Primule rosse in fuga

I latitanti di Stato

Si parla molto di Alessio Casimirri, il brigatista rosso rifugiato in Nicaragua per il quale nessun governo italiano si è mai attivato per ottenerne l’estradizione in Italia perché a conoscenza dei segreti del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro.
Solo dopo l’estradizione di Cesare Battisti si è, invece, parlato poco di Giorgio Pietrostefani, condannato a 22 anni di reclusione per l’omicidio del commissario di PS Luigi Calabresi.
Qualcuno lo ha definito «primula rossa in fuga», il giudice istruttore Guido Salvini ne ha parlato come di un individuo che «vive protetto all’estero, probabilmente in Francia».
Apriti cielo!
A indignarsi dinanzi alla pretesa di considerare Giorgio Pietrostefani un «latitante», anzi una «primula rossa in fuga», è il suo compagno di omicidio Adriano Sofri il quale interviene con un articolo su Il Foglio del 17 gennaio 2019 intitolato: «No, Giorgio Pietrostefani non è una “primula rossa in fuga”».
Come si permettono costoro a definirlo un fuggiasco? Sofri spiega, con il solito tono borioso e arrogante, che per quanto riguarda Pietrostefani «non c’è niente di clandestino nella sua esistenza. Ha sempre e regolarmente lavorato. Chiunque voglia frequentarlo – e lui voglia frequentare – lo può fare: io per esempio».
Giusto! Latitanti sono gli altri mentre non può esserlo uno che ha riportato una condanna a 22 anni di reclusione per aver ammazzato (in concorso con Sofri e Bompressi) un commissario di Pubblica sicurezza, perché lui è di Lotta continua.
Lo sappiamo: abbiamo letto gli insulti a Salvador Allende pubblicati sul loro giornale, è noto che lo stesso veniva stampato in una tipografia di pertinenza della CIA, è di pubblico dominio il rapporto amichevole con il prefetto Umberto Federico D’Amato, direttore della divisione «Affari riservati» del ministero degli Interni, lo dice il giudice Guido Salvini che nell’esecutivo del gruppo c’era la fonte «Como», informatore dei servizi segreti mai identificato, lo ha scritto Mino Pecorelli che a Lotta Continua giungevano finanziamenti da parte del ministero degli Interni, del Partito Socialista e del petroliere Nino Rovelli.
Con questo passato alle spalle perché mai Giorgio Pietrostefani deve essere considerato un latitante?
È un probe servitore dello Stato per il quale, insieme ai compari Sofri e Bompressi, la magistratura milanese si è coperta di ridicolo e di vergogna condannandolo a 22 anni di reclusione invece che all’ergastolo per omicidio premeditato aggravato dalle finalità di terrorismo di un commissario di Pubblica sicurezza.
Una condanna che viene inflitta a pentiti e dissociati, solo che i tre non lo erano e la sentenza che li riguarda rimane uno scandalo giudiziario senza precedenti, considerando che cittadini comuni per lo stesso reato (omicidio premeditato) senza aggravanti ai danni di altri cittadini non appartenenti alle forze di polizia sono stati sempre condannati all’ergastolo.
E con questi precedenti qualcuno si permette di considerare Giorgio Pietrostefani una «primula rossa in fuga»?
Ha ragione a indignarsi Sofri e a chiarire che l’amico suo in Francia ha sempre fatto i fatti suoi alla luce del sole perché nessuno lo ha mai cercato, anzi non si è mai permesso di cercarlo.
Ci mancherebbe altro!
A questo punto l’accusa di favoreggiamento personale nei confronti di tutti i ministri degli Interni e della Giustizia in carica dal giorno in cui, con l’autorizzazione della polizia, Pietrostefani si è trasferito in Francia, sarebbe doverosa, anche nei confronti di Matteo Salvini.
Ma, a quanto pare, Pietrostefani non è Cesare Battisti, non è un fuggiasco senza segreti e capacità di ricatto, ma è di Lotta Continua e per lui (e gli altri due) il Parlamento varò addirittura una legge ad personam per fargli ottenere la revisione dei processo perché i tre dovevano essere salvati a ogni costo.
Chissà perché?
È normale che con cotanta storia alle spalle, Adriano Sofri, sicuro che ancora oggi può contare sull’aiuto di tutti i rinnegati di Lotta continua passati al centro-destra, possa esibire per l’ennesima volta la sua arroganza con la certezza che nessuno si prenderà la briga di agire di conseguenza nei confronti suoi e di Giorgio Pietrostefani.
Ma, forse, Sofri è rimasto sconvolto dal fatto che l’amico è stato definito «primula rossa», perché di rosso qui non c’è niente e non c’è mai stato se scriviamo la storia di Lotta Continua.
Dopo l’11 settembre 2001, Sofri mandò i suoi compari in piazza con un cartello nel quale era scritto: «Lotta continua per gli Stati Uniti».
Non ne avevamo mai dubitato.
Vincenzo Vinciguerra

Fonte

La cartina di tornasole, i conti non tornano ancora

Nulla ci vieta di fare alcune osservazioni critiche al governo in carica anche se consapevoli del fatto che l’unica alternativa sarebbe il Partito Democratico e/o Forza Italia, entrambi nemici di classe e del popolo sovrano.

Non sappiamo se la manovra economica del governo del cambiamento sarà veramente efficace, non abbiamo la certezza se questo governo sia veramente del cambiamento o avrà il tempo per tentar di cambiar le cose. Non sappiamo se riuscirà a risolvere il problema della povertà e rialzare il PIL. Non sappiamo neanche se basterà l’ottimismo o il deficit fissato al 2,4% per ridurre il coefficiente di Gini, quello che misura le disuguaglianze della ricchezza. Non sappiamo neppure se riuscirà a liberare la vita reale dallo spettro dello spread. Non sappiamo se avrà la forza morale per bandire quei tassi d’interesse da usurai che spezzano il popolo. L’economia, ed ancor meno la finanza, non sono una scienza esatta, anzi non sono neanche una scienza, anche se a questo mirano per sedersi poi sul trono dell’indiscutibilità divina.
Certo il governo definito populista e sovranista qualche grattacapo all’Europa delle banche lo ha creato, producendo un pericoloso precedente.
E’ bastato solo che qualcuno dal fondo degli ultimi banchi della classe reclamasse, anche se con aria un po’ sommessa a volte timida, che i compiti dati dai maestri erano insostenibili, e questi subito sono andati su tutte le furie, una lesa maestà, una bestemmia impensabile, ed allora giù con anatemi, richiami e strali avvelenati.
Certamente la sovranità di un nazione si raggiunge attraverso un percorso di grande difficoltà, ma con un po’ di coraggio bisognerà pur partire da qualche parte. Tutto sta però nello stabilire quale è il paradigma di riferimento e cosa noi consideriamo per sovranità. Negli ultimi decenni si è assunto come naturale un assurdo disumano che di naturale non ha nulla, un’insana perversione che ha scandito il tempo della nostra esistenza, capace di orientare ogni cosa che facciamo al fine di non irritare ed innervosire i mercati, mentre questi, i mercati, hanno potuto tranquillamente a loro piacimento, per vendetta o per capriccio, portare sul baratro una nazione sana, indipendentemente dalla sua operosità. Guardando le cose alla radice possiamo affermare sicuramente che la sovranità vera non può prescindere da quella monetaria. Il potere della moneta per l’esistenza di un nazione è così forte ed indispensabile che viene riconosciuto da chiunque sia in buona fede, indipendentemente dal suo orientamento politico o economico.
“Datemi il controllo della moneta e non mi importa chi farà le sue leggi”, scriveva Rothschild, così come il problema fu sentito nella stessa misura da Lenin, per non parlare di Ezra Pound.
Lasciamo stare questo gravoso problema della sovranità monetaria che, nel solo chiederci a chi spetta la proprietà dell’euro, produrrebbe una crisi d’astinenza ai poveri euroinomani, altro che piano B. Non chiediamoci allora a quale entità antidemocratica sono state affidate le chiavi di casa, della zecca in questo caso. Cosa rimane quindi come misura della nostra presunta sovranità se non la nostra visione in termini di geopolitica? Attraverso questa abbiamo l’opportunità, anzi l’obbligo di dichiarare al mondo chi siamo e cosa vogliamo. La politica estera è la cartina di tornasole per chi si batte per la propria e l’altrui sovranità. Chi crede in questa forma d’autogoverno, non può in questo ambito che affermare la propria multipolarità da contrapporre a chi della unipolarità ha fatto una ragione storica, il suo destino manifesto, e che dopo la caduta del muro di Berlino ha colto un segno della provvidenza per la sua realizzazione.
Dal suo insediamento con toni chiari il governo giallo-verde ha tenuto a sottolineare la sua vicinanza geostrategica agli USA, troncando ogni speranza a chi avrebbe voluto un disimpegno magari graduale dalla NATO, non solo per risparmiare quei 70 milioni di euro al giorno di spese militari, ma proprio per liberarsi da un alleato troppo ingombrante e premuroso.
E’ anche vero che si é parlato di revocare le sanzioni alla Russia, novità sul nostro piano politico, ma in questi giorni mentre gli USA hanno deciso di riprendere unilateralmente le sanzioni contro l’Iran (colpevole di esistere come la Siria o la Palestina) e tutti i suoi alleati saranno allora costretti a non acquistare più petrolio iraniano per non incorrere nelle medesimi sanzioni, nessuna flebile voce s’è levata contro un’altra guerra commerciale alla quale ossequiosamente ci accoderemo ancora una volta.
Si ha l’impressione che se riusciamo a parole (finalmente) ad alzar la voce contro la Troika, il senso di riconoscimento nei confronti degli Americani a stelle e strisce é ancora così grande che non ci permette neanche di dubitare mai del loro altruismo e della loro bontà. Riusciamo solo ad annuire, o quando pronunciamo parola é solo per promettere fedeltà eterna, foss’anche quella del premier Conte a Trump per sfavorire la Russia a vantaggio del gasdotto TAP.
Per non parlare di Bolsonaro, dove si chiude il cerchio in cui “di notte tutte le vacche sono nere” e sovraniste. Certamente gli entusiasmi e le congratulazioni sono state fatte a titolo privato da uno dei due vice premier. Comunque si è dimostrato soltanto o la propria malafede sovranista o peggio ancora di non rendersi conto della storia dei fatti per ignoranza o superficialità. Quale è la presunta sovranità che spinge a stare con chi ha nostalgia della più classica delle dittature sudamericane? Pur ammettendo che anche le dittature possono essere sovraniste, pensiamo a Cuba, è da sottolineare che molto peggio sono quelle che lavorano per la spoliazione del Paese per conto terzi. A quel tipo di dittatura, sempre incoraggiata sul piano militare e logistico dagli USA, è sempre seguito il più sfacciato programma di privatizzazioni sul modello dettato dai Chicago boys. Chi svende la propria Patria non sarà mai libero ne starà mai dalla parte del popolo, non basta vincere le elezioni.
I sovranisti in Sud America hanno avuto la tempra di una Evita Duarte Peron, di un Hugo Chavez, di un Ernesto Guevara, di un Salvador Allende, hanno nazionalizzato nell’interesse della propria terra per difendersi dal quel maledetto vicino. Bolsonaro è evidentemente dall’altra parte, vicino a Pinochet, a Faccia d’Ananas Noriega ed a Milton Friedman, questo un vicepremier sovranista lo dovrebbe sapere perché altrimenti i conti, non quelli della manovra ma quelli che valgono veramente per il bene del popolo, perché autentici valori, non tornano.
Lorenzo Chialastri

Solo la sovranità è progressista

Se uccidi oggi un Sankara, domani avrai a che fare con mille Sankara.
Thomas Sankara

All’indomani del vertice dei 25 Paesi membri dell’Organizzazione per l’Unità Africana, il 26 luglio 1987, il Presidente del Consiglio Nazionale Rivoluzionario del Burkina Faso denunciava in questi termini il nuovo asservimento dell’Africa: “Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Coloro che ci hanno prestato denaro sono quelli che ci hanno colonizzato, le stesse persone che hanno gestito i nostri Stati e le nostre economie, sono i colonizzatori che hanno indebitato l’Africa con i finanziatori”. Il debito del Terzo Mondo è il simbolo del neocolonialismo. Perpetua la negazione della sovranità, piegando le giovani nazioni africane ai desiderata dei poteri ex-coloniali.
Ma il debito è anche ciò di cui i mercati finanziari si nutrono. Il prelievo parassitario da economie fragili, arricchisce i ricchi nei Paesi sviluppati a scapito dei poveri nei Paesi in via di sviluppo. “Il debito (…) dominato dall’imperialismo è una riconquista abilmente organizzata affinché l’Africa, la sua crescita, il suo sviluppo obbediscano a standard che ci sono totalmente estranei, facendo in modo che ognuno di noi diventi uno schiavo della finanza, cioè schiavo di coloro che hanno avuto l’opportunità, l’astuzia, l’inganno di piazzare da noi i fondi con l’obbligo di rimborso”.
Decisamente, era troppo. Il 15 ottobre 1987, Thomas Sankara cadde sotto i proiettili dei cospiratori a favore del “Françafrique” e del suo succoso affare. Ma il capitano coraggioso di questa rivoluzione soffocata ne dettò i principi fondamentali: un Paese si sviluppa solo se è sovrano e questa sovranità è incompatibile con la sottomissione al capitale globalizzato. Il vicino del Burkina Faso, la Costa d’Avorio ne sa qualcosa: colonia specializzata nell’esportazione di monocolture di cacao a partire dagli anni ’20, è stata rovinata dalla caduta dei prezzi e trascinata nella spirale infernale del debito.
Il mercato del cioccolato vale 100 miliardi di dollari ed è controllato da tre multinazionali (una svizzera, una statunitense e una indonesiana). Con la liberalizzazione del mercato richiesta dalle istituzioni finanziarie internazionali, queste multinazionali dettano le loro condizioni a tutto il settore. Nel 1999, il FMI e la Banca Mondiale hanno chiesto la rimozione del prezzo garantito al produttore. Il prezzo pagato ai piccoli coltivatori è stato dimezzato, essi impiegano per sopravvivere centinaia di migliaia di bambini schiavi. Impoveriti dai prezzi in calo della sovrapproduzione, il Paese è anche costretto a ridurre le imposte sulle imprese. Privato delle risorse, schiavo del debito e ostaggio dei mercati, il Paese è in ginocchio.
La Costa d’Avorio fa scuola. Un piccolo Paese con una florida economia (il cacao rappresenta il 20% del PIL e il 50% dei proventi delle esportazioni) è stato letteralmente silurato dagli stranieri che cercano solo di massimizzare i profitti con l’aiuto delle istituzioni finanziarie e la collaborazione di leader corrotti. Thomas Sankara l’aveva capito: se è schiavo dei mercati, l’indipendenza di un Paese in via di sviluppo è pura finzione. Non riuscendo a rompere gli ormeggi con la globalizzazione capitalista, un Paese si condanna alla dipendenza e alla povertà. In un libro profetico pubblicato nel 1985, Samir Amin ha chiamato questo processo di rottura “la disconnessione del sistema mondiale”.
Quando si considera la storia dello sviluppo di un Paese, appare evidente che: i Paesi migliori sono quelli che hanno completamente conquistato la loro sovranità nazionale. Per esempio, la Repubblica Popolare Cinese e i nuovi Paesi sviluppati dell’Asia orientale hanno perseguito politiche economiche proattive e hanno promosso un’industrializzazione accelerata. Queste politiche erano basate – e lo sono ancora in gran parte – su due pilastri: la gestione unitaria degli sforzi pubblici e privati ​​sotto la guida di uno Stato forte e l’adozione quasi sistematica di un protezionismo selettivo.
Una tale osservazione dovrebbe bastare a spazzare via le illusioni alimentate dall’ideologia liberale. Lungi dal gioco libero delle forze del mercato, lo sviluppo di molti Paesi nel ventesimo secolo è il risultato di una combinazione di iniziative di cui lo Stato ha fissato sovranamente le regole. Da nessuna parte si vede uscire lo sviluppo dal cappello magico degli economisti liberali. Ovunque, è stato il risultato di una politica nazionale e sovrana. Protezionismo, nazionalizzazioni, rilancio della domanda e istruzione per tutti: è lungo l’elenco delle eresie grazie alle quali questi Paesi hanno scongiurato – in vari gradi e a costo di molteplici contraddizioni – l’angoscia del sottosviluppo.
Senza offesa per gli economisti da salotto, la storia insegna l’opposto di ciò che la teoria afferma: per uscire dalla povertà, è meglio la forza di uno Stato sovrano che la mano invisibile del mercato. E’ quello che hanno capito i Venezuelani che cercano dal 1998 di restituire al popolo il profitto della manna petrolifera privatizzata dall’oligarchia reazionaria. Questo è quello che intendevano Mohamed Mossadegh in Iran (1953), Patrice Lumumba in Congo (1961) e Salvador Allende in Cile (1973) prima che la CIA li facesse sparire dalla scena. Questo è ciò che Thomas Sankara chiedeva per l’Africa che cadeva nella schiavitù del debito dopo la decolonizzazione.
Si obietterà che questa diagnosi sia imprecisa, poiché la Cina si è sviluppata molto rapidamente dopo le riforme liberali di Deng. È vero. Un’iniezione massiccia di capitalismo mercantile sulle sue coste le ha procurato dei tassi di crescita enormi. Ma non bisogna dimenticare che nel 1949 la Cina era un Paese in miseria, devastato dalla guerra. Per sfuggire al sottosviluppo, ha fatto enormi sforzi. Le mentalità arcaiche furono smantellate, le donne emancipate, la popolazione istruita. A costo di molte contraddizioni, le strutture del Paese, la costituzione di un’industria pesante e lo status di potenza nucleare sono stati acquisiti durante il Maoismo.
Sotto la bandiera di un comunismo riverniciata nei colori della Cina eterna, quest’ultima ha creato le condizioni materiali per il futuro sviluppo. Se in un anno veniva costruito in Cina l’equivalente dei grattacieli di Chicago, non era perché la Cina fosse diventata capitalista dopo aver sperimentato il comunismo, ma perché essa ne ha fatto una sorta di sintesi dialettica. Il comunismo ha unificato la Cina, ha ripristinato la sua sovranità e l’ha liberata dagli strati sociali parassitari che ne ostacolavano lo sviluppo. Molti Paesi del Terzo Mondo hanno cercato di fare lo stesso. Molti hanno fallito, di solito a causa dell’intervento imperialista.
In termini di sviluppo, non esiste un modello. Ma solo un Paese sovrano che si è dotato di una vela sufficientemente resistente può affrontare i venti della globalizzazione. Senza una padronanza del proprio sviluppo, un Paese (anche ricco) diventa dipendente e si condanna all’impoverimento. Le società transnazionali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno messo le proprie mani su molti Stati che non hanno alcun interesse a obbedir loro. Leader di uno di questi piccoli Paesi presi alla gola, Thomas Sankara ha sostenuto il diritto dei popoli africani all’indipendenza e alla dignità. Ha inchiodato i colonialisti di ogni genere al loro orgoglio e alla loro avidità. Sapeva soprattutto che il requisito della sovranità non era negoziabile e che solo la sovranità è progressista.
Bruno Guigue

Fonte – traduzione di C. Palmacci

“Make the economy scream!”

Ordinava Richard Nixon alla CIA per piegare il Cile di Salvador Allende.
Lo stesso scenario si ripete in Venezuela, per ora non con i risultati attesi.

“Il 18 gennaio 2013, mentre l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (in inglese FAO) ha da poco pubblicato il suo rapporto annuale, il suo ambasciatore Marcelo Resende de Souza visita in Venezuela un mercato di Valencia (Stato di Carabobo), accompagnato dall’allora vicepresidente Nicolás Maduro. “Possediamo tutti i dati sulla fame nel mondo – dichiara. Ottocento milioni di persone soffrono per fame; 49 milioni in America Latina e nei Caraibi, ma nessuna in Venezuela perché qui la sicurezza alimentare è assicurata”.
Stranamente, passati appena quattro mesi, avendo la malattia portato via Hugo Chávez ed essendo stato eletto capo dello Stato il suo ex-vice-presidente, il quotidiano (e portavoce ufficioso delle multinazionali spagnole) El País intona tutta un’altra canzone: “La penuria mette in difficoltà Maduro”.
Certo, la penuria riguardava principalmente, in quel momento, la carta igienica (che, nelle settimane successive diventerà un appassionante argomento di dissertazione per i piscia-copie del mondo intero), ma, dice El País, si aggiunge a “un’assenza ciclica (…) di farina, polli, deodoranti, olio di mais, zucchero e formaggio (…) nei supermercati”
Così esordisce mediaticamente ciò che diventerà “la peggiore crisi economica” conosciuta da questo Paese, “potenzialmente uno dei più ricchi al mondo”, a causa della sua “dipendenza dall’oro nero”, del “calo del prezzo del barile di petrolio” e dello “sperpero del governo”. Mentre i portavoce dell’opposizione incolpano di ciò l’eccessivo intervento dello Stato, la regolazione “autoritaria” dei prezzi, l’impossibilità che ne consegue per l’impresa privata di coprire i suoi costi di produzione, la mancanza di valute concesse dal potere per importare materie prime e prodotti finiti, la penuria diventa cronica, i reparti dei supermercati desolatamente vuoti, le file in attesa interminabili, il “mercato nero” onnipresente. “In Venezuela, il ribasso del petrolio fa divampare i prezzi dei preservativi” potrà ben presto titolare Le Figaro (17 febbraio 2015). Anche i medicinali diventano introvabili, attizzando l’angoscia e le sofferenze della popolazione.
Una tale situazione ha di che commuovere gli umanitaristi del mondo intero. “Se c’è una crisi umanitaria importante, ovvero un cedimento dell’economia, al punto che loro [i Venezuelani] abbiano disperatamente bisogno di alimenti, di acqua e di cose simili, allora potremmo reagire”, annuncia alla CNN, il 28 ottobre 2015, il capo del Comando sud dell’esercito degli Stati Uniti , (Southern Command), il generale John Kelly, in risposta agli appelli “disperati” della “società civile” venezuelana. Fin da 2014, mentre il Tavolo di unità democratica (MUD) chiamava al rovesciamento del capo dello Stato, lanciando l’operazione “La Salida” (“l’uscita”), una delle sue dirigenti, María Corina Machado, aveva tracciato la via: “Certi dicono che dobbiamo aspettare le elezioni fra qualche anno. Ma chi non riesce a dar da mangiare ai suoi bambini può aspettare? (…) Il Venezuela non può più aspettare!”. La violenta sequenza sovversiva fallisce, ma si chiude con 43 morti e oltre 800 feriti. Ed i Venezuelani continuarono a trovare ogni giorno difficoltà sempre più insopportabili per rifornirsi.
Il 6 dicembre 2015, al momento delle elezioni legislative, avendo le preoccupazioni, le privazioni e il malcontento eroso il morale dei cittadini di ogni parte, il chavismo perde 1.900.000 voti e diventa minoritario in parlamento. Invertendo i termini dell’equazione, la grande internazionale neoliberale celebra questo trionfo della “democrazia” sul “caos”. Sottomessi a un’informazione scelta e raccolta per rinforzare questa visione a priori, ben pochi, in particolare all’estero, hanno consapevolezza che questa vittoria si è fondamentalmente adagiata sul torpore della “rivoluzione bolivariana”, con una destabilizzazione economica simile a quella utilizzata negli anni 1970 in Cile contro Salvador Allende. Denunciata a suo tempo dai progressisti (più organizzati, lucidi e coraggiosi all’epoca rispetto a oggi) quest’ultima fu confermata ufficialmente, trentacinque anni più tardi, dalla declassificazione di ventimila documenti provenienti dagli archivi segreti del governo degli Stati Uniti. Per la “crisi venezuelana”, si può sperare quindi di vedere cessato lo scollamento tra discorso mediatico e realtà tra circa tre decenni. Cosa che, purtroppo, arriverà un po’ tardi per la comprensione degli avvenimenti e la difesa urgente, sulla terra di Bolivar, di una democrazia particolarmente minacciata. Ma permetterà probabilmente a quelli che oggi, per vendere giornali, chiudono intenzionalmente gli occhi o deviano vilmente lo sguardo, di pubblicare e commentare con indignazione queste “stupefacenti rivelazioni”.”

La guerra economica spiegata ai principianti (e ai giornalisti), di Maurice Lemoine continua qui, nella sua prima parte.
Seconda parte.
Terza parte.
Quarta ed ultima parte.

Quando la sinistra non aveva paura della sua ombra

“Cos’è successo tra il 1973 e il 2017? Mezzo secolo fa, la sinistra francese ed europea era generalmente solidale – almeno a parole – con i progressisti e i rivoluzionari dei Paesi del Sud. Senza ignorare gli errori commessi e le difficoltà impreviste, non sparava alla schiena dei compagni latinoamericani. Non distribuiva responsabilità ai golpisti e alle loro vittime con giudizi salomonici. Si schierava, a costo di sbagliare, e non praticava, come fa la sinistra attuale, l’autocensura codarda e la concessione all’avversario a mo’ di difesa. Non diceva: tutto questo è molto brutto, e ognuno ha la sua parte di responsabilità in queste violenze riprovevoli. La sinistra francese ed europea degli anni ‘70 era certamente ingenua, ma non aveva paura della sua ombra, e non beatificava a ogni piè sospinto quando si trattava di analizzare una situazione concreta. È incredibile, ma pure i socialisti, come Salvador Allende, pensavano di essere socialisti al punto da rimetterci la vita.
A guardare l’ampiezza del fossato che ci separa da quell’epoca, si hanno le vertigini. La crisi venezuelana fornisce un comodo esempio di questa regressione perché si presta a un confronto con il Cile del 1973. Ma se si allarga lo spettro dell’analisi, si vede bene che il decadimento ideologico è generale, che attraversa le frontiere. Nel momento della liberazione di Aleppo da parte dell’esercito nazionale siriano, nel dicembre 2016, gli stessi “progressisti” che facevano gli schizzinosi davanti alla difficoltà del chavismo, hanno cantato insieme ai media detenuti dall’oligarchia per accusare Mosca e Damasco delle peggiori atrocità. E la maggior parte dei “partiti di sinistra” francese (PS, PCF, Parti de Gauche, NPA, Ensemble, i Verdi) hanno organizzato una manifestazione davanti all’ambasciata russa a Parigi, per protestare contro il “massacro” dei civili “presi in ostaggio” nella capitale economica del Paese.
Certo, questa indignazione morale a senso unico nascondeva il vero significato di una “presa di ostaggi” che c’è stata, in effetti, ma da parte delle milizie islamiste, e non da parte delle forze siriane. Lo si è visto non appena sono stati creati i primi corridoi umanitari da parte delle autorità legali: i civili sono fuggiti in massa verso le zone governative, a volte sotto le pallottole dei loro gentili protettori in “casco bianco” che giocavano ai barellieri da una parte, e ai jihadisti dall’altra. Per la sinistra, il milione di siriani di Aleppo Ovest bombardata dagli estremisti abbigliati da “ribelli moderati” di Aleppo Est non contano, la sovranità della Siria nemmeno. La liberazione di Aleppo resterà negli annali come un tornante della guerra per procura combattuta contro la Siria. Il destino ha voluto che, purtroppo, segnasse un salto qualitativo nel degrado cerebrale della sinistra francese.
Siria, Venezuela: questi due esempi illustrano le devastazione causati dalla mancanza di analisi unita alla codardia politica. Tutto avviene come se le forze vive di questo Paese fossero state anestetizzate da chissà quale sedativo. Partito dalle sfere della “sinistra di governo”, l’allineamento alla doxa diffusa dai media dominanti è generale. Convertita al neoliberismo mondializzato, la vecchia socialdemocrazia non si è accontentata di sparare alla schiena degli ex compagni del Sud, si è anche sparata nei piedi.
(…)
Potrà anche rompere con la socialdemocrazia, ma questa sinistra aderisce alla visione occidentale del mondo e al suo dirittumanismo a geometria variabile. La sua visione delle relazioni internazionali è direttamente importata dalla doxa pseudo-umanista che divide il mondo in simpatiche democrazie (i nostri amici) e abominevoli dittature (i nostri nemici). Etnocentrica, guarda dall’alto l’antimperialismo lascito del nazionalismo rivoluzionario del Terzo Mondo e del movimento comunista internazionale. Invece di studiare Ho Chi Min, Lumumba, Mandela, Castro, Nasser, Che Guevara, Chavez, Morales, legge “Marianne” [una sorta di “l’Espresso” francese – n.d.t.] e guarda France 24 [la Rainews24 francese – n.d.t.]. Pensa che ci siano i buoni e i cattivi, che i buoni ci somigliano e che bisogna bastonare i cattivi. È indignata – o disturbata – quando un capo della destra venezuelana, formata negli USA dai neoconservatori per eliminare il chavismo, viene incarcerato per aver tentato un colpo di Stato. Ma è incapace di spiegare le ragioni della crisi economica e politica del Venezuela. Per evitare le critiche, è restia a spiegare come il blocco degli approvvigionamenti sia stato provocato da una borghesia importatrice che traffica con i dollari e organizza la paralisi delle reti di distribuzione sperando di abbattere il legittimo presidente Maduro.
Indifferente ai movimenti di fondo, questa sinistra si contenta di partecipare all’agitazione di superficie. In preda a una sorta di scherzo pascaliano che la distrae dall’essenziale, essa ignora il peso delle strutture. Per lei, la politica non è un campo di forze, ma un teatro di ombre. Parteggia per le minoranze oppresse di tutto il mondo dimenticando di domandarsi perché certe sono visibili e altre no. Preferisce i Curdi siriani ai Siriani tout court perché sono una minoranza, senza vedere che questa preferenza serve alla loro strumentalizzazione da parte di Washington che ne fa delle suppellettili e prepara uno smembramento della Siria conformemente al progetto neo-conservatore. Rifiuta di vedere che il rispetto della sovranità degli Stati non è una questione accessoria, che è la rivendicazione principale dei popoli di fronte alle pretese egemoniche di un occidente vassallo di Washington, e che l’ideologia dei diritti umani e la difesa del LGBT serve spesso come paravento per un interventismo occidentale che si interessa soprattutto agli idrocarburi e alle ricchezze minerarie.
(…)
Drogata di “moralina”, intossicata da formalismo piccolo-borghese, la sinistra radical-chic firma petizioni, intenta processi e lancia anatemi contro i capi di Stato che hanno la brutta abitudine di difendere la sovranità del proprio Paese. Questo manicheismo le impedisce il compito di analizzare ciascuna situazione concreta e di guardare oltre il proprio naso. Pensa che il mondo sia uno, omogeneo, attraversato dalle stesse idee, come se tutte le società obbedissero agli stessi principi antropologici, evolvessero secondo gli stessi ritmi. Confonde volentieri il diritto dei popoli all’autodeterminazione e il dovere degli Stati di conformarsi ai requisiti di un Occidente che si erge a giudice supremo. Fa pensare all’abolizionismo europeo del XIX secolo, che voleva sopprimere la schiavitù presso gli indigeni, portando la luce della civiltà con la canna del fucile. La sinistra dovrebbe sapere che l’inferno dell’imperialismo oggi, come il colonialismo ieri, è sempre lastricato di buone intenzioni. Nel momento dell’invasione occidentale dell’Afghanistan, nel 2001, non abbiamo mai letto tanti articoli, nella stampa progressista, sull’oppressione delle donne afghane e sull’imperativo morale della loro liberazione. Dopo 15 anni di emancipazione femminile al cannone 105, queste sono più coperte e analfabete che mai.”

Da 1973-2017 : il collasso ideologico della “sinistra” francese (ed europea), di Bruno Guigue.

Interventismo occidentale e mentalità coloniale

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Tim Anderson per telesurtv.net

L’eredità coloniale ancora presente nelle culture imperialiste ha portato a ribaltare il significato delle parole attraverso la colonizzazione del linguaggio progressista e la banalizzazione del ruolo degli altri popoli.

In questi tempi di ‘rivoluzioni colorate’ il linguaggio è stato ribaltato. Le banche sono diventate i protettori dell’ambiente naturale, i fanatici settari sono ora ‘attivisti’ e l’impero protegge il mondo dai più grandi crimini, di cui non è mai responsabile.
La colonizzazione della lingua è in atto in tutto il mondo, fra le popolazioni con alti livelli di istruzione, ma è particolarmente virulenta nella cultura coloniale. ‘L’Occidente’, l’autoproclamatasi epitome della civiltà avanzata, sta reinventando con vigore la propria storia, col fine di perpetuare la mentalità coloniale.
Scrittori come Fanon e Freire hanno notato che i popoli colonizzati hanno subito danni psicologici e che è necessario ‘decolonizzare’ le loro menti, al fine di renderli meno deferenti verso la cultura imperiale e di affermare i valori positivi delle loro culture. D’altra parte, l’eredità coloniale è ben evidente nelle culture imperiali. I popoli occidentali continuano a mettere la loro cultura al centro o a considerarla universale, e hanno difficoltà ad ascoltare o ad imparare dalle altre culture. La modifica di ciò richiede uno sforzo notevole.
Le potenti élites sono ben consapevoli di questo processo e cercano di cooptare le forze vitali all’interno delle loro società, colonizzando il linguaggio progressista e banalizzando il ruolo degli altri popoli. Per esempio, dopo l’invasione dell’Afghanistan nel 2001, venne promossa l’idea che le forze della NATO stessero proteggendo le donne afghane ed essa ottenne molta popolarità. A dispetto dell’ampia opposizione all’invasione e all’occupazione, questo fine umanitario faceva appello al sentimento missionario della cultura occidentale. Nel 2012, Amnesty International poteva innalzare cartelli che affermavano ‘NATO: sosteniamo il progresso’, in riferimento ai diritti delle donne in Afghanistan, mentre l’Istituto George W. Bush raccoglieva fondi per promuovere i diritti delle donne afghane.
Il bilancio della situazione, dopo tredici anni di occupazione NATO, non è però così incoraggiante. Il rapporto 2013 dell’UNDP mostra che solo il 5,8% delle donne afghane ha un’istruzione secondaria (la settima posizione più bassa al mondo), la donna afghana ha una media di 6 figli (un tasso pari al terzo più alto del mondo, e legato al basso livello d’istruzione), la mortalità materna è di 470 su 100,000 (pari alla nona-decima fra le più alte del mondo) e l’aspettativa di vita è di 49,1 anni (pari alla sesta più bassa del mondo). Questo ‘progresso’ non è di certo impressionante. Continua a leggere

I figli della CIA

la-lotta-continuaIl giornalista Paolo Cucchiarelli ha recentemente ripubblicato un articolo scritto da Marco Nozza e apparso sul quotidiano “Il Giorno” di Milano il 31 luglio 1988.
Cosa diceva Nozza? Che il giornale di “Lotta continua” si stampava in una tipografia di pertinenza di due agenti della Central Intelligence Agency (CIA), Robert Cunningham senior e junior, il quale ultimo era perfino socio della società “Tipografia 15 giugno” che avrebbe dovuto stampare il giornale di Adriano Sofri e soci ”fino al 31 dicembre 2010″, insieme ad Angelo Brambilla Pisoni, Pio Baldelli, Marco Boato e Lionello Massobrio.
In altre parole, il giornale di “Lotta continua”, organizzazione rivoluzionaria della sinistra extraparlamentare italiana, era stampato dal servizio segreto americano.
Marco Nozza concludeva il suo articolo con una domanda: “Ma lo sapevano, quegli sprovveduti, con chi avevano a che fare?”.
Siamo, in altre e più crude parole, al “vieni avanti cretino” riferito ad Adriano Sofri e colleghi che, a prima vista, erano nemici degli Stati Uniti e della CIA ma stampavano, ingenuamente, il loro giornale in una tipografia di proprietà degli Stati Uniti e della CIA, senza rendersene conto.
Se rivolgiamo lo sguardo al passato e, ancora oggi, ci guardiamo attorno di imbecilli e mentecatti targati “Lotta continua” ne troviamo parecchi in circolazione, magari riciclati a destra, sul libro paga del finanziatore della mafia Silvio Berlusconi, accoppiati con presunti ”neofascisti” insieme ai quali conducono campagne stampa, a mezzo di Internet, contro coloro che cercano ed affermano verità che sono scomode per tutti, dai presunti neofascisti ai presunti rivoluzionari di estrema sinistra.
Il sospetto che, nel loro passato, abbiano come comune denominatore il rapporto di dipendenza dalla Central Intelligence Agency è tutt’altro che peregrino.
Difatti, prima ancora che Sofri e colleghi iniziassero a stampare il loro giornale presso la tipografia della CIA a Roma, il segnale di rapporti non proprio limpidi con gli spioni americani c’era già, evidente ma sottaciuto per evitare inopportune domande all’epoca ed anche oggi.
Il 30 ottobre 1970, proprio su “Lotta continua”, difatti, è pubblicato un articolo dal titolo “La rivoluzione col mitra e con le schede”, dedicato alla situazione politica in Cile nel quale si attacca con asprezza Salvador Allende, definito il “socialista dello yacht”.
Si potrà pensare ad un infortunio, alla trappola tesa da qualche “infiltrato”, sia pure a buon livello nell’organizzazione, che si è fatto beffa del “rivoluzionario” Adriano Sofri e dei suoi soci per buttare fango da sinistra sul Salvador Allende ormai nel mirino della Central Intelligence Agency.
Invece no.
Perché l’8 agosto 1972, Sofri e colleghi tornano ad accusare il presidente cileno con un articolo dal titolo chiarissimo: “Allende spara sui lavoratori”.
Un secondo infortunio? Possiamo escluderlo, perché “Lotta continua”, il 2 settembre 1972, ritorna ad attaccare Salvador Allende con un altro articolo intitolato “Tortura i militanti rivoluzionari”.
Insomma, questo Salvador Allende Sofri e colleghi non lo digeriscono.
Non solo lo hanno accusato di essere un ” socialista con lo yacht”, ma ora lo additano al disprezzo dei proletari come uccisore e torturatore dei compagni cileni. Per fortuna di Sofri e dei militanti rivoluzionari cileni, l’11 settembre 1973, la CIA liquida Salvador Allende con un colpo di Stato militare guidato da Augusto Pinochet Ugarte e libera il Cile dalla tirannica oppressione del “socialista con lo yacht”.
Se Sofri ed i suoi colleghi della CIA e di Lotta continua hanno gioito anche a Roma non possiamo saperlo, ma lo riteniamo probabile.
Se gli uomini della Central Intelligence Agency hanno liquidato un nemico, quelli di Sofri hanno condotto a termine l’operazione contro Luigi Calabresi, fisicamente liquidato il 17 maggio 1972, godendo ora dello spettacolo di magistrati che, negando l’evidenza, inventano una “pista nera” per l’omicidio del commissario di polizia rivendicato, viceversa, da “Lotta continua” con l’arroganza di chi è certo della propria impunità.
Bei tempi, quelli, per Lotta continua e la CIA.
Se è esistita, a sinistra, organizzazione che ha alimentato gli “opposti estremismi”, che ha incitato all’odio e alla violenza contro gli avversari politici, che è stata lasciata libera dallo Stato di pubblicare, vantandosene, perfino gli elenchi dei “fascisti” aggrediti, questa è “Lotta continua” diretta da un individuo, Adriano Sofri, che ha atteso 30 anni per rivelare che aveva un ottimo rapporto con il prefetto Umberto Federico D’Amato, direttore della divisione Affari riservati del ministero degli Interni e uomo della CIA in Italia.
Rivisiteremo la storia di “Lotta continua” perché nessuno ha scritto che solo l’estrema destra è stata eterodiretta dai servizi segreti italiani, atlantici, israeliani ed americani, la cui presenza è, invece, palpabile anche a sinistra.
Per ora ci fermiamo qui, con una domanda alla quale bisognerà dare risposta: perché Adriano Sofri ha deciso l’eliminazione di Luigi Calabresi, traendo spunto da informazioni false diffuse da agenzie di stampa dipendenti dal ministero degli Interni, ovvero da quella divisione Affari riservati diretta dal suo amico Umberto Federico D’Amato?
Per vendicare Giuseppe Pinelli?
Ne dubitiamo, assai.
Vincenzo Vinciguerra

(Fonte)

“L’amerikano” di Costantin Costa-Gavras (1973)

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Uruguay 1970, i Tupamaros sequestrano Philip M. Santore, cittadino statunitense ufficialmente funzionario di un’agenzia civile di cooperazione per gli aiuti e lo sviluppo. Santore in realtà è un agente dei servizi segreti USA che ha il compito di addestrare le polizie dei governi sudamericani alla tortura ed alla repressione dei dissidenti. Viene processato per le sue responsabilità nelle sanguinose repressioni avvenute in Brasile, nella Repubblica Dominicana e nell’Uruguay.
Nel corso del processo che si svolge nel nascondiglio dei Tupamaros, con la tecnica dei flashback vengono rievocati i vari momenti della carriera del “consigliere”, dall’addestramento dei poliziotti sudamericani nella famigerata Scuola delle Americhe, ai corsi di tortura “dal vivo”, all’organizzazione di squadre paramilitari clandestine per il sequestro e l’eliminazione degli oppositori. Durante il sequestro i guerriglieri chiedono una trattativa per il rilascio di alcuni loro membri prigionieri in cambio della vita dell’ostaggio. Il debole governo locale sembra essere sul punto di cadere e di cedere alle richieste. La polizia però riesce a strappare una confessione ad una prigioniera e ad arrestare molti membri dell’organizzazione clandestina. Il governo, rafforzato dall’inatteso successo, con l’avallo statunitense decide quindi di non dimettersi e di non trattare, abbandonando così Santore al suo destino in nome della ragion politica. Nel finale un nuovo consigliere USA arriva all’aeroporto di Montevideo e viene subito individuato dai guerriglieri.

Realizzato su soggetto e sceneggiatura di Franco Solinas, “L’amerikano” (titolo originale: “État de siège”) è ispirato alla storia vera di Anthony Dan Mitrione, ex capo della polizia di Richmond divenuto agente della CIA e per essa istruttore e consigliere di varie polizie sudamericane, che fu rapito e ucciso dai Tupamaros in Uruguay nel 1970.
Nel film – girato nel Cile di Salvador Allende poco prima del golpe di Augusto Pinochet – risulta inquietante e premonitore il rifiuto della trattativa e l’abbandono dell’ostaggio al suo destino in nome di una motivazione politica superiore, anticipazione di quanto sarebbe avvenuto in Italia nel 1978 con il caso Moro.
Interpreti sono Yves Montand nel ruolo di Philip M. Santore, Jean-Luc Bideau, Jacques Weber, Renato Salvatori e O.E. Hasse.
La fotografia è di Pierre-William Glenn, le musiche di Mikis Theodorakis.