei Normanni, fu attivata l’1 novembre 1960, nel pieno della Guerra Fredda, grazie ad uno dei tanti accordi segreti siglati tra l’Italia e gli Stati Uniti. Inizialmente operò come installazione esterna della base di Aviano, con il personale e le attrezzature di sostegno forniti dal 6.900° stormo di sicurezza, arrivato a San Vito già nel 1959. Esso diede il via alla costruzione delle infrastrutture che permisero poi al 6.917° Electronics Security Group, 700 uomini dell’aviazione a cui se ne aggiungevano alcuni della US Navy, di entrare in attività.
Nel 1964, venne eretta quella mastodontica e misteriosa struttura che prese il nome di “gabbia dell’elefante” [vedi foto]. Si trattava di un’antenna radiogoniometrica ad alta frequenza FLR-9, costituita da una grande struttura circolare a cerchi concentrici (Wullenweber), mentre nei bunker sottostanti lavoravano centinaia di specialisti dell’intercettazione, traduttori e crittografi che, grazie a quelle antenne ed a potentissime apparecchiature radio con un raggio utile di intercettazione di circa 1.500 miglia, ascoltavano ogni comunicazione – telefonica, radio, telex, telegrafica, video… – proveniente non solo dal blocco comunista e dal Vicino e Medio Oriente, ma anche dai cosiddetti Paesi amici occidentali, Italia compresa.
La base di San Vito e quella di Chicksands, in Gran Bretagna, furono le prime ad essere equipaggiate con il sistema di intercettazione FLR-9, nell’ambito della nuova rete spionistica col nome in codice di “Cavallo di Ferro”. Le altre tre installazioni della rete erano collocate presso la base di Misawa in Giappone, la Clark Air Base nelle Filippine ed a Elmendorf, in Alaska.
Già dal 1967 l ‘attività di intelligence di San Vito passò alle dipendenze operative della NSA (National Security Agency), il servizio segreto militare che di fatto gestisce il famigerato sistema Echelon e le sue derivazioni.
All’inizio degli anni Ottanta, si avviò il ridimensionamento degli organici, per una serie di tagli al bilancio militare statunitense, ma anche con l’affermazione della tecnologia satellitare che ha reso superflue ed antiquate le grandi installazioni fisse come quella di San Vito. La Guerra del Golfo del 1991 fu l’ultima operazione convenzionale alla quale partecipò la base, che dall’aprile 1993 cessò di operare.
Alla fine di quell’anno, San Vito accolse uomini e mezzi assegnati alle missione umanitaria “Deny Flight” in Bosnia Erzegovina, poi riconvertiti nell’operazione di peacekeeping “Provide Promise” condotta negli stessi territori, con gli elicotteri Black Stallion ed i cacciabombardieri AC-130 Spectre stazionanti presso le piste dell’aeroporto militare Pierozzi di Brindisi. Nel 1997, i 1.300 uomini della Joint Operation Task Force-2 – avieri statunitensi del 352° Special Operations Group e del 16° Special Operations Wing – operavano a San Vito a sostegno del dispiegamento delle truppe NATO in Bosnia e del controllo dello spazio aereo sul Paese balcanico. Affiancati da una manciata di fanti e marinai USA, e dalle truppe speciali francesi dell’Armée de l’Air, impegnate in operazioni di commandos.
Terminata l’aggressione della NATO alla Serbia del 1999, a San Vito è rimasto soltanto un reparto addetto alla sorveglianza del perimetro esterno ed alla efficienza della stazione di osservazione solare del Solar Electro-Optical Network. La struttura è gestita da un contractor privato ed è inserita in una rete di sei installazioni sparse nel mondo per assicurare un monitoraggio 24 ore su 24. Organizzativamente fa capo al 55° Space Weather Support Squadron, insediato alla Schriever Air Force Base in Colorado.
Il 26 febbraio 2000, il senatore Stefano Semenzato, vicepresidente del gruppo parlamentare dei Verdi, presentò un’interrogazione nella quale – alla luce delle risultanze dello studio preparato per il Parlamento Europeo da Duncan Campbell e denominato “Interception Capabilities 2000”, sull’esistenza e le modalità di funzionamento del sistema Echelon – chiedeva delucidazioni in merito alle attività ed alla dotazione tecnologica della base di San Vito dei Normanni. Domandava inoltre se il governo italiano avesse una qualche forma di controllo sull’attività della base e se, in caso contrario, non intendesse porre agli Stati Uniti una richiesta in tal senso.
A seguito di una gara bandita nel dicembre 2001, sono stati rimossi tutti i materiali che componevano l’antenna e le imboccature al bunker sottostante sono state sigillate con due impenetrabili porte d’acciaio, atte ad evitare qualsiasi ingresso non autorizzato. Non sono stati effettuati lavori al di sotto del suolo mentre al di sopra di esso oggi il terreno appare completamente sgombro.
Il 24 luglio 2003, con una cerimonia ufficiale tenutasi nella base di Ramstein, in Germania, alla presenza del colonnello Casertano per lo Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana (AMI) e del comandante dell’aeroporto di Brindisi, Rolando Tempesta, è avvenuto il passaggio di San Vito dall’USAF all’AMI. L’accordo parlava di un periodo transitorio di due anni in cui San Vito avrebbe dovuto rimanere in carico all’aeronautica italiana, per poi transitare all’amministrazione civile scelta dallo Stato. Resta però in possesso degli Stati Uniti una piccola ma importante porzione della base, quella della stazione di osservazione solare con sofisticate apparecchiature e radar. Gli addetti non indossano divise e la loro presenza nel territorio è quindi “invisibile”.
Negli ultimi anni, si è assistito ad un balletto di posizioni in cui si ritrova coinvolta anche l’ONU, la quale ha ottenuto l’uso di parte delle aree della ex base per scopi logistici (un nuovo enorme deposito che va ad aggiungersi a quello già presente presso l’aeroporto del capoluogo brindisino) ed operativi (una erigenda scuola di addestramento al peacekeeping con corsi di “polizia internazionale”).

Numer(ett)i e fatt(acc)i dell’Italia in Afghanistan

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A febbraio 2008, PdL e PD hanno dato il via libera a Camera e Senato al rifinanziamento della missione militare in Afghanistan. Le uscite ufficiali sono state di 365 milioni di euro, quelle reali – con tranches aggiuntive del Ministero degli Esteri – superano i 513, di cui 57 destinati al… riordino dei Tribunali e delle strutture centrali e periferiche del Ministero della Giustizia afghano.
CESVI ed INTERSOS, piene zeppe di volontari di occhio buono e lingua lunga, se ne accappareranno una fetta più che consistente. Ai nuclei CIMIC non resteranno che le briciole e la sfiga di dover fare da bersaglio per le prodezze dei 180 italianissimi Rambo della Task Force 45 – Sarissa.
I 4 Tornado IDS, insieme ad un team previsto di 170 militari tra piloti, motoristi, specialisti elettronici e di armi ed un aliquota di “avieri dell’aria” per la sicurezza, richiederanno uscite per altri 51 milioni di euro nell’esercizio 2009-2010 e 6 se ne andranno per l’approntamento degli shelter corazzati già in costruzione per la protezione passiva contro razzi e colpi di mortaio sull’aeroporto di Herat. Una città squassata in un solo giorno, lo scorso 20 novembre, da tre gigantesche esplosioni a meno di cinquecento metri dalla base italiana di Camp Vianini.
Una guerra, quella organizzata a partire dal 2001 dagli USA in Afghanistan e successivamente corroborata dalla NATO, che è costata ad oggi, ai contribuenti della Repubblica delle Banane, tra morti, feriti, sequestrati con riscatti per entità non precisate, per retribuzioni, diarie di indennità al personale, trasporto, “aiuti” a Ong, uso di blindati, elicotteri, aerei, logistica, impiego, sostituzione e perdite di materiali, la sommetta di 3,2 miliardi di euro.
La campagna contro l’Afghanistan, cominciata sotto grandinate di bombe da 250-500 kg sganciate a caduta libera, e quindi con larga imprecisione, sugli “obiettivi sensibili” da B52 e B1 statunitensi, è tutt’ora in corso e durerà – si sostiene al Pentagono – ancora una ventina di anni.
Gli esportatori di pace e democrazia USA/NATO sono arrivati in Afghanistan, con la complicità dell’ONU, a fare di tutto e di ben peggio del peacekeeping con tanto di promessi e faraonici (e mai mantenuti) piani di ricostruzione. Nel corso di sette anni di guerra hanno inoltre usato i C130 per annaffiare di bombe, oltre che i presunti rifugi dell’inafferrabile Bin Laden, anche il più modesto concentramento di guerriglieri pashtun, ponti, percorsi obbligati, abitazioni isolate e villaggi di montagna. Ad oggi sono almeno 250 le FAE, meglio conosciute come “tagliamargherite”, da 6 tonnellate dotate di paracadute frenante, lanciate dai portelloni posteriori di questi quadriturbina da trasporto oltre a 32 GBU 43B a guida laser da 7 tonnellate ciascuna, arrivate a bersaglio sul terreno.
Le FAE sono enormi contenitori di acciaio che contengono nitrato di ammonio, alluminio in polvere e polistirene che distruggono qualsiasi forma di vita nel raggio di cinquecento metri e sviluppano a terra una pressione di 500 kg ogni 24,5 millimetri quadrati.
Poi Enduring Freedom e ISAF hanno spazzato via dalla carta geografica dell’Afghanistan, quello che era rimasto in piedi delle infrastrutture di appoggio logistico del “nemico”, spesso posizionate in prossimità di centri abitati, con il bombardamento “chirurgico” di cacciabombardieri F117, F16, F18, Mirage 2000, Harrier, Tornado IDS e UAV Predator armati di razzi Hellfire.
Il 2007 si è chiuso con un bilancio ufficiale del governo Karzai, quindi largamente sottostimato, di 7.463 morti ammazzati. Per Human Rights Watch, i decessi registrati tra la popolazione afghana sono stati nello stesso periodo 748.
Nei primi otto mesi del 2008, i “costi collaterali” sono saliti a 1.552, con un incremento che supera di ben oltre il 50% le perdite di vite umane registrate nell’anno precedente. I dati questa volta sono arrivati dall’inviata sudafricana dell’ONU Navi Pillay, durante una conferenza stampa a Kabul nel mese di ottobre.

Dall’estate del 2006, durante il governo Prodi, è già operativa nell’ovest dell’Afghanistan – nelle province di Farah e di Herat – la forza di reazione rapida dei Bersaglieri e della Task Force 45 – Sarissa, composta da Comsubin di Varignano, Paracadutisti Carabinieri Tuscania e 185° Regt. Folgore che parteciperà a ripetute azioni di guerra contro i Taliban nel distretto di Gulistan.
Nel corso dei combattimenti la Task Force 45, appoggiata da 5 elicotteri d’attacco A129 Mangusta e blindati Dardo con cannoni a tiro rapido da 25 mm, si renderà responsabile insieme a Rangers USA e SAS britanniche dell’uccisione di decine di guerriglieri afghani e di un numero imprecisato di feriti.
Il primo impiego di militari italiani, inquadrati in ISAF, contro formazioni combattenti Taliban risale al 18 Settembre 2006. Seguiranno ulteriori “missioni di annientamento” l’1 Ottobre ed il 10 Dicembre dello stesso anno.
Il 2007 vedrà Alpini Paracadutisti, Bersaglieri e Truppe Speciali di ISAF ed Enduring Freedom, impegnati in azioni di rastrellamento e di fuoco da terra e dall’aria contro nuclei di Taliban il 21 Febbraio, 11 Marzo-10 Aprile, il 27 Aprile, il 10 ed il 22 Agosto, il 19 Settembre, il 5 Ottobre ed a chiusura dell’anno dall’1 al 21 Novembre. Sarà l’ultima grande e protratta operazione “attacca e distruggi” prima della pausa invernale.
Al vertice NATO di aprile a Bucarest, presente Frattini, gli Stati Uniti chiederanno perentoriamente all’Italia di ampliare il suo intervento militare in Afghanistan corredandolo di “ulteriori ed indispensabili mezzi di difesa per riallineare sul terreno lo sforzo comune di USA ed Alleati della NATO nella lotta contro il terrorismo”. L’azzimatissimo Ministro degli Esteri assicurerà in quella occasione a Jaap de Hoop Scheffer il ritiro dei caveat che limitavano l’impiego sul campo del personale militare italiano nelle province di Herat e Farah, dichiarate zone di guerra da Enduring Freedom.
Frattini confermerà inoltre al Segretario Generale della NATO che il rapporto di collaborazione dell’Italia con gli Stati Uniti sarà nel tempo ancora più stringente e politicamente affidabile rispetto al passato. Ed ecco che dopo le parole giungono i fatti: i Tornado Panavia IDS dell’Aeronautica Militare Italiana del generale Camporini arrivano a Mazar-e Sharif…
Ne riparleremo. Ne vale la pena.

[Versione rivista e corretta di “La guerra segreta dell’Italietta in Afghanistan”, di Giancarlo Chetoni.
Per gentile concessione dell’autore]

Il modo italiano di fare peacekeeping

 

Durante l’estate del 2007, sul sito Internet della rivista di geopolitica “Limes” è apparso un articolo del generale Filiberto Cecchi sul modo italiano di gestire le missioni all’estero per il mantenimento della pace. Vogliamo qui presentare alcune considerazione sviluppate dal generale di Corpo d’Armata in ausiliaria Fabio Mini, quale replica “polemicamente” argomentata alle posizioni del collega, esponente dell’attuale dirigenza militare responsabile – secondo Mini – del sistematico rigetto di tutto il capitale di prestigio accumulato in tanti anni di peacekeeping.
La cosiddetta via italiana al peacekeeping, iniziata in Libano e maturata in Albania, Somalia, Mozambico ed oggi di nuovo in Libano, non ha nulla a che vedere con le azioni militari intraprese contro la Serbia, l’Afghanistan e l’Irak. Vere e proprie guerre, queste.
Se essa oggi sopravvive in Bosnia, Kosovo e Libano o in qualche punto dello stesso Afghanistan è solamente – a parere di Mini – grazie a comandanti sul campo particolarmente intelligenti e caparbi ma non ad una linea di condotta emanata dall’alto.
Anzi, l’attuale vertice militare italiano – cosa tutt’altro da celebrare, indebito e menzognero tentativo di appropriazione di una concezione ormai desueta – continua a chiamare col nome di peacekeeping delle operazioni di guerra in territorio di guerra a fianco di alleati in guerra “soltanto per nascondere i veri scopi ed eludere le stesse leggi nazionali”.
In queste situazioni l’unica “via italiana” che ci viene ormai da più parti riconosciuta con disprezzo è quella di non dire mai no a quello che i potenti (leggasi NATO e Stati Uniti) richiedono, ma di non impegnarsi mai fino in fondo. Caratteristica che riguarda non i soldati ma i vertici militari che giocano sulla capacità e flessibilità dei primi per assecondare all’infinito l’ambiguità e l’equilibrismo dei vari governi, senza che gli stessi vertici militari abbiano mai trovato nulla da ridire, obiezioni da fare.
In Irak, l’Italia ha partecipato ad una guerra senza volerla fare, senza avere interessi a farla, al di fuori del quadro giuridico internazionale, in ossequio all’esigenza degli anglo-americani di avere un numero tale di Stati al fianco da poterla presentare come un fatto d’interesse collettivo. Per far questo – stigmatizza Mini – ci siamo uniti a eserciti di Paesi assolutamente insussistenti sul piano della sicurezza internazionale, abbiamo avvallato menzogne e nefandezze di ogni genere e spaccato il fronte europeo contrario al coinvolgimento in quel teatro. Dal canto loro, gli anglo-americani hanno tollerato che il contingente italiano, insieme ad alcuni altri, si spacciasse per peacekeeping ritenendosi esentato dalle operazioni prettamente militari. Per poi definire il successivo ritiro ininfluente, alla luce del fatto che il contributo alla sicurezza ed alla ricostruzione era stato praticamente nullo.
Analogamente in Afghanistan, dove l’iniziale orientamento ad interpretare il tradizionale ruolo di peacekeeping ed assistenza è stato stravolto dall’assunzione del comando nel contesto della NATO e poi dall’adesione di questa alla guerra dichiarata di Enduring Freedom. Anche in questo caso, l’Italia si è quindi risolta nell’astensione di fatto dalle operazioni belliche e nell’ambiguità di considerare mantenimento della pace ciò che è “semplicemente” guerra.
In nessun caso, né in Afghanistan né in Irak, si è mai intrapreso il tentativo di indurre un cambio della strategia complessiva presso chi di dovere. Così l’unica via italiana al peacekeeping – conclude Mini – è stata quella fatta di indecisioni, ammiccamenti, sudditanza ed ipocrisia.