Una demonizzazione di lungo respiro

“Si possono elencare centinaia di prime pagine che le riviste hanno consacrato a Putin, quasi entrando in spietata concorrenza tra loro per trovare l’epiteto più insultante e la sceneggiatura più sordida. I titoli, i fotomontaggi, la violenza delle accuse sono così eccessivi che finiscono per ottenere l’effetto contrario: a furia di constatare tanta ingiustizia nella presentazione del personaggio, ci si deve sforzare per evitare di prenderlo in simpatia. Una tale demonizzazione affascina e finisce per farvi apparire il diavolo simpatico!

Esaminiamo le prime pagine delle riviste, scelte tra le più serie e le più rispettate. Tutte rappresentano un Presidente russo minaccioso, inquietante, in un ruolo di “uomo che non sorride mai”, malefico e talvolta persino caricaturato come Hitler. (…)

La lista è così lunga e ripetitiva da diventare deprimente. E’ interessante notare dei punti di continuità con il passato. La rivista austriaca News titola così: Vladimir Putin, il nemico del mondo, con un fotomontaggio che rappresenta il Presidente russo nei panni di un vampiro, con un sorriso insanguinato come quello di Dracula. Ora, proprio così i disegnatori inglesi della metà del XIX secolo caricaturavano lo zar Nicola I, e l’autore di Dracula, lo scrittore imperialista inglese Bram Stoker, assimilava il conte Dracula agli zar russi. All’epoca lo zar era caricaturato con gli stessi tratti diabolici: lo si vedeva sorvolare l’Europa con le sue ali da vampiro, falce alla mano, o suonare il pianoforte sbattendo le ali per meglio sottolineare la sua gioia per la morte di una personalità europea. Come Vladimir Putin – e Stalin all’inizio della Guerra Fredda – lo si disegnava come il grande organizzatore del ballo dei vampiri, pronti a succhiare il sangue dell’innocente Europa.

 Ci vorrebbe troppo tempo per analizzare il contenuto degli articoli e dei libri anti Putin: sarebbero a riempire intere biblioteche. Ma tutti dicono all’incirca la stessa cosa: Putin è un bugiardo, un impostore, un cleptocrate, un autocrate, un manipolatore, un dittatore, un violentatore (di popoli), un oppressore, un invasore, un calcolatore, uno stalinista, un fascista, un reazionario, un conservatore, un Mussolini (Brzezinski), un Hitler (il principe Carlo, Hillary Clinton e i presidenti baltici e polacchi), un nostalgico dell’Impero zarista, un nostalgico dell’URSS, un revisionista, un kappagibista, un maniaco sessuale. (…)

L’obiettivo di quest’operazione di demonizzazione di lungo respiro – cominciata già dal suo arrivo al potere alla fine del 1999 e proseguita senza tregua da allora, con qualche lieve calo di intensità durante i periodi di calma relativa, come quello tra il 2001 e il 2003 e quello del 2009 – è manifesto: far perdere credibilità alla Russia e al suo Presidente, stigmatizzarlo agli occhi dell’opinione pubblica al fine di farne il capro espiatorio di tutte le nefandezze mondiali. Si tratta soprattutto di renderlo responsabile di tutto ciò che è accaduto in Ucraina e di preparare l’opinione pubblica a un’eventuale guerra europea di lunga durata, sul modello jugoslavo o afghano. Assimilando Putin a Hitler e mettendolo sullo stesso piano di Miloševic, Saddam Hussein e Bin Laden, tutto diventa possibile, anche il peggio.”

Da Russofobia. Mille anni di diffidenza, di Guy Mettan, Sandro Teti editore, pp. 356-7, 359-360.

La teoria del gradiente culturale

A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre

“In Europa la promozione del modello liberale in opposizione all’autocrazia e l’affermazione della civiltà in opposizione alla barbarie asiatica hanno dato luogo anche alla teoria del gradiente culturale.
Secondo questa concezione, la civiltà progredirebbe da Occidente a Oriente partendo da un focolaio centrale che sarebbe situato fra Parigi e Londra, e si diffonderebbe in seguito vero Est man mano che si civilizzerebbero i popoli dell’Europa centrale, poi dell’Europa orientale e infine della Russia.
(…) La teoria del gradiente culturale è interessante poiché permette di integrare la Russia nella civiltà europea o escluderla a piacere, a seconda delle circostanze. Quando la Russia diventa utile – e lo diventerà per la Francia nell’ultimo decennio del XIX secolo, per il Regno Unito nel primo decennio del XX e di nuovo durante la Seconda Guerra Mondiale – la si ammetterà nel mondo civile sottolineando, come Leroy-Beaulieu, la sua compatibilità con l’Occidente. Si insisterà allora – come avvenne in tempi più recenti durante il periodo Gorbacëv, e successivamente negli anni 2001-2003 dopo gli attentati del World Trade Center – sull’avvicinamento della Russia agli ideali dell’Occidente, quelli di democrazia pluralista ed economia liberale.
Ma quando la Russia viene percepita come una minaccia – dopo il 1815, il 1917 e il 1945 o dopo che Vladimir Putin riprese in mano l’economia nel 2003 – allora la teoria del gradiente torna utile nell’altro senso in quanto permette di escluderla dalle nazioni civili e rigettarla nella barbarie, ricorrendo a tutto l’arsenale dei consueti cliché: autoritarismo, atavico espansionismo, statalismo, conservatorismo retrogrado.
Non è dunque sorprendente che l’ipotesi dello sviluppo graduale della civiltà secondo un asse Ovest-Est, o Nordovest-Sudest, a partire dalla Rivoluzione Francese non tenga alcun conto dei comportamenti occidentali devianti. La barbarie degli Europei nelle colonie sudamericane, africani e asiatiche, come anche quella del terrore imposto in Cina dagli eserciti coloniali dopo la ribellione dei Boxer nel 1901, non vengono mai menzionate; si tace della barbarie degli Americani contro gli Indiani, o del fatto che l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti avvenne pressapoco nello stesso periodo di quella della servitù della gleba in Russia. Quindi, in quegli anni, da un punto di vista strettamente umano, gli Stati Uniti non erano certo più civili della Russia.
(…) Di fatto, da esplicativa che era ai suoi inizi, la teoria del gradiente culturale è rapidamente divenuta essenzialista: definendo la Russia come in ritardo sui suoi modelli europei occidentali, si reificherà questo ritardo, lo si ipostatizzerà per trasformarlo in un elemento costitutivo e discriminatorio in senso assoluto, seguendo il consueto ragionamento razzista: il russo è barbaro come l’ebreo è avaro, il nero pigro, il musulmano terrorista. Da lì a descrivere la Russia come nemica della civiltà il passo è breve, come la penna degli editorialisti contemporanei ci mostra quotidianamente.
Inoltre questo bisogno di classificare, sistemare, gerarchizzare le diverse società umane, questa ossessione per la tassonomia e il ranking, vanno a colmare l’angoscia così tipicamente occidentale da primo della classe che deve incessantemente verificare di essere in testa alla corsa e di mantenere le distanze dai suoi inseguitori. Dopo l’Illuminismo, l’Occidente ha incessantemente bisogno di rassicurarsi, di provare a sé stesso di essere sempre all’avanguardia del progresso e della civiltà e che i suoi “valori” siano effettivamente universali. E’ il prezzo da pagare per lo spirito di superiorità e la volontà di supremazia. E la Russia, al contempo così vicina e così diversa, è l’ideale metro di paragone.
(…) “Il lettore deve fare lo sforzo di riconoscere che i contadini russi, pur avvolti nelle loro pelli di montone, sono esseri umani come noi”, scriveva l’autore britannico Donald Mackenzie Wallace nel 1877. Centoquarant’anni più tardi le pelli di montone sono scomparse, ma non la mentalità che presenta il Russo come un ritardatario che fatica sempre a inerpicarsi sui gradini dell’economia liberale e della democrazia pluralista, quintessenza dell’avanzata civiltà occidentale.”

Da Russofobia. Mille anni di diffidenza, di Guy Mettan, Sandro Teti Editore, pp. 192-196.

Russofobia – il video

In quattro parti, la documentazione dell’incontro-dibattito svoltosi a Bologna lo scorso 19 novembre, in occasione della pubblicazione del libro Russofobia. Mille anni di diffidenza dello storico svizzero Guy Mettan, presso Sandro Teti editore.
Con gli interventi di Maurizio Carta, giornalista, curatore e co-autore di Attacco all’Ucraina (Sandro Teti editore), Marco Bordoni della redazione di sakeritalia.it e Paolo Borgognone, storico, autore di Capire la Russia (Zambon editore).

A cura di BelzeBO (per informazioni e contatti: belzebo@mail.com, facebook.com/BelzeBo)

Pillole di Putinfobia

Anteprima dell’incontro-dibattito svoltosi a Bologna, il 19 novembre 2016, in occasione della pubblicazione del libro “Russofobia. Mille anni di diffidenza” dello storico svizzero Guy Mettan, presso Sandro Teti editore.
Con gli interventi di Maurizio Carta, giornalista, curatore e co-autore di “Attacco all’Ucraina” (Sandro Teti editore), Marco Bordoni, redazione sakeritalia.it e Paolo Borgognone, storico, autore di “Capire la Russia” (Zambon editore).

Russofobia: incontro-dibattito a Bologna

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Nata in Francia sotto Luigi XV, la russofobia è stata utilizzata da Napoleone per giustificare un’animosità verso la Russia, che era un ostacolo alla politica espansionistica francese.
In Inghilterra, la russofobia apparve intorno al 1815, allorché, alleata con la Russia, sconfisse Napoleone. Una volta che il nemico comune fu sconfitto, l’Inghilterra invertì la rotta e fece della Russia il suo nemico, alimentando la russofobia. Dal 1820, Londra utilizzò un’ideologia anti-russa per mascherare le sue politiche espansionistiche, sia nel Mediterraneo sia in altre regioni – Egitto, India e Cina.
Il terzo tipo di russofobia è americano, ed è iniziato nel 1945. Non appena gli Stati Uniti hanno sconfitto la Germania attraverso iniziative comuni con l’URSS, a costo di milioni di vite sovietiche, hanno disseminato la stessa narrazione creata dopo la vittoria su Napoleone nel 1815. Essi hanno invertito la rotta e l’alleato del giorno prima è diventato il loro principale nemico. Così è iniziata la Guerra Fredda.
Gli Americani hanno usato gli stessi argomenti degli Inglesi nel 1815, sostenendo che essi “combattevano contro il comunismo, la tirannia, l’espansionismo”, e i loro argomenti erano ben poco diversi, fatta eccezione per la cosiddetta lotta contro il comunismo. Questa si è rivelata un trucco, perché al crollo dell’Unione Sovietica il confronto tra l’Occidente e la Russia non è terminato.
Oggi, a quasi trent’anni dalla fine della Guerra Fredda, la russofobia resta una componente chiave della politica estera statunitense, portata avanti in modo fervido dai sostenitori del cosiddetto partito della guerra a Washington. Sembra che l’America sia incapace di venire a patti con il fatto che gli anni ‘90 sono finiti. Oggi, la Russia non è più in macerie, e gli USA non sono più così potenti ed egemonici come lo erano dopo la caduta del Muro di Berlino.
Con il pretesto di assistere l’Ucraina, gli Stati Uniti hanno attivamente rafforzato la propria presenza militare nell’Europa dell’Est, schierando un gran numero di soldati e insediando centri avanzati di comando e controllo negli Stati che sono entrati nella NATO dopo il 1989. In modo analogo in Siria, il conflitto è causato dalla volontà di ridisegnare la mappa del Vicino Oriente, rovesciando i governi sgraditi nella regione, per consentire agli Stati Uniti di ottenere il controllo delle fonti energetiche e non solo. Quando la Russia, per richiesta del governo siriano, è stata coinvolta nelle crisi, Washington era furiosa.
Nel tentativo di compromettere la Russia e le sue posizioni nel mondo, Washington oggi adopera una vasta collezione di strumenti per spargere la russofobia, sfruttando i cosiddetti Panama Papers, il tragico incidente dell’aereo MH17 della Malaysian Airline abbattuto sul Donbass, il cosiddetto “scandalo del doping” nelle ultime Olimpiadi, la situazione in Siria e via di questo passo, il tutto accompagnato dal regime di sanzioni economico-commerciali imposte da Washington (e Bruxelles) contro la Russia a causa degli eventi in Ucraina.
Un sempre maggior numero di analisti e uomini politici, però, chiedono di sapere perché il partito delle guerra negli USA si oppone in modo così inflessibile a qualunque cooperazione con la Russia in qualsiasi parte nel mondo. La richiesta di fermare la demonizzazione della Russia diventa sempre più forte, perché sbarra la strada ad un’autentica e produttiva cooperazione bilaterale che consentirebbe alla comunità internazionale di risolvere i più pressanti problemi globali.
Perché altrimenti, affascinati dalle proprie idee paranoiche di russofobia, i più adamantini sostenitori di questo partito della guerra potrebbero incorrere nella triste sorte di James Forrestal, Segretario della Difesa degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, campione nel promuovere la russofobia e l’isteria anticomunista nella società americana, che il 22 maggio 1949 si gettò dalla finestra, e le ultime parole pronunciate dalla sua bocca furono: “Arrivano i Russi!”.

Russofobia

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Con i recenti accadimenti in Ucraina a seguito dell’Euromaidan e le conseguenti reazioni in ambito politico, diplomatico e di opinione pubblica negli USA e in Europa, il tema delle relazioni tra Russia e Occidente, con particolare attenzione alle categorie secondo cui l’Occidente guarda, pensa e racconta la Russia, è di estrema e scottante attualità.
Guy Mettan, giornalista, politico e direttore del Club suisse de la presse, si propone di analizzare nelle sue coordinate storiche e geopolitiche, nella sua dimensione propagandistica e nelle sue conseguenze psicologiche e fattuali il fenomeno della russofobia, quella che l’autore non esita a chiamare “una guerra millenaria”, condotta dagli Occidentali contro il loro “grande vicino” a colpi di cliché, rappresentazioni (spesso consciamente) distorte e persino mistificazioni della Russia e di tutto ciò che attorno ad essa gravita.
L’indagine di Mettan non si pone l’obiettivo di trascinare al banco degli imputati l’Occidente per rovesciare, conservandola, la visione manichea della storia che la propaganda russofoba vorrebbe delineare; l’operazione mira piuttosto a concedere alla Russia – la cui parte di responsabilità nella drammatica degenerazione di questo bipolarismo non è taciuta – quella parola che le viene con una certa metodicità negata dal sistema di informazione occidentale, in un tentativo di ricostruire la complessità dei rapporti Russia-Occidente e smascherare i pregiudizi che ci impediscono di apprezzare i tanti aspetti positivi del nostro grande vicino. Allo stesso modo, per quanto i giornalisti siano i principali responsabili, o meglio, i “finalizzatori” del discorso russofobo elaborato dagli establishment e dalle lobby occidentali, il libro non vuole essere nemmeno una condanna tout court dei media (la cui libertà di azione non è mai peraltro un dato scontato); ciò che si auspica, a più riprese, è piuttosto un recupero della deontologia giornalistica.
L’onestà intellettuale, la capacità (e la volontà) di informarsi cercando e interpellando fonti di opposto schieramento, soprattutto il senso critico, quell’esigenza di porre e porsi continuamente domande, anche e soprattutto quelle più scomode e che meno convengono agli schemi precostituiti: questo è ciò che Mettan – procedendo lui stesso con stile giornalistico e guarnendo con voluta insistenza e abbondanza le sue pagine di punti interrogativi – vuole risvegliare nella coscienza non solo dei giornalisti, ma di tutti coloro che, quotidianamente, sono esposti al bombardamento della russofobia e ne diventano quasi inconsciamente vittime, se non addirittura attori stessi.

Russofobia. Mille anni di diffidenza
di Guy Mettan,
con introduzione di Franco Cardini,
Sandro Teti Editore, pp. 399, € 18.70