Hasta la victoria, siempre

Fenomenologia dell’iconoclasta

Il tema dei moderni iconoclasti che nel nome dell’antirazzismo abbattono o imbrattano un po’ di statue deve essere ben inteso.
E’ vero che le occasioni storiche di rivoluzione, o rivolgimento sociale profondo, sono caratterizzate spesso anche dall’abbattimento di simboli precedenti, monumenti, ecc.
Questo fatto crea in alcuni amici un comprensibile imbarazzo nel condannare l’iconoclastia corrente, visto che anche passaggi storici di cui hanno un’opinione positiva sono stati caratterizzati da atti simili.
Per sciogliere questo ‘crampo del pensiero’ è necessario comprendere un punto di fondo.
L’attuale ondata iconoclasta, lungi dal rappresentare l’anteprima di un rivolgimento profondo, di un cambiamento di paradigma o di regime, è in effetti la diretta espressione del regime e del paradigma corrente, nel suo pieno trionfo.
Qualcuno potrebbe pensare che il regime dominante in Occidente, il regime liberal-liberista, sia caratterizzato, come tutti i regimi della storia, da un patrimonio di memorie condivise, venerate dai suoi e diverse da chi la pensa altrimenti.
E quel qualcuno potrebbe perciò pensare che abbatterne o deturparne i simboli sia una sorta di atto rivoluzionario, almeno in nuce.
Niente di più lontano dalla realtà.
Ciò che caratterizza il pensiero unico liberal-liberista non è la venerazione di modelli, magari indigesti, non è la venerazione di Montanelli o del generale Graziani, di Cecil Rhodes o di Winston Churchill.
No, l’essenza del corrente regime mondiale è la cancellazione sistematica di ogni passato, la mancanza di ogni memoria, l’imposizione di un eterno presente-futuro immediato, la dedizione alla quotidiana oscillazione di borsa, senza passato e senza futuro. Tutto il resto sono mezzi rimpiazzabili.
Il pensiero liberal-liberista non ha davvero spazio per santi né eroi, non ha spazio per la venerazione e neppure per l’odio.
Si tratta di una forma di vita che macina e sputa ogni cosa trasformandola in merce, in patacca vendibile.
Può vendere con piacere magliette prodotte in serie da bambini pakistani con sopra scritto “No Pasaran”, “Hasta la victoria siempre”, o con la faccia del Che o di Marx.
Il vero, il primo distruttore di ogni monumento (da “monere” = “ricordare”) è il regime liberal-liberista.
Lo spazio di desiderio e aspirazione personale che questo regime concede peraltro è molto chiaro.
Esso concede la momentanea protesta scomposta, il petardo anarchico, la linguaccia irriverente in tutte le sue varianti più o meno autoreferenziali, nel nome della ‘libertà individuale’.
Ed esso concede come temi percorribili di protesta tutti e soli i temi che preservano una provvidenziale conflittualità interna a ciascun ceto, ciascuna classe, ciascun gruppo sociale. Dunque temi in cui si riproducono scissioni interne tra soggetti che magari potrebbero essere invece accomunati dai medesimi interessi materiali: neri contro bianchi, donne contro uomini, giovani contro vecchi, ecc.
Perciò quelli che oggi gesticolano, e imbrattano, e ribaltano “monumenti” che non ricordano più niente a nessuno salvo ai piccioni, si muovono perfettamente nei binari che gli sono stati concessi dal regime dominante:
La storia non si studia, si cancella;
La libertà si esprime in forma negativa, come sfogo, intemperanza infantile;
Ideali validi sono quelli socialmente evirati, neutri per il potere reale (che è potere economico).
E così tutta questa grande sceneggiata “iconoclasta” mondiale, dopo aver occupato per qualche giorno le pagine dei giornali riconfermerà le forme e i centri di potere stabiliti.
I nostri terribili iconoclasti, dopo aver dato sfogo alla propria insofferenza rompendo le vetrine di altri, non meno sofferenti di loro, ritorneranno a portare il proprio basto.
La tempesta nella ciotola si esaurirà e l’acqua ritornerà stagnante, nel proprio eterno presente senza memoria e senza speranza.
Andrea Zhok

(Fonte)

Fiume e la giustizia sociale: quis contra nos?

Il seguente articolo è tratto dal magazine on-line di analisi dei temi economici e sociali del Circolo SO.R.E.L. (Quaderni di Socialità Responsabilità Economia Lavoro), che intende offrire uno strumento trasversale per attualizzare i temi della partecipazione, del lavoro, della produzione e della democrazia diretta.
Il Circolo SO.R.E.L. è presente anche su Facebook a questo collegamento.

Scisso tra il silenzio imbarazzato di molti e qualche flebile voce, interessata soprattutto alla dimensione estetica di quell’avventura, il centenario dell’impresa fiumana pare scivolar via senza che ci si ponga l’unica vera domanda che conta, se non si preferisce l’onanismo intellettuale alla capacità di trasformazione della realtà: a cent’anni dalla marcia dei legionari di Ronchi verso la “città olocausta”, qual è il lascito che può essere attualizzato di quell’esperienza?
A giudicare dall’urgenza delle sfide che la contemporaneità pone innanzi alle società europee, la Carta del Carnaro resta un faro che può illuminare la strada verso l’avvenire. In particolare, nel testo redatto da Gabriele D’Annunzio e da uno dei padri del sindacalismo rivoluzionario italiano, Alceste De Ambris, è soprattutto la carica social-rivoluzionaria a restare di cogente attualità. Già nel terzo articolo della Carta si definisce un concetto di sovranità inscindibile dalla dimensione sociale e dall’importanza del lavoro. «La Reggenza italiana del Carnaro è un governo schietto di popolo, “res populi” che ha per fondamento la potenza del lavoro produttivo», si legge. E, in un tempo in cui la terza età del capitalismo porta in dote disoccupazione strutturale e precarietà delle esistenze, non sarà inutile ricordare come tra le “credenze religiose” che chiudono la Carta del Carnaro (che nulla hanno a che vedere con le religioni, pur afferendo alla dimensione sacrale della vita) il lavoro è centrale perché «anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo». In una società in cui privatizzare è considerata una necessità e lo Stato arretra dinanzi all’aleatoria e prepotente aggressività del mercato, la Carta del Carnaro ci ricorda come lo Stato venga prima del proprietario, la comunità prima dell’individuo, la politica prima dell’economia. «Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può essere lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro – recita il testo – Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale».
La Carta, poi, si apre con una dicitura significativa: “Della perpetua volontà popolare”. Oggi che esigenze e aspettative del popolo sono mortificate e la crisi della rappresentanza si mostra in tutta evidenza nelle degenerazioni dei sistemi capitalistici, si pone il dilemma di come costruire una diretta volontà popolare. Il binomio democrazia-liberalismo – imposto come elemento ineluttabile, come fosse un pleonasmo – va concettualmente spezzato. Ci può essere democrazia senza liberalismo, e su questo assioma va costruita l’alternativa. Ma non basta la denuncia intellettuale delle storture del presente – pur necessaria e auspicabile – per invertire la rotta. Servono competenze, alternative, proposte. Le sfide poste dall’automazione e dalla precarizzazione del lavoro, la mercificazione del mondo, la negazione del limite e la distruzione dei legami sociali, attendono risposte concrete, trasversali, radicali. Ma anche bagagli leggeri, menti aperte e una tremenda voglia di camminare.
Mario De Fazio

(Fonte – i collegamenti inseriti sono del curatore)

Quando la sinistra non aveva paura della sua ombra

“Cos’è successo tra il 1973 e il 2017? Mezzo secolo fa, la sinistra francese ed europea era generalmente solidale – almeno a parole – con i progressisti e i rivoluzionari dei Paesi del Sud. Senza ignorare gli errori commessi e le difficoltà impreviste, non sparava alla schiena dei compagni latinoamericani. Non distribuiva responsabilità ai golpisti e alle loro vittime con giudizi salomonici. Si schierava, a costo di sbagliare, e non praticava, come fa la sinistra attuale, l’autocensura codarda e la concessione all’avversario a mo’ di difesa. Non diceva: tutto questo è molto brutto, e ognuno ha la sua parte di responsabilità in queste violenze riprovevoli. La sinistra francese ed europea degli anni ‘70 era certamente ingenua, ma non aveva paura della sua ombra, e non beatificava a ogni piè sospinto quando si trattava di analizzare una situazione concreta. È incredibile, ma pure i socialisti, come Salvador Allende, pensavano di essere socialisti al punto da rimetterci la vita.
A guardare l’ampiezza del fossato che ci separa da quell’epoca, si hanno le vertigini. La crisi venezuelana fornisce un comodo esempio di questa regressione perché si presta a un confronto con il Cile del 1973. Ma se si allarga lo spettro dell’analisi, si vede bene che il decadimento ideologico è generale, che attraversa le frontiere. Nel momento della liberazione di Aleppo da parte dell’esercito nazionale siriano, nel dicembre 2016, gli stessi “progressisti” che facevano gli schizzinosi davanti alla difficoltà del chavismo, hanno cantato insieme ai media detenuti dall’oligarchia per accusare Mosca e Damasco delle peggiori atrocità. E la maggior parte dei “partiti di sinistra” francese (PS, PCF, Parti de Gauche, NPA, Ensemble, i Verdi) hanno organizzato una manifestazione davanti all’ambasciata russa a Parigi, per protestare contro il “massacro” dei civili “presi in ostaggio” nella capitale economica del Paese.
Certo, questa indignazione morale a senso unico nascondeva il vero significato di una “presa di ostaggi” che c’è stata, in effetti, ma da parte delle milizie islamiste, e non da parte delle forze siriane. Lo si è visto non appena sono stati creati i primi corridoi umanitari da parte delle autorità legali: i civili sono fuggiti in massa verso le zone governative, a volte sotto le pallottole dei loro gentili protettori in “casco bianco” che giocavano ai barellieri da una parte, e ai jihadisti dall’altra. Per la sinistra, il milione di siriani di Aleppo Ovest bombardata dagli estremisti abbigliati da “ribelli moderati” di Aleppo Est non contano, la sovranità della Siria nemmeno. La liberazione di Aleppo resterà negli annali come un tornante della guerra per procura combattuta contro la Siria. Il destino ha voluto che, purtroppo, segnasse un salto qualitativo nel degrado cerebrale della sinistra francese.
Siria, Venezuela: questi due esempi illustrano le devastazione causati dalla mancanza di analisi unita alla codardia politica. Tutto avviene come se le forze vive di questo Paese fossero state anestetizzate da chissà quale sedativo. Partito dalle sfere della “sinistra di governo”, l’allineamento alla doxa diffusa dai media dominanti è generale. Convertita al neoliberismo mondializzato, la vecchia socialdemocrazia non si è accontentata di sparare alla schiena degli ex compagni del Sud, si è anche sparata nei piedi.
(…)
Potrà anche rompere con la socialdemocrazia, ma questa sinistra aderisce alla visione occidentale del mondo e al suo dirittumanismo a geometria variabile. La sua visione delle relazioni internazionali è direttamente importata dalla doxa pseudo-umanista che divide il mondo in simpatiche democrazie (i nostri amici) e abominevoli dittature (i nostri nemici). Etnocentrica, guarda dall’alto l’antimperialismo lascito del nazionalismo rivoluzionario del Terzo Mondo e del movimento comunista internazionale. Invece di studiare Ho Chi Min, Lumumba, Mandela, Castro, Nasser, Che Guevara, Chavez, Morales, legge “Marianne” [una sorta di “l’Espresso” francese – n.d.t.] e guarda France 24 [la Rainews24 francese – n.d.t.]. Pensa che ci siano i buoni e i cattivi, che i buoni ci somigliano e che bisogna bastonare i cattivi. È indignata – o disturbata – quando un capo della destra venezuelana, formata negli USA dai neoconservatori per eliminare il chavismo, viene incarcerato per aver tentato un colpo di Stato. Ma è incapace di spiegare le ragioni della crisi economica e politica del Venezuela. Per evitare le critiche, è restia a spiegare come il blocco degli approvvigionamenti sia stato provocato da una borghesia importatrice che traffica con i dollari e organizza la paralisi delle reti di distribuzione sperando di abbattere il legittimo presidente Maduro.
Indifferente ai movimenti di fondo, questa sinistra si contenta di partecipare all’agitazione di superficie. In preda a una sorta di scherzo pascaliano che la distrae dall’essenziale, essa ignora il peso delle strutture. Per lei, la politica non è un campo di forze, ma un teatro di ombre. Parteggia per le minoranze oppresse di tutto il mondo dimenticando di domandarsi perché certe sono visibili e altre no. Preferisce i Curdi siriani ai Siriani tout court perché sono una minoranza, senza vedere che questa preferenza serve alla loro strumentalizzazione da parte di Washington che ne fa delle suppellettili e prepara uno smembramento della Siria conformemente al progetto neo-conservatore. Rifiuta di vedere che il rispetto della sovranità degli Stati non è una questione accessoria, che è la rivendicazione principale dei popoli di fronte alle pretese egemoniche di un occidente vassallo di Washington, e che l’ideologia dei diritti umani e la difesa del LGBT serve spesso come paravento per un interventismo occidentale che si interessa soprattutto agli idrocarburi e alle ricchezze minerarie.
(…)
Drogata di “moralina”, intossicata da formalismo piccolo-borghese, la sinistra radical-chic firma petizioni, intenta processi e lancia anatemi contro i capi di Stato che hanno la brutta abitudine di difendere la sovranità del proprio Paese. Questo manicheismo le impedisce il compito di analizzare ciascuna situazione concreta e di guardare oltre il proprio naso. Pensa che il mondo sia uno, omogeneo, attraversato dalle stesse idee, come se tutte le società obbedissero agli stessi principi antropologici, evolvessero secondo gli stessi ritmi. Confonde volentieri il diritto dei popoli all’autodeterminazione e il dovere degli Stati di conformarsi ai requisiti di un Occidente che si erge a giudice supremo. Fa pensare all’abolizionismo europeo del XIX secolo, che voleva sopprimere la schiavitù presso gli indigeni, portando la luce della civiltà con la canna del fucile. La sinistra dovrebbe sapere che l’inferno dell’imperialismo oggi, come il colonialismo ieri, è sempre lastricato di buone intenzioni. Nel momento dell’invasione occidentale dell’Afghanistan, nel 2001, non abbiamo mai letto tanti articoli, nella stampa progressista, sull’oppressione delle donne afghane e sull’imperativo morale della loro liberazione. Dopo 15 anni di emancipazione femminile al cannone 105, queste sono più coperte e analfabete che mai.”

Da 1973-2017 : il collasso ideologico della “sinistra” francese (ed europea), di Bruno Guigue.

In dialogo con Giancarlo Paciello

Proponiamo ai nostri lettori le risposte fornite dall’amico Giancarlo Paciello a quattro domande che gli abbiamo sottoposto a seguito della pubblicazione del suo No alla globalizzazione dell’indifferenza, presso l’editrice Petite Plaisance.
Buona lettura!

***

Caro Federico, a tener conto dei punti interrogativi mi poni quattro domande. Le domande che mi fai sono decisamente di più. Ripercorrerò perciò il tuo testo e cercherò di rispondere, cercando di includere tutto, ove possibile, nel quadro della riflessione che mi ha spinto a scrivere No alla globalizzazione dell’indifferenza.
La genesi del libro, come si legge nella premessa, da te molto gentilmente pubblicata nel tuo blog, è la richiesta esplicita di mia figlia, che dopo aver letto le mie considerazioni sull’assassinio di Gheddafi nell’ottobre del 2011, mi sollecitava ad esporre le mie convinzioni universalistiche chiaramente inconciliabili con una teoria dei diritti umani del tutto prona agli interessi dell’imperialismo statunitense. Certo di poter contare sul sostegno del mio amico, ma soprattutto grande filosofo, Costanzo Preve, accettai la sfida.
Ma, l’uomo propone e … dio dispone!
Il 23 novembre del 2013, Costanzo, provato da tutta una serie di vicissitudini ospedaliere, ci ha lasciato e io mi sono trovato, da solo, di fronte al problema. Il compito restava dei più difficili, anche se la collaborazione con Costanzo, sulla base prevalente di una corrispondenza epistolare e qualche mia scappata a Torino, dove vive mia figlia, mi aveva però permesso di gettare le basi per un solido saggio di risposta alla sollecitazione filiale.
Ho riordinato le idee e pazientemente ho affrontato uno studio sull’universalismo, che faceva comunque parte del mio bagaglio culturale. Senza mai allontanarmi dalla storia, e recuperando i termini di una polemica filosofica di oltre duemila e cinquecento anni. L’intento dichiarato era quello di gettare un ponte fra la mia cultura, formatasi all’interno della Guerra Fredda e quella di mia figlia e dei suoi coetanei, che si era andata determinando all’interno della globalizzazione. Due cicli storici a dir poco antitetici, il secondo dei quali, quello che stiamo vivendo, caratterizzato da un individualismo sfrenato.
E il capitolo iniziale “Da un ciclo storico all’altro” costituisce la struttura portante di tutta l’argomentazione del libro, anticapitalistica e anticrematistica in senso assoluto, contro un capitalismo che ha raggiunto livelli di pericolosità per la specie umana che neanche la follia delle bombe di Hiroshima e Nagasaki potevano far ipotizzare. Continua a leggere

Patria e Libertà

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“L’insurrezione è il diritto dei popoli, è stato detto; ma oggi tale sentenza può apparire una celia od una amara ironia quando si sa che il potere contro cui si potrebbe insorgere ha a sua disposizione decine di migliaia di pretoriani, in veste di poliziotti e di carabinieri, ed un esercito brutalizzato dalla disciplina della caserma e ridotto a prestare qualsiasi servizio senza batter ciglio.
Tale diritto invece non era una cosa da burla presso gli Aragonesi i quali, allorché si scelsero un sovrano, gli dettarono i patti di governo, riservandosi il diritto di insorgere nel caso che tali patti fossero violati; ma in quei beati tempi, ogni uomo era un soldato ed aveva in casa il suo fucile e la sua spada e la libertà era nel cuore e nei costumi e non nella bocca della gente. Così in Isvizzera ogni cittadino è un soldato al quale si affida un fucile per combattere l’eventuale nemico esterno ma anche e soprattutto “per difendere la costituzione”. E come un popolo possa amare la patria, quando essa significa libertà, lo sa Carlo il Temerario, il quale vide sbaragliati i suoi più fiorenti eserciti da un pugno di montanari dei Cantoni d’Uri e di Unterwalden, che difesero come leoni le balze natie.
Onde noi propugniamo la dissoluzione degli eserciti permanenti e la costituzione della nazione armata. Solo con essa il popolo è garantito dalle aggressioni dei suoi governanti; solo con essa si sentirà cittadino nella sua patria. E’ ovvio che tale nostra richiesta non verrà mai pacificamente accolta né dalla monarchia né dalla borghesia, specialmente se poi trattasi della tremarellona borghesia locale. E a quale ufficio sia destinato l’esercito in Italia, è detto assai chiaramente da Gaetano Mosca, (…).
Ebbene, noi non saremo men chiari e precisi. E diciamo subito che vogliamo la nazione armata, soprattutto per togliere alla borghesia questo strumento di dominio. La vita è lotta acerba per tutti e noi non possiamo tollerare che vi sia una classe, a noi avversa, che si risparmia tale lotta servendosi proprio dei proletari, “delle masse brute”, come strumento.
(…)
Si dirà: ma soldati improvvisati in pochi mesi mancheranno di spirito, di educazione, di disciplina militare. Così fosse! E’ appunto quello che noi cerchiamo. Il soldato non deve mai uccidere l’uomo e il cittadino, altrimenti esso diventa uno strumento in mano di chiunque voglia adoperarlo, e per qualsiasi fine. E non è detto, e nessuno mai dirà d’altronde, che il soldato che si sente ancora cittadino, non si batte. Anzi, noi, sosteniamo che soltanto questi soldati sanno battersi, perché lo fanno per un principio, per una idea, per una fede e non per capricci di un tiranno.
(…)
Date al popolo la libertà ed esso la difenderà vittoriosamente contro il mondo intero coalizzato ai suoi danni. Perché per il popolo il problema di patria è essenzialmente un problema di libertà. Toglietela e gli toglierete la patria: non sentirà più, si disinteresserà delle sue sorti.
Quando si è incatenati non si bada a chi ci ribadisce le catene. Quando si è schiavi, non interessa il cambiamento del padrone. Pretendere dal popolo che esso difenda la patria per motivi ideologici, trascendentali, è assurdo.
La tradizione, le glorie patrie, l’antica Roma, le repubbliche marinare, il Rinascimento, son tutte cose che’ei non conosce e che non lo commuovono affatto. “La terra dove riposano i nostri padri!” è un’altra frase ad effetto che non scuote chi non va più in là del nonno nei propri ricordi e pensa che ai vecchi morti poco dia fastidio se i lor figli vengano mandati in galera in nome dei Savoia o degli Asburgo, o se il bastone che cala sulla testa agli inermi sia maneggiato da un crociato o da un calabrese. L’herveismo nelle persone colte è quasi sempre una finzione, una maschera; ma nel popolo è sincero, sentito e diremmo quasi innato. Per esso la patria è un fantasma, la libertà invece è una cosa reale che vede e sente; se si vuole che si interessi delle sorti della patria non vi è che un mezzo: affezionarla ad essa mediante la libertà.”

Da Sindacalismo e Repubblica, di Filippo Corridoni, Idrovolante Edizioni, 2015, pp. 79-86.
Il testo fu scritto durante uno dei numerosi soggiorni dell’autore presso gli istituti penitenziari, nell’aprile 1915.

La rivoluzione non deve essere fatta da cani arrabbiati. La rivoluzione non deve essere opera di un ventre vuoto o di uno stomaco stiracchiato, ma bensì di un cervello sano e fresco, che medita una vita di giustizia e di equità e che vi vuol giungere a tutti i costi, anche attraverso alla violenza, ma organizzata e intelligente.

Trincea delle Frasche, San Martino del Carso (GO)

Trincea delle Frasche, San Martino del Carso (GO)

La dittatura liberale

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Nato in Francia il 28 giugno 1952, Jean-Christophe Rufin, medico, diplomatico, già vice-presidente di Medici senza frontiere e membro dell’Académie française, è autore di numerosi saggi e romanzi.
Nel 1994 pubblicava, presso l’editore Lattès di Parigi, “La dictature libérale: le secret de la toute-puissance des démocraties au 20. siècle”, dal quale è tratto il brano che segue, nella traduzione allora offerta dal mensile di politica, cultura e informazione “Orion”.

La mano invisibile politica non si limita a guidare gli uomini un contratto sociale imposto dalla paura dello “stato di natura”, ma si adopera nel contempo a prolungare questo “stato di natura” in modo che il suo funesto spettacolo non sia un ricordo, sempre più sbiadito, ma una realtà attuale che tutti possono osservare.
La vittoria che le democrazie hanno ottenuto sul comunismo è di questo genere: non l’annientamento, ma la sua neutralizzazione attraverso una forma sottile di partnership. Come quei domatori che fanno finta di combattere le belve e poi ogni sera le nutrono e le carezzano, così gli occidentali, mentre affermavano di combattere il comunismo sovietico, lo hanno costantemente appoggiato e aiutato nei momenti di crisi.
La coesistenza con lo “stato di natura” sovietico è uno dei grandi vantaggi di cui ha goduto la moderna mano invisibile politica rispetto ai tempi di Hobbes: essa ha alimentato lo “stato di natura” usando nello stesso tempo il suo spauracchio per convincere i popoli dell’Occidente ad accettare il contratto sociale liberale. Il comunismo sovietico si è prestato a meraviglia a questo gioco; gli altri regimi autoritari di questo secolo non sono mai stati in grado di assolvere una funzione simile. Il fascismo si è rivelato inadeguato a formare una coppia stabile con la civiltà liberale, essendo le sue caratteristiche troppo lontane e troppo vicine a un tempo. Troppo vicine per la sua efficenza produttiva: aver conservato modelli di organizzazione capitalista consentiva ai regimi fascisti di raggiungere risultati notevoli e temibili in campo economico. Troppo lontano per la sua natura nazionale, tendenzialmente autarchica, guerriera e imprevedibile. La rivoluzione fascista, che conservava i tratti di un socialismo universalista, assumeva poi le connotazioni del nazionalsocialismo dove prevaleva l’etnicismo erigendo intorno a sé limes militarizzati e ostili. La coesistenza, il controllo sottile ma proficuo, diventavano impossibili, la società demoliberale doveva quindi combatterlo e annientarlo.
Il bolscevismo invece era, nello stesso tempo, interno e esterno all’universo demoliberale: interno perché ne controllava le insorgenze rivoluzionarie, esterno perché si costituiva come Stato dai precisi contorni. Abbastanza debole, disorganizzato e inefficiente da non poter sopravvivere se non con l’aiuto dei suoi nemici – il patto leninista del 1921 suggellò questa collaborazione -, abbastanza armato per costituire una minaccia sufficientemente credibile per il mondo demoliberale.
Questo nemico su misura, compatibile, ha consentito alle società demoliberali di costruire un contratto sociale fondato non sull’abbandono definitivo dello “stato di natura” ma sul timore permanente di una minaccia costituita dal “socialismo reale”. In questo dispositivo l’individuo conservava la sua libertà, ma era posto di fronte all’evidenza che scelte di rottura con il contratto demoliberale conducevano inevitabilmente a quello “stato di natura” i cui perversi effetti poteva osservare nelle società dell’Est europeo.
La grande novità costituita dal dispositivo sistemico demoliberale è quella di poter produrre contemporaneamente la tesi e l’antitesi, “stato sociale” e “stato di natura”, essa li alimenta entrambi mantenendoli separati. Questa mano invisibile guida le società demoliberali, il principio che la informa è semplice, si tratta di massimizzare in ogni modo la paura. Continua a leggere

La prigione dalle mura invisibili

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Non esisterà mai qualcosa che possa definirsi habeas mentem; infatti non c’è sceriffo o carceriere che possa portare in tribunale una mente carcerata illegalmente; e la persona il cui cervello sia stato fatto prigioniero (…) non può essere in condizione di reclamare contro la propria prigionia. Tale è la natura della costrizione psicologica che chi la subisce serba l’impressione di agire di propria iniziativa. La vittima della manipolazione mentale non sa di essere vittima. Invisibili sono le mura della sua prigione, ed egli si crede libero.

“A questo punto ci troviamo dinanzi a una domanda inquietante: vogliamo noi agire veramente in base alle nostre conoscenze? La maggioranza della popolazione ritiene davvero che valga la pena di prendersi qualche fastidio allo scopo di arrestare e se possibile rovesciare la corsa al controllo totalitario di tutto? Negli Stati Uniti, e l’America è l’immagine profetica di quel che sarà fra pochi anni il resto del mondo urbano-industriale, recenti indagini sull’opinione pubblica hanno dimostrato che la maggioranza dei giovani sotto i venti anni, cioé gli elettori di domani, non hanno alcuna fiducia negli istituti democratici, non hanno nulla da obiettare alla censura delle opinioni eterodosse, non credono che sia possibile il governo del popolo, e accetterebbero tranquillamente, purché la loro vita continui secondo il modello a cui sono abituati, un governo dall’alto, d’una oligarchia di esperti di vario genere. Ci rattrista, ma non ci sorprende, il fatto che tanti giovani e ben nutriti spettatori della televisione, nella più potente democrazia del mondo, siano in modo così totale indifferenti all’idea di autogoverno e così piattamente disinteressati alla libertà di pensiero e al diritto di opposizione. “Libero come un uccello” diciamo noi e invidiamo quelle creature alate che si possono muovere a piacimento nelle tre dimensioni. Ahimè, ci siamo scordata la sorte del tacchino. Quando un uccello impara a ingozzarsi a sufficienza senz’essere costretto a usare le ali, rinuncia al privilegio del volo e se ne resta a terra, in eterno. Qualcosa di simile vale anche per gli uomini. Date all’uomo pane abbondante e regolare tre volte al giorno, e in parecchi casi egli sarà contentissimo di vivere di pane solo, o almeno di solo pane e circensi. “Alla fine”, dice il Grande Inquisitore nella parabola di Dostoevskij, “alla fine essi deporranno la libertà ai nostri piedi e ci diranno: ‘Fateci vostri schiavi, ma dateci da mangiare’.”E quando Aljoscia Karamazov chiede a suo fratello, che racconta la storia, se c’era ironia nelle parole del Grande Inquisitore, Ivan risponde: “Per nulla! Egli segna a merito suo e della sua Chiesa l’aver vinto la libertà, e così l’aver fatti felici gli uomini”. Sì, felici gli uomini, “perché nulla” continua l’Inquisitore “è mai stato più insopportabile agli uomini o alla società umana della libertà”.
(…)
Gli antichi dittatori caddero perché non sapevano dare ai loro soggetti sufficiente pane e circensi, miracoli e misteri. E non possedevano un sistema veramente efficace per la manipolazione dei cervelli. In passato liberi pensatori e rivoluzionari furono spesso i prodotti della educazione più ortodossa e più osservante. Un fatto che non ci deve sorprendere perché i metodi usati da quell’educazione erano e sono quanto mai inefficaci. Ma sotto un dittatore scientifico l’educazione funzionerà davvero e di conseguenza la maggior parte degli uomini e delle donne cresceranno nell’amore della servitù e mai sogneranno la rivoluzione. Non si vede per quale motivo dovrebbe mai crollare una dittatura integralmente scientifica.”
Aldous Huxley

(Ritorno al mondo nuovo, 1958)

Essere rivoluzionari

“La parola deve essere usata senza indulgere alla magniloquenza; essere rivoluzionari non significa cullarsi romanticamente o nostalgicamente in ricordi di barricate e di insurrezioni armate, ma alimentare in sé una disposizione di spirito, che sia totalmente estranea a quanto oggi trionfa nel mondo dell’inautentico e dell’alienazione e si metta alla prova in tal senso.
Il rivoluzionario agisce in un mondo al quale vuole essere completamente estraneo, perché lo trova abietto, ma che tuttavia conosce perfettamente. Questo è il consiglio che dava già a suo tempo Georges Sorel ai militanti sindacalisti rivoluzionari, nel suggerire loro di prendere come esempio i primi cristiani, i quali rifiutavano assolutamente il mondo che contestavano. L’atteggiamento necessario è quello della più completa radicalità critica.
La radicalità critica – che non è sinonimo di estremismo, bensì il suo contrario – si batte, certo, per la conservazione dei popoli e delle culture, ma anche per la conservazione di ciò che c’è di umano (e di specificamente umano) nell’umanità, sapendo che gli uomini appartengono appunto all’umanità in modo mediato, ossia attraverso l’intermediazione dei popoli e delle culture, di cui sono eredi e di cui spetta loro prolungarne, secondo le proprie esigenze, l’eterna narrazione storica.”

Da Sull’orlo del baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro, di Alain De Benoist, prefazione di Massimo Fini, Arianna editrice, pagg. 170-171 (per gentile concessione dell’editore).

Il libro verrà presentato in anteprima nazionale sabato 21 Aprile p.v., a Sassuolo (Modena).
I dettagli dell’iniziativa, che si svolgerà alla presenza dell’autore, sono qui.

I dotti e le basi

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In Asia centrale, nelle repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti erano riusciti ad insediarsi militarmente in virtù della “Guerra al Terrore” scatenata dopo l’11 settembre 2001, in prima istanza contro l’Afghanistan talebano.
Da allora, molte cose sono cambiate in quell’area geografica ed agli statunitensi rimane oggi a disposizione soltanto la base di Manas in Kirghizistan – intitolata a Ganci, il comandante dei vigili del fuoco di New York morto al World Trade Center – il cui utilizzo è stato concesso sulla base di accordi bilaterali che risalgono al dicembre 2001 e che stabilivano un canone d’affitto di solo 2,6 milioni di dollari annui, meno di un’elemosina. Antefatto: il presidente kirghizo è Kurmanbek Bakiev, salito al potere nel 2005 grazie alla cosiddetta “Rivoluzione dei Tulipani” sponsorizzata da Washington ” con il contributo operativo determinante della fondazione Freedom House, coordinata dall’ex giornalista Mike Stone al quale erano state affidate la gestione dei 50 milioni di dollari stanziati per incoraggiare i gruppi dell’opposizione e la veste di editore-tipografo delle sei testate giornalistiche antigovernative.
Ebbene, proprio Bakiev – rapidamente tornato nell’orbita di Mosca, generosa nelle promesse di investimenti e di sostegno politico in caso di un’eventuale altra rivoluzione colorata, ed appoggiato anche da Pechino, poco entusiasta nel sapere l’USAF parcheggiata a due passi dalle sue rampe di missili nucleari nello Xinjiang – nella primavera del 2006 ha lanciato un ultimatum agli statunitensi chiedendo loro un aumento del canone di affitto di Manas che lo portasse a livelli più consoni all’importanza ed alle dimensioni della base. Ed essi, pur di non perdere la vitale installazione – dopo che già avevano perso la base di Karsh i-Khanabad in Uzbekistan – si sono decisi ad accettare il nuovo canone che è pari a ben 150 milioni di dollari. D’altro canto, rinunciare anche a quest’ultima infrastruttura li avrebbe costretti a ridispiegamenti strategici veramente complessi, col rischio di veder fallire completamente la strategia di espansione in Asia centrale.
Dove la posta in palio è rappresentata dai giacimenti di idrocarburi e dagli oleodotti e gasdotti esistenti, in costruzione ed in progettazione. Tanto è vero che da qualche mese, al dipartimento di Stato, hanno iniziato a circolare voci sempre più insistenti sul desiderio statunitense di allargare la NATO anche ai Paesi dell’area. Senza citare direttamente la Russia, Evan Feigenbaum, sottosegretario di Stato aggiunto, ha affermato che un monopolio dei trasporti delle risorse energetiche potrebbe rappresentare una minaccia per l’indipendenza politica ed economica di quei Paesi.
E’ evidente, Loro pensano sempre al bene altrui.

Georgia a stelle e strisce

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Se c’è un Paese dell’ex Unione Sovietica appiattito sulle posizioni dell’amministrazione statunitense, in maniera così plateale da risultare quasi comica, è la Georgia del da poco rieletto Presidente Mikhail Saakashvili.
Ne è stata data testimonianza di ineguagliabile efficacia nel documentario Revolution.com di Manon Loizeau, trasmesso lo scorso 3 giugno 2007 durante il programma Report. Loizeau, illustrando con dovizia di particolari ed interviste ai diretti interessati le attività delle Organizzazioni non governative (Ong) operanti nell’area post-sovietica, dall’Europa dell’est all’Asia centrale, ad un certo punto si occupa della cosiddetta “Rivoluzione delle Rose” del novembre 2003 in Georgia. Quella che – mediante l’abile orchestrazione dell’ambasciatore statunitense Richard Miles, trasferitosi a Tbilisi da Belgrado dove aveva portato a termine il lavoro Milosevic – provocò la “caduta” di Shevardnadze e l’ascesa, sul gradino più alto della repubblica caucasica, di Saakashvili appunto. Trentasei anni, una laurea in legge ad Harvard, egli è il presidente più giovane del mondo.
Lo scorso 5 gennaio Saakashvili ha dunque conseguito un nuovo mandato presidenziale, in occasione di consultazioni durante le quali è stato chiesto ai georgiani anche di esprimersi sulla (più che) eventuale adesione del Paese alla NATO. I presupposti di tali elezioni sono stati davvero significativi, a partire dalle dichiarazioni di Joy Davis-Kirschner, direttore dell’Ufficio Affari Politici dell’Ambasciata statunitense in Georgia, che il suo Paese avrebbe stanziato cinque milioni di dollari quali aiuti per l’organizzazione dell’evento elettorale – giusto per riabilitare un po’ l’immagine di una Georgia democratica dopo le manifestazioni di protesta, duramente represse, del precedente novembre. Il candidato dell’opposizione, Levan Gachechiladze, dal canto suo si era lamentato del fatto che gli indici di popolarità di Saakashvili sarebbero stati appositamente gonfiati, protestando con… John F. Teft, ambasciatore statunitense in Georgia. Tutti insieme, i candidati dell’opposizione avevano chiesto un aiuto affinché le elezioni si tenessero in modo trasparente al… Segretario Generale della NATO.
Difficilmente ci si potrebbe aspettare qualcosa di diverso, sapendo che la risoluzione 391 del Senato degli Stati Uniti d’America definisce la Repubblica di Georgia “una democrazia emergente strategicamente ubicata tra la Turchia e la Russia, importante alleato politico e geopolitico per gli Stati Uniti”.
Altri dati illuminanti:
in Georgia sono attive 200 Ong occidentali;
la Georgia è fra i primi cinque paesi al mondo per donazioni procapite concesse dagli USA;
tutti i politici georgiani, compresi quelli dell’opposizione, negli anni Novanta hanno collaborato con l’Open Society Foundation del magnate George Soros od in altre Organizzazioni non governative facenti capo al cosiddetto “Re d’Ungheria”;
le truppe speciali dell’esercito sono addestrate sotto il controllo del Pentagono.