Bisogna avere la forza della critica totale

“Non è vero che comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l’individuo che le società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata: la sua “accettazione realistica” è in realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propria coscienza e tirare avanti. E’ cioè il contrario di un ragionamento, anche se spesso, linguisticamente, ha l’aria di un ragionamento.

La regressione e il peggioramento non vanno accettati: magari con indignazione o con rabbia, che, contrariamente all’apparenza, sono, nel caso specifico, atti profondamente razionali. Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile.

Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuol dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne e ossa che lo circondano. Chi invece protesta con tutta la sua forza, anche sentimentale, contro il regresso e la degradazione, vuol dire che ama quegli uomini in carne e ossa. Amore che io ho la disgrazia di sentire, e che spero di comunicare anche a te.”

Da Sei un realista? Allora sei disonesto, di Pier Paolo Pasolini, “Il Mondo”, 27 marzo 1975.

Quel che Pasolini sapeva e perché fu ucciso

La verità ha un suono speciale.
Pier Paolo Pasolini (24/9/1975)

Pasolini scrittore, Pasolini poeta, regista, linguista, sceneggiatore. Meno nota e meno compresa è da sempre però la figura del Pasolini-Giornalista, che il Centro Studi ha pensato bene di approfondire lungo il corso di una serie di incontri svoltisi nel novembre 2017 e nell’aprile 2018 presso la sala consiliare del Municipio di Casarsa della Delizia e che ha visto gli interventi di diversi studiosi e giornalisti su quest’aspetto della professione intellettuale del Nostro, prolifica soprattutto, ma non soltanto, negli ultimi periodi della sua vita. Quegli incontri da noi organizzati si sono poi trasferiti in forma scritta in un volume edito nel 2019 e distribuito da Marsilio Gettiamo il nostro corpo nella lotta. Il giornalismo di Pier Paolo Pasolini (a cura di Luciano De Giusti e della compianta Angela Felice).
Uno degli interventi della giornalista Simona Zecchi L’ultimo linguaggio del poeta massacrato è parte di questa raccolta di saggi. L’autrice nel 2020 ha dato poi alle stampe per i tipi di Ponte alle Grazie il suo secondo libro-inchiesta sulla morte dello scrittore L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini, e proprio la figura del Pasolini-giornalista è quanto più emerge da questo lavoro nuovo e complesso. L’autrice nel 2018 ha anche dato alle stampe per la nave di Teseo il libro-inchiesta La Criminalità servente nel Caso Moro. Per la precisione ciò che emerge nettamente da L’inchiesta spezzata è la figura del giornalista d’inchiesta, un’altra branca del giornalismo se vogliamo più nobile, che collega fatti apparentemente lontani tra loro, va alla ricerca di fonti (persone o documenti) e che non si limita nel passare in rassegna le carte giudiziarie o investigative che eventualmente caratterizzano una vicenda. Insomma il giornalista d’inchiesta cerca elementi o prove nuove, altre che possano svelare verità nascoste o mistificate.
Pasolini sapeva e ha ottenuto le prove secondo le indagini di Simona Zecchi.
A 45 anni dal suo omicidio, la sua inchiesta riapre di fatto il dibattito sul movente che condusse lo scrittore e il regista alla violenta morte quel 2 novembre del 1975 e svela ciò che sin qui era rimasto celato. Un dibattito da sempre incastrato tra due opposti: la versione ufficiale dell’omicidio maturato all’interno di un contesto di prostituzione maschile e quella tutta stretta dentro l’ambito del complotto (nello specifico nella sparizione dell’Appunto 21, capitolo a cui Pasolini in Petrolio rimanda, ma che non si è mai trovato, o che forse non è mai stato scritto).
Il libro L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini, invece, porta, a sostegno della nuova tesi che ne risulta, una vasta serie di documenti, testimonianze, carteggi, storie ed analisi nuove che indicano come l’espediente utilizzato per condurlo al massacro (le bobine di Salò sottratte nell’agosto del 1975 e da lui tenacemente ricercate) avesse il preciso intento di spegnere definitivamente la sua voce e ancor di più la ricerca della verità sulle stragi, su tutte la strage di Piazza Fontana (1969). L’autrice, dopo aver mostrato nel libro Pasolini, massacro di un Poeta edito nel 2015 dallo stesso editore, come e da chi è stato ucciso l’intellettuale, cancellando per sempre la pista a sfondo sessuale riconosciuta dall’unico processo, ha qui ricucito le parti spezzate di una indagine che si scopre Pasolini stava svolgendo.
L’inchiesta spezzata…, dunque, ci accompagna fuori dal campetto di Ostia e dal «complotto» fine a sé stesso. È una indagine complessa e doppia questa, perché affronta sì il movente dell’omicidio ma ne sviluppa anche i contenuti, inoltrandosi nel territorio della strategia della tensione in modo inedito e inserendo al suo interno la figura del poeta-giornalista che negli anni invece è sempre stata sottratta dalle ricostruzioni di un periodo per certi versi ancora oscuro. Negli ultimi mesi della sua vita Pasolini indossa i panni dell’investigatore preferendoli a quelli dello scrittore per «ragioni pratiche», come scrisse già dal 1971, e arriva dritto al cuore politico e finanziario delle stragi: dove DC, Vaticano e CIA si incontrano.

(Fonte)

Il fascismo inesistente vi seppellirà

Partiamo dal convincimento che la verità sia nel tutto, come Hegel insegna, quindi anche nelle sue necessarie interne contraddizioni.
L’antifascismo, cosi come il neofascismo, prescinde da questo tutto, trasformando il fascismo in un archetipo che è quello che gli altri hanno deciso per lui. Una valutazione unica è doverosa non certo per una volontà riabilitativa, ma soltanto per avere un’arma in più per una corretta interpretazione, non del passato, ma del presente che, stando così le cose, pesa molto di più perché drogato.
Per questo è particolarmente illuminante il significato del termine fascismo così come evocato dagli antifascisti.
Il suo uso prescinde da una valutazione storica, così come da una politica o filosofica, il suo uso non è neanche quello di un semplice aggettivo denigratorio, ma è un investimento per garantirsi sempre il diritto all’ esistenza e alla ragione. Prescinde persino dallo spazio temporale, persino da una prospettiva manichea, come se il fascismo, in quanto Male Assoluto, fosse sempre esistito. Una cloaca comunque da contrapporre alla propria autoreferenzialità. Al suo cospetto, tutto sembra svanire, dal colonialismo, alla tratta degli schiavi, allo sterminio degli Indiani d’America, al genocidio degli abitanti della Tasmania, persino lo sfruttamento sembra così sopportabile dinanzi al fascismo, la “legge bronzea dei salari” di Ricardo finisce per coincidere con una piattaforma per il rinnovo contrattuale.
L’antifascismo diventa l’abito buono che da i super poteri, un mezzo per diventare dei fuoriclasse. Già dei fuori classe, l’antifascismo è così potente da far scomparire non solo Giovanni Gentile, ma anche Karl Marx e Antonio Gramsci.
La gravità di una tale liturgica investitura risiede tutta nell’inautenticità dell’antifascismo.
Ad un primo approccio un sistema del genere, così condiviso da non essere mai messo in discussione più da nessuno, sembrerebbe spianare la via ai suoi utilizzatori, un a priori che equivale a mettersi dalla parte dei buoni, mentre i cattivi, gli altri, dall’altra. Un’illusione di farsi giudice delle regole della vita per “vincere facile”, ma a lungo andare le astrazioni che durano troppo hanno sempre il merito di chiedere il conto ai suoi ciechi sostenitori.
Vediamo qualche particolare.
Fino al 1936, malgrado tutto, al PCI il fascismo, almeno non tutto, non doveva apparire così orrido, visto “L’appello ai fratelli in camicia nera” firmato da sessanta dirigenti del Partito, compreso Togliatti. Nello stesso anno iniziano le purghe staliniane ed i processi ai trotskisti.
Con la guerra di Spagna s’assiste forse al primo tentativo di usare l’antifascismo come fosse un’arma, e questa volta l’uso che se ne fa è senz’altro politico. I compagni anarchici e trotskisti del POUM vengono massacrati perché inspiegabilmente s’erano messi al soldo del fascismo secondo l’accusa. Il format calunnioso, di una sola maschera da mettere in faccia a tutti i nemici, viene sperimentato anche altrove, sempre con buoni risultati. Si trovano infuocate pagine su l’Unità, siamo nel gennaio del 1944, che invitano a schiacciare tutti gli infiltrati, sempre trotskisti, fattisi oramai la V colonna del nazifascismo. Il messaggio probabilmente era rivolto anche al più grande gruppo partigiano di Roma, il Movimento Comunità d’Italia riunito sotto il quotidiano Bandiera Rossa che, cosa da non crederci, era più diffuso de l’Unità. Il gruppo Bandiera Rossa era distante anni luce dal CLN, cosi come dal PCI, in quanto antimonarchico, antibadogliano, ma soprattutto avrebbe voluto non consegnare Roma agli Alleati, ma bensì proclamare “La Repubblica Romana dei Lavoratori”. Stranamente questi compagni, malgrado il loro grandissimo contributo alla resistenza, non appariranno negli annali della epopea dell’ANPI, mentre molti di loro moriranno sotto le provvidenziali raffiche naziste delle Fosse Ardeatine.
Fondamentale è il documento di chiusura della III Internazionale comunista, maggio 1943, in esso scompare esplicitamente il concetto di rivoluzione socialista lasciando il posto alla necessità d’aderire al “blocco antifascista”.
Bordiga, altro fondatore del PCI, ebbe modo d’affermare che la cosa peggiore che aveva prodotto il fascismo era proprio l’antifascismo, il tronfio antifascismo che abbracciava anche l’odiato nemico borghese.
Alla affermazione di Bordiga, gli farà eco più di mezzo secolo dopo, confermando il mortale abbraccio con il nemico di classe, quella di Costanzo Preve quando disse che peggio del fascismo c’era solo l’antifascismo. Tra i due comunisti, solo qualche bagliore di lucidità, primo fra tutti quello di Pier Paolo Pasolini.
L’inautenticità dell’antifascismo risiede nel suo essere antistorico e non contestuale, quindi non un momento antitetico da opporre alla sua affermazione, ma un opporsi che diventa evanescente perché il farlo non contempla il momento della tesi reale e di conseguenza quello del divenire nella sintesi. La sua pretesa di autenticità necessaria passerà allora esclusivamente nel vedere nel qualunque altro, quello fuori da sé, un fascista.
Non si tratta più di un solo uso mistificante del termine, ma questo diventa una piattaforma psudoideologica onnivora, capace per questo di procedere ad un processo di metamorfosi genetica.
La rimozione della missione storica del corpo sociale, sedato dall’antifascismo nel tempo, è stata lenta ma costante, fino ad essere completa. Dallo scambiare il socialismo per un riformismo che nel suo procedere non aveva neanche più il coraggio di nominarlo, fino al rendere inutile tutta la critica marxiana al capitalismo.
Mentre l’orchestrina intonava “Bella Ciao”, si scoprivano nuove icone sovrastrutturali, da Kennedy ad Obama, da Blair a Clinton, da Paolo di Tarso a Papa Francesco, da Macron ad Juncker, dalla troika alla NATO, da Chicco Testa a Vladimir Luxuria.
La globalizzazione diventa l’internazionalismo realizzato, il meticciato è la società senza classi, il consumismo la distribuzione della ricchezza, il precariato altro non è che un’opportunità.
Ed allora, in fase oramai matura, al dogma dell’antifascismo, si può affiancare con orgoglio il dogma del neoliberismo, la tanto agognata lotta per la libertà e la giustizia sociale possono finalmente rispecchiarsi realizzate nelle libertà dei diritti umani e nelle pari opportunità che il mercato a tutti offre.
In conclusione, l’oscenità dell’antifascismo risiede tutta nell’aver abbandonato il Socialismo, foss’anche come sogno raggiungibile del non ancora, appiattendosi invece acriticamente su quest’attimo presuntuoso ritenuto eterno a cui non manca niente. Questo è stato il vero profondo potere di questo antifascismo inautentico, ma anche la sua più grande e indelebile colpa.
Lorenzo Chialastri

[Modificato in data 8/5/2019]

Le mura di Sana’a

Le mura di Sana’a è un film documentario in forma di appello, girato da Pier Paolo Pasolini e prodotto da Franco Rossellini nel 1971.
Come Pasolini ebbe a dire: “È uno dei miei sogni occuparmi di salvare Sana’a ed altre città, i loro centri storici: per questo sogno mi batterò, cercherò che intervenga l’UNESCO”.
L’appello di Pasolini fu accolto nel 1986 quando, per le sue preziose testimonianze artistiche, la città vecchia di Sana’a fu dichiarata patrimonio dell’umanità.
Il celebre autore non poteva certo prevedere che nella primavera del 2015 sarebbe stata bombardata dai Sauditi.

Il male contro cui lottava Mattei

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“La morte di Mattei apparve immediatamente, agli occhi dei più accorti, per ciò che era. Tuttavia, i depistaggi da parte di apparati dello Stato che qualche anno dopo sarebbero diventati così comuni e funzionali a quella strategia della tensione contrassegnata da attentati sanguinari, fecero una prima ed efficace comparsa a seguito dell’assassinio del presidente dell’ENI. Interviste televisive tagliate o alterate; ritrattazioni di testimoni oculari con contestuali regali e favori a questi ultimi da parte di un ENI ormai avviato verso un nuovo corso; madornali ed inspiegabili errori nel trattamento dei reperti dell’aereo dell’Ingegnere; campagne stampa denigratorie e volte a sottovalutare l’operato dell’Ingegnere; un assordante silenzio che scende sulla vicenda e che decreta come causa dell’evento la tragica fatalità, dovuta al brutto tempo ed alle precarie condizioni psico-fisiche del pilota; ma soprattutto, la brutta fine che accomunerà chiunque si avvicini alla morte di Mattei cercando di capirne la verità.
Saranno solo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, nel 1994, a dare certezza ai dubbi mai del tutto dissipatisi e a permettere di riaprire le indagini accertando così l’esplosione di una bomba all’interno del Morane-Saulnier di Mattei. Stando alle parole del celebre ex boss dei due mondi, la morte del presidente dell’ENI sarebbe stata frutto del fortunato e pluriennale sodalizio esistente fra le famiglie mafiose italo-americane e il governo di Washington. In pratica, la mafia siciliana avrebbe fornito la manodopera per sabotare l’aereo di Mattei su ordine dei padrini d’oltreoceano, a loro volta incaricati dai servizi segreti americani di eliminare l’uomo che stava minando enormi interessi di carattere economico e geopolitico.
Dopo queste dichiarazioni, non fu difficile unire i puntini della vicenda e dare una risposta a tutte quelle morti, ritenute sino ad allora solo parzialmente spiegabili: la prima e forse più celebre perché strettamente collegata è quella del giornalista Mauro de Mauro, incaricato dal regista Francesco Rosi (autore del meritevole film “Il caso Mattei”) di ricercare quante più informazioni possibili sulla morte del presidente dell’ENI e che pochi giorni prima della sua scomparsa – per mano della lupara bianca – aveva dichiarato ai colleghi di essere venuto a conoscenza di uno scoop che avrebbe “scosso l’Italia”. Poi quella di Boris Giuliano, il superpoliziotto ucciso dal boss Leoluca Bagarella e che aveva iniziato ad indagare sui motivi della sparizione dello stesso De Mauro; il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa che aveva dato il via allo stesso tipo di indagini per conto della Benemerita. Infine, i dubbi sulla morte del regista e scrittore Pierpaolo Pasolini, che con il suo romanzo Petrolio si era addentrato negli oscuri meccanismi che regolavano il mercato di approvvigionamento e produzione del greggio, scoprendo forse anch’egli cose di cui non sarebbe dovuto venire a conoscenza.
Se tutti questi personaggi siano morti perché realmente legati in qualche modo ad Enrico Mattei, non ci è dato saperlo con certezza. Ciò che rimane sicuro, dopo una perizia ordinata dalla procura di Pavia in seguito alle dichiarazioni di Buscetta, è la mano assassina dietro alla morte dell’Ingegnere e non la “tragica fatalità” come troppo spesso, purtroppo, si è provato a dire in un Paese che ancora fatica ad ammettere come alcuni dei suoi più cruenti fatti di cronaca abbiano avuto come mandanti quegli stessi personaggi che per spregiudicati interessi economici hanno dettato da oltre confine e per decenni la nostra politica estera, impedendo all’Italia di essere artefice del proprio destino e di condurre una politica estera congeniale alla sua posizione strategica. Un paese che a più di vent’anni di distanza dal crollo del Muro di Berlino ancora ospita (e ingrandisce) gratuitamente basi straniere e s’avventura in guerre camuffate da operazioni di pace mandando a morire i suoi soldati per interessi terzi, un Paese che viene obbligato a comprare armamenti di dubbia qualità e che ancora deve sopportare di subire colpi durissimi al suo prestigio e ad alla sua forza contrattuale (basti ricordare la ricaduta sulla nostra bilancia commerciale delle sanzioni imposte all’Iran da un’Unione Europea sempre troppo servile con gli Stati Uniti e la scellerata guerra in Libia che ha strappato all’ENI numerose concessioni a vantaggio di Francia e Stati Uniti). Il male contro cui lottava Mattei, per quanto ridimensionato, vive e lotta ancora in mezzo a noi.”

Da All’origine dei mali d’Italia: l’assassinio di Enrico Mattei, di Federico Capnist.
[collegamenti nostri – ndr]

Mattei. Petrolio e fango

Lo spettacolo di Giorgio Felicetti all’Arena del Sole di Bologna il 5-6-7 Dicembre

“Tutto è spaventosamente chiaro”
Pier Paolo Pasolini

Perché uno spettacolo su Enrico Mattei?
Il “grande corruttore incorruttibile”, il “grande capitano d’impresa”, il “grande pericolo per l’Occidente”, il “grande petroliere”, “l’italiano più grande dopo Giulio Cesare”.
C’è sempre il “grande”, vicino ad Enrico Mattei.
Mattei è probabilmente il personaggio del dopoguerra su cui si è scritto di più, una sterminata bibliografia, ancor più che su Aldo Moro.
C’è stato un bellissimo film di Francesco Rosi, una recente fiction RAI, decisamente brutta.
Ogni giorno, sui più svariati argomenti, viene fuori il nome di Enrico Mattei: si parla di geopolitica, della questione araba e del Maghreb in fiamme, è Mattei che prevede la necessaria emancipazione dei paesi africani, e per primo mette l’Italia al centro del Mediterraneo; si parla di crisi energetica, di forniture di gas, di energia alternativa, e lì il gioco è semplice, Mattei è stato l’energia italiana; si parla di scontro tra giustizia e potere: la sua vita e la sua morte sono al centro di questo conflitto; si parla di nuovo giornalismo, di editoria, di nuova architettura, di comunicazione, di arte figurativa, di marketing… e trovi Mattei. Tutto già previsto da quella strana specie di italiano che era Enrico Mattei.
Insomma, anche se spesso circondata da un alone di ostilità e mistero, l’eredità di quest’uomo è immensa.
Enrico Mattei a suo modo, tra luci accecanti ed ombre spaventose, è la figura di un patriota.
E anche lo spettacolo, a suo modo, è uno spettacolo “patriottico”.
Volevo far diventare teatro la vita di un personaggio che si getta nell’impresa grandiosa, fino a morirne.
Ho voluto narrare questa grande storia come un thriller industriale o una spy story, usando però uno stile da “showman“, facendo di questa tragedia moderna, paradigma della vita civile di un paese chiamato Italia.
All’interno dello spettacolo ci sono delle vicende mai raccontate, c’è un’importante intervista inedita ad un personaggio molto vicino a Mattei, e soprattutto, ci sono gli atti e le conclusioni del Tribunale di Pavia, riguardanti l’ultimo processo sul “caso Mattei”, e i legami tra la morte di Mattei e quella di Pier Paolo Pasolini.
Giorgio Felicetti