L’illegale soggiorno americano in Siria

Non dovrebbe sorprendere nessuno che l’amministrazione di Donald Trump abbia recentemente affermato di avere il perfetto diritto legale di rimanere in Siria finché vuole perché combatte il terrorismo. L’argomento è più o meno questo: il Congresso ha approvato un disegno di legge che consente all’esercito statunitense di cercare e distruggere Al-Qaeda e gruppi associati ovunque si trovino. Fa parte di ciò che viene indicato come Autorizzazione all’Uso della Forza Militare (acronimo AUFM). Secondo la Casa Bianca, un gruppo associato, lo Stato Islamico in Siria (ISIS), rimane attualmente attivo in Siria e la presenza militare degli Stati Uniti è quindi legale fino a quando il gruppo non sarà completamente eliminato, non richiedendo ulteriori leggi o autorità per rimanere nella nazione siriana.
La conclusione legale di Trump è stata spiegata in due lettere diffuse dai sottosegretari per la politica presso i Dipartimenti di Stato e della Difesa. Erano in risposta alle richieste del senatore Time Kaine della Virginia, che per diversi anni ha chiesto alla Casa Bianca sotto Barack Obama e Donald Trump di chiarire quale autorità legale ha permesso loro di dispiegare 2.000 soldati americani in Siria senza alcuna dichiarazione di guerra, qualsiasi autorizzazione delle Nazioni Unite o qualsiasi invito da parte del governo legittimo di Bashar Al-Assad a Damasco. Kaine ha citato le restrizioni imposte dal War Powers Act del 1973, che consente a un presidente di usare la forza militare in una situazione di emergenza ma dopo 60 giorni è necessario andare al Congresso per l’approvazione.
La lettera del Dipartimento di Stato ha accentuato l’ambiguità della posizione degli Stati Uniti con la sua spiegazione che “gli Stati Uniti non cercano di combattere il governo della Siria o dell’Iran o gruppi sostenuti dall’Iran in Iraq o in Siria. Tuttavia, gli Stati Uniti non esiteranno a usare la forza necessaria e proporzionata per difendere gli Stati Uniti, la coalizione o le forze alleate…”.
Sorgono sono una serie di problemi con la giustificazione della Casa Bianca di rimanere in Siria, a cominciare dal fatto che Al-Qaeda e ISIS non sono in alcun modo associati e potrebbero essere meglio descritti come rivali o addirittura nemici, rendendo l’intero argomento AUFM irrilevante. Inoltre, la ragione per cui le forze americane si trovano in Siria è stata variamente descritta da alti funzionari dell’Amministrazione. Il Segretario di Stato Rex Tillerson è stato impegnato a sottolineare che è necessario un soggiorno prolungato per bloccare la rinascita dell’ISIS e anche per impedire al governo siriano di riconquistare le aree attualmente occupate da gruppi ribelli sostenuti dagli Stati Uniti. Descrive curiosamente tali aree fuori dal controllo del governo come “liberate”. Ha anche affermato che gli Stati Uniti rimarranno sul posto per fare pressione affinché Bashar Al-Assad si dimetta, cioè il cambio di regime.
Tillerson usa l’esempio della Libia per sostenere la sua tesi, osservando che la Libia non era occupata e “stabilizzata” dalle nazioni che si sono alleate per rovesciare il governo di Muammar Gheddafi. Ha anche citato la decisione del presidente Barack Obama di ritirare le forze statunitensi dall’Iraq come un fattore che contribuisce all’ascesa dell’ISIS, apparentemente inconsapevole che i militari americani sono stati costretti al ritiro dal governo iracheno.
Ma lo scorso venerdì il presidente Trump ha inviato un segnale diverso, affermando durante la conferenza stampa con il primo ministro australiano che “siamo lì per un motivo: mettere le mani sull’ISIS, sbarazzarsi dell’ISIS e andare a casa. Non siamo lì per nessun altro motivo e abbiamo ampiamente raggiunto il nostro obiettivo”. Questo rappresenta un notevole avvitamento da parte dell’Amministrazione a sostegno delle sue affermazioni. Ciononostante, si dovrebbe accettare che il regime siriano di Al-Assad è quasi universalmente riconosciuto come legittimo e sovrano nel proprio territorio, un fatto che è persino riconosciuto dagli Stati Uniti, che allo stesso tempo sostiene i ribelli che cercano di rovesciare quel governo. E l’intenzione degli Stati Uniti di mantenere una presenza costante al di fuori di ogni possibile minaccia di Al-Qaeda nel Paese è completamente illegale sia per il diritto interno sia per quello internazionale.
In breve, la continua presenza degli Stati Uniti in Siria reca tutti i tratti distintivi di un’altra politica statunitense avvolta in un’ambiguità di alto livello che è un fallimento ancora prima che inizi. Non solo illegale, è poco pratico, con 2.000 consiglieri statunitensi sparsi nel territorio e pochi sparuti sostenitori curdi che sono già fortemente impegnati a combattere i Turchi. Alla fine Washington stremata si stancherà e andrà via. Che quel giorno venga presto.
Philip M. Giraldi

Fonte – traduzione di C. Palmacci

Venezuela, alle elezioni di aprile il popolo deve votare senza interventi esterni

Strana dittatura quella venezolana. Sembra in effetti lo Stato al mondo con la maggiore densità di appuntamenti elettorali negli ultimi vent’anni. E il prossimo sarà davvero decisivo. Eppure, bizzarramente, i paladini della democrazia che siedono a Washington o Bruxelles, non sono affatto contenti che all’inizio di aprile il popolo venezolano sia chiamato a decidere chi sarà il presidente del Paese nei prossimi quattro anni. Forse perché sanno che, con ogni probabilità, il prescelto sarà nuovamente Nicolas Maduro Moros. Una vecchia abitudine, questa di voler “manipolare” le elezioni altrui, ricordata per esempio nel bel film di Steven Spielberg attualmente in circolazione, The Post.
Ho avuto occasione di recarmi in Venezuela l’11 dicembre per le elezioni comunali e ho potuto riscontrare una situazione di tranquilla normalità. Ordine pubblico e pace sociale garantiti dopo il tentativo di insurrezione messo in scena dalla destra, che tuttavia è costato molte vittime, buona parte delle quali presunti sostenitori del governo, membri delle forze dell’ordine e ignari passanti. Mercati aperti e situazione dell’approvvigionamento migliorata grazie alle misure messe in atto che prevedono una più precisa disciplina per gli operatori economici al fine di evitare le speculazioni. Domenica pomeriggio ho visitato un quartiere popolare venuto in essere di recente con la costruzione di varie centinaia delle centinaia di migliaia di appartamenti costruiti dall’amministrazione chavista, verificando l’esistenza di un compatto ed entusiasta sostegno al governo Maduro tra la gente di quel quartiere, uguale a tanti altri del Venezuela.
Consenso del resto confermato dall’esito delle elezioni comunali che hanno visto la vittoria del PSUV in molte città e che in precedenza era stato espresso in occasione delle elezioni regionali e prima ancora di quelle per l’Assemblea costituente. Di fronte a questa sequela di vittorie del chavismo molti stanno letteralmente perdendo la testa. Innanzitutto ovviamente i dirigenti della destra venezolana antisistema (che paradossalmente sono quelli che ottengono più credito in Occidente), sempre più divisi fra di loro e brancolanti nel buio, e sempre più inferociti per la perdita dei loro enormi privilegi che non è certo finita con l’avvento del chavismo, ma si sta concretizzando sempre di più nell’inevitabile e giusta prospettiva di un autentico socialismo.
Poi, gli autentici padroni del circo, e cioè i governanti di Washington, con il “bullo” Trump che segue alla lettera le indicazioni del più lucido Rex Tillerson, che ovviamente non si rassegna alla perdita degli enormi giacimenti petroliferi del Paese, e minaccia l’intervento armato. Sanno del resto di avere, almeno apparentemente, recuperato qualche posizione in America Latina, con le “strategie” di attacco giudiziario (il processo Lula o contro l’ex vicepresidente ecuadoriano Glass) o sul piano elettorale (con l’elezione di Macri in Argentina) o golpista classico (con il sospetto di brogli elettorali in Honduras e le violenze su decine di manifestanti in pochi giorni) e vorrebbero oggi completare la normalizzazione del subcontinente neutralizzando il chavismo e facendo tornare il Venezuela nella sua storica condizione semicoloniale.
Non credo tuttavia che possano riuscirci. Lo dico a ragion veduta dopo aver visitato il Paese a dicembre. Va capito in questo senso che i risultati elettorali, che ovviamente hanno enorme importanza, sono solo il riflesso di una condizione di accresciuta consapevolezza e organizzazione di milioni di venezolani. Un’enorme forza tranquilla che non si farà certo mettere fuori gioco da un personaggio come Donald Trump e meno ancora dalle sue marionette locali. Se però si dovessero concretizzare le minacce di intervento armato potremmo trovarci di fronte a un nuovo Vietnam in America Latina, con tremende conseguenze sulla pace nel mondo, dato anche il netto schieramento di Russia, Cina ed altri in appoggio al legittimo governo venezolano. Intanto gli Stati Uniti, spalleggiati dai loro valletti europei, tentano la carta della destabilizzazione economica mediante sanzioni che non hanno alcun fondamento e rappresentano gravi violazioni del diritto internazionale.
Ne tengano conto gli sprovveduti governanti europei e italiani. L’Italia ha importanti interessi in Venezuela sia per la presenza di un’importante comunità di emigrati che per gli accordi di cooperazione in essere per lo sfruttamento delle risorse energetiche ed in altri settori. Sarebbe ora che gli italiani disponessero di un governo la cui politica estera fosse mirata alla difesa degli interessi nazionali e non a seguire gli sconnessi deliri del governo statunitense. Speriamo che anche da noi le elezioni del 4 marzo portino un qualche miglioramento da questo punto di vista.
Fabio Marcelli

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