seconda guerra mondiale
Le vere ragioni del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki
6 agosto 1945. Una bomba esplode e uccide da sola 140.000 persone. I Giapponesi lo capiranno solo più tardi, ma gli Americani hanno appena lanciato la loro prima bomba nucleare. Per porre fine alla guerra il più rapidamente possibile, come dice la storia ufficiale? O piuttosto per dimostrare la superiorità statunitense sul resto del mondo?
Con la resa incondizionata della Germania nazista l’8 maggio 1945, si conclude la Seconda Guerra mondiale. Almeno in Europa. Perché un Giappone militarista, ormai esangue, doveva ancora essere sconfitto. Gli Stati Uniti hanno scelto il metodo forte.
Alla fine di luglio del 1945, il Presidente degli Stati Uniti, Harry Truman decide di porre fine alla guerra in modo radicale, utilizzando l’arma nucleare recentemente messa a punto, che rimane ancora oggi la più terribile delle armi di distruzione di massa.
Nel suo diario del 25 luglio 1945, Truman annota: “Abbiamo scoperto la bomba più terribile della storia…. La useremo contro il Giappone entro il 10 agosto. È certamente una cosa positiva per il mondo che la banda di Hitler o quella di Stalin non abbiano sviluppato questa bomba atomica. Sembra essere l’invenzione più terribile mai realizzata, ma potrebbe anche essere la più utile”.
Utile… ma non necessariamente per porre fine alla guerra. Infatti, quando Truman pianificava di usare la bomba atomica contro il Giappone, il Giappone pensava di interrompere i combattimenti. In effetti, l’esercito americano riusce a decifrare il 31 luglio un telegramma in codice del Ministero degli Affari Esteri giapponese, datato 26 luglio, che assicurava che “Tokyo stava studiando l’ultimatum alleato”: il Giappone era pronto a deporre le armi. D’altra parte, su espressa richiesta di Washington, Stalin si era impegnato a dichiarare guerra al Giappone tre mesi dopo la capitolazione tedesca, l’8 agosto. L’ingresso dell’URSS nella guerra era estremamente temuto dalle autorità nipponiche: l’esercito giapponese avrebbe dovuto combattere su due fronti contemporaneamente. Anche per gli Stati Uniti, l’ingresso dell’Unione Sovietica nella guerra contro il Giappone significava una perdita di influenza in Estremo Oriente. Quando Truman apprende del successo del test delle armi nucleari il 16 luglio 1945, non ha più interesse a coinvolgere l’URSS nel conflitto. (1)
Il 6 agosto 1945, un bombardiere americano sgancia una bomba nucleare sulla città di Hiroshima (2). Si stima che siano morte 140.000 persone. Il Giappone non capisce subito cosa sta accadendo e la guerra continua. L’8 agosto, come concordato, l’URSS dichiara guerra al Giappone. Truman decide quindi di lanciare una seconda bomba nucleare il 9 agosto sulla città portuale di Nagasaki, uccidendo 75.000 persone. Il 15 agosto, l’Imperatore Hirohito annuncia via radio la resa del Giappone.
Dato che il Giappone si sarebbe comunque arreso, perché sono stati commessi tali crimini contro l’umanità? La testimonianza del fisico nucleare Joseph Roblat – che ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 1995 – è illuminante. Roblat ha partecipato allo sviluppo della prima bomba nucleare a Los Alamos (USA). Nel marzo 1944, durante una cena, sentì il Generale Leslie Groves (il capo militare del Progetto Manhattan, che mirava a sviluppare le prime bombe atomiche) dire che il vero scopo della bomba era quello di sottomettere i Sovietici. A quel tempo, i Sovietici erano alleati degli Americani e stavano facendo enormi sacrifici per sconfiggere il nemico comune. Più tardi, nel 1944, divenne chiaro, secondo le parole di Rotblat, che “la guerra in Europa sarebbe finita prima che il progetto della bomba fosse completato”, rendendo “inutile la sua partecipazione al progetto”. Una volta che la Germania fu sconfitta, Rotblat ritenne che continuare il progetto della bomba fosse immorale e interruppe la sua collaborazione. Fu l’unico dei numerosi scienziati che lavorarono al progetto della bomba.
A Hiroshima e Nagasaki sono stati commessi due crimini contro l’umanità. Non per porre fine alla Seconda Guerra mondiale, come dice la storia ufficiale, ma soprattutto per dimostrare ai Sovietici e al resto del mondo la superiorità militare degli Stati Uniti.
Quando, nel 1951, il Generale in Capo dell’Esercito degli Stati Uniti Douglas MacArthur, durante la Guerra di Corea (1950 – 1953), minacciò di bombardare la Cina con armi nucleari, il Presidente degli Stati Uniti Harry Truman lo rimosse dal suo incarico. Il gioco era cambiato. L’Unione Sovietica possedeva armi nucleari dal 1949… Una guerra nucleare fu evitata. Fu l’inizio dell’equilibrio del terrore in cui viviamo tuttora…
Jean Pestiau e Véronique Coteur
Note:
1. Leggi per esempio Pierre Piérart e Wies Jespers, D’Hiroshima à Sarajevo, EPO, 1995. Oppure Jacques Pauwels, Le mythe de la bonne guerre, Aden, 2017.
2 La prima bomba atomica lanciata su Hiroshima, una bomba all’uranio -235. Aveva una potenza equivalente a 15 kilotoni di TNT (cioè 15 000 bombe convenzionali grandi).
Segui i soldi: come la Russia aggirerà la guerra economica occidentale
Gli Stati Uniti e l’UE stanno esagerando con le sanzioni russe. Il risultato finale potrebbe essere la de-dollarizzazione dell’economia globale e la massiccia carenza di materie prime in tutto il mondo.
Di Pepe Escobar per The Cradle
Quindi una congregazione di pezzi grossi della NATO nascosti nelle loro casse di risonanza mediatiche prende di mira la Banca Centrale russa con sanzioni e si aspetta cosa? Biscottini?
Quello che invece hanno ottenuto sono state le forze di deterrenza russe portate a “uno speciale regime di servizio” – il ché comporta che le flotte del Nord e del Pacifico, il comando dell’aviazione a lungo raggio, i bombardieri strategici e l’intero apparato nucleare russo siano tutti quanti in stato massima allerta.
Un generale del Pentagono ha fatto molto rapidamente i calcoli di base su ciò appena avvenuto, e solo pochi minuti dopo, una delegazione ucraina è stata inviata a condurre negoziati con la Russia in una località segreta a Gomel, in Bielorussia.
Nel frattempo, nei regni vassalli, il governo tedesco era impegnato a “porre limiti ai guerrafondai come Putin” – un impegno piuttosto grande considerando che Berlino non ha mai posto tali limiti per i guerrafondai occidentali che hanno bombardato la Jugoslavia, invaso l’Irak o distrutto la Libia in completa violazione della legge internazionale.
Pur proclamando apertamente il loro desiderio di “fermare lo sviluppo dell’industria russa”, danneggiare la sua economia e “rovinare la Russia” – facendo eco agli editti americani su Irak, Iran, Siria, Libia, Cuba, Venezuela e altri nel Sud del mondo – i tedeschi possibilmente potrebbero non riconoscere un nuovo imperativo categorico.
Finalmente sono stati liberati dal loro complesso di responsabilità della Seconda Guerra Mondiale nientemeno che dal presidente russo Vladimir Putin. La Germania è finalmente libera di sostenere e armare di nuovo i neonazisti – ora nella varietà del battaglione ucraino Azov.
Per capire in che modo queste sanzioni della NATO “rovineranno la Russia”, ho chiesto la succinta analisi di una delle menti economiche più competenti del pianeta, Michael Hudson, autore, tra gli altri, di un’edizione rivista dell’imperdibile Super-imperialismo: la strategia economica dell’impero americano .
Hudson ha osservato come sia “semplicemente agghiacciato dall’escalation quasi atomica degli Stati Uniti”. Sulla confisca delle riserve estere russe e sulla chiusura per la Russia dal sistema di pagamenti internazionali SWIFT, il punto principale è che “ci vorrà del tempo prima che la Russia introduca un nuovo sistema con la Cina. Il risultato porrà fine alla dollarizzazione per sempre, poiché i Paesi minacciati di “democrazia” o che mostrano indipendenza diplomatica avranno paura a usare le banche statunitensi”.
Questo, secondo Hudson, ci porta alla “grande domanda: se l’Europa e il gruppo dei Paesi del dollaro potranno ancora acquistare materie prime russe – cobalto, palladio, ecc. e se la Cina si unirà alla Russia nell’embargo di questi minerali”.
Hudson è fermamente convinto che “la Banca Centrale russa, ovviamente, ha attività bancarie estere per intervenire sui mercati valutari per difendere la sua valuta dalle fluttuazioni. Il rublo è precipitato. Ci saranno nuovi tassi di cambio. Eppure spetta alla Russia decidere se vendere il proprio grano all’Asia occidentale, che ne ha bisogno; o smettere di vendere gas all’Europa attraverso l’Ucraina, ora che gli Stati Uniti possono prenderlo”.
Sulla possibile introduzione di un nuovo sistema di pagamento Russia-Cina aggirando il sistema SWIFT e combinando il sistema russo SPFS (System for Transfer of Financial Messages) con il sistema cinese CIPS (Cross-Border Interbank Payment System), Hudson non ha dubbi “il sistema russo-cinese sarà implementato. Il Sud del mondo cercherà di unirsi e allo stesso tempo manterrà il sistema SWIFT, spostando le proprie riserve nel nuovo sistema”.
Ho intenzione di de-dollarizzare me stesso
Quindi, gli stessi Stati Uniti, con un altro enorme errore strategico, accelereranno la de-dollarizzazione. Come ha detto al Global Times l’amministratore delegato di Bocom International, Hong Hao, con la de-dollarizzazione del commercio energetico tra Europa e Russia “sarà l’inizio della disintegrazione dell’egemonia del dollaro”.
È un ritornello che l’amministrazione statunitense stava sentendo tranquillamente la scorsa settimana da alcune delle sue più grandi banche multinazionali, incluse banche degne di nota come JPMorgan e Citigroup.
Un articolo di Bloomberg riassume le loro paure collettive:
“L’allontanamento della Russia dal sistema globale critico – che gestisce 42 milioni di messaggi al giorno e che funge da ancora di salvezza per alcune delle più grandi istituzioni finanziarie del mondo – sarebbe controproducente, aumenterebbe l’inflazione, spingendo la Russia più vicino alla Cina, e metterebbe al riparo le transazioni finanziarie dal controllo dell’Occidente. Potrebbe anche incoraggiare lo sviluppo di un’alternativa allo SWIFT, che potrebbe, alla fine, danneggiare la supremazia del dollaro USA”.
Coloro che hanno un quoziente di intelligenza superiore a 50 nell’Unione Europea devono aver capito che la Russia semplicemente non può essere totalmente esclusa da SWIFT, ma forse solo alcune delle sue banche: dopotutto, i trader europei dipendono dall’energia russa.
Dal punto di vista di Mosca, questo è un problema minore. Diverse banche russe sono già collegate al sistema CIPS cinese. Ad esempio, se qualcuno vuole acquistare petrolio e gas russo con CIPS, il pagamento deve essere nella valuta cinese yuan. CIPS è indipendente dal sistema SWIFT.
Inoltre, Mosca ha già collegato il suo sistema di pagamento SPFS non solo alla Cina, ma anche all’India e ai Paesi membri dell’Unione Economica Eurasiatica. SPFS si collega già a circa 400 banche.
Con sempre più società russe che utilizzano i sistemi SPFS e CIPS, anche prima della loro fusione, ed altre manovre per aggirare il sistema SWIFT, come l’utilizzo del baratto – ampiamente utilizzato dal sanzionato Iran – e con le banche agenti, la Russia potrebbe compensare almeno il 50% delle perdite commerciali.
Il fatto chiave è che la fuga dal sistema finanziario occidentale dominato dagli Stati Uniti è ora irreversibile in tutta l’Eurasia e ciò procederà di pari passo con l’internazionalizzazione dello yuan.
La Russia ha la sua valigetta di trucchi
Nel frattempo, non stiamo neanche ancora parlando delle ritorsioni russe per queste sanzioni. L’ex presidente Dmitry Medvedev ha già dato un accenno: tutto, dall’abbandono di tutti gli accordi sulle armi nucleari con gli Stati Uniti al congelamento dei beni delle aziende occidentali in Russia, è sul tavolo.
Allora, cosa vuole “L’impero delle Menzogne”? (Termine putiniano, dalla riunione di lunedì 28 febbraio a Mosca per discutere la risposta alle sanzioni).
In un articolo pubblicato questa mattina, deliziosamente intitolato L’America sconfigge la Germania per la terza volta in un secolo: MIC, OGAM e FIRE conquistano la NATO, Michael Hudson tocca una serie di punti cruciali, a cominciare da come “la NATO è diventata l’entità che detta la politica estera dell’Europa, fino al punto di dominare gli interessi economici interni”.
Hudson delinea le tre oligarchie che controllano la politica estera degli Stati Uniti.
La prima di queste tre oligarchie è il complesso militare-industriale, che Ray McGovern coniò in modo memorabile come MICIMATT (Military Industrial Congressional Intelligence Media Academia Think Tank). Hudson definisce la sua base economica come “rendita monopolistica, ottenuta soprattutto dalla vendita di armi alla NATO, agli esportatori di petrolio dell’Asia occidentale e ad altri Paesi con un surplus di bilancia dei pagamenti”.
La seconda è il settore petrolifero e del gas, affiancato da quello minerario (OGAM: Oil Gas Mineral). Il suo scopo è “massimizzare il prezzo dell’energia e delle materie prime in modo da massimizzare la rendita delle risorse naturali. Il monopolio del mercato petrolifero dell’area del dollaro e l’isolamento dal petrolio e dal gas russi è stata una delle principali priorità degli Stati Uniti da oltre un anno, poiché l’oleodotto Nord Stream 2 dalla Russia alla Germania minacciava di collegare insieme l’economia dell’Europa occidentale e quella russa”.
La terza ed ultima oligarchia è il settore “simbiotico” finanziario, assicurativo e immobiliare (FIRE: Finance, Insurance Real Estate), che Hudson definisce “la controparte della vecchia aristocrazia fondiaria post-feudale europea che vive di rendite fondiarie”.
Mentre descrive questi tre settori di portatori di rendite che dominano completamente il capitalismo finanziario postindustriale nel cuore del sistema occidentale, Hudson osserva che “Wall Street è sempre stata strettamente fusa con l’industria del petrolio e del gas (ovvero conglomerati bancari quali ad esempio Citigroup e Chase Manhattan).”
Hudson mostra come “l’obiettivo strategico più urgente degli Stati Uniti nel confronto della NATO con la Russia è l’impennata dei prezzi del petrolio e del gas. Oltre a creare profitti e guadagni sul mercato azionario per le società statunitensi, l’aumento dei prezzi dell’energia sottrarrà gran parte del vigore all’economia tedesca”.
Egli avverte come i prezzi dei generi alimentari aumenteranno “guidati dal grano”. (La Russia e l’Ucraina rappresentano il 25% delle esportazioni mondiali di grano.) Dal punto di vista del Sud del mondo, è un disastro: “Questo metterà in difficoltà molti Paesi dell’Asia occidentale e del Sud del mondo carenti di cibo, peggiorando la loro bilancia dei pagamenti e minacciando l’insolvenza del debito estero.”
Per quanto riguarda il blocco delle esportazioni di materie prime russe, “esso minaccia di causare interruzioni nelle catene di approvvigionamento di materiali chiave, inclusi cobalto, palladio, nichel, alluminio”.
E questo ci porta, ancora una volta, al cuore della questione: “Il sogno a lungo termine dei nuovi guerrieri statunitensi della nuova Guerra Fredda è quello di smantellare la Russia, o almeno ripristinare la sua cleptocrazia manageriale cercando di incassare le loro privatizzazioni nei mercati azionari occidentali.
Ciò non succederà. Hudson vede chiaramente come “la più enorme conseguenza involontaria della politica estera statunitense sia stata quella di guidare insieme Russia e Cina, insieme a Iran, l’Asia centrale e i Paesi lungo la Nuova Via della Seta”.
Confischiamo un po’ di tecnologia
Ora confrontate quanto sopra con la prospettiva di un magnate degli affari dell’Europa centrale con vasti interessi, ad est ed ovest, e che fa tesoro della sua discrezione.
In uno scambio di e-mail, il magnate degli affari ha espresso seri dubbi sul possibile sostegno della Banca Centrale russa alla propria valuta nazionale, il rublo, “che secondo la pianificazione statunitense viene ad essere distrutta dall’Occidente attraverso sanzioni e branchi di lupi nel settore delle valute che si stanno esponendo vendendo rubli allo scoperto. Non c’è davvero quasi nessuna somma di denaro che possa battere i manipolatori del dollaro contro il rublo. Un tasso di interesse del 20 per cento ucciderebbe inutilmente l’economia russa”.
L’uomo d’affari sostiene che l’effetto principale dell’aumento dei tassi “sarebbe quello di disincentivare le importazioni non necessarie. La caduta del rublo è quindi favorevole alla Russia in termini di autosufficienza. Con l’aumento dei prezzi all’importazione, questi beni dovrebbero iniziare ad essere prodotti a livello nazionale. [Fossi al loro posto] lascerei semplicemente cadere il rublo, fino a fargli raggiungere il proprio livello, che sarà per un po’ più basso di quanto le forze naturali consentirebbero, poiché, in questa guerra economica contro la Russia, gli Stati Uniti lo porteranno al ribasso attraverso le sanzioni e la manipolazione delle vendite allo scoperto”.
Ma questo sembra raccontare solo una parte della storia. Probabilmente, l’arma letale nell’arsenale di risposte della Russia è stata individuata dal capo del Centro per le Ricerche Economiche dell’Istituto di Globalizzazione e Movimenti Sociali (IGSO), Vasily Koltashov: la chiave è confiscare la tecnologia – come può accadere se la Russia cessa di riconoscere i diritti statunitensi sui brevetti.
In quella che definisce “proprietà intellettuale americana liberatrice”, Koltashov chiede l’approvazione di una legge russa sugli “Stati amici e ostili” [cosa già avvenuta – n.d.c.]. Se un Paese risulta essere nella lista ostile, allora possiamo iniziare a copiare le sue tecnologie nei settori farmaceutico, industriale, manifatturiero, elettronico, medico. Può essere qualsiasi cosa, dai semplici dettagli alle composizioni chimiche”. Ciò richiederebbe emendamenti alla Costituzione russa.
Koltashov sostiene che “una delle basi del successo dell’industria americana è stata la copia di brevetti stranieri per invenzioni”. Ora, la Russia potrebbe utilizzare “l’ampio know-how della Cina con i suoi ultimi processi produttivi tecnologici per copiare i prodotti occidentali: il rilascio della proprietà intellettuale americana causerà un danno agli Stati Uniti per un importo di 10 trilioni di dollari, solo nella prima fase. Sarà un disastro per loro”.
Allo stato attuale, si stenta a credere alla stupidità strategica dell’UE. La Cina è pronta ad accaparrarsi tutte le risorse naturali russe, con l’Europa ridotta a pietoso relitto, preda di speculatori selvaggi. Sembra che ci sia una divisione totale tra UE e Russia, con pochi scambi rimasti e zero diplomazia.
Ora ascoltate il rumore delle bottiglie di champagne che vengono stappate in tutto il MICIMATT.
(Traduzione a cura della redazione)
L’impero nascosto
“Gli Stati Uniti non sono, oggi, un impero simile ai precedenti storici, da quello romano a quello britannico. E quando gli si sono avvicinati hanno comunque seguito modelli acquisitivi ed espansionistici diversi, mostra Immerwahr. Di quello britannico, però, hanno adottato la giustificazione razziale, sposandola con quella Provvidenziale. A fine Ottocento, ne davano testimonianza le parole dello storico e senatore Albert Beveridge, per il quale era stato Dio stesso a gettare “su questo suolo il seme di un popolo forte… una razza conquistatrice… Un popolo imperiale per virtù della sua forza, per diritto delle sue istituzioni, per autorità dei suoi disegni ispirati dal cielo, un popolo che dona la libertà, che non vuole tenersela per sé”. Era il 1898, l’anno in cui gli Stati Uniti annettevano le Hawaii e sconfiggevano la Spagna a Cuba e a Manila, prendendole le Filippine e Guam, Puerto Rico e le Virgin Islands. Subito dopo si sarebbero presi anche la loro parte dell’arcipelago di Samoa. Oceano Pacifico e Caraibi.
È da lì che inizia davvero il libro di Immerwahr ed emerge la sua rilevanza.
(…) Il libro tratta più estesamente la vicenda delle Filippine. Caso più importante e controverso degli altri sia per la loro importanza economica, sia per la densità della loro popolazione, sia per il succedersi dei drammatici passaggi di mano tra Spagna, Stati Uniti, Giappone e di nuovo Stati Uniti nel corso del primo Novecento. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, dopo la conquista giapponese e i bombardamenti statunitensi, tra il 20 e 25 per cento degli edifici risultò distrutto o danneggiato e le vittime furono più di 1,6 milioni. Sebbene la guerra nelle Filippine sia stata “di gran lunga l’evento più distruttivo mai avvenuto sul territorio statunitense”, essa compare raramente nei testi di storia, conclude Immerwahr. Manila era stata anche, però, oggetto di ripetute promesse di indipendenza, prima della guerra. E avendo i Giapponesi concesso l’indipendenza durante la loro occupazione, gli Stati Uniti non potevano fare marcia indietro. Le Filippine divennero indipendenti nel 1946.
Prese forma allora, grazie all’egemonia militare, economica e politica acquisita dagli Stati Uniti con la guerra (e grazie alla Guerra Fredda), la struttura finale, attuale, dell’impero. Immerwahr lo chiama “impero puntillista”: non macchie di colore – come il rosso britannico sulle carte geografiche – distribuite su tutto il globo e collegate tra loro da un’unica rete di cavi per le comunicazioni interimperiali, ma una rete di punti sparpagliati nei luoghi strategici e sempre più collegati tra loro via etere. Durante la guerra, gli Stati Uniti “possedevano la cifra sconvolgente di trentamila impianti su duemila basi oltremare”. Dopo, se da una parte i movimenti anti-imperialisti impedirono a chiunque anche solo di immaginare la possibilità di acquisire nuove colonie, dall’altra, fu proprio quella presenza diffusa a suggerire i nuovi modi per “proiettare potere in tutto il pianeta”. Non nuovi “possedimenti”, dunque, ma egemonia economico-militare (e, non trascurabile, linguistico-culturale), accordi e trattati, basi militari in territori propri oppure in nazioni ospitanti, con estensioni, autonomie ed extraterritorialità diseguali. E certo, sempre, anche guerra; anch’essa però combattuta in modi diversi dal passato.
Le basi in casa altrui possono essere un problema. Tre esempi. Non lo costituisce la più nota, Guantanamo, nonostante sia da oltre cent’anni una enclave ritagliata per contratto sulla costa di una Cuba nel frattempo uscita dall’orbita statunitense. Differenti invece sono i casi della base di Okinawa, dove i militari statunitensi hanno suscitato nel corso dei decenni tensioni sempre più forti con la popolazione locale e con il Giappone, e delle impreviste conseguenze del mantenimento delle basi in Arabia Saudita dopo la fine della guerra irachena del 1990-91. Come è noto, la presenza militare statunitense è stata più volte indicata come prima responsabile dell’organizzazione di al-Qaida e dei vendicativi attentati del settembre 2001 negli Stati Uniti. E delle guerre che l’impero ha combattuto in Asia dopo il 2001.
“Prigioni straniere, zone recintate, basi nascoste, isole-colonie, stazioni GPS, attacchi mirati, reti, aerei e droni: sono questi”, scrive Immerwahr, “i luoghi e gli strumenti della guerra al terrore ancora in corso. Questa è la forma attuale del potere. Questo è il mondo creato dagli Stati Uniti”. I possedimenti oltremare, siano esse le sperdute isolette del Pacifico o le basi possedute o affittate in Paesi terzi, sono essenziali per l’esistenza dell’impero; sono, per così dire, l’assistente non dichiarato che siede accanto ai politici statunitensi quando discutono, minacciano, trattano con i loro simili. Gran Bretagna e Francia, riassume Immerwahr, hanno complessivamente tredici basi all’estero; la Russia ne ha nove e altri Paesi ne hanno una: sono una trentina le basi non appartenenti agli Stati Uniti. Invece gli Stati Uniti, oggi, “ne possiedono circa ottocento, e ci sono accordi che consentono loro l’accesso a ulteriori zone straniere. Quelli che si rifiutano di farlo ne sono comunque circondati. I Grandi Stati Uniti, in altre parole, sono i vicini di casa di tutti”. Molti Statunitensi non lo sanno e tanti, tra i “vicini”, neppure. In condizioni normali l’impero si mantiene sotto traccia, nel logo non compare.”
Da Stati Uniti: l’impero nascosto, di Bruno Cartosio.
Vinti ma di sicuro non peggiori dei vincitori
“Il 27 gennaio ultimo scorso, data dell’arrivo dell’Armata Rossa ai cancelli di Auschwitz, si è celebrato, come ogni anno, con grandissima partecipazione di congiunti, sopravvissuti, media e autorità, il “Giorno della Memoria”. Il 10 febbraio, poi, ci si è accapigliati sul “Giorno del Ricordo”, quello delle Foibe, nelle quali un sacco di strabici, dal Quirinale in giù, vogliono vedere sepolte solo vittime di Tito fiumane o triestine. Infine, Il 14 febbraio i fidanzati, gli sposi ancora in buona, gli amanti ancora entusiasti, si sono fatti gli auguri e i pensierini di San Valentino. Per il “Giorno della Rimembranza” che qui, seduta stante, proclamo e inauguro, siccome sono solo e resteremo pochini, voglio rifarmi a San Valentino, interpretata come giornata di chi si vuole bene.
A sfida delle zanne dei morsicatori del pensiero non unico, anzi, controverso, dichiaro che, insieme all’Italia, della quale mi auguro la difesa dell’identità millenaria e il ricupero della sovranità popolare e nazionale, voglio molto bene alla Germania, per la quale formulo gli stessi auguri. E’ in massima parte a questo paese, vindice, insieme ad altre nazioni, della grande civiltà europea (tagliando via guerre e colonialismi), terra di pensatori senza uguali, esploratori dell’animo umano, terra di grandi foreste integre e di grandi fiumi andati a fare le vene d’Europa, che dedico il “Giorno della Rimembranza”. Se non altro perché è il giorno dei vinti e, di conseguenza, non se lo fila nessuno. E’ a dispetto di questo cielo di soli artificiali, che vanno sostituendo quello naturale e la sua giusta luce, che certe storie, certi crimini, certe sofferenze, vanno ricuperate, riscritte, scolpite nella Storia accanto a quelle accettate e consacrate. Non sempre a ragione. Con almeno uguale dignità. E i negazionisti, quelli che negano il diritto a studiare, rivedere e riscrivere la Storia, peste li colga.
Il mio “Giorno della Rimembranza”, coincide – guarda il caso! – con le 48 ore, dal 13 al 14 febbraio 1945, in cui migliaia di carnefici in volo, della RAF e dell’USAAF, spediti da Churchill, hanno cancellato dalla faccia della Terra Dresda, il più prezioso gioiello barocco d’Europa. E poi anche Lipsia e Berlino e Amburgo e Monaco…. Forse questo mio “Giorno della Rimembranza” è balenato anche a quelli che recentemente in Germania Est, belli o brutti che fossero, non hanno votato come si converrebbe. Come sarebbe andata bene alle signore e ai signori del vero e del giusto, dei sacrosanti giorni della memoria e del ricordo, dalla Merkel alla Von der Leyen, da Macron a Mattarella, da Stoltenberg (NATO) al “manifesto”. E, dunque, senza nemmeno andare a vedere cosa dicono e cosa vogliono, e perché siano tanti e crescano, e per quali regioni detestino il governo che li ha annessi e colonizzati, questi depravati sono stati sotterrati sotto una slavina di “fascisti”, “neonazisti”, “razzisti”.
Io mi riservo di studiare chi e perché stia vincendo elezioni in Germania Est, mentre ho già un’ideuzza del perché vadano scemando i voti operai e proletari di SPD e CDU, forze di un capitalismo cannibale nei confronti dei propri fratelli, anche se meno esplosivo e incendiario degli aerei alleati. Forze predatrici che di una DDR, in cui nessuno aveva troppo e nessuno troppo poco, hanno distrutto, rubato, devastato tutto e quel che restava l’hanno portato via. Proprio come certi compari dall’URSS-Russia al tempo di Eltsin.
Detto questo per placare eventuali indignazioni, spiego perché alla Germania, ai tedeschi voglio bene. Non è questione di sangue. Miei avi paterni della Savoia e materni di origine francese ugonotta, poi trapiantati sul Reno, non c’entrano niente. C’entra che io, al tempo di Dresda immolata, insieme a centinaia di città, paesi, borghi, in Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, con una potenza di fuoco e di esplosivo ad altissimo potenziale, mai visto in nessuna guerra, da quelle parti c’ero. Piccolino, ma c’ero, vedevo, capivo. Mio padre era sotto le armi e fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’8 settembre. Il resto della famiglia, madre, sorella, io, era scampata nelle Alpi Bavaresi dai bombardamenti su Napoli. Anche per stare vicino a mio padre, detenuto a Wiesbaden. Ma gli Italiani erano passati da mercenari di Hitler, a mercenari di Churchill e Roosevelt. Perdemmo lo stato di alleati e assumemmo quello di nemici. E fummo costretti al domicilio coatto, poi molto alleggerito. Mio padre fu rilasciato dopo nove mesi di agiata prigionia in un hotel di Wiesbaden e rimandato in Italia. Noi no.
(…)
Con 11 anni, a Dresda non c’ero. Ma ne ho assaporato la carne bruciata. Più o meno negli stessi giorni, sul paese dove eravamo stati confinati, calavano gli Spitfire a mitragliare la gente. Di soldati non ce n’erano più. Raccoglievamo nei campi le loro armi abbandonate. E neanche di uomini tra i 14 e i 65 anni. Tutti richiamati per l’estrema, assurda, difesa, noi bambini delle Medie facevamo da Protezione Civile: a secchiate spegnavamo gli incendi e a braccia raccoglievamo feriti e morti. Così anche, nell’insediamento di baracche tirate su per i rifugiati dalle bombe su Duesseldorf e mitragliate pochi minuti prima, un mio compagno di classe di 11 anni. Col ventre squarciato e gli occhi spalancati sul cielo. Un altro mio compagno volò in cielo col ponte sul Meno fatto saltare da uno scellerato comandante tedesco in ritirata.
Questo “Giorno della Rimembranza” per civili tedeschi senza lapidi e senza onoranze vale anche per tutte le altre città tedesche, perlopiù, come Dresda, completamente prive di significato e presenza militare. Non si trattava di distruggere una Wehrmacht ormai allo sbando. Io, in molte di quelle altre città sono capitato mentre venivano rase al suolo dagli esplosivi, o rese macabri scheletri dalle bombe incendiarie. Non avremmo mai più rivisto il gotico, il neoclassico, il Biedermeyer, il rococò, il liberty, di Francoforte, Magonza, Koblenza, Colonia, Monaco, Wuerzburg, quella con la reggia affrescata dal Tiepolo. La Germania raccontata da Goethe, E.T.A Hoffmann, Brentano, Heine…non l’avrebbe più vista nessuno. Vedevamo le bombe scendere a grappolo, a stormi, a migliaia. Mia madre evitava i rifugi: “Meglio morire all’aria aperta, piuttosto che lì sotto, come topi”. E dopo ogni bombardamento ci trascinava via, verso luoghi “più sicuri”, che poi non lo erano. Ricordo una strada in centro, pochi minuti dopo che la sirena aveva suonato il cessato allarme. Era attraversata da voragini e fiancheggiata da macerie, palazzi con finestre che parevano gli occhi vuoti delle maschere greche, ancora fiamme qua e là ad arrossare interni, cavalli con le pance squarciate al lato della strada, sempre con quegli occhi enormi, vivi, che non capiscono.
(…) Prendevo lezioni private di Inglese da un giovane ebreo, si chiamava Ludwig Haas. Era sempre preoccupato, si muoveva con circospezione, ma nessuno nel paese gli ha mai torto un capello. Lo coprivano. Altrove era diverso, si sa. Avevamo la tessera annonaria, come tutti, ma quella per stranieri, più avara, da mera sopravvivenza. Mia madre ci portava in campagna a scambiare un suo vestito di seta con due panetti di burro e sei uova. Si friggeva con i resti del surrogato di caffè. Si mangiavano ortiche colte al lato della strada. Il calo delle difese immunitarie causava epidemie. Il tifo lo presi anch’io, come tanti, anche nei campi di concentramento. Mi salvai perché gli Americani, a fine 1946, dopo averci trattenuti per oltre un anno, sempre in regime di fame, più qualche chewing gum (che io mi rifiutavo di accettare dai GIs), perché, stranamente, considerati non badogliani, ma mussoliniani, finalmente ci permisero di rimpatriare.
Ma la gente del posto ci diede un’abitazione per pochissimi soldi. Un imprenditore del mobile ce la arredò gratis. I libri di scuola mi venivano regalati da compagni più avanti. Con qualcuno mi picchiai perché mi urlavano dietro “Badoglio!” Ma c’era tanta amicizia ed escursioni nei boschi e sul fiume. Le secche zitelle verduraie vicino a casa mia ci regalavano pomodori e cetrioli e mi insegnarono a coltivarli in un pezzetto del loro vivaio. La panettiera, grande, grossa, rubizza e tenera, ci dava sempre qualche panino in più, oltre la tessera annonaria. Così il salumiere dei Wuerstel. E il lattaio, un po’ matto, finchè ce n’era. Poi se lo portò via il “Volkssturm”, l’ultima chiamata alle armi, dei vecchi e dei ragazzini. Il mio “Giorno della Rimembranza” lo dedico anche a questi miei “concittadini”. Vittime, come tutti noi. E vinti. Ma di sicuro non peggiori dei vincitori.”
Da Mi faccio il “Giorno della Rimembranza”. Il giorno della memoria dei vincitori, 365 giorni dell’oblio dei vinti, di Fulvio Grimaldi.
Trump e i guerrafondai della NATO proclamano la pace
Finian Cunningham per rt.com
Durante la ricorrenza del 75° anniversario dell’assalto degli Alleati alla Francia occupata dai nazisti, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e gli altri leader della NATO hanno emesso un “Proclama del D-Day”. In suo nome, si sono impegnati a “non ripetere mai più l’orrore della seconda guerra mondiale”.
Gli Stati Uniti e altre 15 nazioni, tra cui Gran Bretagna, Francia e Canada, hanno anche dichiarato il loro impegno a “risolvere pacificamente le tensioni internazionali”.
Se il cosiddetto annuncio del D-Day suona come un carico di sciocchezze, è perché lo è.
Appare evidente che sia stato frettolosamente messo insieme a scopo rasserenante mentre Trump e gli altri commemoravano l’Operazione Overlord al suono di una banda di ottoni dell’esercito e l’inno dei tempi della guerra di Vera Lynn “We’ll meet again”. I nobili sacrifici di soldati e civili nella sconfitta del nazifascismo avrebbero dovuto ricevere qualche segno di decoro sotto forma di un proclama di pace, così sembra.
Tuttavia, la proclamazione di Trump e della sua banda di guerrafondai della NATO deve essere considerata nient’altro che una cinica adesione di facciata. Continua a leggere
I conti con il presente
Le immagini, il linguaggio e i concetti espressi dalla politica oggi ci rimandano alla figura e all’intelligenza di un incrocio fra lo zotico e lo scemo del villaggio.
Una realtà che spiega il bene il successo che hanno certi personaggi fra i lazzaroni del Sud e le plebi del Nord che in essi si riconoscono.
In una società involgarita, incattivita e rincretinita la pretesa, affermata in sede politica e governativa, che in questo Paese i conti con il passato si possano chiudere arrestando qualche decina di latitanti non trova opposizione.
Eppure, sono tanti fra storici, giornalisti e magistrati che sanno perfettamente che nei Paesi civili i conti con il passato si chiudono non portando in galera quattro gatti a distanza di 40-50 anni dai fatti che li hanno visti protagonisti, bensì ristabilendo la verità su un periodo storico che accanto a reali oppositori del sistema, tutti di sinistra, che hanno agito con le armi ci sono stati tanti terroristi di Stato che hanno operato contro il popolo in nome della difesa dell’Occidente contro il comunismo.
Hanno operato, questi ultimi, negli interessi dello Stato e del regime che non volevano distruggere ma rendere più autoritario, capace cioè di fermare la minaccia rappresentata dall’avanzata elettorale del PCI.
Allo spettacolo grottesco cui stiamo assistendo in questi giorni siamo arrivati con il concorso di tutte le forze politiche dall’estrema sinistra all’estrema destra.
Se il partito politico dell’estrema destra, pur passato dal «neofascismo» all’antifascismo assumendo nuove denominazioni, è obbligato dalla storia a restare inchiodato nella difesa a oltranza di terroristi e stragisti di Stato, i partiti della sinistra lo hanno fatto per la paura di rendersi invisi ai governi americani, israeliani e alla NATO le cui responsabilità nella guerra politica italiana sono a essi ben note.
La convergenza di tutte le forze politiche nell’affermazione della menzogna, in un quadro politico che vede avanzare protettori, complici e difensori di terroristi di Stato e massacratori di innocenti sul piano politico, e conseguente invasione di redazioni giornalistiche e televisive, rende plausibile agli occhi della grande maggioranza degli Italiani ai quali la verità è stata negata e occultata, la pretesa che lo Stato deve fare «giustizia» riportando in carcere gli ultimi latitanti rifugiati all’estero.
Lo Stato e il regime di cui tutti, senza eccezioni, fanno parte, pur dividendosi in governativi e oppositori, vivono nella paura che le verità sul passato emergano.
Pretendono che del passato non si parli più, si rallegrano che i «misteri d’Italia» rimangano tali attribuendone la responsabilità ai «servizi deviati» e alla loggia P2, convinti di poter spiegare tutto con una esplosione di «follia collettiva giovanile» come affermato dall’ex comunista Giorgio Napolitano.
Purtroppo, per la prostituta burocratica che chiamano Stato e per i suoi lenoni politici ci sono persone che ancora oggi si battono perché la verità emerga.
Così, mentre tutti intonavano il canto di vittoria per il ritorno in Italia del latitante Cesare Battisti, esibito come un trofeo per provare la volontà del governo del cambiamento in peggio di chiudere i conti con il passato, l’impegno, il coraggio e l’intelligenza della giornalista Raffaella Fanelli portavano alla luce un depistaggio nelle indagini sull’omicidio del giornalista Mino Pecorelli.
La rabbiosa e scomposta reazione dei pennivendoli televisivi (si sono distinti per infamia i baciapile del TG1) nel riportare la notizia in modo tale che nessuno ha potuto comprendere perché sia stata richiesta la riapertura delle indagini, dimostra il panico di quanti già pregustavano il piacere di affermare che nulla ci sia più da scoprire sulla guerra politica italiana, costretti a prendere atto che ancora c’è moltissimo da portare alla luce su quel passato che chiama in causa lo Stato.
Quel che è peggio per i «velinari» televisivi è che il depistaggio portato alla luce da Raffaella Fanelli non potrà essere attribuito ai servizi segreti «deviati» o alla loggia P2, perché si svolge tutto in ambito giudiziario fra Milano, Roma e Perugia.
Anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si è unito alle richieste di quanti pretendono che i latitanti siano ricondotti in Italia per scontare le loro condanne, mentre avrebbe fatto meglio a ricordare che i killer di suo fratello sono rimasti, fino a oggi, impuniti grazie ai depistaggi posti in essere da uomini dello Stato democratico che lui oggi rappresenta.
Quella che l’ex comunista, ex secessionista, ex anti-meridionalista, oggi nazionalista (per ora) Matteo Salvini e i suoi amici chiedono è vendetta non giustizia.
È la vendetta meschina di coloro che temono l’emergere della verità e l’affermazione di una Giustizia che non è quella della magistratura alla quale si deve tanta ingiustizia, bensì della Storia.
Per questo motivo si affannano a portare in carcere vecchi e malati, persone alle quali questo Stato e questa classe dirigente hanno permesso di rifarsi una vita che oggi vorrebbero stravolgere e distruggere.
Conosciamo questa logica della vendetta a ogni costo, senza limiti di tempo, strumentale perché finalizzata a raggiungere obiettivi politici che nulla hanno a che vedere con la giustizia.
È la stessa logica che ha portato un ufficiale tedesco innocente a morire a cento anni in Italia, agli arresti domiciliari, sacrificato sull’altare della Shoah, e a inutili processi a caporali e sergenti novantenni.
Non è giustizia, è la logica di Norimberga, quella della barbarie che infierisce sui vinti per far dimenticare i propri crimini.
Noi abbiamo un’altra logica, quella della civiltà di Roma, e a essa continuiamo a ispirarci e a restare fedeli.
La conclusione è amara: per fare i conti con il passato dobbiamo prima farli con il presente.
Vincenzo Vinciguerra
Verità e sovranità
Da quando Donald Trump è divenuto presidente degli Stati Uniti, la destra italiana si è riscoperta «sovranista», facendo intendere che vuole difendere la sovranità nazionale senza, però, specificare da chi.
Non lo può dire perché il «sovranismo» è la mera reiterazione dello slogan di Donald Trump, è quindi l’ennesima dimostrazione di sudditanza psicologica e politica della destra nei confronti dell’alleato-padrone.
Invece, la sovranità nazionale è l’obiettivo primo di quanti si propongono di restituire l’Italia agli Italiani è per raggiungerlo l’ostacolo primo da rimuovere è rappresentato dalla politica coloniale degli Stati Uniti nei nostri confronti.
Come può l’Italia riacquistare la propria sovranità nazionale?
In un modo solo: uscire dopo 73 anni dal tunnel della sconfitta militare del 1945.
Sul finire del 2018, possiamo prendere atto che la classe politica dirigente imposta dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale all’Italia sconfitta è quasi scomparsa per un fisiologico ricambio generazionale, così che diviene possibile confrontarsi con la storia nazionale post-bellica.
Non sarà agevole perché non ci sono segnali da parte della classe politica italiana della volontà di percorrere a ritroso il cammino fatto dall’Italia sotto il dominio assoluto degli Stati Uniti per comprendere che siamo ancora una colonia americana.
Si può prendere coscienza di questa amara realtà ristabilendo la verità storica su quanto è accaduto nel nostro Paese perché è dalla sua affermazione che sarà possibile, per tutti gli Italiani, riconoscere che la prima conseguenza della sconfitta militare è stata proprio la perdita della sovranità nazionale, della dignità nazionale, della libertà di tutti e di ognuno a prescindere dallo schieramento ideologico nel quale si sono trovati a militare.
La verità è una sola, senza aggettivi, perché non può esistere una verità giudiziaria, una storica, una politica.
La verità si può raggiungere sia attraverso le indagini su episodi specifici svolte dalla magistratura, sia per mezzo delle ricerche fatte dagli storici ma tocca ai dirigenti politici – i soli che ne hanno i mezzi – la decisione di aprire gli archivi segreti dello Stato e di imporre a ufficiali, funzionari, dirigenti dei vari ministeri chiave (Esteri, Difesa, Interni) e della presidenza del Consiglio di dire quello che sanno.
In questo modo si potrà leggere la storia italiana senza ricorrere ai «distinguo» che la costellano per mantenere separati i fatti come se fossero avulsi dal loro contesto.
Non si possono, difatti, presentare le stragi di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 e quella di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974, come ispirate a una logica diversa da quella di un anticomunismo che si era preposto di utilizzare ogni mezzo per bloccare la lenta ma inesorabile avanzata elettorale del PCI, ritenuto nel 1947 e nel 1974 la «quinta colonna sovietica» in Italia.
Non sarà più possibile non collegare il piano predisposto nel giugno del 1964 per una manifestazione indetta a Roma dalle forze anticomuniste, primo il Movimento Sociale Italiano, destinata a degenerare in sanguinosi incidenti per fornire ai politici del tempo il pretesto per far intervenire le Forze armate e i Carabinieri, con quello poi attuato nel mese di dicembre del 1969 che prevedeva, dopo le stragi del 12 dicembre, una manifestazione missina a Roma con l’identico fine del giugno 1964.
Sappiamo che nell’estate del 1964 fu il generale Giovanni De Lorenzo a opporsi al piano che trova implicita ma chiara conferma nelle parole dette alla moglie al rientro a casa dopo la riunione presso l’abitazione del senatore Tommaso Morlino: «Volevano fare di me un nuovo Bava Beccaris, ma non ci riusciranno».
Nel mese di dicembre del 1969 non sappiamo se, viceversa, c’era un «nuovo» Bava Beccaris perché a vietare le manifestazioni sul territorio nazionale, compresa quella indetta a Roma il 14 dicembre dal MSI, fu il presidente del Consiglio Mariano Rumor.
Sarà anche possibile, finalmente, chiedere conto all’alleato-padrone della morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei, del sabotaggio dell’aereo «Argo 16», della morte del generale Enrico Mino, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, fine all’uccisione del questore Nicola Calipari.
L’affermazione della verità, pertanto, non è fine a se stessa, non è circoscritta alla conoscenza dei nomi di esecutori e mandanti, viceversa è il mezzo più idoneo per riconquistare la sovranità nazionale.
Nelle tragiche pagine della storia italiana post-bellica, difatti, non ci sono responsabilità esclusivamente nazionali ma anche – e soprattutto – internazionali.
L’adesione alla NATO è stata un’operazione liberticida e suicida da parte della classe politica dirigente perché ha vincolato il Paese a una guerra alla quale, restando neutrale, poteva evitare di prendere parte.
Non conosciamo i protocolli segreti, le intese multilaterali e bilaterali stipulate con la potenza egemone e i suoi alleati, ma sappiamo con certezza assoluta che in questo Paese hanno agito con libertà d’azione e con totale impunità tutti i servizi segreti dei Paesi occidentali e che i servizi di sicurezza italiani sono ancora mero strumento di quelli americani.
Una condizione di servaggio che nessuno osa denunciare, che nessuno chiede di modificare perché nessuno osa scrivere la storia per quella che essa è stata.
La storia in Italia non rappresenta un problema politico, non è oggetto di dibattiti parlamentari né di esami sul piano governativo che dovrebbero concludersi con provvedimenti legislativi finalizzati a rivendicare l’indipendenza del Paese.
Nell’Italia dei rinnegati al potere, abbiamo assistito perfino alla richiesta, avanzata dal governo diretto dall’ex comunista Massimo D’Alema a quello americano, di non rendere pubblici i documenti desecretati della CIA sulle elezioni politiche del 1948.
Non risulta che i governi successivi abbiano revocato la richiesta perché temono che emerga la verità sui fatti che risalgono a 70 anni fa.
Non è che un esempio, questo, di tutto quello che hanno fatto nel tempo i governi italiani contro la verità.
Non si può sperare, oggi, che si possa invertire la tendenza quando al governo siedono i rinnegati della Lega Nord complici da un trentennio di ogni infamia perpetrata contro la verità e chi se ne è fatto portatore.
I Salvini passano, l’Italia resta.
Quando l’Italia firmò a Parigi il Trattato di Pace, le campane di tutte le chiese suonarono a morto per segnalare che era un giorno di lutto nazionale.
Può ancora arrivare il giorno in cui potranno suonare a festa per dire agli italiani che hanno ritrovato libertà, indipendenza e sovranità.
Il mezzo c’è e ha un nome breve: verità.
Vincenzo Vinciguerra
Il fascismo inesistente vi seppellirà
Partiamo dal convincimento che la verità sia nel tutto, come Hegel insegna, quindi anche nelle sue necessarie interne contraddizioni.
L’antifascismo, cosi come il neofascismo, prescinde da questo tutto, trasformando il fascismo in un archetipo che è quello che gli altri hanno deciso per lui. Una valutazione unica è doverosa non certo per una volontà riabilitativa, ma soltanto per avere un’arma in più per una corretta interpretazione, non del passato, ma del presente che, stando così le cose, pesa molto di più perché drogato.
Per questo è particolarmente illuminante il significato del termine fascismo così come evocato dagli antifascisti.
Il suo uso prescinde da una valutazione storica, così come da una politica o filosofica, il suo uso non è neanche quello di un semplice aggettivo denigratorio, ma è un investimento per garantirsi sempre il diritto all’ esistenza e alla ragione. Prescinde persino dallo spazio temporale, persino da una prospettiva manichea, come se il fascismo, in quanto Male Assoluto, fosse sempre esistito. Una cloaca comunque da contrapporre alla propria autoreferenzialità. Al suo cospetto, tutto sembra svanire, dal colonialismo, alla tratta degli schiavi, allo sterminio degli Indiani d’America, al genocidio degli abitanti della Tasmania, persino lo sfruttamento sembra così sopportabile dinanzi al fascismo, la “legge bronzea dei salari” di Ricardo finisce per coincidere con una piattaforma per il rinnovo contrattuale.
L’antifascismo diventa l’abito buono che da i super poteri, un mezzo per diventare dei fuoriclasse. Già dei fuori classe, l’antifascismo è così potente da far scomparire non solo Giovanni Gentile, ma anche Karl Marx e Antonio Gramsci.
La gravità di una tale liturgica investitura risiede tutta nell’inautenticità dell’antifascismo.
Ad un primo approccio un sistema del genere, così condiviso da non essere mai messo in discussione più da nessuno, sembrerebbe spianare la via ai suoi utilizzatori, un a priori che equivale a mettersi dalla parte dei buoni, mentre i cattivi, gli altri, dall’altra. Un’illusione di farsi giudice delle regole della vita per “vincere facile”, ma a lungo andare le astrazioni che durano troppo hanno sempre il merito di chiedere il conto ai suoi ciechi sostenitori.
Vediamo qualche particolare.
Fino al 1936, malgrado tutto, al PCI il fascismo, almeno non tutto, non doveva apparire così orrido, visto “L’appello ai fratelli in camicia nera” firmato da sessanta dirigenti del Partito, compreso Togliatti. Nello stesso anno iniziano le purghe staliniane ed i processi ai trotskisti.
Con la guerra di Spagna s’assiste forse al primo tentativo di usare l’antifascismo come fosse un’arma, e questa volta l’uso che se ne fa è senz’altro politico. I compagni anarchici e trotskisti del POUM vengono massacrati perché inspiegabilmente s’erano messi al soldo del fascismo secondo l’accusa. Il format calunnioso, di una sola maschera da mettere in faccia a tutti i nemici, viene sperimentato anche altrove, sempre con buoni risultati. Si trovano infuocate pagine su l’Unità, siamo nel gennaio del 1944, che invitano a schiacciare tutti gli infiltrati, sempre trotskisti, fattisi oramai la V colonna del nazifascismo. Il messaggio probabilmente era rivolto anche al più grande gruppo partigiano di Roma, il Movimento Comunità d’Italia riunito sotto il quotidiano Bandiera Rossa che, cosa da non crederci, era più diffuso de l’Unità. Il gruppo Bandiera Rossa era distante anni luce dal CLN, cosi come dal PCI, in quanto antimonarchico, antibadogliano, ma soprattutto avrebbe voluto non consegnare Roma agli Alleati, ma bensì proclamare “La Repubblica Romana dei Lavoratori”. Stranamente questi compagni, malgrado il loro grandissimo contributo alla resistenza, non appariranno negli annali della epopea dell’ANPI, mentre molti di loro moriranno sotto le provvidenziali raffiche naziste delle Fosse Ardeatine.
Fondamentale è il documento di chiusura della III Internazionale comunista, maggio 1943, in esso scompare esplicitamente il concetto di rivoluzione socialista lasciando il posto alla necessità d’aderire al “blocco antifascista”.
Bordiga, altro fondatore del PCI, ebbe modo d’affermare che la cosa peggiore che aveva prodotto il fascismo era proprio l’antifascismo, il tronfio antifascismo che abbracciava anche l’odiato nemico borghese.
Alla affermazione di Bordiga, gli farà eco più di mezzo secolo dopo, confermando il mortale abbraccio con il nemico di classe, quella di Costanzo Preve quando disse che peggio del fascismo c’era solo l’antifascismo. Tra i due comunisti, solo qualche bagliore di lucidità, primo fra tutti quello di Pier Paolo Pasolini.
L’inautenticità dell’antifascismo risiede nel suo essere antistorico e non contestuale, quindi non un momento antitetico da opporre alla sua affermazione, ma un opporsi che diventa evanescente perché il farlo non contempla il momento della tesi reale e di conseguenza quello del divenire nella sintesi. La sua pretesa di autenticità necessaria passerà allora esclusivamente nel vedere nel qualunque altro, quello fuori da sé, un fascista.
Non si tratta più di un solo uso mistificante del termine, ma questo diventa una piattaforma psudoideologica onnivora, capace per questo di procedere ad un processo di metamorfosi genetica.
La rimozione della missione storica del corpo sociale, sedato dall’antifascismo nel tempo, è stata lenta ma costante, fino ad essere completa. Dallo scambiare il socialismo per un riformismo che nel suo procedere non aveva neanche più il coraggio di nominarlo, fino al rendere inutile tutta la critica marxiana al capitalismo.
Mentre l’orchestrina intonava “Bella Ciao”, si scoprivano nuove icone sovrastrutturali, da Kennedy ad Obama, da Blair a Clinton, da Paolo di Tarso a Papa Francesco, da Macron ad Juncker, dalla troika alla NATO, da Chicco Testa a Vladimir Luxuria.
La globalizzazione diventa l’internazionalismo realizzato, il meticciato è la società senza classi, il consumismo la distribuzione della ricchezza, il precariato altro non è che un’opportunità.
Ed allora, in fase oramai matura, al dogma dell’antifascismo, si può affiancare con orgoglio il dogma del neoliberismo, la tanto agognata lotta per la libertà e la giustizia sociale possono finalmente rispecchiarsi realizzate nelle libertà dei diritti umani e nelle pari opportunità che il mercato a tutti offre.
In conclusione, l’oscenità dell’antifascismo risiede tutta nell’aver abbandonato il Socialismo, foss’anche come sogno raggiungibile del non ancora, appiattendosi invece acriticamente su quest’attimo presuntuoso ritenuto eterno a cui non manca niente. Questo è stato il vero profondo potere di questo antifascismo inautentico, ma anche la sua più grande e indelebile colpa.
Lorenzo Chialastri
[Modificato in data 8/5/2019]
Monaco 1938: strategia franco-britannica per contenere l’URSS
“Ottanta anni fa, il 30 settembre 1938, venne firmato uno dei più famosi documenti diplomatici nella storia dell’umanità, l’accordo di Monaco.
In questo articolo scopriremo come dietro la firma di quell’accordo si celava la strategia franco-britannica, consistente nell’indirizzare l’aggressività di Hitler verso l’Unione Sovietica. Risulterà evidente il motivo per cui questa strategia è praticamente ignorata dai testi di storia delle scuole occidentali. Soffermarci a riflettere sugli eventi di 80 anni fa è utile in questo momento in cui contro la Russia si conduce una implacabile guerra psicologica e continuare ad ignorare quanto accaduto nel recente passato è più che un errore.
La domanda che dobbiamo porci è: chi ha liberato Hitler dalle “catene di Versailles”? La risposta risulterà chiara nel proseguo della lettura: la responsabilità fu della Gran Bretagna e della Francia.
Infatti alla fine della prima guerra mondiale furono firmati i trattati di Versailles e di Saint-Germain in base ai quali la Germania, in quanto potenza sconfitta, veniva privata di tutti i suoi territori e delle colonie, la maggior parte delle quali passavano sotto il dominio inglese, e inoltre gli fu impedito di disporre di un esercito regolare, di un’aviazione e di una marina militare.
A partire dal 1924, violando apertamente il trattato di Versailles, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna diedero piena attuazione al piano Dawes col quale, mediante ingenti investimenti di capitale a breve e a lungo termine da parte dei monopoli americani con a capo le famiglie Du Pont, Morgan, Rockefeller, Lamont ecc., si mirava alla ricostruzione dell’industria pesante tedesca e del suo potenziale bellico-industriale. Tutto ciò era addirittura stato messo nero su bianco nel trattato di Locarno del 1925, di cui Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti furono i promotori, e col quale praticamente si dava via libera alla Germania di riarmarsi.
Con l’ascesa di Hitler al potere nei primi anni trenta l’economia tedesca venne reimpostata sul piede di guerra. L’economista Hjalmar Schacht, banchiere e politico liberale, nonché co-fondatore nel 1918 del “Partito Democratico Tedesco”, diventò il collegamento fra l’industria tedesca e gli investitori stranieri. A quel punto, anche il mondo commerciale e bancario britannico cominciò a canalizzare importanti donazioni verso il partito nazista: il 4 gennaio 1932 Montagu Norman, governatore della Banca d’Inghilterra dal 1920 al 1944, incontrò Hitler e il cancelliere tedesco Franz von Papen, per stringere un accordo segreto volto al finanziamento di quel partito. Alla fatidica riunione erano rappresentati anche gli Stati Uniti, coi fratelli John Dulles, futuro segretario di Stato e suo fratello Allen, futuro direttore della CIA.
Le prime tracce della strategia franco-britannica risultarono già evidenti subito dopo che i nazisti salirono al potere in Germania.”
Accordo di Monaco e la strategia franco-britannica contro l’Unione Sovietica di Luca D’Agostini continua qui.
6 agosto 1945
L’errore principale dell’Occidente
“Viste in Russia, le elezioni sono ben diverse da come le hanno raccontate in Occidente. E’ una barriera culturale quella che impedisce di vedere con più oggettività quanto accade a Mosca: la democrazia russa si esprime nei modi, linguaggi e forme tipiche di una cultura diversa dalla nostra. L’errore principale che l’Occidente commette è quello di voler imporre al popolo russo il proprio punto di vista: dalla caduta del comunismo in poi, l’Occidente, talvolta in maniera inconsapevole, talaltra in maniera deliberata, motivi per urtare la suscettibilità russa non sono mancati e spesso il popolo russo ha sofferto come pesante umiliazione molti passaggi della politica occidentale ad iniziare dall’allargamento dell’ambito di influenza della NATO”. Così all’Adnkronos il presidente del Consiglio regionale del Veneto Roberto Ciambetti, appena rientrato dalla Russia dove ha svolto il ruolo di osservatore per conto dell OSCE commenta le reazioni in Occidente al risultato elettorale.
“Per noi italiani è difficile capire quale sia il sentimento che lega i cittadini alla Grande Madre Russia, immagine che risale all’epoca zarista ma che fu rilanciata dal Comunismo durante la Grande Guerra Patriottica, quella che per noi è la II Guerra Mondiale: me lo ha spiegato l’interprete ricordandomi che il popolo russo ha pagato il prezzo più alto in termini di morti e distruzioni per liberare l’Europa, -spiega Ciambetti- aggiungendomi poi che non c’è stato Piano Marshall per ricostruire il Paese, un Paese rinato con la propria forza e che ha ricostruito la propria identità puntando anche negli ultimi vent’anni a rilanciare il ruolo della Chiesa ortodossa, ruolo importantissimo soprattutto, ma non solo, nelle campagne”.
“Putin ha saputo impersonificare questo processo interpretando il sentimento popolare e il bisogno di vedere riconosciuta l’anima e la ‘grandeur’ russa, che in verità si manifesta non solo nel ricordo di un passato epico, ma anche in un presente altrettanto importante: per le elezioni sono stato oltre che a Mosca anche in Crimea dove il voto a Putin è stato, non casualmente, plebiscitario -sottolinea-. Se l’ISIS ha perso più del 70 per cento del territorio che controllava, se ha visto tagliate le fonti del suo finanziamento, lo si deve anche all’esercito e all’aviazione russa che ha retto il peso della guerra a DAESH.” “Ma non solo: assieme a Cina, India, Brasile e Sud Africa la Russia con Putin ha dato vita al BRICS che chiaramente hanno come collante il risentimento verso l’Occidente, e gli USA in primo luogo, verso le regole e le istituzioni finanziarie globali ad iniziare dal FMI -spiega Ciambetti-. Queste grandi nazioni, che hanno interessi talvolta in conflitto tra loro, condividono l’essere “falchi della sovranità” e la volontà di tenere l’Occidente lontano dai loro affari interni. Non è casuale se USA e Gran Bretagna alimentino accuse contro Mosca o alzino barriere doganali verso la Cina dopo aver imposto sanzioni assurde alla Russia che hanno avuto l’esito da danneggiare la nostra economia: la posta in gioco è alta e in questo gioco i veleni sparsi sulle elezioni rientrano in una strategia di delegittimazione agli occhi dell’opinione pubblica occidentale”.
“Una strategia vissuta a Mosca come una provocazione che ha portato anche i più restii a compattarsi attorno a Putin al momento del voto -continua-. Tuttavia, vista dalla Russia la situazione è molto più delicata di quanto non si possa immaginare o forse di quanto non si capisca in Italia. Faccio solo un esempio: da noi hanno avuta scarsa eco le dichiarazioni del generale russo Sergei Rudskoy, Capo del Dipartimento Operazioni Principali della Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione russa, il quale sabato scorso ha spiegato che “gruppi navali di attacco alleati nel Mediterraneo orientale, Mar Rosso, Golfo Persico si preparano ad un attacco alla Siria. Verrà usato come pretesto un falso attacco chimico”. Un attacco, secondo i Russi, voluto dagli USA a preservare a l’enclave di Ghouta Est, attualmente in buona parte sotto il controllo dell’ISIS, indispensabile per il proseguimento del conflitto siriano e necessaria per impedire che le truppe di Assad, sostenute dai Russi, smantellino la rete jihadista”. “E’ vero, e più volte in queste ore me lo sono ripetuto: in diplomazia e per gli affari esteri non esiste tutto bianco e tutto nero, né si può dividere il mondo in buoni e cattivi pretendendo sempre di stare dalla parte giusta e gli altri tutti dalla parte sbagliata -spiega ancora-. Muoversi per le strade di Mosca come per Simferopoli serve a smontare tanti pregiudizi e aiuta a guardare oltre quella cortina dell’ignoranza che divide parte dell’Occidente dalla Russia e nella quale si possono coltivare tesi assurde. Ad iniziare dalla straordinaria capacità di Putin di influenzare le elezioni negli USA, il referendum Brexit voluto dai conservatori, e persino le elezioni politiche italiane”, conclude Ciambetti.
Portella della Ginestra strage fascista?
“La riflessione prende spunto da un articolo di Simona Zecchi, nel quale la bravissima giornalista ricorda con lucidità e aderenza alla verità la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947.
Simona Zecchi, nel suo articolo, denuncia che a distanza di 70 anni dal fatto, lo Stato italiano non ha ancora reso pubblici tutti i documenti che ad esso si riferiscono.
C’è da aggiungere che è stato un governo italiano di centrosinistra a chiedere a quello americano di non rendere pubblici i documenti della CIA di quel periodo, in particolare quelli riferiti alle elezioni politiche del 1948.
Si devono piangere i morti ma non si deve dire perché sono morti e, soprattutto, chi li ha fatti morire.
La storia di Salvatore Giuliano è quella di un giovane mafioso che è stato usato dalla politica e dalle forze di sicurezza dell’epoca (servizi segreti, carabinieri e polizia) per contenere l’avanzata elettorale dei Partiti comunista e socialista.
La Sicilia e la Sardegna, difatti, dovevano servire come base per l’eventuale riconquista del territorio peninsulare se fosse caduto nelle mani dei comunisti sostenuti dall’Unione Sovietica e dalla Jugoslavia.
Bloccare i comunisti e i socialisti loro alleati in Sicilia non era, quindi, solo un problema politico ma anche militare.
Il compito di controllare il territorio, mantenere l’ordine pubblico, contrastare il comunismo, Alcide De Gasperi in nome dello Stato italiano lo ha affidato, con la benedizione del Vaticano, alla mafia.
Non a caso la prima base della cosiddetta “Gladio” in Sicilia è stata costituita nel 1987. A svolgere il ruolo ed assolvere i compiti dei “gladiatori” in Sicilia fino a quel momento era stato la mafia.
Portella della Ginestra è stata, di conseguenza, la prima strage di Stato compiuta per finalità esclusivamente politiche, a vantaggio della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati.
Questa è la verità.
Non bisogna farsi confondere dal numero degli attori che hanno partecipato ai fatti, perché si rischia di attribuire ad altri le responsabilità che sono esclusivamente governative.
L’ispettore generale di PS Ciro Verdiani, che è stato in contatto con Salvatore Giuliano fino al giorno primo della sua morte per indurlo ad abbandonare la Sicilia e rifugiarsi all’estero, al processo di Viterbo ha dichiarato di aver sempre tenuto informato l’allora ministro degli Interni Mario Scelba.
Non è stato smentito.
Il libro di Casarrubea e Cereghino, giustamente citato da Simone Zecchi, è però fuorviante anche nel titolo, “Lupara nera”, perché attribuisce agli uomini della Decima Mas, considerati “neofascisti”, un ruolo che, se ricoperto, rispondeva alle esigenze di un regime e di uno Stato che erano ormai antifascisti.
È sbagliato considerare tutti coloro che hanno aderito alla Repubblica Sociale Italiana come “fascisti”.
Tanti vi hanno aderito solo perché si trovavano al di qua della Linea Gotica, tanti per opportunismo, tanti per condurre il doppio-gioco, tanti hanno trovato comodo tradire man mano che si delineava la vittoria alleata.
Il reparto della divisione “Decima”, preposto all’addestramento dei sabotatori ed al loro invio dietro le linee alleate, quello di cui avrebbero fatto parte i “gladiatori” ante litteram della Decima, il battaglione “Vega”, era diretto dal capitano di vascello Mario Rossi, imposto al comando dal principe Junio Valerio Borghese, che lavorava per l’OSS e per James Jesus Angleton.
Il 25 aprile 1945, Mario Rossi se ne andò a casa propria, e Genova, e nessuno è mai andato a cercarlo.
Decima o non Decima, lupara rimane bianca, se si vuole affermare la verità.
Spacciare Portella della Ginestra come strage “fascista” vuole dire favorire l’impunità dei mandanti che fascisti non erano.
Prova ne sia che la verità ancora non si conosce per scelta di governi di centro, di centro-destra, di centro-sinistra all’interno dei quali non risulta che abbiano mai ricoperto incarichi fascisti o presunti tali.
Se leggiamo i fatti per come si sono svolti, la tattica tanto cara ai politici italiani dei “chiagne e fotte” non darà più risultati.
E sarà un bene, per i vivi e per i morti.”
Da “Chiagne e fotte” di Vincenzo Vinciguerra.
Intermarium, chi era costui?
“Dopo la guerra combattuta tra la Russia e la Polonia e conclusasi il 18 marzo 1921 col trattato di pace di Riga, il Maresciallo Józef Piłsudski (1867-1935), capo provvisorio del rinato Stato polacco, lanciò l’idea di una federazione di Stati che, estendendosi “tra i mari” Baltico e Nero, in polacco sarebbe stata denominata Międzymorze, in lituano Tarpjūris e in latino, con un neologismo poco all’altezza della tradizione umanistica polacca, Intermarium. La federazione, erede storica della vecchia entità politica polacco-lituana, secondo il progetto iniziale di Piłsudski (1919-1921) avrebbe dovuto comprendere, oltre alla Polonia quale forza egemone, la Lituania, la Bielorussia e l’Ucraina. È evidente che il progetto Intermarium era rivolto sia contro la Germania, alla quale avrebbe impedito di ricostituirsi come potenza imperiale, sia contro la Russia, che secondo il complementare progetto del Maresciallo, denominato “Prometeo”, doveva essere smembrata nelle sue componenti etniche.
Per la Francia il progetto rivestiva un certo interesse, perché avrebbe consentito di bloccare simultaneamente la Germania e la Russia per mezzo di un blocco centro-orientale egemonizzato dalla Polonia. Ma l’appoggio francese non era sufficiente per realizzare il progetto, che venne rimpiazzato dal fragile sistema d’alleanze spazzato via dalla Seconda Guerra Mondiale.
Una più audace variante del progetto Intermarium, elaborata dal Maresciallo tra il 1921 e il 1935, rinunciava all’Ucraina ed alla Bielorussia, ma in compenso si estendeva a Norvegia, Svezia, Danimarca, Estonia, Lettonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia, Jugoslavia ed Italia. I due mari diventavano quattro, poiché al Mar Baltico ed al Mar Nero si venivano ad aggiungere l’Artico e il Mediterraneo. Ma anche questo tentativo fallì e l’unico risultato fu l’alleanza che la Polonia stipulò con la Romania.
L’idea di un’entità geopolitica centroeuropea compresa tra il Mar Baltico e il Mar Nero fu riproposta nei termini di una “Terza Europa” da un collaboratore di Piłsudski, Józef Beck (1894-1944), che nel 1932 assunse la guida della politica estera polacca e concluse un patto d’alleanza con la Romania e l’Ungheria.
Successivamente, durante il secondo conflitto mondiale, il governo polacco di Władisław Sikorski (1881-1943) – in esilio prima a Parigi e poi a Londra – sottopose ai governi cecoslovacco, greco e jugoslavo la prospettiva di un’unione centroeuropea compresa fra il Mar Baltico, il Mar Nero, l’Egeo e l’Adriatico; ma, data l’opposizione sovietica e la renitenza della Cecoslovacchia a federarsi con la Polonia, il piano dovette essere accantonato.
Con la caduta dell’URSS e lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’idea dell’Intermarium ha ripreso vigore, rivestendo forme diverse quali il Consiglio di Cooperazione nel Mar Nero, il Partenariato dell’Est e il Gruppo di Visegrád, meno ambiziose e più ridotte rispetto alle varianti del progetto “classico”.
Ma il sistema di alleanze che più si avvicina allo schema dell’Intermarium è quello teorizzato da Stratfor, il centro studi statunitense fondato da George Friedman, in occasione della crisi ucraina. Da parte sua il generale Frederick Benjamin “Ben” Hodges, comandante dell’esercito statunitense in Europa (decorato con l’Ordine al Merito della Repubblica di Polonia e con l’Ordine della Stella di Romania), ha annunciato un “posizionamento preventivo” (“pre-positioning”) di truppe della NATO in tutta l’area che, a ridosso delle frontiere occidentali della Russia, comprende i territori degli Stati baltici, la Polonia, l’Ucraina, la Romania e la Bulgaria. Dal Baltico al Mar Nero, come nel progetto iniziale di Piłsudski.
Il 6 agosto 2015 il presidente polacco Andrzej Duda ha preconizzato la nascita di un’alleanza regionale esplicitamente ispirata al modello dell’Intermarium. Un anno dopo, dal 2 al 3 luglio 2016, nei locali del Radisson Blue Hotel di Kiev ha avuto luogo, alla presenza del presidente della Rada ucraina Andriy Paruby e del presidente dell’Istituto nazionale per la ricerca strategica Vladimir Gorbulin, nonché di personalità politiche e militari provenienti da varie parti d’Europa, la conferenza inaugurale dell’Intermarium Assistance Group, nel corso della quale è stato presentato il progetto di unione degli Stati compresi tra il Mar Baltico e il Mar Nero.
Nel mese successivo, i due mari erano già diventati tre: il 25-26 agosto 2016 il Forum di Dubrovnik sul tema “Rafforzare l’Europa – Collegare il Nord e il Sud” ha emesso una dichiarazione congiunta in cui è stata presentata l’Iniziativa dei Tre Mari, un piano avente lo scopo di “connettere le economie e infrastrutture dell’Europa centrale e orientale da nord a sud, espandendo la cooperazione nei settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni digitali e in generale dell’economia”. L’Iniziativa dei Tre Mari, concepita dall’amministrazione Obama, il 6 luglio 2017 è stata tenuta a battesimo da Donald Trump in occasione della sua visita a Varsavia. L’Iniziativa, che a detta del presidente Duda nasce da “un nuovo concetto per promuovere l’unità europea”, riunisce dodici paesi compresi tra il Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico e quasi tutti membri dell’Alleanza Atlantica: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Austria, Slovenia, Croazia, Ungheria, Romania, Bulgaria.
Sotto il profilo economico, lo scopo dell’Iniziativa dei Tre Mari consiste nel colpire l’esportazione di gas russo in Europa favorendo le spedizioni di gas naturale liquefatto dall’America: “Un terminale nel porto baltico di Świnoujście, costato circa un miliardo di dollari, permetterà alla Polonia di importare Lng statunitense nella misura di 5 miliardi di metri cubi annui, espandibili a 7,5. Attraverso questo e altri terminali, tra cui uno progettato in Croazia, il gas proveniente dagli USA, o da altri Paesi attraverso compagnie statunitensi, sarà distribuito con appositi gasdotti all’intera ‘regione dei tre mari’” .
Così la macroregione dei tre mari, essendo legata da vincoli energetici, oltre che militari, più a Washington che non a Bruxelles ed a Berlino, spezzerà di fatto l’Unione Europea e, inglobando prima o poi anche l’Ucraina, stringerà ulteriormente il cordone sanitario lungo la linea di confine occidentale della Russia.”
Da Il cordone sanitario atlantico, editoriale di Claudio Mutti del n. 4/2017 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.
L’unica riconciliazione possibile
“Verificata la possibilità di ottenere i voti di poco più di un milione di Italiani che, abbagliati dalla propaganda antifascista, lo vedevano come l’erede del fascismo, il Movimento Sociale Italiano si offre come ruota di scorta della Democrazia Cristiana con i cui attivisti svolge la campagna elettorale della primavera del 1948 con lo slogan “Chi vota DC vota bene, chi vota MSI vota meglio”.
Dopo, più si allontana dai postulati dottrinari ed ideologici del fascismo più s’impegna nel campo attivistico contro il Partito Comunista per rendersi strumento prezioso ed indispensabile dell’alta borghesia e del Vaticano, non trascurando di servire gli interessi degli Stati Uniti e della neo-costituita Alleanza Atlantica.
Si viene, in questo modo, a formare un “neo-fascismo” di propaganda al servizio dell’antifascismo cattolico e liberale al potere.
Già negli anni Cinquanta, il MSI è solo un partito di estrema destra senza più legami ideologici e storici con il fascismo mussoliniano e rivoluzionario che considerava la borghesia la “rovina dell’Italia” e che aveva invitato i propri militanti ad aderire al Partito Socialista di Unità Proletaria di Pietro Nenni.
Del resto, la Democrazia Cristiana guidata dalla gesuitica politica vaticana la sua riconciliazione l’aveva portata avanti, per fini elettoralistici, fin dal febbraio del 1946, quando aveva chiamato alla leva tutti quei giovani che avevano fatto parte delle Forze Armate repubblicane [si intenda Repubblica Sociale Italiana – n.d.r.].
Erano seguiti la fine dell’operazione, il reimpiego dei licenziati, il reintegro nelle Forze Armate di quanti avevano pur giurato fedeltà allo Stato repubblicano, riconoscimenti pensionistici e quanto altro poteva servire per dimostrare che per la Democrazia Cristiana ed i suoi alleati la guerra civile italiana era solo un ricordo.
Lo stesso Movimento Sociale Italiano era ritenuto, giustamente, forza politica di sostegno esterno ai governi democristiani e, forse, sarebbe riuscito perfino ad ottenere qualche sottosegretariato se lo scarso seguito elettorale suo e dei partiti laici non avesse convinto Aldo Moro a varare la politica di centro-sinistra con la benedizione dell’amministrazione Kennedy ed il contributo decisivo della CIA.
Un partito di estrema destra che rappresentava solo sé stesso non poteva rappresentare la controparte fascista all’antifascismo perché era al servizio, anche segreto, delle sue componenti cattoliche e liberali.
Quale conciliazione si sarebbe mai potuta fare con una forza fascista che non esisteva se non nelle manifestazioni esteriori di un partito che ingannava i suoi elettori autorizzando saluti romani e slogan nostalgici alle sue manifestazioni salvo servire gli interessi del potere antifascista?
Una commedia all’italiana, una tragica commedia che ha raggiunto il suo apice con i grotteschi abbracci fra reduci della RSI e delle forze di liberazione nel 1994 quando il pregiudicato Silvio Berlusconi sdoganò il Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale per farne il proprio alleato politico.
Non passarono due anni che tutti i “fascisti” del MSI-DN, a partire dal loro segretario nazionale, Gianfranco Fini, si volsero in antifascisti condannando esplicitamente il fascismo ritenuto il “male assoluto”.
A quel punto, non si comprende con chi gli antifascisti avrebbero potuto riconciliarsi, se non con i sparuti gruppuscoli di estrema destra che ostentavano di restare fedeli al Movimento Sociale Italiano che mai era stato fascista.
In realtà, l’unica riconciliazione possibile in questo Paese sarebbe quella con la storia che andrebbe raccontata secondo verità.
Ma questo non è possibile perché il potere antifascista si regge sulla menzogna.
E per non smentirsi inventa l’esistenza, ancora nel 2017, di temibili gruppi “fascisti” la cui unica attività è quella di presentarsi ogni anno, almeno a Milano, nella parte del cimitero riservata ai caduti della RSI per offenderne la memoria con il saluto romano.
Per il resto dell’anno brigano con La Russa, Alemanno, Meloni, Salvini con i quali devono salvare l’Italia da migranti, zingari e barboni.
Anche le pulci reclamano un palcoscenico saltellando fra i piedi dei Pulcinella e degli Arlecchino nazionali.
Nessuna riconciliazione nazionale, quindi, è mai stata fatta e mai potrà essere fatta in un Paese in cui solo i morti rimangono coerenti: così per i fascisti, così per i comunisti, così per i “terroristi”.
Per i pochissimi che non rinnegano, non ripudiano, non si dissociano rimane la prospettiva consolante di morire in una solitudine orgogliosa, dimenticati nel tempo presente perché mai vinti.
Ed è quello che alla fine conta.”
Da Riconciliazione, di Vincenzo Vinciguerra.
La teoria del gradiente culturale
A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre
“In Europa la promozione del modello liberale in opposizione all’autocrazia e l’affermazione della civiltà in opposizione alla barbarie asiatica hanno dato luogo anche alla teoria del gradiente culturale.
Secondo questa concezione, la civiltà progredirebbe da Occidente a Oriente partendo da un focolaio centrale che sarebbe situato fra Parigi e Londra, e si diffonderebbe in seguito vero Est man mano che si civilizzerebbero i popoli dell’Europa centrale, poi dell’Europa orientale e infine della Russia.
(…) La teoria del gradiente culturale è interessante poiché permette di integrare la Russia nella civiltà europea o escluderla a piacere, a seconda delle circostanze. Quando la Russia diventa utile – e lo diventerà per la Francia nell’ultimo decennio del XIX secolo, per il Regno Unito nel primo decennio del XX e di nuovo durante la Seconda Guerra Mondiale – la si ammetterà nel mondo civile sottolineando, come Leroy-Beaulieu, la sua compatibilità con l’Occidente. Si insisterà allora – come avvenne in tempi più recenti durante il periodo Gorbacëv, e successivamente negli anni 2001-2003 dopo gli attentati del World Trade Center – sull’avvicinamento della Russia agli ideali dell’Occidente, quelli di democrazia pluralista ed economia liberale.
Ma quando la Russia viene percepita come una minaccia – dopo il 1815, il 1917 e il 1945 o dopo che Vladimir Putin riprese in mano l’economia nel 2003 – allora la teoria del gradiente torna utile nell’altro senso in quanto permette di escluderla dalle nazioni civili e rigettarla nella barbarie, ricorrendo a tutto l’arsenale dei consueti cliché: autoritarismo, atavico espansionismo, statalismo, conservatorismo retrogrado.
Non è dunque sorprendente che l’ipotesi dello sviluppo graduale della civiltà secondo un asse Ovest-Est, o Nordovest-Sudest, a partire dalla Rivoluzione Francese non tenga alcun conto dei comportamenti occidentali devianti. La barbarie degli Europei nelle colonie sudamericane, africani e asiatiche, come anche quella del terrore imposto in Cina dagli eserciti coloniali dopo la ribellione dei Boxer nel 1901, non vengono mai menzionate; si tace della barbarie degli Americani contro gli Indiani, o del fatto che l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti avvenne pressapoco nello stesso periodo di quella della servitù della gleba in Russia. Quindi, in quegli anni, da un punto di vista strettamente umano, gli Stati Uniti non erano certo più civili della Russia.
(…) Di fatto, da esplicativa che era ai suoi inizi, la teoria del gradiente culturale è rapidamente divenuta essenzialista: definendo la Russia come in ritardo sui suoi modelli europei occidentali, si reificherà questo ritardo, lo si ipostatizzerà per trasformarlo in un elemento costitutivo e discriminatorio in senso assoluto, seguendo il consueto ragionamento razzista: il russo è barbaro come l’ebreo è avaro, il nero pigro, il musulmano terrorista. Da lì a descrivere la Russia come nemica della civiltà il passo è breve, come la penna degli editorialisti contemporanei ci mostra quotidianamente.
Inoltre questo bisogno di classificare, sistemare, gerarchizzare le diverse società umane, questa ossessione per la tassonomia e il ranking, vanno a colmare l’angoscia così tipicamente occidentale da primo della classe che deve incessantemente verificare di essere in testa alla corsa e di mantenere le distanze dai suoi inseguitori. Dopo l’Illuminismo, l’Occidente ha incessantemente bisogno di rassicurarsi, di provare a sé stesso di essere sempre all’avanguardia del progresso e della civiltà e che i suoi “valori” siano effettivamente universali. E’ il prezzo da pagare per lo spirito di superiorità e la volontà di supremazia. E la Russia, al contempo così vicina e così diversa, è l’ideale metro di paragone.
(…) “Il lettore deve fare lo sforzo di riconoscere che i contadini russi, pur avvolti nelle loro pelli di montone, sono esseri umani come noi”, scriveva l’autore britannico Donald Mackenzie Wallace nel 1877. Centoquarant’anni più tardi le pelli di montone sono scomparse, ma non la mentalità che presenta il Russo come un ritardatario che fatica sempre a inerpicarsi sui gradini dell’economia liberale e della democrazia pluralista, quintessenza dell’avanzata civiltà occidentale.”
Da Russofobia. Mille anni di diffidenza, di Guy Mettan, Sandro Teti Editore, pp. 192-196.
Primo comandamento del ceto politico italiano: onora l’occupante!
I sindaci di Valsamoggia e di Monte San Pietro, comuni in provincia di Bologna, Daniele Ruscigno e Stefano Rizzoli, onorano la memoria di Paul R. Joyce, pilota americano di un Republic P-47 abbattuto dalla contraerea il 15 luglio 1944, mentre faceva ritorno alla base dopo una missione di bombardamento.
La balcanizzazione della Siria può attendere
“Quando Deir Ez Zour fu costruita, non erano ancora presenti i confini dettati dai trattati di Sykes – Picot, non c’erano le entità statali siriane ed irachene, non esistevano avamposti di frontiera né di Damasco e né di Baghdad; quel territorio desertico, attraversato dall’Eufrate, era ancora frequentato soprattutto da beduini e da tribù che si dirigevano verso il fiume per usufruire delle sue acque e permettere loro di continuare a vivere seguendo millenarie tradizioni. Ma soprattutto, quel territorio era ancora parte integrante dell’Impero Ottomano: è proprio qui che i vertici militari di Istanbul nel 1860 avevano deciso di fondare un avamposto militare che poteva beneficiare sia della presenza dell’Eufrate e sia della vicinanza delle vie di comunicazione che collegavano l’occidente con Baghdad; vaste lande di terra, nei secoli rimaste periferiche alle rotte commerciali tanto dei romani quanto della via della seta che, dalla fine del diciannovesimo secolo, potevano diventare improvvisamente strategici luoghi di controllo militare per i sultani. E’ così che ha avuto inizio la storia di Deir Ez Zour, la città che martedì è stata sollevata da un assedio dell’ISIS che durava da più di tre anni; un contesto particolare all’interno della guerra siriana, un vero e proprio conflitto nel conflitto che non mancherà, al netto dell’immotivata scarsa copertura mediatica data dall’Occidente, di inserirsi prepotentemente sui libri di storia nel prossimo futuro. Per comprendere su quale base abbia poggiato una resistenza con pochi precedenti nella storia militare, è bene fare un passo indietro e tornare per un attimo alla storia che ha portato alla nascita prima ed allo sviluppo poi di Deir Ez Zour; due sono stati, in particolare, gli eventi che hanno contribuito nel corso dei decenni alla crescita demografica ed economica di questa città: in primo luogo, il 16 maggio del 1916 Inglesi e Francesi hanno stabilito una linea di confine a pochi chilometri dal suo centro urbano, con i trattati di Sykes – Picot, i quali hanno improvvisamente tracciato un lungo taglio nel cuore del deserto mesopotamico: Per mezzo di questo nuovo confine, da una parte si è dato vita ad un protettorato agganciato a Parigi, dall’altra invece si è assistito al sorgere di una zona d’influenza britannica. In secondo luogo, nella prima metà del ventesimo secolo sono state scoperte importanti riserve petrolifere nel sottosuolo desertico vicino Deir Ez Zour ed ecco quindi che, quello che era sorto come mero avamposto militare ottomano, da adesso in poi diverrà uno strategico centro economico a pochi passi dalla ‘nuova’ frontiera mediorientale voluta da Francia ed Inghilterra al termine della prima guerra mondiale.”
Deir Ez Zour, genesi di una resistenza di Mauro Indelicato continua qui.
La colpa fu tutta tedesca?
Storia delle responsabilità USA nello scoppio della Seconda Guerra Mondiale
Uno dei più stimati studiosi di storia americana , Charles Austin Beard, è pressoché sconosciuto nel nostro Paese, nonostante sia considerato uno degli storici più influenti della prima metà del Ventesimo secolo. Questo libro, attraverso una documentazione imparziale, mostra le debolezze e le miserie delle sedicenti grandi figure che condussero gli Stati Uniti in guerra, nonostante le promesse di neutralità fatte e ripetute anche dal Presidente Franklin Delano Roosevelt.
Charles A. Beard (1874-1948), laureato in Filosofia, in Legge e in Scienze Politiche, fu professore di Storia alla Columbia University. Storico di grande fama, è autore di innumerevoli, apprezzati volumi sulla storia degli Stati Uniti.
Per ulteriori approfondimenti
La colpa fu tutta tedesca?
Storia delle responsabilità americane nello scoppio della Seconda Guerra Mondiale,
di Charles A. Beard
OAKS editrice, € 25
Alle radici dell’interventismo liberale
“Dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’inizio delle Nazioni Unite, le potenze statali cambiarono la loro retorica dalla nozione di superiorità culturale e razziale e conseguentemente ancorarono le missioni civilizzatrici ai diritti umani. Siffatti sentimenti si sono intensificati dopo la fine della Guerra Fredda, che vide come conseguenza un escalation degli interventi umanitari, contemporaneamente all’apparente diminuzione di importanza della sovranità statale. Questa “rivoluzione delle convinzioni morali” (Davidson, 2012: 129), enfatizzata attraverso la necessità morale di intervenire militarmente in caso di grosse violazioni dei diritti umani, è stata pesantemente promossa all’interno dei circoli liberali contemporanei. Fino agli inizi degli anni 90, un’atto di autodifesa era una giustificazione predominante per l’intervento, comunque, l’ascesa dell’egemonia delle idee liberali riguardo alle responsabilità degli Stati nei confronti dei diritti individuali “è sembrata manifestarsi nell’interpretazione del diritto internazionale” (Davidson, 2012:134). Così, il principio di non intervento, che era fondato sul principio della sovranità degli Stati, non ebbe più molto a lungo autorità all’interno della comunità internazionale. Un simile cambiamento nei parametri che permettono l’intervento militare è culminato nella formulazione del termine “Responsabilità di proteggere”, basato sul principio della teoria del diritto naturale “la nostra comune natura umana genera comuni doveri morali”, includendo in ciò, in qualche versione, un vero e proprio diritto di intervento umanitario” (Holzgrefe and Keohane 2003: 25). Comunque, l’assenza di un meccanismo legale internazionale che sia in grado di indirizzare ed eseguire leggi formulate sulla base di questi principi dà il destro alle potenze statali per agire flessibilmente basandosi sui propri fini politici ed economici e sfidando i tradizionali valori umanitari di “imparzialità, neutralità ed indipendenza” (Barnett, 2005:724), al fine rendendo tale principio inutile ed in alcuni casi, anche dannoso, suscettibile di manipolazione e strumentalizzazione.
In conclusione, l’uso della forza militare per sostenere ideali umanitari appare, alla fin fine, una contraddizione in termini. Vale a dire che “le guerre non sono più scatenate in nome di una sovranità che deve essere difesa, sono scatenate per conto dell’esistenza di tutti” (Focault, 1990: 137). Secondo Dillon e Read (2009), tali sono i paradossi dell’intervento umanitario – le potenze liberali dichiarano guerre contro la vita umana in nome della protezione e della conservazione della vita umana. In altre parole, questioni come la povertà, le crisi sanitarie, gli orientamenti ambientali e le guerre civili sono ri-concettualizzate come minacce internazionali che necessitano dell’intervento perché non possano “inondare e destabilizzare la società occidentale” (Duffield, 2007:1). In accordo con questa visione, quei modi di vita che non si conformano agli standard liberali occidentali sono visti come minaccia all’intera società. Questa nozione è alle radici dell’impulso all’interventismo liberale.
Considerando il sopraesteso sviluppo storico, è difficile sostenere che, a dispetto del suo mantello umanitario, l’interventismo liberale non sia, in realtà, sempre stato una parte della strategia liberale di governo globale. Cioè l’imperialismo liberale. In tal modo, si può concludere che l’impresa liberale è la “quintessenza dell’arte di supremazia globale” (Burchell, Gordon e Miller, 1991:14). Come illustrato vi sono diverse somiglianze tra la contemporanea discussione che riguarda il liberismo e la vecchia retorica dell’impero. In altre parole, l’intervento umanitario è in sostanza un velo con cui l’imperialismo politico ed economico può camuffarsi. Più oltre, sembra esistere una significativa dissonanza cognitiva tra l’universalismo liberale proclamato dal cosmopolitismo umanitario e l’imperialismo liberista espresso attraverso altisonanti principi di intervento umanitario che, in realtà, funzionano da mezzo col quale vengono radicate od eliminate tutte le forme di vita che non si conformano alle idee liberali e liberiste. (Mc Carthy, 2009:166)”
Da Gli interventi umanitari: la dottrina dell’imperialismo, di Petar Djolic.
11 dicembre 1946, Padova in rivolta contro le truppe inglesi
Ovvero 70 anni d’Italia tra carota e manganello
“…Gli incidenti di ieri hanno provocato in città un’ondata di sdegno contro il comportamento degli autisti alleati che come è noto ogni giorno mietono vittime innocenti fra la popolazione civile…”. Inizia così la cronaca di due giorni di “ordinaria violenza” e di Resistenza attiva contro le truppe di occupazione inglesi che con il loro comportamento nei confronti dei cittadini di Padova, costringono gli stessi quasi a rimpiangere i giorni dell’occupazione nazifascista. Il bilancio di due giorni di fuoco è di decine di civili, tra cui molte donne, feriti in modo anche grave, negozi devastati da inferociti soldati di Sua Maestà Britannica, ma anche alcuni di essi sonoramente pestati da Padovani decisi nel non sopportare più i loro soprusi.
Stiamo parlando di una pagina di “Resistenza” volutamente rimossa dalla storiografia ufficiale interessata a coniare la medaglia ad unica faccia da “Liberatori “ alle Forze Armate dei Paesi Alleati vittoriose sul Nazifascismo, ma trasformatesi in forze occupanti e guardiani degli interessi economici e militari delle grandi potenze nello scacchiere europeo nato dopo il 1945.
Un’Europa divenuta campo di battaglia di una nuova guerra, fatta di muri, incubi di olocausto nucleare, colpi di Stato e di regimi imposti con i carri armati, che avrebbe condizionato irreparabilmente il cammino democratico e la voglia di libertà di centinaia di milioni di esseri umani. L’Italia come tristemente sappiamo fu il Paese, dopo la Grecia, nel campo occidentale, che visse più di tutti sotto la spada di Damocle del Colpo di Stato Permanente e dove i servizi segreti e gli ambienti più conservatori ed antipopolari degli USA e della NATO, in nome dell’anticomunismo viscerale ebbero un ruolo determinante come dimostrato nella stagione delle stragi fasciste.
Singolare per alcune coincidenze, la vicenda di cui oggi parliamo, ovvero la rivolta di Padova del 1946, visto che nella stessa città, una ventina di anni dopo una “cellula neofascista”, con coperture di servizi segreti NATO, fu coinvolta a vario titolo nella strage di piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre del 1969, la madre della stagione delle stragi. Continua a leggere
Come Napoleone 200 anni fa
“Ho osservato la storia e ho concluso che tutta questa russofobia è iniziata quando Carlo Magno ha creato l’Impero occidentale 1.200 anni fa, ponendo le basi per il grande scisma religioso del 1054. Carlo Magno creò il suo impero in opposizione alla situazione esistente, quando il centro del mondo civilizzato era Bisanzio.
La cosa più sconvolgente di cui mi sono reso conto era che tutto quello che ci hanno insegnato a scuola era sbagliato. Sostenevano che i dissidenti appartenevano alla Chiesa d’Oriente, che si era divisa da Roma. Ora so che quello che è successo è proprio il contrario: è stata la Chiesa cattolica occidentale a dissentire dalla Chiesa universale, mentre la Chiesa d’Oriente è rimasta ed è ancora ortodossa.
Al fine di spostare la colpa da se stessi, i teologi occidentali di quel tempo lanciarono una campagna giustificatoria per dare la colpa alla Chiesa d’Oriente. Hanno usato argomentazioni che sono ritornate ancora e ancora come parte del confronto tra l’Occidente e la Russia. Allora, nel Medioevo, hanno cominciato a riferirsi al mondo greco, o bizantino, come un “territorio di tirannia e barbarie”, al fine di sconfessare la responsabilità dello scisma.
Dopo la caduta di Costantinopoli, quando la civiltà bizantina si è conclusa, e la Russia ne ha preso il posto come Terza Roma, tutte quelle superstizioni, tutte quelle bugie circa la desacralizzazione del mondo ellenico, sono state trasferite automaticamente alla Russia.
È strano vedere le note di viaggiatori occidentali in Russa a partire dal XV secolo: tutti descrivono la Russia negli stessi termini che avevano usato per descrivere Bisanzio. Questa critica artefatta è considerevolmente aumentata dopo le riforme di Pietro il Grande e Caterina la Grande, quando la Russia è diventata potente sulla scena politica europea. Ed entro la fine del XVIII secolo, la critica è diventata russofobia.
Nata in Francia sotto Luigi XV, è stata utilizzata per un po’ da Napoleone per giustificare un’animosità verso la Russia, che era un ostacolo alla politica espansionistica della Francia. Il “Testamento di Pietro il Grande” [un documento politico contraffatto, NdT] fu utilizzato da Napoleone come giustificazione per la sua campagna di Russia.
Possiamo confrontare questo caso con i tempi moderni, in cui, al fine di raggiungere i loro obiettivi, gli Americani hanno inventato la menzogna che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa. La russofobia è rimasta in Francia come ideologia politica fino al XIX secolo, quando dopo aver perso la guerra franco-prussiana, la Francia si rese conto che il suo principale nemico non era più la Russia, ma la Germania, diventando alleata della Russia.
Per quanto riguarda l’Inghilterra, la russofobia vi apparve intorno al 1815, quando la Gran Bretagna, alleata con la Russia, sconfisse Napoleone. Una volta che il nemico comune fu sconfitto, l’Inghilterra invertì la rotta e fece della Russia il suo nemico, alimentando la russofobia. Dal 1820, Londra utilizzò un’ideologia anti-russa per mascherare le sue politiche espansionistiche, sia nel Mediterraneo sia in altre regioni – Egitto, India e Cina.
In Germania, la situazione non cambiò fino alla fine del XIX secolo, quando fu creato l’impero tedesco. Non aveva colonie, e non c’era posto per ottenerne, poiché Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo avevano avuto un vantaggio iniziale. Poiché tutte le colonie erano state assegnate senza la Russia, apparve in Germania un movimento politico che cercava una “espansione verso l’Oriente”, vale a dire, le moderne Ucraina e Russia. Questo tentativo fallì durante la Prima Guerra Mondiale, e più tardi, Hitler usò la stessa ideologia.
Non è un caso che gli storici tedeschi siano stati all’origine di quello che è conosciuto come “revisionismo”, la tendenza a sottovalutare il contributo dell’URSS alla vittoria sul Terzo Reich, sopravvalutando il contributo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.
Il terzo tipo di russofobia è americano, ed è iniziato nel 1945. Non appena hanno sconfitto la Germania attraverso iniziative comuni con l’URSS, a costo di milioni di vite sovietiche, hanno disseminato la stessa storia creata dopo la vittoria su Napoleone nel 1815. Gli Stati Uniti hanno invertito la rotta e l’alleato del giorno prima è diventato il loro principale nemico. Così è iniziata la Guerra Fredda.
Gli Americani hanno usato gli stessi argomenti degli Inglesi nel 1815, sostenendo che essi “combattevano contro il comunismo, la tirannia, l’espansionismo”, e i loro argomenti erano ben poco diversi, fatta eccezione per la cosiddetta lotta contro il comunismo. Questa si è rivelata un trucco, perché al crollo dell’Unione Sovietica il confronto tra l’Occidente e la Russia non è terminato.
La storia del XIX secolo si ripete: gli Stati Uniti continua a parlare di una “minaccia” presumibilmente proveniente dalla Russia, al fine di raggiungere i propri obiettivi, promuovere i propri interessi, e perseguire la propria espansione. Oggi si demonizza la Russia in modo da mettere i missili della NATO in Polonia, usando le stesse parole e gli stessi argomenti che usava Napoleone 200 anni fa.”
Da Guy Mettan: le radici della russofobia, intervista all’autore di Russofobia. Mille anni di diffidenza.
Gli USA affogano nel sangue di persone innocenti per affermare la propria egemonia: ‘E’ stato sempre così’
Mentre gli Stati Uniti cercano disperatamente di ristabilire una credibilità in Medio Oriente, non essendo riusciti ad arginare l’ascesa del terrorismo in tutta la regione, e in risposta all’intervento della Russia in Siria, Washington ora rischia chiaramente di perdere il filo.
La prova di questo consegue al recente attacco aereo effettuato da aerei statunitensi su Mosul, obiettivo una infrastruttura dell’ISIS che presumibilmente conteneva una quantità enorme di denaro destinata a pagare i suoi combattenti e finanziare le operazioni militari future. Secondo un rapporto della CNN sul raid aereo a Mosul, “i comandanti americani erano disposti a prendere in considerazione fino a 50 vittime civili dall’attacco aereo per l’importanza del bersaglio. Ma la valutazione iniziale post-attacco ha indicato che forse sono state uccise da cinque a sette persone”.
Questa è un’affermazione che lascia senza parole, cinica nel suo disprezzo per la vita dei civili e grondante di ipocrisia quando consideriamo gli sforzi che sono stati fatti dagli ideologhi occidentali ed i loro governi per demonizzare la Russia sul suo intervento in Siria, accusandola di colpire obiettivi civili con noncurante disprezzo per le conseguenze.
Immaginate se un comandante militare russo rilasciasse una dichiarazione come questa, riconoscendo apertamente che saranno uccisi civili durante i futuri attacchi aerei russi. Il clamore tra le piattaforme mediatiche occidentali sarebbe fuori misura. Ci sarebbero probabilmente anche tentativi di convocare una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite al fine di censurare il governo russo, insieme a un tentativo concertato di isolare Mosca e ridurla a una condizione di reietto.
Eppure, quando a fare tali affermazioni sono funzionari degli Stati Uniti ciò è segnalato come se fosse solo un altro giorno nell’Impero. Continua a leggere
Alle origini del sub normale: Mike Bongiorno
Caro Mike, è da tempo ormai che ti seguo alla “Voce dell’America”.
Grazie direttore ma… guardi che io mi chiamo Michael.
Mike! Suona meglio… no?
(Dialogo tra Mike Bongiorno e Vittorio Veltroni, l’allora responsabile del giornale radio RAI, 1953)
Nacque a New York da padre italo-americano, noto avvocato e presidente della potente Associazione Sons of Italy in America, e madre italiana il 26 maggio 1924. Il suo vero nome era Michael Nicholas Bongiorno ma era chiamato Mickey. Quando Mickey era giovanissimo, la madre, che si era separata dal marito, si trasferì in Italia a Torino, portandolo con lei. Qui egli frequentò le scuole fino al liceo, iniziando a lavorare per la pagina sportiva de La Stampa.
Dopo l’8 settembre 1943, si unì a gruppi della Resistenza, prodigandosi come staffetta tra i partigiani e gli Alleati di stanza in Svizzera.
Il 20 aprile del 1944, fu intercettato e arrestato e quindi condotto nel carcere di San Vittore a Milano dove ebbe modo di conoscere e fraternizzare con Indro Montanelli, detenuto nello stesso carcere.
Dopo questo periodo di reclusione, passò attraverso vari campi di concentramento, arrivando alla fine del 1944 a Spittal, in Germania, dove rimase sino al gennaio 1945, per poi essere protagonista di un poco usuale scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Germania. Lo ritroviamo a New York dove riprese l’attività giornalistica, collaborando a Voice of America, emittente radiofonica emanazione del Dipartimento di Stato.
Tornò in Italia solo nel 1952, realizzando alcuni documentari sulla ricostruzione del Paese. Successivamente il funzionario RAI Vittorio Veltroni, padre del più noto Walter, gli offrì un contratto di collaborazione per il Radiogiornale. Realizzò servizi e radiocronache sportive, entrando poi in pianta stabile nella neonata TV di Stato italiana e divenendo il primo presentatore della stessa.
Una lunghissima carriera, quella di Bongiorno, interrotta solo dalla morte avvenuta nel 2009, dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana e l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica, conferitagli nel 2004 dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Federico Roberti
Ascoltatori italiani buonasera!
Voice of America e l’Italia 1942-1957
di Simona Tobia,
Libraccio Editore, 2014, pp. 216
Per quindici anni, a cavallo tra seconda guerra mondiale e Guerra Fredda, la Voce dell’America portò nelle case degli Italiani una versione della ‘verità’ confezionata dai propagandisti di Washington. Con un budget di svariati milioni di dollari, negli anni Cinquanta l’emittente arrivò a trasmettere in 45 lingue in tutto il mondo, e l’Italia fu da subito in cima alla lista dei Paesi nel mirino della diplomazia culturale delle amministrazioni Truman e Eisenhower.
Questo libro prende in esame tutto ciò che avveniva a microfoni spenti, dai legami tra intelligence, politiche governative statunitensi e radio italiana, fino ai network creati per conquistare i cuori e le menti degli ascoltatori della RAI. Una stretta collaborazione, che si realizzò nonostante la fiera resistenza di alcuni suoi dirigenti, permise alla RAI di trasmettere regolarmente programmi prodotti a New York e Washington dalle agenzie governative americane, e di lanciare quello che presto sarebbe diventato uno dei personaggi più importanti del broadcasting italiano: Mike Bongiorno.
[Dello stesso autore: Advertising America]
Il mito della guerra buona
“L’edizione riveduta di Jacques Pauwels di The Myth of the Good War [Il mito della guerra buona], contiene importanti e significativamente nuove ricerche e contribuisce a una considerazione storicamente più accurata e più critica del ruolo degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale. Il libro dimostra che molti capitalisti statunitensi e funzionari di governo ebbero un atteggiamento amichevole verso i regimi fascisti prima della guerra e anche dopo l’inizio della guerra, che Washington rimase neutrale nel conflitto fino a quando la neutralità servì gli interessi capitalistici e che questi interessi – non già la vantata causa della libertà e della democrazia – determinarono come gli Stati Uniti entrarono, combatterono e conclusero la guerra.
Pauwels rifiuta le opere convenzionali “buoniste” sulla partecipazione degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale. Invece, prendendo a prestito una frase di Michael Parenti, Pauwels esplora le “verità sporche” nelle azioni degli Stati Uniti prima, durante e dopo la guerra. Concentrandosi sull’economia politica e gli interessi della classe capitalista degli Stati Uniti e dell’elite al potere, attraverso la ricostruzione critica del contesto storico della guerra, l’autore è in grado di spiegare il coinvolgimento di Washington nel conflitto più catastrofico della storia come il prodotto dell’imperialismo.
(…)
Entro metà dell’estate del 1945, i leader giapponesi sapevano di essere stati sconfitti e stavano cercando un modo per arrendersi. Anche se i Sovietici stavano preparandosi per attaccare le forze giapponesi in Cina, Truman non volle il loro aiuto. Mentre la guerra stava per finire, Truman era determinato a riaffermare e ampliare il potere prebellico degli Stati Uniti in Asia, senza alcuna concessione all’Unione Sovietica. Attingendo alla ricerca di altri storici, Pauwels mostra che il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki non era militarmente necessario, ma era invece destinato a garantire l’acquiescenza di Stalin all’ordine globale del dopoguerra dettato dagli Stati Uniti. Come sottolinea l’autore, questo “ricatto nucleare” fallì e condusse a cinquanta anni di Guerra Fredda, con gravi conseguenze per l’intero pianeta.
Pauwels scrive acutamente che mentre l’Unione Sovietica fu utile agli Stati Uniti come alleato durante la guerra, divenne utile come nemico dopo. Invocando lo spettro del cosiddetto “impero del male”, i leader di governo e i capitalisti degli Stati Uniti potevano sostenere massicce spese militari per lo stato di guerra, razionalizzare la corsa agli armamenti nucleari e giustificare gli interventi militari in tutto il mondo.
L’opera scrupolosamente ricercata e ben scritta di Pauwels dimostra in modo convincente che il ruolo del governo degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale fu in gran parte determinato dagli interessi della classe capitalista del Paese, non dagli alti ideali di libertà e democrazia professati. Questa importantissima comprensione storica, anche se ancora controversa, è stata affrontata da alcuni altri autori, ma il libro di Pauwels è probabilmente il più completo e penetrante riguardo le motivazioni e le azioni dei governi inglese e statunitense prima, durante e dopo la guerra.
Molto può ancora essere appreso dalle importanti conclusioni dell’autore sulla più sanguinosa e distruttiva deflagrazione della storia, rivelatasi decisamente “buona” per gli Stati Uniti che emersero dalla guerra come la più potente potenza imperialista del pianeta. Questo volume rende così un contributo sostanziale per comprendere le origini dell’imperium dominante nel mondo del dopoguerra in capo agli Stati Uniti.”
Da Il mito della guerra buona: gli USA nella Seconda Guerra Mondiale, di David Smith.
Fino a nuovo avviso
L’Unione Europea è soltanto una colonia degli Stati Uniti
“L’Unione Europea è governata da una classe di persone completamente vendute agli Stati Uniti. Esempio tipico e classico è stata la debacle libica, dove gli Stati Uniti e la Francia hanno completamente distrutto il Paese più sviluppato in Africa. Ottenendo che centinaia di migliaia di profughi attraversino il Mediterraneo e cerchino rifugio dalla guerra in Europa. Tale risultato avrebbe potuto essere molto facile da prevedere, e tuttavia i Paesi europei non ha fatto nulla per impedirlo. In realtà, tutte le cosiddette Obamawars (Libia, Siria, Afghanistan, Irak, Yemen, Somalia, Pakistan) hanno portato a enormi flussi di rifugiati. Si aggiunga anche il caos in Egitto, Mali e la povertà in tutta l’Africa. Assistiamo a un esodo di massa che nessun muro-frontiera, fosso di scavo o bombe lacrimogene fermeranno.
Se non bastasse, l’UE ha realizzato quello che può solo essere chiamato un suicidio politico ed economico, consentendo all’Ucraina di esplodere in una guerra civile che coinvolge 45 milioni di persone, che ha distrutto completamente un’economia e installato al potere un vero e proprio regime nazista. Anche questo risultato era facile da prevedere. Ma la reazione degli Euroburocrati e’ stata di imporre sanzioni economiche masochiste alla Russia. Il che che ha finito per creare esattamente le condizioni e l’incentivo necessario per l’economia russa a diversificare e a produrre localmente invece di importare tutto dall’estero.
Vale la pena di ricordare che alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’Europa era praticamente un territorio occupato. I Sovietici avevano la parte centro-orientale, mentre gli Stati Uniti/Regno Unito avevano la parte occidentale. Siamo stati condizionati a pensare che le persone che vivevano sotto “l’oppressione” di ciò che la propaganda degli Stati Uniti ha denominato il “Patto di Varsavia” (in realtà chiamato “Organizzazione del Trattato di Varsavia”) siano stati meno liberi rispetto a quelli che vivevano sotto la “protezione” del Trattato Nord Atlantico.
A parte il fatto che il termine “Nord Atlantico” è stato coniato deliberatamente per legare l’Europa occidentale agli Stati Uniti, la questione centrale è che mentre in molti modi le persone in Occidente hanno avuto più libertà rispetto a quelli in Oriente, gli Stati Uniti/Gran Bretagna occupavano parte di un’Europa che non si è mai ripresa la propria sovranità. E proprio come i Sovietici hanno coltivato un’élite compradora locale in ogni Paese dell’Europa orientale, così hanno fatto gli Stati Uniti in Occidente.
La grande differenza è apparsa solo alla fine degli anni ’80 e ai primi ’90, quando l’intero sistema a conduzione sovietica è crollato mentre il sistema gestito dagli Stati Uniti è uscito rafforzato a seguito del crollo sovietico. Sicché, a partire dal 1991, la morsa di ferro degli Stati Uniti sopra l’UE è diventata ancora più forte di prima.
La realtà è triste e semplice: l’Unione Europea è una colonia degli Stati Uniti, gestita da marionette degli Stati Uniti che non sono in grado di lottare per gli interessi fondamentali ed evidenti degli Europei.”
Da L’Europa è in caduta libera, del Saker.
[Il collegamento inserito è nostro]
6 Agosto 1945
Bologna bombardata 1943-1945
Perché questa iniziativa?
Alle 12.06 del 29 gennaio 2014 il suono di una sirena d’allarme ha spezzato l’abituale silenzio delle sale della Biblioteca dell’Archiginnasio, per ricordare il bombardamento che esattamente 70 anni prima aveva distrutto un’intera ala del palazzo, causando danni irreparabili al patrimonio artistico e documentario.
Tra le varie iniziative per ricordare quel momento, il più drammatico nei 450 anni di vita dell’Archiginnasio, è stato deciso di digitalizzare e mettere a disposizione sul sito web della Biblioteca materiale di vario genere (fotografie, manoscritti, documenti d’archivio, materiale a stampa), in buona parte inedito, per raccontare nel modo più ampio possibile che cosa accadde, e perché accadde, il 29 gennaio 1944.
La distruzione di uno dei luoghi simbolo di Bologna, che dal 1563 al 1803 fu la prima sede unificata dello Studio e dalla metà dell’Ottocento è sede di una grande biblioteca pubblica, è un evento di tale portata che può risultare incomprensibile, se non inserito nel contesto delle vicende belliche e dei bombardamenti che interessarono Bologna tra il luglio del 1943 e l’aprile del 1945 ed è quindi lecito e comprensibile porsi alcune domande:
Quali erano gli obiettivi e la strategia militare degli Alleati e perché dal luglio 1943 iniziarono a bombardare Bologna?
Se i bombardamenti erano diretti verso obiettivi militari, perché causarono 2.500 vittime tra i civili, la distruzione e il danneggiamento del 43% degli edifici della città, colpendo anche molti luoghi monumentali?
Come venivano effettuati i bombardamenti, e quale era all’epoca la capacità di colpire i bersagli, limitando i cosiddetti “effetti collaterali”?
Che ruolo ebbe la difesa attiva, quindi l’azione dell’artiglieria contraerea e degli aerei da caccia tedeschi e della A.N.R. (Aeronautica Nazionale Repubblicana) nel contrastare i bombardamenti su Bologna?
Il tema della difesa passiva e in particolare del sistema dei rifugi antiaerei che avevano lo scopo di proteggere i bolognesi durante i bombardamenti, data la sua complessità non può essere affrontato in questa sede, ma si rimanda al catalogo della mostra tenutasi presso l’Archiginnasio e l’Archivio Storico Comunale dal 20 settembre al 15 ottobre 2013: Memorie sotterranee. I rifugi antiaerei a Bologna tra ricerca, tutela e valorizzazione, a cura di Vito Paticchia e Massimo Brunelli, Bologna, I.B.C., 2014.
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