Un altro agente all’Avana

“Il cubano sa da sempre chi è il vero nemico di Cuba”
Raul Capote*

Un’esperienza di ordinario “regime change” raccontata da chi l’ha vissuta direttamente sulla propria pelle.
In un momento in cui sembra che i media stiano “sdoganando” la questione Cuba ma in effetti stanno invece aumentando la ridda delle contraddittorie e “improbabili” informazioni, questa è l’occasione – straordinariamente utile e propizia – per fare luce e chiarezza, per conoscere e capire il vero stato dell’arte del processo di normalizzazione delle relazioni in corso tra Cuba e Stati Uniti dalla viva e orgogliosa voce di un eroe della Rivoluzione.
Raul Capote, docente dell’Università dell’Avana, è stato “reclutato” dall’Ufficio di Interessi degli Stati Uniti per selezionare e aggregare studenti con il fine di costituire piccole cellule di “dissenso” al soldo della CIA.
Raul Capote accettò l’incarico, ma lavorò al fianco dei Servizi di Sicurezza cubani per raccogliere le prove e smascherare l’ennesimo tentativo di destabilizzazione perpetrato dal Governo degli Stati Uniti.
Un altro agente all’Avana (Zambon, 2015) è la denuncia di come la CIA abbia destinato centinaia di milioni di dollari a piani di sovversione politico-ideologica orientati ai giovani, il settore chiave della popolazione.
Dice Capote: “I nemici della Rivoluzione sanno di aver perso la guerra contro la leadership storica della Rivoluzione, l’ho sentito dire da tanti funzionari della CIA. Così hanno deciso di scommettere su quelli che loro chiamano i nipoti della Rivoluzione. Non dobbiamo dimenticare che viviamo in un mondo governato dalla cultura capitalistica e i nostri giovani conoscono il capitalismo attraverso di noi. I nostri detrattori lo sanno bene: è una guerra che si combatte soprattutto nella testa, e vogliono vincerla imponendo i valori della cultura capitalista tra le nuove generazioni. Se il libro aiuterà a chiarire la verità, se servirà come strumento di interpretazione, come argomento ai combattenti nella lotta delle idee, se contribuirà a dare coraggio ai timidi, a istruire gli ignoranti, a convincere gli scettici, a preoccupare gli indifferenti e a infastidire e denunciare i traditori, allora avrà raggiunto il suo scopo. Una cosa da poco, no?”.

Raúl Antonio Capote Fernández (La Habana, 1961). Laureato in Storia dell’Arte, Master in Relazioni Internazionali, dottore in Scienze Politiche. Scrittore, Investigatore, analista dei problemi di Sicurezza Nazionale, membro dell’Unione degli Storici Cubani, dell’Unione dei Pedagoghi Cubani e della Giunta Nazionale della Società Culturale José Martì, professore dell’Università di Scienze Pedagogiche Enrique José Varona e dell’Istituo Superiore di Arte.
Autore dei libri ‘El caballero ilustrado’ (Romanzo, Editorial Letras Cubanas, Cuba, 1998); ‘Juego de Iluminaciones’ (Racconti, Casa editora Abril, Cuba, 2000); ‘El adversario’ (Romanzo, Editorial Plaza Mayor, Puerto Rico, 2005; Editorial Letras Cubanas, Cuba, 2014); ‘Enemigo’ (Testimonianza, Editorial José Martí, Cuba, 2011; Grupo Editorial AKAL, España, 2015).
Diversi suoi testi sono stati inclusi nelle antologie nazionali e internazionali. Collabora con diversi siti digitali come ‘Cubadebate’, ‘Las Razones de Cuba’, ‘Cubasí’; i periodici ‘Granma’, ‘Juventud Rebelde’ y ‘Trabajadores’ hanno pubblicato suoi lavori così come la rivista ‘Calle del Medio’. Ha lavorato dagli anni ’90 per agenzie e organizzazioni del Governo degli Stati Uniti come la USAID e la ‘Fundación Panamericana para el Desarrollo’. E’ stato reclutato dalla CIA nel 2004 e ha servito nelle sue fila fino al 2011, quando partecipò alla denuncia pubblica, trasmessa dalla televisión cubana nella serie conosciuta come ‘Las Razones de Cuba’, dei piani del Governo degli Stati Uniti contro Cuba, in cui si rivelò che in tutti quegli anni c’era stato un agente della Sicurezza di Stato cubano che aveva difeso il suo Paese dai piani di aggressione del Governo degli Stati Uniti, infiltrandosi nel lavoro dei Servizi Speciali statunitensi.
Recentemente ha fatto parte della delegazione cubana alla VII Conferenza delle Americhe che si è svolta a Panama, partecipando ai forum della società civile e al Vertice dei Popoli.

*Fonte

Operazione Ajax, 19 Agosto 1953

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New York, 19 agosto – Il 19 agosto 1953 è una data fondamentale nella storia recente dell’Iran, perché fu portato a termine il colpo di Stato che depose il primo ministro, Mohammed Mossadegh. Sei decenni dopo, la CIA ha ammesso ufficialmente di aver partecipato all’operazione, da sempre addebitata ai servizi segreti statunitensi e britannici, e denominata ‘Operazione Ajax’. Il ruolo degli Stati Uniti nel colpo di Stato è tuttora considerato tra le cause della radicalizzazione del sentimento antiamericano, che ha accompagnato la rivoluzione islamica del 1979 e provocato la ‘crisi degli ostaggi’ tra i due Paesi alla fine di quell’anno. Il National Security Archive ha ottenuto una versione del rapporto interno “La battaglia per l’Iran”, redatto a metà degli anni ’70, grazie alla legge federale sulla libertà d’informazione, il Freedom of Information Act. La sezione che descrive il colpo di Stato è ancora in parte coperta da segreto, ma le informazioni pubblicate rendono formalmente pubblica, per la prima volta, la partecipazione della Central Intelligence Agency all’operazione. “Il colpo di Stato militare che ha deposto Mossadegh e il governo del Fronte nazionale – si legge – fu condotto sotto la direzione della CIA come un atto di politica estera statunitense”, per evitare che l’Iran “si aprisse all’aggressione sovietica” e per mantenere il controllo sul petrolio iraniano.
Il rapporto era in parte stato pubblicato nel 1981, dopo una precedente richiesta di accesso alle informazioni, ma le parti riguardanti l’Operazione Ajax erano state cancellate. L’Operazione Ajax, condotta con collaboratori locali, si sviluppò attraverso vari passaggi, fondamentali per creare le condizioni per il colpo di Stato: bisognava usare la propaganda per indebolire politicamente Mossadegh, indurre lo Scià a cooperare, corrompere membri del Parlamento, organizzare le forze di sicurezza e dare il via a manifestazioni di piazza. Il primo tentativo fallì, ma al secondo, il 19 agosto, il colpo di Stato fu portato a termine. Mossadegh fu processato e tenuto in carcere per tre anni; passò poi il resto della sua vita agli arresti domiciliari ad Ahmadabad, dove morì nel 1967.
(TMNews)

Il collegamento alla relativa pagina del sito del National Security Archive è qui.
Ora, per gli storici, c’è davvero di che sbizzarrirsi…

Le basi americane in Italia, ieri e oggi

aviano

Sergio Romano risponde ad un lettore de Il Corriere della Sera.
Datato ma sempre attuale.

Il testo del Patto Atlantico, firmato a Washington nell’ aprile 1949, non contiene alcun riferimento a basi militari. Il problema sorse più tardi con la creazione di una organizzazione militare integrata (la NATO, North American Treaty Organization) che rendeva necessaria la dislocazione di truppe americane in Europa. Come ha spiegato Natalino Ronzitti in un buon articolo pubblicato dall’ edizione online di Affari Internazionali (la rivista dell’ Istituto Affari Internazionali), la questione fu risolta con un accordo generale, valido per tutti i membri dell’ Alleanza, e con una serie di accordi bilaterali. L’ accordo generale è la Convenzione multilaterale del 1951 sullo statuto delle forze armate NATO stanziate nei Paesi membri dell’ Alleanza. Gli accordi bilaterali fra gli Stati Uniti e l’ Italia sono un trattato del 1954, un Memorandum d’ Intesa concluso nel 1995 e, secondo Ronzitti, «altri accordi che riguardano lo status dei quartieri generali». Mentre la Convenzione fu ratificata dal Parlamento, gli accordi bilaterali non furono presentati alle Camere e divennero validi al momento della firma. Conosciamo il testo di quello del 1995, pubblicato dopo la tragedia del Cermis, ma non conosciamo l’ accordo del 1954 e non sappiamo se le clausole pattuite in piena guerra fredda, fra la morte di Stalin e la rivoluzione ungherese del 1956, rispondano ancora agli interessi italiani di mezzo secolo dopo. Resta poi il problema dei compiti che queste basi avranno in una situazione interamente diversa da quella di allora. Il Patto Atlantico e la NATO furono concepiti per contrastare il blocco sovietico, ma gli americani insistettero, dopo la rivoluzione iraniana del 1978, perché le sue competenze venissero estese «fuori area»: una richiesta che a molti europei sembrò già allora troppo impegnativa e generica. Oggi, gli attacchi alle Torri Gemelle hanno introdotto nella filosofia militare della NATO il concetto di minaccia terroristica, e si potrebbe effettivamente sostenere, come suggerito nella sua lettera, che il terrorismo abbia preso nell’ Alleanza il posto dell’ Unione Sovietica. Con una importante differenza, tuttavia. L’ America pretende di valutare la minaccia, scegliere il nemico e passare all’ uso delle armi senza interpellare la NATO. La guerra irachena non fu una guerra della NATO e l’ organizzazione venne invocata da Washington soltanto quando in Irak le cose cominciarono ad andare male. Allorché decisero di bombardare le milizie delle Corti Islamiche in Somalia (un’ operazione aerea per cui usarono la base di Gibuti) gli americani non interpellarono l’ Alleanza. Che cosa accadrebbe se decidessero di colpire gli Hezbollah usando la base di Vicenza o quella di Aviano? Ronzitti, professore di diritto internazionale alla Università Luiss di Roma, ricorda un caso di qualche anno fa in cui noi divenimmo corresponsabili di una operazione militare americana. Accadde quando aerei americani decollati da Aviano, durante la guerra del Kosovo, colpirono la sede della televisione di Belgrado. La Jugoslavia accusò allora l’ Italia, insieme ad altri Paesi della NATO, di avere violato il diritto internazionale bellico. «Da tenere presente, inoltre», scrive Ronzitti, «che qualora un’ operazione militare parta dal nostro Stato, la neutralità non può essere mantenuta anche in assenza di una partecipazione italiana all’ operazione». Lei chiede, caro Gloria, quale altra organizzazione migliore della NATO possa difenderci dal terrorismo. Il problema andrebbe piuttosto posto in questi termini: siamo sicuri che le basi americane, in queste nuove circostanze, contribuiscano alla sicurezza dell’Italia?