La guerra non poteva essere impedita


“Chi ha seguito le vicende ucraine senza pregiudizi ideologici, e con un minimo di onestà intellettuale, sa che al momento della dissoluzione dell’URSS, l’Ucraina era una potenza economica, la terza potenza industriale dell’Unione Sovietica dopo Russia e Bielorussia, oltre che il suo granaio. Questa repubblica sovietica possedeva industrie aerospaziali, automobilistiche e di macchine utensili, i suoi settori minerario, metallurgico e agricolo erano ben sviluppati, come i suoi impianti nucleari e petrolchimici, le sue infrastrutture turistiche e commerciali. Ospitava inoltre il più grande cantiere navale dell’URSS.
A partire dal 1991, anno della sua indipendenza, il PIL dell’Ucraina è rimasto indietro rispetto al livello raggiunto in epoca sovietica, la capacità industriale si è notevolmente ridotta e la popolazione è diminuita di circa 14,5 milioni di persone in 30 anni a causa dell’emigrazione e del più basso tasso di natalità in Europa. Non solo, l’Ucraina è anche diventata il terzo debitore del FMI e il Paese più povero d’Europa. Questi record negativi non possono essere imputati solo alla corruzione sistemica e spaventosa dell’Ucraina: le reti di corruzione che hanno spremuto l’Ucraina sono transnazionali.
L’Ucraina è stata vittima di due rivoluzioni colorate finanziate dagli Stati Uniti che hanno portato a un cambio di regime e ad una guerra civile che l’hanno separata a forza dal suo principale partner economico, la Russia. La sua storia è stata cancellata e riscritta, le ricette neoliberali hanno distrutto il suo tessuto economico e sociale instaurando una forma di governo neocoloniale.
L’Ucraina è entrata a far parte del nefasto Partenariato Orientale dell’UE nel 2009 e, fin dalla sua indipendenza, è stata invasa da ONG, consulenti economici e politici occidentali. Lo stato di soggezione del Paese ostaggio degli interessi anglo-americani si è cementato dopo che l’ultimo governo ucraino che si era opposto alle dure condizioni del FMI è stato rovesciato dal colpo di Stato sponsorizzato dagli Stati Uniti nel 2014.
Il 10 dicembre 2013, il presidente ucraino Viktor Yanukovich aveva dichiarato che le condizioni poste dal FMI per l’approvazione del prestito erano inaccettabili: “Ho avuto una conversazione con il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, mi ha detto che la questione del prestito del FMI è stata quasi risolta, ma gli ho ripetuto che se le condizioni fossero rimaste tali non avremmo avuto bisogno di tali prestiti”. Yanukovich ha quindi interrotto i negoziati con il FMI e si è rivolto alla Russia per ottenere assistenza finanziaria. Era la cosa più sensata da fare, ma gli è costata cara. Non è possibile rompere impunemente le catene del FMI: questo fondo a guida americana concede prestiti a Paesi con l’acqua alla gola in cambio della solita shock therapy fatta di austerità, deregolamentazione e privatizzazione, e prepara in questo modo il terreno per gli avvoltoi della finanza internazionale, quasi sempre angloamericani.
Se si permette a coloro che hanno distrutto un Paese di essere coinvolti nella sua ricostruzione, essa sarà inevitabilmente solo un punto sul continuum di conquista, occupazione e saccheggio, anche se viene imbellettato. La distruzione produce quella tabula rasa su cui l’occupante può scrivere le proprie regole: “Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace”. Tacito conosceva bene sia la realtà che la propaganda dell’imperialismo romano. Ci si può solo chiedere se coloro che parlano di “ricostruzione”, “ripresa”, “riforma”, “ordine fondato sulle regole”, “reset” o qualsiasi altra espressione di moda al momento, siano consapevoli di questa realtà brutale o credano veramente alla propria propaganda. In ogni caso, promettono un’utopia futura per la quale vale la pena uccidere e morire.
(…) Vendere una guerra richiede un impegno a tutto campo, ed è per questo che i think tank e gli specialisti di marketing sono stati coinvolti fin dalle prime fasi. Essi generano narrazioni che contribuiscono a plasmare lo spazio discorsivo, a creare una percezione di sostegno universale per l’Ucraina, a fornire punti di discussione e versioni della verità sia ai politici che ai media. Devono motivare gli ucraini affinché continuino a combattere e i vassalli europei affinché continuino a finanziare la guerra e ad armare l’Ucraina, indipendentemente dalle devastanti perdite umane ed economiche che ciò comporta.
(…) I politici europei, mentre sono alle prese con i costi sempre più crescenti di una guerra per procura degli Americani nel loro continente, come meccanismo di compensazione sostengono l’idea assurda che una soluzione di pace in Ucraina minaccerebbe la sicurezza europea e non sarebbe nell’interesse del Vecchio Continente. La retorica della ricostruzione, intrecciata all’illusione di una vittoria dell’Ucraina, permette al partito transatlantico della guerra di presentarsi come una forza del bene e un motore di crescita futura. I promotori della ricostruzione hanno cercato aggressivamente di occupare il terreno morale estromettendo i costruttori di pace e per farlo hanno spinto la tesi che la guerra non poteva essere impedita né fermata.”

Da Promuovere la ricostruzione in Ucraina per alimentare la guerra, di Laura Ruggeri.

La lezione francese

Conoscere è distinguere.
(H. von Foerster)

L’opposizione fittizia e il nuovo soggetto politico in Italia

La recente rielezione politica di Emmanuel Macron a presidente della Francia (con un 28% circa di astenuti tra gli aventi diritto al voto), se da un lato ci dimostra l’enorme e incontrastato (finora) potere dei media, nel manipolare l’opinione pubblica a favore dell’élite al governo (cosa resa possibile dal loro monopolio dell’informazione e della disinformazione, quest’ultima particolarmente grave in Italia), dall’altro porta nuovamente alla ribalta anche un fenomeno relativamente recente, che conviene prendere in considerazione.
Mai come oggi, infatti, l’opposizione fittizia (d’ora in poi: OFI) ha fatto così tanti danni come la, e anzi più della, grandine. Milioni di persone per mesi e mesi nelle strade e nelle piazze di Francia e nessuna formazione, spontanea o organizzata, di un nuovo soggetto politico: un partito, un movimento di massa, una coalizione, un fronte unito ecc. Come è stato possibile? Un recente articolo di Claude Janvier ci aiuta a capire meglio la realtà .
A dispetto del fatto che la politica economico-sociale di Macron sia stata, nei passati 5 anni della sua presidenza, dice Janvier, «una catastrofe» per i suoi effetti sulla popolazione civile (aumento della disoccupazione, diminuzione del PIL, aumento dell’inflazione, crisi degli alloggi ecc.), una parte consistente dell’elettorato ha votato per lui. Come si spiega questo fatto? Continua a leggere

Il vero socialismo

“Il cittadino di una grande nazione è più libero del cittadino di una piccola nazione.
Ogni cittadino partecipa alla potenza della sua patria, quindi alla sua indipendenza e alla sua libertà. Ma partecipa anche alla dominazione e all’umiliazione del suo Paese. Non ci possono essere uomini liberi in una nazione dominata o in una nazione satellizzata.
Noi vogliamo una patria potente, l’Europa, perché vogliamo essere uomini liberi.
Vogliamo una patria potente, perché vogliamo essere uomini giusti: ancora una volta la giustizia sociale è condizionata imperativamente dall’indipendenza reale della nostra patria.
Un Paese che è dipendente politicamente, è dipendente anche economicamente: è illusorio e ridicolo pretendere di attuare il vero socialismo in un qualsiasi Paese d’Europa finché il suddetto Paese sarà sotto una tutela politica straniera.”

Da La grande nazione. 65 tesi sull’Europa di Jean Thiriart, 1965, ora in Europa nazione, AGA editrice, 2021, p. 151.

La NATO culturale

Di Federico Roberti

Nel pieno della Guerra Fredda, il governo degli Stati Uniti destinò grandi risorse ad un programma segreto di propaganda culturale rivolto all’Europa occidentale, messo in atto con estrema riservatezza dalla CIA. L’atto fondamentale fu l’istituzione del Congress for Cultural Freedom (Congresso per la libertà della cultura), organizzato dall’agente Michael Josselson tra il 1950 ed il 1967. Al suo culmine, il Congresso aveva uffici in trentacinque Paesi (alcuni extraeuropei) ed a libro paga decine di intellettuali, pubblicava una ventina di prestigiose riviste, organizzava esposizioni artistiche, organizzava conferenze internazionali di alto livello e ricompensava musicisti ed altri artisti con premi e riconoscimenti vari. La sua missione consisteva nel distogliere gli intellettuali europei dall’abbraccio del marxismo, a favore di posizioni più compatibili con l’american way of life, facilitando il conseguimento degli interessi strategici della politica estera statunitense.

I libri di alcuni scrittori europei furono promossi nel mercato editoriale come parte di un esplicito programma anticomunista. Fra questi, in Italia, “Pane e Vino” di Ignazio Silone, il quale registrò così la prima di molte apparizioni sotto l’ala del governo statunitense. A dire il vero, durante il suo esilio svizzero in tempo di guerra, Silone era stato un contatto di Allen Dulles, allora capo dello spionaggio statunitense in Europa e nel dopoguerra ispiratore di Radio Free Europe, altra creazione CIA sotto la maschera del National Committee for a Free Europe; nell’ottobre 1944, Serafino Romualdi, un agente dell’OSS (Office of Strategic Services, il precursore della CIA), fu inviato sul confine franco-svizero con il compito di introdurre clandestinamente Silone in Italia.
Silone, insieme ad Altiero Spinelli e Guido Piovene, rappresentò l’Italia alla conferenza fondativa del Congresso tenutasi a Berlino nel 1950, per la quale Michael Josselson era riuscito ad ottenere un finanziamento di $ 50.000 dalle risorse del Piano Marshall. Essa fu sconfessata pubblicamente da Jean-Paul Sartre ed Albert Camus che, invitati, si rifiutarono di parteciparvi.

Inizialmente, fra i presidenti onorari del Congresso, tutti filosofi rappresentanti di un nascente pensiero euro-atlantico, accanto a Bertrand Russell troviamo Benedetto Croce. Egli, ad ottant’anni di età, era riverito in Italia come padre nobile dell’antifascismo avendo sfidato apertamente Mussolini. Sicuramente, all’epoca dello sbarco alleato in Sicilia, era stato un utile contatto per William Donovan, allora il massimo responsabile dell’intelligence statunitense.

La sezione italiana del Congresso, denominata Associazione italiana per la libertà della cultura, fu istituita da Ignazio Silone alla fine del 1951 e divenne il centro propulsivo, anche e soprattutto sotto il profilo logistico ed economico, di una federazione di circa cento gruppi culturali quali l’Unione goliardica nelle università, il Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli, i Centri di Azione democratica, il movimento Comunità di Adriano Olivetti e vari altri.
Essa pubblicò la prestigiosa rivista “Tempo Presente” diretta dallo stesso Silone e da Nicola Chiaromonte, ed altre non meno conosciute come “Il Mondo”, “Il Ponte”, “Il Mulino” e, più tardi, “Nuovi Argomenti”. Nel suo gruppo dirigente, accanto a laici come Adriano Olivetti e Mario Pannunzio, figurava anche Ferruccio Parri, il padre della sinistra indipendente. Poi, in posizione più defilata, uomini politici di estrazione azionista e liberaldemocratica come Ugo La Malfa.
Uno degli uffici del Congresso era stato aperto a Roma nel palazzo Pecci-Blunt, dove Mimì, la padrona di casa, animava uno dei salotti più esclusivi e meglio frequentati della capitale. A due passi dalla storica dimora di palazzo Caetani che, prima di divenire tragicamente celebre per avere visto, sotto le sue finestre, l’ultimo atto del rapimento Moro, vedeva regnare un’altra regina dei salotti, la mecenate statunitense legata agli ambienti del Congresso Marguerite Chapin Caetani. Ella, con la sua rivista “Botteghe oscure”, promosse non pochi grandi nomi della letteratura e poesia italiana del Novecento. Suo genero era, guarda caso, Sir Hubert Howard, ex ufficiale dei servizi segreti alleati specializzato nella guerra psicologica ed in rapporti di fraterna amicizia con il nipote del presidente Roosevelt, quel Kermit Roosevelt che dapprima nell’OSS e poi, reclutato dalla CIA, fu tra i più convinti fautori del programma di guerra psicologica.
Una delle più strette collaboratrici della Caetani era Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto, il cui marito Raimondo Craveri, agente dei servizi segreti partigiani, dopo la Liberazione indicava all’ambasciata statunitense i politici di cui fidarsi. Elena invece selezionava gli uomini di cultura con cui valeva la pena parlare. Nella loro casa si potevano intrecciare le relazioni più cosmopolite, incontrandovi Henry Kissinger così come il futuro presidente FIAT Gianni Agnelli, ma su tutti dominava il magnate della finanza laica italiana, fondatore di Mediobanca, (don) Raffaele Mattioli. Gli Americani si fidavano a tal punto del commendator Mattioli che nel 1944, a guerra evidentemente ancora in corso, avevano già discusso con lui i programmi per la ricostruzione. Oltre a finanziare abbondantemente la cultura, don Raffaele prestò le sue non disinteressate, pur se discrete, attenzioni anche al PCI, con il quale aveva canali aperti già durante il Ventennio.
Ecco, dunque, che in Italia, oltre alla P2 e Gladio, esisteva anche un anticomunismo altrettanto tenace ma illuminato, progressista e persino di sinistra. La rete del Congresso ne costituiva la facciata pubblica o, se si preferisce, presentabile.

Le risorse per la propaganda culturale euro-atlantica furono reperite in modo davvero geniale. Nei primi tempi del Piano Marshall, ciascun Paese beneficiario dei fondi doveva contribuire depositando nella propria banca centrale una somma equivalente al contributo americano. Poi un accordo bilaterale tra il Paese in questione e gli Stati Uniti permetteva che il 5% di tale somma diventasse proprietà statunitense: era proprio questa parte dei “fondi di contropartita” (circa 10 milioni di dollari all’anno su un totale di 200) che furono messi a disposizione della CIA per i suoi progetti speciali.
Così circa $ 200.000 di tali fondi, che già avevano giocato un ruolo cruciale nelle elezioni italiane del 1948, furono destinati a finanziare i costi amministrativi del Congresso nel 1951. La filiale italiana, ad esempio, riceveva mille dollari mensili che venivano versati sul conto di Tristano Codignola, dirigente della casa editrice La Nuova Italia.

La libertà culturale non venne a buon mercato. Nei diciassette anni successivi alla fondazione, la CIA avrebbe pompato nel Congresso ed in progetti collegati ben dieci milioni di dollari. Una caratteristica della strategia di propaganda culturale fu la sistematica organizzazione di una rete di gruppi privati “amici” in un consorzio ufficioso: si trattava di una coalizione di fondazioni filantropiche, imprese e privati che lavorava in stretto collegamento con la CIA per dare a quest’ultima copertura e canali finanziari al fine di sviluppare i suoi programmi segreti in territorio europeo. Nello stesso tempo, l’impressione era che questi “amici” agissero unicamente di propria iniziativa. Mantenendo il loro status di privati, essi apportavano il capitale di rischio per la Guerra Fredda, un po’ quello che fanno da un certo tempo a questa parte le ONG sostenute dall’Occidente in giro per il mondo.

L’ispiratore di questo consorzio fu Allen Dulles, che già nel maggio 1949 aveva diretto appunto la formazione del National Committee for a Free Europe, apparentemente iniziativa di un gruppo di privati cittadini americani, in realtà uno dei più ambiziosi progetti della CIA. “Il Dipartimento di Stato è molto lieto di assistere alla formazione di questo gruppo” annunciò il segretario di Stato Dean Acheson. Questa pubblica benedizione serviva ad occultare le vere origini del Comitato e che operasse sotto il controllo assoluto della CIA, che lo finanziava al 90%. Ironia della sorte, lo scopo specifico per il quale era stato creato, cioè fare propaganda politica, era categoricamente escluso da una clausola dell’atto costitutivo.
Dulles era ben cosciente che il successo del Comitato sarebbe dipeso dalla sua capacità “di apparire come indipendente dal governo e rappresentativo delle spontanee convinzioni di cittadini amanti della libertà”.

Il National Committee poteva vantare un insieme di iscritti di grandissimo rilievo pubblico, uomini d’affari ed avvocati, diplomatici ed amministratori del Piano Marshall, magnati della stampa e registi: da Henry Ford II, presidente della General Motors, alla signora Culp Hobby, direttrice del Moma; da C.D. Jackson della direzione di “Time-Life” a John Hughes, ambasciatore presso la NATO; da Cecil De Mille a Dwight Eisenhower. Tutti costoro erano “al corrente”, ossia appartenevano consapevolmente al club. Il suo organico, già al primo anno, contava più di 400 addetti, il suo bilancio ammontava a quasi due milioni di dollari.
Un bilancio separato di 10 milioni fu riservato alla sola Radio Free Europe, che nel giro di pochi anni avrebbe avuto 29 stazioni di radiodiffusione e trasmesso in 16 lingue diverse, fungendo anche da canale per l’invio di ordini alla rete di informatori presente al di là della Cortina di Ferro.

Il nome della sezione incaricata di reperire fondi per il National Committee era Crusade for Freedom e ne era portavoce un giovane attore di nome Ronald Reagan…

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine. Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali.
Si riteneva che le fondazioni prestigiose, quali Ford, Rockfeller e Carnegie, assicurassero “la migliore e più credibile forma di finanziamento occulto. Questa tecnica risultava particolarmente opportuna per le organizzazioni gestite in modo democratico, dato che devono poter rassicurare i propri membri e collaboratori ignari, come pure i critici ostili, di essere in grado di contare su forme di finanziamento privato, autentico e rispettabile – sottolineava uno studio interno della stessa CIA risalente al 1966.
Addirittura, all’interno della Fondazione Ford venne istituita un’unità amministrativa specificamente addetta a curare i rapporti con la CIA, che avrebbe dovuto essere consultata ogni volta che l’agenzia avesse voluto usare la fondazione come copertura o canale finanziario per qualche operazione. Essa era formata da due funzionari e dal presidente della fondazione stessa, John McCloy il quale era già stato segretario alla Difesa e presidente, nell’ordine, della Banca Mondiale, della Chase Manhattan Bank di proprietà della famiglia Rockfeller e del Council on Foreign Relations, nonché legale di fiducia delle Sette Sorelle. Un bel curriculum, non c’è che dire.

Uno dei primi dirigenti della CIA ad appoggiare il Congresso per la libertà della cultura fu Frank Lindsay, veterano dell’OSS che nel 1947 aveva scritto uno dei primi rapporti interni in cui si raccomandava agli Stati Uniti di creare una forza segreta per la Guerra Fredda. Negli anni fra il 1949 ed il 1951, come vicedirettore dell’Office of Policy Coordination (OPC), dipartimento speciale creato all’interno della CIA per le operazioni segrete, Lindsay divenne responsabile dell’allestimento dei gruppi Stay Behind in Europa, meglio conosciuti in Italia come Gladio. Nel 1953 passò alla Fondazione Ford, senza per ciò perdere i suoi stretti contatti con gli ex colleghi dell’intelligence.

Quando, nel 1953, Cecil DeMille accettò di diventare consigliere speciale del governo statunitense per il cinema al Motion Picture Service (MPS), si recò all’ufficio di C.D. Douglas, il quale avrebbe poi scritto di lui: “ E’ completamente dalla nostra parte ed (…) è ben consapevole del potere che i film americani hanno all’estero. Ha una teoria, che condivido pienamente, secondo cui l’uso più efficace dei film americani si ottiene non con il progetto di un’intera pellicola che affronti un determinato problema, ma piuttosto con l’introduzione in un’opera “normale” di un certo dialogo appropriato, di una battuta, un’inflessione della voce, un movimento degli occhi. Mi ha detto che ogni volta che gli darò un tema semplice per un certo Paese o una certa regione, troverà il modo di trattarlo e di introdurlo in un film”.
Il Motion Picture Service, sommerso dai finanziamenti governativi tanto da diventare una vera e propria impresa di produzione cinematografica, dava lavoro a registi-produttori che venivano preventivamente esaminati ed assegnati al lavoro su film che promuovevano gli obiettivi degli Stati Uniti e che avrebbero dovuto raggiungere un pubblico sul quale bisognava agire attraverso il cinema. L’MPS forniva consulenze ad organismi segreti sulle pellicole appropriate per una distribuzione sul mercato internazionale; si occupava, inoltre, della partecipazione statunitense ai vari festival che si svolgevano all’estero e lavorava alacremente per escludere i produttori statunitensi ed i film che non sostenevano la politica estera del Paese.

Il principale gruppo di pressione per sostenere l’idea di un’Europa unita strettamente alleata agli Stati Uniti era il Movimento Europeo, cui facevano capo molte organizzazioni, e che copriva una serie di attività dirette all’integrazione politica, militare, economica e culturale. Guidato da Winston Churchill in Gran Bretagna, Paul Henri Spaak in Belgio ed Altiero Spinelli in Italia, il movimento era attentamente sorvegliato dall’intelligence statunitense e finanziato quasi interamente dalla CIA attraverso una copertura che si chiamava American Committee on United Europe. Braccio culturale del Movimento Europeo era il Centre Européen de la Culture, diretto dallo scrittore Denis de Rougemont. Fu attuato un vasto programma di borse di studio ad associazioni studentesche e giovanili, tra cui la European Youth Campaign, punta di diamante di una propaganda pensata per neutralizzare i movimenti politici di sinistra.
Per quanto poi riguarda quei liberali internazionalisti fautori di un’Europa unita intorno ai propri principi interni, e non conforme agli interessi strategici statunitensi, a Washington essi non erano considerati migliori dei neutralisti, anzi portatori di un’eresia da distruggere.

Nel 1962, la notorietà del Congresso per la libertà della cultura calamitò anche attenzioni tutt’altro che desiderate dai suoi ispiratori.
Durante un programma televisivo della “BBC”, That Was The Week That Was, il Congresso fu oggetto di una penetrante e brillante parodia ideata da Kenneth Tynan. Essa iniziava con la battuta: “E’ ora, le novità della Guerra Fredda nella cultura”. Poi continuava mostrando una mappa rappresentante il blocco culturale sovietico, dove ogni cerchietto indicava una postazione culturale strategica: basi teatrali, centri di produzione cinematografica, compagnie di danza per la produzione di missili “ballettistici” intercontinentali, case editrici che lanciano enormi tirature di classici a milioni di lettori schiavizzati, insomma dovunque si guardasse un massiccio indottrinamento nel suo pieno sviluppo. E si chiedeva: noi, qua in Occidente, abbiamo un’effettiva capacità di risposta?
Sì, era la risposta, c’è il buon vecchio Congresso per la libertà della cultura sostenuto dal denaro americano che ha allestito un certo numero di basi avanzate, in Europa e nel mondo, funzionanti come teste di ponte per rappresaglie culturali. Basi mascherate con nomi in codice, come “Encounter” – la più conosciuta delle riviste patrocinate dal Congresso – che è l’abbreviazione, si ironizzava, di Encounterforce Strategy.
Entrava allora in scena un portavoce del Congresso, con un mazzo di riviste che rappresentavano a suo dire una sorta di NATO culturale, il cui obiettivo era il contenimento culturale, cioè mettere un recinto intorno ai rossi. Con missione storica quella di raggiungere la leadership mondiale dei lettori, succeda quel che succeda, “noi del Congresso sentiamo come nostro dovere tenere le nostre basi in allarme rosso, ventiquattro ore su ventiquattro”.
Una satira mordace ed impeccabilmente documentata, che provocò notti insonni a Michael Josselson, organizzatore del Congresso.

Durante l’estate del 1964, sorse una questione assai preoccupante.
Nel corso di un’inchiesta parlamentare sulle esenzioni fiscali alle fondazioni private, diretta da Wright Patman, si verificò una fuga di notizie che identificava otto di queste come coperture della CIA. Esse sarebbero state nient’altro che buche per lettere cui corrispondeva solo un indirizzo, approntate dalla CIA per ricevere denaro dalla stessa, in modo apparentemente legale. Una volta che i soldi arrivavano, le fondazioni facevano una donazione ad un’altra fondazione largamente conosciuta per le sue legittime attività. Contributi, questi ultimi, che venivano debitamente registrati secondo la normativa fiscale vigente nel settore no profit, sui moduli denominati 990-A. L’operazione si concludeva infine con il versamento del denaro all’organizzazione che la CIA aveva previsto dovesse riceverlo.
Le notizie filtrate dalla commissione Patman aprirono, seppure solo per un breve momento, uno squarcio sulla sala macchine dei finanziamenti segreti. Alcuni giornalisti particolarmente curiosi, ad esempio quelli del settimanale “The Nation”, riuscirono a mettere insieme i pezzi del puzzle, chiedendosi se fosse legittimo che la CIA finanziasse, con questi metodi indiretti, vari congressi e conferenze dedicate alla “libertà culturale” o che qualche importante organo di stampa, sostenuto dall’agenzia, offrisse lauti compensi a scrittori dissidenti dell’Europa orientale.
Sorprendentemente (sorprendentemente?), non un solo giornalista pensò di indagare ulteriormente. La CIA eseguì una severa revisione delle sue tecniche di finanziamento, ma non ritenne opportuno riconsiderare l’uso delle fondazioni private come veicoli per il finanziamento delle operazioni clandestine. Anzi, secondo l’agenzia, la vera lezione da apprendere in seguito allo scandalo suscitato dalla commissione Patman era che la copertura delle fondazioni per erogare i finanziamenti doveva essere usata in maniera più estesa e professionale, innanzitutto sborsando fondi anche per i progetti realizzati sul suolo degli Stati Uniti.
Michael Josselson, dalla fine di quel anno, tentò di proteggere la sua creatura dalle rivelazioni, considerando pure di mutarne il nome, e cercò persino di recidere i legami economici con la CIA sostituendoli in toto con un finanziamento della Fondazione Ford.
Tutto ciò non valse a nulla se non a posticipare un esito ormai segnato. Il 13 maggio 1967 si tenne a Parigi l’assemblea generale del Congresso per la libertà della cultura che ne sancì la sostanziale fine, pur se le attività si trascinarono, stancamente ed in tono assai minore, fino alla fine degli anni settanta.

Era infatti successo che la rivista californiana “Ramparts”, nell’aprile 1967, aveva pubblicato un’inchiesta sulle operazioni segrete della CIA, nonostante una campagna di diffamazione lanciata a suo danno nel momento in cui l’agenzia era venuta a conoscenza del fatto che la rivista era sulle tracce delle sue organizzazioni di copertura. Le scoperte di “Ramparts” furono prontamente rilanciate dalla stampa nazionale e seguite da un’ondata di rivelazioni, facendo emergere le coperture anche al di fuori degli Stati Uniti, a cominciare dal Congresso e le sue riviste.
Già prima delle denunce di “Ramparts”, il senatore Mansfield aveva chiesto un’indagine parlamentare sui finanziamenti clandestini della CIA, alla quale il presidente Lyndon Johnson rispose istituendo una commissione di soli tre membri. La commissione Katzenbach, nella sua relazione conclusiva emessa il 29 marzo 1967, sanzionava ogni agenzia federale che avesse segretamente fornito assistenza o finanziamenti, in modo diretto od indiretto, a qualsiasi organizzazione culturale statale o privata, senza fini di lucro. Il rapporto fissava la data del 31 dicembre 1967 come limite per la conclusione di tutte le operazioni di finanziamento segreto della CIA, dandole così l’opportunità di concedere un certo numero di sostanziose assegnazioni finali (nel caso di Radio Free Europe, questo importo le avrebbe permesso di continuare a trasmettere per altri due anni).
In realtà, come si evince da una circolare interna poi emersa nel 1976, la CIA non vietava le operazioni segrete con organizzazioni commerciali statunitensi né i finanziamenti segreti di organizzazioni internazionali con sede in Paesi stranieri. Molte delle restrizioni adottate in risposta agli eventi del 1967, più che rappresentare un significativo ripensamento dei limiti alle attività segrete dell’intelligence, appaiono piuttosto misure di sicurezza volte ad impedire future rivelazioni pubbliche che potessero mettere a repentaglio delicate operazioni della stessa CIA.

Ne vogliamo riparlare?

N.B.: la fonte principale delle informazioni presentate in questo articolo è il libro “Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale” di Frances Stonor Saunders, pubblicato per la prima volta nel Regno Unito nel 1999 ed in traduzione italiana da Fazi Editore nel 2004 nella collana “Le terre” e nel 2007 in quella “Tascabili saggi”.

Vae victis

L’Italia e la Germania hanno perso la guerra.
Negli ultimi settant’anni ogni tanto si sono presi la briga di ricordarcelo, ma non hanno potuto calcare troppo la mano altrimenti si sarebbe potuta spezzare la corda.
Ci hanno fatto vivere al di sopra delle nostre possibilità perchè era il modo più intelligente per controllarci e perchè dovevamo fungere da vetrinetta per far schiattare d’invidia i cittadini del Patto di Varsavia e facilitare l’inoculazione di quel sentimento anti-russo che tanto utile sta tornando in questi tempi per tenere lontana l’Europa Occidentale dall’unica possibilità che ha per affrancarsi dal giogo imperiale: un’alleanza strategica con la Russia (il nostro posto nel frattempo è stato preso dai Polacchi, dai Baltici, dai Cechi, che ora vivono nell’illusione che ha caratterizzato i nostri anni più belli).
Caduto il Muro, hanno polverizzato un’intera classe dirigente ambigua (per loro) e fatto avanzare le quinte colonne storiche (Napolitano in primis) e le seconde linee preventivamente indottrinate all’atlantismo, al neoliberismo, al carrierismo (in Germania con la Baerbock addirittura stanno per promuovere le seste linee: ma è gggiovane, è donna, è “green”, cosa si può voler di più dalla vita ? Forse si accorgeranno tra una decina d’anni del calibro che hanno usato per spararsi nelle mutande; del resto noi ancora non l’abbiamo capito).
Nel momento stesso in cui hanno rimosso la minaccia del socialismo reale, hanno iniziato a richiedere indietro, un poco alla volta, tutti i fringe benefit che avevano concesso per rammollire la popolazione, nascondere lo status di Paesi occupati, disinnescare la resistenza e per marcare la differenza con l’Impero del Male (diritti sociali, garanzie costituzionali, standard di vita tra i più alti al mondo) e sono gradualmente passati, modello rana bollita, dal soft power (cit. Joseph Samuel Nye) allo hard power che stiamo vivendo in questi giorni.
Questo cambio di paradigma nei Paesi sotto occupazione mascherata è estremamente pericoloso visto che non può essere indolore e pertanto necessita di provvedimenti da Paese sotto controllo militare: sistemi di sorveglianza di massa, coprifuoco, Stato di polizia, chiusura delle frontiere, check point, pass sul modello dell’ahnenpass nazista, amministrazione controllata dell’economia con particolare riferimento alla libera impresa, normalizzazione dell’autoritarismo a partire dalle scuole, criminalizzazione del dissenso, propaganda sfrenata, promozione sociale dei collaborazionisti, apartheid…
Il passaggio dal soft allo hard power richiede un periodo di transizione, necessario per riprogrammare attraverso la propaganda e la manipolazione occulta le menti dei popoli sotto occupazione e per costruire le infrastrutture necessarie per l’esercizio del governo autoritario.
E questo è esattamente il momento che stiamo vivendo: il Sistema sta velocemente abbandonando la vecchia pelle democratica, ormai troppo stretta e lacerata, e sta consolidando all’aria la nuova, più robusta e adatta a contenere un corpo sociale non ancora pronto per la svolta autoritaria.
Questa è l’ultima occasione che abbiamo, dobbiamo agire mentre sono in muta, è l’unico momento di vulnerabilità del Sistema; una volta cambiata la pelle, inizierà l’epoca della repressione manu militari del dissenso oppure, in caso estremo, la guerra civile.
E’ chiaro che per uscirne non c’è altra via che una guerra di liberazione, prima ce ne rendiamo conto, meglio sarà per tutti.
Bisogna spiegarlo anche ai nostri fratelli oltre le Alpi e oltre cortina sanitaria, perchè una cosa sola è certa, da soli non ne usciremo liberi.
Giorgio Bianchi

Continente eurasiatico

La presentazione del nuovo libro di Marco Pondrelli, con prefazione dell’ambasciatore Alberto Bradanini, sull’attualità dell’emergente multipolarismo geopolitico, le prospettive di integrazione eurasiatica ed i tentativi di “contenimento” da parte dell’Occidente americanocentrico tramite i dispositivi militari, mediatici e d’intelligence atlantici.

“Col sangue l’Italia è stata avvertita”


“Ci hanno avvertito, ci hanno mandato a dire con la strage che l’Italia deve stare al suo posto sulla scena internazionale. Un posto di comparsa, di aiutante. Ci hanno fatto sapere col sangue che il nostro Paese non può pensare di muoversi da solo nel Mediterraneo. Ci hanno ricordato che siamo e dobbiamo restare subalterni. E noi non abbiamo un sistema di sicurezza nazionale capace di opporsi a questi avvertimenti. I nostri servizi di sicurezza sono inefficienti perché così li hanno voluti gli accordi internazionali. Non difendono l’Italia perché non debbono difenderla. Sono funzionali alla nostra condizione di inferiorità. Altro che strage fascista: è accaduto qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che pone il problema della nostra autonomia internazionale”.
Rino Formica è capogruppo dei deputati del PSI, il partito del Presidente del Consiglio. E’ stato commissario nell’indagine parlamentare sulla P2. Sa quello che il Parlamento conosce dell’ attività dei nostri servizi segreti. Sa quello che il governo davvero temeva prima della strage e soprattutto quello che il governo teme oggi. Ragiona sul macello del treno 904 e arriva a una conclusione che gli appare ferrea: “La strage è un avvertimento venuto da fuori ma questo non assolve nessuno. Anzi, evidenzia drammaticamente la debolezza del nostro Stato, la precarietà della nostra democrazia, la pigrizia mentale delle nostre forze politiche. Ci hanno avvertito e facciamo finta di non capire”.
Un momento, onorevole, chi ci ha avvertito?
“Da due anni abbiamo una presenza internazionale più autonoma. Con un atto di guerra ci hanno detto di smetterla”.
E’ solo una mezza risposta la sua. Le chiedo: anche lei parla di pista internazionale. Si riferisce alle minacce di vendetta degli estremisti islamici, a Paesi spesso tirati in ballo per atti di terrorismo come la Libia?
“Per carità, le vendette internazionali si consumano in modo mirato. Se qualcuno vuole che l’ Italia liberi i Libanesi che ha messo in carcere sequestra degli Italiani. Se qualcuno volesse punirci per fatti specifici fa presto a far fuori tecnici o diplomatici italiani. La pista internazionale di cui parlo io non è il folklore sui cattivi nel mondo. E’ purtroppo una cosa più seria”.
E allora ci dica dove porta questa pista.
“Voglio partire da quanto ho visto l’altro giorno in Parlamento, mentre si discuteva della strage: uno spettacolo desolante, un’assemblea stordita. Tutti contenti nel dire fascismo contro antifascismo, rifacciamo l’unità e stiamo a posto. Che pochezza emiliana. E allora io provo a ragionare. Abbiamo avuto due fenomeni terroristici: uno rosso che nasce dalla costola dell’ estremismo marxista e cattolico e che è stato qualcosa di carattere sostanzialmente nazionale, un terrorismo che mirava ai simboli, un terrorismo logico. L’altro crea paura di massa. Ma ci domandiamo cosa vuol dire: significa che non dobbiamo compiere passi azzardati, non dobbiamo andare oltre certi confini. Questo è il senso delle stragi. La strage è una decimazione indiscriminata. Può venire dall’interno se si è in presenza di una guerra civile. Altrimenti appartiene a una logica esterna, anche se può trovare pali, manovalanza e supporti in sede locale”.
Questa, onorevole, è la premessa di un ragionamento. Dove sta la conclusione?
“Ci arrivo, ci arrivo. Ma ancora qualche considerazione: la strage di Natale è così perfettamente copiata su quella dell’Italicus da avere dentro di sé le caratteristiche del depistaggio. Ce la prendiamo col fascista assassino così come abbiamo fatto per le altre stragi. E non a caso non abbiamo mai trovato nessun colpevole. Tranne in un caso: il 17 maggio del 1973 in via Fatebenefratelli Gianfranco Bertoli, ex informatore del SIFAR, lancia una bomba contro il presidente del Consiglio Rumor. Quattro morti, decine di feriti. Sedicente anarchico veniva da un kibbutz israeliano. Se lo sono dimenticato tutti, eppure è l’unico filo, l’ unico nome che abbiamo in materia di stragi”.
E allora?
“Allora vuol dire che non sappiamo o non vogliamo indagare e ragionare sulle stragi. Le voglio ricordare un’altra cosa: il 5 novembre del 1972 Forlani, il cauto Forlani, parlava della Rosa dei venti come del tentativo più pericoloso della destra italiana dal dopoguerra e aggiungeva: un tentativo ancora in corso. Un tentativo con collegamenti internazionali. Da allora Forlani non ne ha parlato più. Di Bertoli nessuno ha parlato più”.
E quale sarebbe la verità che nessuno in fondo vuol conoscere?
“Quella per cui le stragi servono per introdurre avvertimenti a fini interni e quella per cui il nostro Paese è troppo debole per difendersi”.
Torniamo alla domanda originaria. Difendersi da chi?
“Non puoi crescere in democrazia, non puoi accettare sfide mondiali, stare al centro di un’area di guerra come il Mediterraneo e avere dei servizi di sicurezza funzionali, nati e cresciuti per la subalternità internazionale. Non puoi essere fino in fondo autonomo all’interno delle alleanze se i nostri servizi di sicurezza nemmeno hanno la parità dei flussi d’informazione con quelli alleati”.
Insomma, qualcuno ci ha avvertito, dall’estero e col sangue, che stavamo diventando troppo autonomi. E i nostri servizi di sicurezza non sono serviti a nulla. E’ così?
“E’ così e io credo che vada rinegoziata l’integrazione dei sistemi di sicurezza con i servizi analoghi dei Paesi alleati”.
Onorevole Formica, l’avvertimento di cui lei parla, la richiesta che i nostri servizi di sicurezza siano messi su un piano di parità con quelli alleati, vogliono dire che quella bomba sul treno è stata messa per iniziativa di qualche servizio segreto straniero. Qualcosa che i nostri avrebbero potuto sapere e non hanno saputo.
“E’ plausibile che sia andata così”.
E quale servizio è plausibile che sia l’ organizzatore dell’ avvertimento?
“Forse l’ uno, forse l’ altro. A certi livelli si scambiano favori. Io questo non lo so ma so che i nostri non funzionano”.
Già, se non sanno quello che fa il KGB o la CIA o altri che ci stanno a fare?
“Le racconterò tra un attimo dei servizi. Ma prima voglio spiegare meglio perché ci mandano questi avvertimenti. A metà e alla fine degli anni Settanta ci dissero che non potevamo procedere speditamente ad un’evoluzione democratica perché questo metteva in circolo forze politiche di cui era discutibile la fedeltà internazionale”.
Si riferisce a quello che fu il tentativo di Moro?
“Anche. Quello che di Moro all’estero non potevano accettare era la sua disponibilità a stare con i comunisti. Potevano accettare dei comunisti al governo, come poi accadrà in Francia. Non potevano accettare una sorta di democrazia popolare in Occidente”.
E anche la morte di Moro fu un avvertimento?
“Questo non posso dirlo. Non posso stabilire rapporti di causa ed effetto. Posso dire che quel tentativo in parte ambiguo di autonomia nazionale fu osteggiato. Oggi però il problema è diverso”.
Oggi per che cosa ci hanno avvertiti?
“Perché stavamo diventando un Paese che cominciava a dire la sua. In campo economico, sullo scacchiere del Mediterraneo. Perché stavamo diventando nazione all’interno delle alleanze. E invece ci ricordano che al massimo possiamo mandare qualche corvetta da qualche parte. Oggi non è problema di questa o quella forza politica al governo. Chiunque comandi in Italia deve ricordarsi di stare al suo posto”.
E deve smettere di far girare ministri degli Esteri e presidenti del Consiglio nel Mediterraneo?
“Deve ricordarsi delle nostre dipendenze internazionali. Questo è l’avvertimento. In quest’area un’Italia protagonista dà fastidio sia ad Est che ad Ovest”.
Dicevamo dei nostri servizi segreti…
“Il giorno 20 dicembre viene Scalfaro in Parlamento. Dice: l’ Italia è un Paese senza frontiere, entra ed esce chi vuole, il libanese ammazzato a Roma non sappiamo come si chiama, come è venuto. Promette: metterò ordine negli stranieri all’Università di Perugia. Gli dico: bravo, ma ricordati che perfino i finti studenti di Perugia sono stati contrattati internazionalmente. Voglio dire che nei nostri servizi la devianza è certamente rilevante ma peggio è la loro inefficienza. Inefficienza voluta al loro atto di nascita sancita negli accordi. E nel buco nero dell’inefficienza nasce la devianza: Non potendo, non dovendo difendere il Paese, s’industriano a spiare i politici, a stendere dossier”.
Che vuol dire inefficienza?
“Vuol dire che quando gli Americani hanno deciso tempo fa di sospendere il flusso delle informazioni in loro possesso, siamo rimasti ad aspettare che cambiassero idea. Vuol dire che i sistemi di reclutamento sono incredibili. Poiché i servizi sono segreti, una delle garanzie di riservatezza è che ognuno tira dentro un parente. Vuol dire che riciclano le informazioni delle Questure. Vuol dire, un esempio: dieci anni fa segnalano Freda in Grecia. Si discute come andarlo a prendere. Si decide: lo rapiamo. Si appalta l’ operazione al camorrista Zaza in cambio di denaro e impunità. Zaza subappalta il rapimento. Il rapimento fallisce. Freda resta libero. Zaza vola via con i soldi. Ecco i nostri servizi”.
Ma non sono gli stessi servizi che avevano detto a Craxi che “signori con la valigia giravano per l’ Italia”?
“Ma quelle sono soffiate che arrivano a centinaia. Col senno di poi ci si ripensa. Ma se volessimo ascoltarle i treni bisognerebbe fermarli tutti ogni giorno. Quando ero ministro dei Trasporti il direttore generale mi diceva: fermiamo solo quando la telefonata arriva ai Carabinieri perché i Carabinieri si presentano in stazione, altrimenti potremmo chiudere tutte le linee per sempre”.
Craxi, perché non è andato a Bologna?
“Sbaglia chi critica la sua assenza. Non ha potuto, ma sarebbe stata una risposta vecchia. Altre sono le risposte: non smettere una politica di pace nel Mediterraneo…”.
Ignorare l’avvertimento?
“Possiamo fare solo due cose: o rientrare nei ranghi o dotare il Paese di sistemi di difesa e di sicurezza adeguati alle nostri ambizioni. Ci sarebbe una terza cosa da fare: diventare una democrazia compiuta, ma altri ci hanno messo secoli, noi ci proviamo da appena due generazioni. E purtroppo, nel dopoguerra si è scelta una democrazia del compromesso, una democrazia lenta”.
Onorevole, che vuol dire non smettere una politica di pace nel Mediterraneo?
“Vuol dire che una volta si sta con Israele e una volta no”.
E che vuol dire capire l’avvertimento senza subirlo?
“Vuol dire sofferenza per tutti i partiti. Perché significa imparare a discriminare il bene e il male sullo schieramento internazionale senza garanzie e certezze. Vuol dire diventare nazione. L’unità antifascista, purtroppo, non basta più né per capire né per fermare le stragi. E’ questo il dramma della pista internazionale, quella vera”.

Intervista di Mino Fuccillo, 29 dicembre 1984

Come abbiamo venduto l’Unione Sovietica e la Cecoslovacchia per qualche borsa di plastica

Il nostro omaggio ad Andre Vltchek, giornalista e scrittore, autore di una ventina di libri, scomparso lo scorso 22 settembre a Istanbul in circostanze che la polizia turca ha definito sospette.
Una nota biografica di Vltchek è qui.
La medesima fonte ha tradotto un suo recente articolo tratto dal China Daily, che riportiamo insieme a due contributi video risalenti a qualche anno fa.

Da mesi c’è una storia che voglio condividere con i giovani lettori di Hong Kong. Ora sembra essere davvero il momento appropriato in cui infuria la battaglia ideologica fra l’Occidente e la Cina e, di conseguenza, Hong Kong e il mondo intero ne soffrono.
Voglio dire che non c’è niente di nuovo in questo, che l’Occidente ha già destabilizzato moltissimi Paesi e territori, ha fatto il lavaggio del cervello a decine di milioni di giovani.
Io lo so, perché nel passato ero uno di loro. In caso contrario, mi sarebbe impossibile comprendere che cosa sta ora succedendo ad Hong Kong.
Sono nato a Leningrado, una bella città nell’Unione Sovietica. Ora si chiama San Pietroburgo, e il Pese è la Russia. La mamma, artista e architetto, è per metà russa e per metà cinese. La mia infanzia era divisa tra Leningrado e Pilsen, una città industriale nota per la sua birra, all’estremità occidentale di quella che fu la Cecoslovacchia. Papà era uno scienziato nucleare.
Le due città erano diverse. Entrambe rappresentavano qualcosa di essenziale nella pianificazione comunista, un sistema che ci veniva insegnato, dai propagandisti occidentali, a odiare.
Leningrado è una delle città più stupende al mondo, con alcuni dei più grandi musei, teatri dell’opera e del balletto, spazi pubblici. In passato fu la capitale russa.
Pilsen è minuta, con soli 180.000 abitanti. Ma quando ero piccolo contava parecchie biblioteche eccellenti, cinema d’arte, un teatro dell’opera, teatri d’avanguardia, gallerie d’arte, il giardino zoologico, con cose che non si potevano trovare, come ho realizzato in seguito (quando era troppo tardi), nemmeno nelle città statunitensi da un milione di abitanti.
Ambedue le città, una grande e una piccola, avevano eccellenti trasporti pubblici, vasti parchi e foreste che lambivano le periferie, nonché eleganti caffè. Pilsen aveva innumerevoli impianti da tennis, stadi di calcio e persino campi da badminton.
La vita era bella, significativa. Era ricca. Non ricca in termini di denaro, ma ricca dal punto di vista culturale, intellettuale e salutare. Essere giovani era divertente, con il sapere libero e facilmente accessibile, con la cultura ad ogni angolo, e sport per tutti. Il ritmo era lento: abbondanza di tempo per pensare, apprendere, analizzare.
Ma era era anche il culmine della Guerra Fredda.
Eravamo giovani, ribelli, e facili da manipolare. Non eravamo mai soddisfatti di ciò che ci veniva dato. Davamo tutto per scontato. Di notte stavamo incollati ai ricevitori radio, ascoltando la BBC, Voice of America, Radio Free Europe ed altri servizi di trasmissione mirati a screditare il socialismo e tutti i Paesi che combattevano contro l’imperialismo occidentale.
I conglomerati industriali socialisti cechi stavano costruendo, per solidarietà, intere fabbriche, dalle acciaierie agli zuccherifici, in Asia, Medio Oriente ed Africa. Ma non vedevamo alcuna gloria in questo perché i mezzi di propaganda occidentale semplicemente ridicolizzavano simili imprese.
I nostri cinematografi mostravano capolavori del cinema italiano, francese, sovietico e giapponese. Ma ci veniva detto di chiedere l’immondizia proveniente dagli USA.
L’offerta musicale era grandiosa, dal vivo e registrata. Quasi tutta la musica era di fatto a disposizione, sebbene con qualche ritardo, nei negozi locali e persino sul palco. Quella che non si vendeva nei nostri negozi era la spazzatura nichilista. Ma era precisamente ciò che ci veniva detto di desiderare. E noi la desideravamo, e la copiavamo con religiosa riverenza, sui nostri registratori a nastro. Se qualcosa non era disponibile, i media occidentali gridavano che era una grossolana violazione della libertà di parola.
Sapevano, e ancora oggi sanno, come manipolare giovani cervelli.
A un certo punto ci siamo trasformati in giovani pessimisti, criticando ogni cosa nei nostri Paesi, senza raffronti, senza nemmeno un po’ di obiettività.
Suona familiare?
Ci veniva detto, e noi ripetevamo: ogni cosa nell’Unione Sovietica o in Cecoslovacchia era negativa. Tutto in Occidente era grandioso. Sì, era simile a qualche religione fondamentalista o follia di massa. Quasi nessuno era immune. Di fatto eravamo infettati, eravamo malati, trasformati in idioti.
Utilizzavamo strutture pubbliche, socialiste, dalle librerie ai teatri, ai caffè sovvenzionati, per glorificare l’Occidente ed infangare le nostre stesse nazioni. Ecco com’eravamo indottrinati, dalle radio e dalle stazioni televisive occidentali, e dalle pubblicazioni introdotte clandestinamente nei Paesi.
A quei tempi le borse di plastica dell’Occidente erano divenute uno status symbol! Sapete, quelle buste di plastica che ti danno in alcuni supermercati economici o ai grandi magazzini.
Quando ci penso a distanza di parecchi decenni, faccio fatica a crederci: giovani ragazze e ragazzi istruiti, che passeggiavano orgogliosamente per le strade, esibendo economiche borse di plastica, per le quali avevano pagato una grossa somma di denaro. Perché venivano dall’Occidente. Perché simboleggiavano il consumismo! Perché ci veniva detto che il consumismo era buono.
Ci veniva detto che dovevamo desiderare la libertà. La libertà in stile occidentale.
Eravamo addestrati a “combattere per la libertà”.
Per molti versi, eravamo molto più liberi dell’Occidente. L’ho capito quando sono arrivato a New York e ho visto com’erano educati male i ragazzini locali della mia età, com’era superficiale la loro conoscenza del mondo. Quanta poca cultura c’era, nelle ordinarie città nordamericane di medie dimensioni.
Volevamo, chiedevamo i jeans firmati. Bramavamo le etichette musicali occidentali al centro dei nostri LP. Non si trattava dell’essenza o del messaggio. Era la forma al di sopra della sostanza.
Il nostro cibo era più gustoso, prodotto ecologicamente. Ma noi volevamo l’imballaggio colorato occidentale. Chiedevamo gli additivi chimici.
Eravamo costantemente arrabbiati, agitati, litigiosi. Ci mettevamo contro le nostre famiglie.
Eravamo giovani, ma ci sentivamo vecchi.
Ho pubblicato il mio primo libro di poesia, poi me ne sono andato, ho sbattuto la porta dietro di me, mi sono trasferito a New York.
Poco dopo ho capito che mi avevano ingannato!
Questa è una versione molto semplificata della mia storia. Lo spazio è limitato.
Ma sono lieto di poterla condividere con i miei lettori di Hong Kong e, naturalmente, con i miei giovani lettori in tutta la Cina.
Due Paesi meravigliosi che furono la mia casa sono stati traditi, letteralmente venduti per nulla, per paia di jeans firmati e borse di plastica.
L’Occidente festeggiava! Mesi dopo il crollo del sistema socialista, entrambi i Paesi sono stati letteralmente derubati di ogni cosa dalle aziende occidentali. La gente ha perso la casa e il lavoro, e l’internazionalismo veniva scoraggiato. Orgogliose aziende socialiste venivano privatizzate e, in molti casi, liquidate. I teatri e i cinema venivano convertiti in economici negozi d’abbigliamento di seconda mano.
In Russia l’aspettativa di vita è crollata a livelli da Africa subsahariana.
La Cecoslovacchia è stata divisa in due parti.
Oggi, decenni dopo, sia la Russia che la Repubblica Ceca sono di nuovo ricche. La Russia ha molti elementi di un sistema socialista con panificazione centrale.
Ma mi mancano i miei due Paesi, com’erano una volta, e tutti i sondaggi mostrano che mancano anche alla maggioranza della gente del posto. Mi sento anche in colpa, giorno e notte, per essermi fatto indottrinare, usare, e in modo da tradire.
Dopo aver visto il mondo, ho compreso che cos’era accaduto sia all’Unione Sovietica che alla Cecoslovacchia, e anche in molte altre parti del mondo. E proprio adesso l’Occidente mira alla Cina, usando Hong Kong.
Ogni volta in Cina, ogni volta ad Hong Kong, continuo a ripetere: non seguite il nostro terribile esempio. Difendete la vostra nazione! Non vendetela, metaforicamente, per alcune puzzolenti borse di plastica. Non fate qualcosa di cui vi pentireste per il resto della vostra vita!
Andre Vltchek

La lunga lotta in nome delle generazioni future

«Mi sono convinto che anche quando tutto sembra perduto bisogna mettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio».
Il sì al taglio della rappresentanza parlamentare ha vinto com’era purtroppo prevedibile.
Nessuno dei grandi partiti presenti in Parlamento si è speso per il no e hanno anzi tutti dato indicazione per il sì. Tutti, compresi quelli che qualcuno si ostina ancora a chiamare opposizione (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia).
Entrando più nel dettaglio però, la rimonta del no è stata evidente rispetto alle percentuali di qualche mese fa.
Questo è successo perché altri hanno fatto, con ogni mezzo possibile e con notevole dispendio di tempo, campagna in favore del no. Sui social, nelle piazze, nelle aule consiliari e in quelle municipali.
Piccoli partiti, sia dentro che fuori dal Parlamento, associazioni, costituzionalisti e via dicendo.
Quel 30% di elettori che nonostante tutto ha votato per il no, rappresenta per noi un buon inizio. Un ottimo inizio.
Questo senza contare il 46% di aventi diritto che a votare non ci è neanche andato e che non è di certo classificabile aprioristicamente come sostenitore del sì.
Oggi in Parlamento, come andiamo dicendo da tempo, sono presenti solo forze liberali e liberiste. Mancano partiti socialisti. Mancano partiti che vogliano rimettere al centro dell’azione politica la Costituzione.
Il voto popolare va rispettato. Sempre. Ma va anche capito, analizzato.
Veniamo da più di 30 anni di propaganda a senso unico. Salvo poche, pochissime, eccezioni. Propaganda unionista, propaganda anti-italiana, propaganda che ha fatto dell’anti-politica il suo punto di forza.
Il lavoro da fare è immenso. E lungo. Non è vero che non c’è tempo. Di tempo, fortunatamente, ce n’è. E tanto.
Nel mentre le cose andranno peggio per l’Italia? Molto probabilmente sì. Quelli che avranno il compito della rinascita italiana, quando sarà il momento, governeranno sulle macerie. In senso figurato, non come dopo i bombardamenti di una guerra. Ma socialmente, culturalmente ed economicamente sempre di macerie si tratterà.
Siamo sopravvissuti, nella nostra lunga storia, a catastrofi peggiori. Ci riprenderemo anche da questa. Ma servirà l’impegno, la dedizione di tanti cittadini. Si tratterà di un lavoro lungo, a volte frustrante, ma doveroso.
Lo dobbiamo ai nostri nonni e ai nostri padri. Lo dobbiamo a noi stessi. Ma, soprattutto, lo dobbiamo alle nuove generazioni. E a quelle future.
Abbiamo il dovere, non solo morale, di fare il possibile – e forse anche l’impossibile – per non lasciare loro un Paese peggiore di quello in cui siamo nati. Abbiamo il dovere di preparagli una strada meno irta di ostacoli.
È un dovere che riguarda tutti noi, singolarmente. E riguarda tutte quelle forze che si spendono da anni per il ripristino della Costituzione e la rottura della gabbia unionista.
Sta a noi mettere da parte eventuali divergenze, eventuali personalismi, e iniziare a lavorare insieme in vista dell’appuntamento elettorale del 2023.
Mantenendo ognuno le proprie specificità, ma combattendo fianco a fianco per un obiettivo comune.
Questa non è la fine della lotta. È solo l’inizio.
Gilberto Trombetta

Libertà di stampa o libertà di menzogna?

Il Coronavirus sta ottundendo le facoltà cerebrali, prima ancora che attaccare i polmoni. Navighiamo in un oceano di follia. Ho scritto più volte che la prima “emergenza” in Italia è la cosiddetta informazione, che è controllata in gran parte da due gruppi finanziari, ed è assolutamente omologata culturalmente, oltre che politicamente a senso unico, e povera, spesso poverissima sul piano della mera capacità giornalistica, non di rado anche nella padronanza della lingua italiana.
Ho raccontato qualche giorno fa la vicenda del vergognoso articolo di tale Jacopo Jacoboni su uno dei più “allineati” quotidiani italiani, “La Stampa”. L’articolo sulla base di fonti non specificate di autorità militare e politiche italiane insinuava che gli aiuti russi all’Italia in difficoltà non fossero che un escamotage per mettere una zampa nel Paese, allontanandolo dagli “alleati storici” (ossia lo Zio Sam, nostro padrone assoluto dal 1947) e che oltre tutto quegli aiuti erano “per oltre l’80%” assolutamente inutili.
L’articolo, un esempio di che cosa non debba essere il giornalismo (sarebbe da far studiare nelle sedicenti scuole che scuciono denaro a giovani illudendoli di avviarli alla professione), era stato ridicolizzato, con la verve che gli è propria, da Marco Travaglio, sul “Fatto Quotidiano”. Travaglio, è noto, è non solo una penna caustica, ma un signor giornalista, uno che evita le supposizioni, e prova a raccontare i fatti sulla base di una documentazione accertata. Del resto il signor Jacoboni gli aveva fornito ampia messe di scempiaggini, al limite del caricaturale, per cui era facile affondare il suo pseudo-argomentare. E ricordo che Travaglio è dichiaratamente uomo che politicamente si schiera a destra, ma, a differenza di Jacoboni, è un vero giornalista, uno di quelli che dà quotidiane lezioni di informazione. (Il che non toglie che valga anche per lui, come per me!, il detto latino: “quandoquidem dormitat Homerus”! Insomma tutti possiamo sbagliare, ma importante è procedere in modo rigoroso, controllando le fonti, lasciando da parte insinuazioni prive di fondamento, e soprattutto non facendoci “dettare” i nostri articoli da qualche padrone o suo emissario).
Avevo ripreso la questione, denunciando quell’esempio di sciacallaggio, in un momento in cui l’Italia vive una situazione terribile e, ignorata dagli “alleati storici” e abbandonata e persino derisa dai partner europei, riceve aiuti da Paesi esterni, tutti, guarda un po’, appartenenti all’area che era stata del socialismo, o lo era ancora: Repubblica Popolare Cinese, Cuba, Venezuela, Federazione Russa. In particolare da questo grande Paese erano appena giunti aerei cargo che avevano trasportato camion attrezzati con un centinaio di addetti, tutto personale medico e paramedico altamente qualificato, con attrezzature non solo mediche, ma igieniche e sanitarie. Un esempio di organizzazione perfetta oltre che di eccezionale generosità.
Ebbene, “La Stampa” (ma anche altri giornali a cominciare dal sodale “la Repubblica”, ormai appartenente allo stesso gruppo finanziario del quotidiano torinese), sputava su quegli aiuti, aggiungendo elementi di tensione politica, insufflando dubbi e sospetti in una opinione pubblica smarrita e sull’orlo costante di crisi di ansia e di panico.
L’articolo ha generato, come era del tutto ovvio (e personalmente lo avevo previsto) le reazioni irritate del Governo russo, che si è espresso per bocca del suo Ambasciatore a Roma, prima e poi del portavoce del Ministero della Difesa (responsabile della spedizione, trattandosi di mezzi e personale inquadrati nelle Forze Armate della Federazione). Giustamente non solo i comunicati russi facevano osservare la gratuità dell’aiuto russo, e denunciavano come del tutto infondate e perniciose le insinuazioni del sedicente giornalista, ma parlavano di “russofobia” (tema su cui mi sono soffermato più volte negli ultimi tempi, molto prima dell’emergenza Covid 19).
Ebbene, che cosa sarebbe dovuto accadere, quale risposta ci sarebbe dovuta esser da parte della “”? Una sola possibile: un messaggio di scuse.
Invece no, con sufficienza e una notevole dose di superflua arroganza, prima il Direttore Molinari, poi il Comitato di Redazione, subito supportato da quello del gemello “La Repubblica”, hanno risposto lamentando la carente libertà di stampa in Russia, e vantando quella italiana! Secondo un consolidato modello argomentativo, quando si è in difficoltà davanti a precise contestazioni, invece di entrare nel merito, si rovescia l’accusa. Si può fare, ma solo dopo! E nel momento in cui addirittura si creano a livello addirittura governativo, delle “task forces” contro la “fake news”, si può far passare come libertà di stampa la libertà di menzogna?! Siamo davvero a un passo dalla follia.
Lo sconcerto cresce se andiamo a vedere le reazioni politiche: i primi a insorgere, non contro Jacoboni, bensì a suo favore, e dunque contro il Governo russo, sono stati rappresentanti dei Radicali (così ogni tanto scopriamo che esistono ancora, o meglio credono di esistere), del PD, il solito Renzi, che deve non farsi scavalcare, in fatto di tutela della libertà di menzogna, dai suoi ex soci di via del Nazareno, tutti appassionatamente insieme a Forza Italia. Ringalluzzito da tale parterre, il simpatico Jacoboni prima sollecita un pronunciamento ufficiale del nostro Governo (“In Italia non ci facciamo intimidire, qui esiste la libertà di critica. Noi non siamo la Cecenia. Ringrazio i tanti che mi hanno espresso la loro solidarietà, anche se mi sarei aspettato immediatamente una reazione da parte del presidente del Consiglio”). E quando arriva un comunicato congiunto dei Ministeri degli Esteri e della Difesa (“La libertà di espressione e il diritto di critica sono valori fondamentali del nostro Paese, così come il diritto di replica”), Jacoboni, ormai convinto di essere un paladino della libertà di stampa, uno dei nuovi “eroi” sorti nella battaglia contro il Covid 19, non si accontenta. E sentenzia: “Ognuno legga e si faccia un’idea. La nota, dettaglio importante, è firmata dai ministeri della Difesa e degli Esteri italiani. Non è una nota di Palazzo Chigi”.
Ossia, il nuovo Tocqueville, grande teorico della libera stampa, nell’Ottocento, dico Jacoboni, sembra infastidito dal fatto che la Nota inizi con un riconoscimento alla Russia (“L’Italia è grata alla Russia per gli aiuti…”), e soprattutto a lui non bastano due ministri scesi per difendere la sua “professionalità” (!?), pretende che scenda in campo addirittura il Presidente del Consiglio. Il quale evidentemente non ha di meglio da fare, in queste giornate di delirio, di sofferenza nazionale, di confusione, incertezza, paura, che difendere l’onore professionale di Jacopo Jacoboni.
Personalmente, nella mia modesta veste di commentatore, raccogliendo l’invito implicito di Jacoboni (in fondo è il solito “armiamoci e partite!”), proporrei una bella dichiarazione di guerra. Al virus l’abbiamo già fatta, con modesti risultati finora. E sull’onda del patriottico orgoglio di cui sono traboccanti le reti sociali e i balconi d’Italia, avvierei una nuova “campagna di Russia”. Ci andò male, com’è noto, in passato, quando Mussolini mandò a combattere gli Alpini con le scarpe di cartone. D’altronde oggi buttiamo nelle corsie di ospedali giovani e vecchi medici e paramedici senza esperienza e senza mezzi di protezione nell’altra “guerra”. Magari stavolta nelle steppe siberiane ci andrà meglio. Dunque, Mosca sei avvertita!
Angelo D’Orsi

(Fonte)

Fiume e la giustizia sociale: quis contra nos?

Il seguente articolo è tratto dal magazine on-line di analisi dei temi economici e sociali del Circolo SO.R.E.L. (Quaderni di Socialità Responsabilità Economia Lavoro), che intende offrire uno strumento trasversale per attualizzare i temi della partecipazione, del lavoro, della produzione e della democrazia diretta.
Il Circolo SO.R.E.L. è presente anche su Facebook a questo collegamento.

Scisso tra il silenzio imbarazzato di molti e qualche flebile voce, interessata soprattutto alla dimensione estetica di quell’avventura, il centenario dell’impresa fiumana pare scivolar via senza che ci si ponga l’unica vera domanda che conta, se non si preferisce l’onanismo intellettuale alla capacità di trasformazione della realtà: a cent’anni dalla marcia dei legionari di Ronchi verso la “città olocausta”, qual è il lascito che può essere attualizzato di quell’esperienza?
A giudicare dall’urgenza delle sfide che la contemporaneità pone innanzi alle società europee, la Carta del Carnaro resta un faro che può illuminare la strada verso l’avvenire. In particolare, nel testo redatto da Gabriele D’Annunzio e da uno dei padri del sindacalismo rivoluzionario italiano, Alceste De Ambris, è soprattutto la carica social-rivoluzionaria a restare di cogente attualità. Già nel terzo articolo della Carta si definisce un concetto di sovranità inscindibile dalla dimensione sociale e dall’importanza del lavoro. «La Reggenza italiana del Carnaro è un governo schietto di popolo, “res populi” che ha per fondamento la potenza del lavoro produttivo», si legge. E, in un tempo in cui la terza età del capitalismo porta in dote disoccupazione strutturale e precarietà delle esistenze, non sarà inutile ricordare come tra le “credenze religiose” che chiudono la Carta del Carnaro (che nulla hanno a che vedere con le religioni, pur afferendo alla dimensione sacrale della vita) il lavoro è centrale perché «anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo». In una società in cui privatizzare è considerata una necessità e lo Stato arretra dinanzi all’aleatoria e prepotente aggressività del mercato, la Carta del Carnaro ci ricorda come lo Stato venga prima del proprietario, la comunità prima dell’individuo, la politica prima dell’economia. «Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può essere lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro – recita il testo – Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale».
La Carta, poi, si apre con una dicitura significativa: “Della perpetua volontà popolare”. Oggi che esigenze e aspettative del popolo sono mortificate e la crisi della rappresentanza si mostra in tutta evidenza nelle degenerazioni dei sistemi capitalistici, si pone il dilemma di come costruire una diretta volontà popolare. Il binomio democrazia-liberalismo – imposto come elemento ineluttabile, come fosse un pleonasmo – va concettualmente spezzato. Ci può essere democrazia senza liberalismo, e su questo assioma va costruita l’alternativa. Ma non basta la denuncia intellettuale delle storture del presente – pur necessaria e auspicabile – per invertire la rotta. Servono competenze, alternative, proposte. Le sfide poste dall’automazione e dalla precarizzazione del lavoro, la mercificazione del mondo, la negazione del limite e la distruzione dei legami sociali, attendono risposte concrete, trasversali, radicali. Ma anche bagagli leggeri, menti aperte e una tremenda voglia di camminare.
Mario De Fazio

(Fonte – i collegamenti inseriti sono del curatore)

Ci venderanno la moto ma non ci lasceranno mai salire sui loro yachts

“Sono passati 24 anni dalla prima edizione del libro Come ci vendono la moto (sottotitolo “Informazione, concentramento e potere dei media”, n.d.t.) di Noam Chomsky e Ignacio Ramonet. Il giorno per giorno continua a dimostrarci insistentemente che l’industria di vendita di moto truccate è sempre in auge e che ha molti acquirenti.
Il caso della Repubblica Bolivariana del Venezuela è solo uno in più nell’universo della distorsione dell’informazione. In effetti i messaggi che annunciatori, opinionisti, politici, governi e altri rappresentanti della borghesia stanno riversando in questi giorni non sorprendono per nulla. Fanno arrabbiare, ma non sono niente di nuovo. Devono vendere la loro moto, il loro prodotto, in questo caso la re-instaurazione di un modello neoliberista al servizio del capitale, avvolto nella carta della democrazia e della libertà.
Preoccupano di più, invece, la maggioranza disposta a comprare questo prodotto e a fare propaganda gratuita per esso, cercando di convincere i suoi simili della necessità e della bontà della moto truccata, ripetendo all’infinito gli slogans pubblicitari della casa commerciale. E, più ancora, quando queste persone si dicono progressiste e preoccupate dei problemi della società e del mondo.
L’acquirente di moto truccate parla del regime di Maduro, del suo governo autoritario e dittatoriale, e ripete senza fine che sono necessarie elezioni libere. Ma non si è scomodato a verificare come si sono svolti i processi elettorali in Venezuela negli ultimi vent’anni e come il chavismo abbia vinto 19 competizioni elettorali ed un referendum revocatorio e ne abbia perso solo due, alla presenza di osservatori internazionali che hanno garantito tali processi elettorali.
Non si è scomodato neppure a verificare la percentuale di appoggio ottenuto nelle elezioni del 2018 da Maduro tra i votanti (67,8%) e sui votanti in totale (44,5%); percentuali maggiori di quelle di Trump (46,09% e 27,2%), Duque – Colombia (54,0% e 28,7%), Macri – Argentina(51,3% e 40,4%), Bolsonaro – Brasile (55,13% e 39,23%), Rajoy – Spagna (33,0% e 21,7%) o Urkullu – Spagna (37,36% e 22,3%), nelle loro rispettive ultime elezioni.
Il fatto è che informarsi esige di disturbarsi a farlo, ed è sempre più facile e comodo ripetere frasi semplicistiche. Conoscere la realtà, cercare di informarsi al di là degli slogans di 20 secondi, dei messaggi di Twitter o dei video di provenienza sconosciuta distribuiti dalle reti social, mette allo scoperto nuovi aspetti da considerare, genera dubbi e mette in discussione letture categoriche.
E’ più comodo, produce meno contraddizioni e meno insicurezza far partire la moto truccata e circolare con essa, nonostante non si sappia bene chi ce l’ha venduta, se le caratteristiche tecniche sono realmente quelle che ci hanno detto e se ci porterà dove dobbiamo andare.”

Venezuela: compratori di discorsi altrui, di Iñaki Etaio continua qui.

#WeAreMADURO


“L’investitura di Nicolas Maduro, il 10 gennaio, provoca turbolenze politiche e mediatiche. Ri-eletto il 20 maggio del 2018, il presidente del Venezuela affronta un’operazione pianificata e concertata dagli Stati Uniti e i suoi alleati. Prendendo come pretesto iniziale le condizioni elettorali che hanno portato alla vittoria di Maduro, un pugno di governi, dipintosi per l’occasione come “comunità internazionale”, attraverso le multinazionali della comunicazione, hanno deciso di aumentare la pressione sul Venezuela Bolivariano.
Come da consuetudine nel caso del Venezuela, gran parte della comunicazione su larga scala si impegna felicemente in false notizie dimenticandosi del vero significato dell’etica giornalistica.
È opportuno per il lettore scrupoloso e desideroso di separare la verità dal falso, esporre i fatti e tornare alle condizioni dell’elezione di Maduro, analizzando la strategia di Washington per punire un popolo che, da 20 anni, è stato giudicato troppo ribelle e scomodo.”

Capire la nuova offensiva contro il Venezuela, di Romain Migus continua qui.

E il popolo vincerà di sicuro

“Alain Soral sarebbe un’ottima persona per guidare questa nuova forza. È già noto ai lettori inglesi; in Francia è molto popolare, anche se è meno conosciuto dei suoi principali contendenti. Soral ha sostenuto fin dall’inizio il movimento dei GG. Sul suo sito ha pubblicato un interessante mandala politico che illustra la sua posizione e quella degli altri [esponenti politici].
[Soral] posiziona il proprio movimento fra il socialismo e il nazionalismo, tra il laburismo e il tradizionalismo, in opposizione a Macron, che difende il capitalismo e il globalismo, fra il profitto e gli LGBT; mentre la Le Pen preferisce il nazionalismo (come Soral) e il capitalismo (come Macron), Melenchon segue il percorso più familiare del socialismo e del globalismo. Sul mandala, Soral è il nord vero, una posizione altamente simbolica.
Sulla cornice del mandala, si possono leggere dei nomi; i banchieri George Soros e Jacques Attali stanno dietro Macron; il sopra menzionato Cohn-Bendit sta alle spalle di Melenchon; Finkelcraut e Zemmour sono raffigurati dietro a Marine Le Pen; e (sono orgoglioso di farlo notare) i nomi di tre scrittori di Unz Review sono riportati a fianco di Alain Soral, Norman Finkelstein, Gilad Atzmon, et moi, Israel Shamir. Anche Soral ha pubblicato i miei libri e sono molto ottimista nei suoi confronti. Un uomo che non ha paura di usare l’appellativo nazionalsocialista ha decisamente del fegato, sopratutto perché ci sono molti giovani neri e nordafricani nel suo movimento, prevalentemente bianco, nativista e virile.
Le richieste dei GG sono già migliori di qualsiasi altra proposta dei partiti politici di sinistra e di destra. Vogliono che anche i ricchi paghino, non solo la classe media. Vogliono annullare le privatizzazioni, in particolare quella delle ferrovie, reimpiegare i lavoratori e i dipendenti licenziati, reclutare medici per gli ospedali e insegnanti per le scuole per porre fine allo smantellamento dello Stato Sociale. Lasciare l’UE, uscire dalla NATO, fermare le guerre all’estero. Frenare la massiccia immigrazione verso il Paese e, allo stesso tempo, bloccare il saccheggio della ex Africa Francese, perché è questa devastazione che sta spingendo gli Africani ad una fuga in massa verso la Francia. Estromettere dalle gare [pubbliche] chiunque faccia più concessioni del necessario alle aziende e ai loro proprietari, per esempio, tassare le società internazionali.
In breve, gli insorti chiedono di ribaltare le riforme degli ultimi anni, dal momento che tutte le precedenti amministrazioni, quella di destra di Sarkozy, quella di sinistra di Hollande e quella di Macron l’outsider, avevano fatto a gara a chi avrebbe fatto di più per le aziende e meno per la gente (lo chiamano “aumentare la competitività”). Vogliono ritornare alla Francia pre-1991. A quei tempi, i ricchi avevano una paura atavica del comunismo, tenevano in considerazione i lavoratori e permettevano loro di vivere e di prosperare. I ribelli chiedono anche di sganciare i media dal controllo delle élites, dar voce alle persone, ascoltare i loro desideri, e questa è una rivendicazione molto importante.
A giudicare da queste richieste, la Francia è di nuovo alla guida del mondo. Sulle barricate di Parigi, è crollata la distopia neoliberista per la creazione di uno Stato per i super-ricchi. Anche se la rivolta verrà alla fine soffocata, le sue richieste di base serviranno da faro per nuove insurrezioni e nuove rivoluzioni, fino alla vittoria. E il popolo vincerà di sicuro.”

Da Gilets Jaunes – La fine della distopia, di Israel Shamir.

La cartina di tornasole, i conti non tornano ancora

Nulla ci vieta di fare alcune osservazioni critiche al governo in carica anche se consapevoli del fatto che l’unica alternativa sarebbe il Partito Democratico e/o Forza Italia, entrambi nemici di classe e del popolo sovrano.

Non sappiamo se la manovra economica del governo del cambiamento sarà veramente efficace, non abbiamo la certezza se questo governo sia veramente del cambiamento o avrà il tempo per tentar di cambiar le cose. Non sappiamo se riuscirà a risolvere il problema della povertà e rialzare il PIL. Non sappiamo neanche se basterà l’ottimismo o il deficit fissato al 2,4% per ridurre il coefficiente di Gini, quello che misura le disuguaglianze della ricchezza. Non sappiamo neppure se riuscirà a liberare la vita reale dallo spettro dello spread. Non sappiamo se avrà la forza morale per bandire quei tassi d’interesse da usurai che spezzano il popolo. L’economia, ed ancor meno la finanza, non sono una scienza esatta, anzi non sono neanche una scienza, anche se a questo mirano per sedersi poi sul trono dell’indiscutibilità divina.
Certo il governo definito populista e sovranista qualche grattacapo all’Europa delle banche lo ha creato, producendo un pericoloso precedente.
E’ bastato solo che qualcuno dal fondo degli ultimi banchi della classe reclamasse, anche se con aria un po’ sommessa a volte timida, che i compiti dati dai maestri erano insostenibili, e questi subito sono andati su tutte le furie, una lesa maestà, una bestemmia impensabile, ed allora giù con anatemi, richiami e strali avvelenati.
Certamente la sovranità di un nazione si raggiunge attraverso un percorso di grande difficoltà, ma con un po’ di coraggio bisognerà pur partire da qualche parte. Tutto sta però nello stabilire quale è il paradigma di riferimento e cosa noi consideriamo per sovranità. Negli ultimi decenni si è assunto come naturale un assurdo disumano che di naturale non ha nulla, un’insana perversione che ha scandito il tempo della nostra esistenza, capace di orientare ogni cosa che facciamo al fine di non irritare ed innervosire i mercati, mentre questi, i mercati, hanno potuto tranquillamente a loro piacimento, per vendetta o per capriccio, portare sul baratro una nazione sana, indipendentemente dalla sua operosità. Guardando le cose alla radice possiamo affermare sicuramente che la sovranità vera non può prescindere da quella monetaria. Il potere della moneta per l’esistenza di un nazione è così forte ed indispensabile che viene riconosciuto da chiunque sia in buona fede, indipendentemente dal suo orientamento politico o economico.
“Datemi il controllo della moneta e non mi importa chi farà le sue leggi”, scriveva Rothschild, così come il problema fu sentito nella stessa misura da Lenin, per non parlare di Ezra Pound.
Lasciamo stare questo gravoso problema della sovranità monetaria che, nel solo chiederci a chi spetta la proprietà dell’euro, produrrebbe una crisi d’astinenza ai poveri euroinomani, altro che piano B. Non chiediamoci allora a quale entità antidemocratica sono state affidate le chiavi di casa, della zecca in questo caso. Cosa rimane quindi come misura della nostra presunta sovranità se non la nostra visione in termini di geopolitica? Attraverso questa abbiamo l’opportunità, anzi l’obbligo di dichiarare al mondo chi siamo e cosa vogliamo. La politica estera è la cartina di tornasole per chi si batte per la propria e l’altrui sovranità. Chi crede in questa forma d’autogoverno, non può in questo ambito che affermare la propria multipolarità da contrapporre a chi della unipolarità ha fatto una ragione storica, il suo destino manifesto, e che dopo la caduta del muro di Berlino ha colto un segno della provvidenza per la sua realizzazione.
Dal suo insediamento con toni chiari il governo giallo-verde ha tenuto a sottolineare la sua vicinanza geostrategica agli USA, troncando ogni speranza a chi avrebbe voluto un disimpegno magari graduale dalla NATO, non solo per risparmiare quei 70 milioni di euro al giorno di spese militari, ma proprio per liberarsi da un alleato troppo ingombrante e premuroso.
E’ anche vero che si é parlato di revocare le sanzioni alla Russia, novità sul nostro piano politico, ma in questi giorni mentre gli USA hanno deciso di riprendere unilateralmente le sanzioni contro l’Iran (colpevole di esistere come la Siria o la Palestina) e tutti i suoi alleati saranno allora costretti a non acquistare più petrolio iraniano per non incorrere nelle medesimi sanzioni, nessuna flebile voce s’è levata contro un’altra guerra commerciale alla quale ossequiosamente ci accoderemo ancora una volta.
Si ha l’impressione che se riusciamo a parole (finalmente) ad alzar la voce contro la Troika, il senso di riconoscimento nei confronti degli Americani a stelle e strisce é ancora così grande che non ci permette neanche di dubitare mai del loro altruismo e della loro bontà. Riusciamo solo ad annuire, o quando pronunciamo parola é solo per promettere fedeltà eterna, foss’anche quella del premier Conte a Trump per sfavorire la Russia a vantaggio del gasdotto TAP.
Per non parlare di Bolsonaro, dove si chiude il cerchio in cui “di notte tutte le vacche sono nere” e sovraniste. Certamente gli entusiasmi e le congratulazioni sono state fatte a titolo privato da uno dei due vice premier. Comunque si è dimostrato soltanto o la propria malafede sovranista o peggio ancora di non rendersi conto della storia dei fatti per ignoranza o superficialità. Quale è la presunta sovranità che spinge a stare con chi ha nostalgia della più classica delle dittature sudamericane? Pur ammettendo che anche le dittature possono essere sovraniste, pensiamo a Cuba, è da sottolineare che molto peggio sono quelle che lavorano per la spoliazione del Paese per conto terzi. A quel tipo di dittatura, sempre incoraggiata sul piano militare e logistico dagli USA, è sempre seguito il più sfacciato programma di privatizzazioni sul modello dettato dai Chicago boys. Chi svende la propria Patria non sarà mai libero ne starà mai dalla parte del popolo, non basta vincere le elezioni.
I sovranisti in Sud America hanno avuto la tempra di una Evita Duarte Peron, di un Hugo Chavez, di un Ernesto Guevara, di un Salvador Allende, hanno nazionalizzato nell’interesse della propria terra per difendersi dal quel maledetto vicino. Bolsonaro è evidentemente dall’altra parte, vicino a Pinochet, a Faccia d’Ananas Noriega ed a Milton Friedman, questo un vicepremier sovranista lo dovrebbe sapere perché altrimenti i conti, non quelli della manovra ma quelli che valgono veramente per il bene del popolo, perché autentici valori, non tornano.
Lorenzo Chialastri

Il fascismo inesistente vi seppellirà

Partiamo dal convincimento che la verità sia nel tutto, come Hegel insegna, quindi anche nelle sue necessarie interne contraddizioni.
L’antifascismo, cosi come il neofascismo, prescinde da questo tutto, trasformando il fascismo in un archetipo che è quello che gli altri hanno deciso per lui. Una valutazione unica è doverosa non certo per una volontà riabilitativa, ma soltanto per avere un’arma in più per una corretta interpretazione, non del passato, ma del presente che, stando così le cose, pesa molto di più perché drogato.
Per questo è particolarmente illuminante il significato del termine fascismo così come evocato dagli antifascisti.
Il suo uso prescinde da una valutazione storica, così come da una politica o filosofica, il suo uso non è neanche quello di un semplice aggettivo denigratorio, ma è un investimento per garantirsi sempre il diritto all’ esistenza e alla ragione. Prescinde persino dallo spazio temporale, persino da una prospettiva manichea, come se il fascismo, in quanto Male Assoluto, fosse sempre esistito. Una cloaca comunque da contrapporre alla propria autoreferenzialità. Al suo cospetto, tutto sembra svanire, dal colonialismo, alla tratta degli schiavi, allo sterminio degli Indiani d’America, al genocidio degli abitanti della Tasmania, persino lo sfruttamento sembra così sopportabile dinanzi al fascismo, la “legge bronzea dei salari” di Ricardo finisce per coincidere con una piattaforma per il rinnovo contrattuale.
L’antifascismo diventa l’abito buono che da i super poteri, un mezzo per diventare dei fuoriclasse. Già dei fuori classe, l’antifascismo è così potente da far scomparire non solo Giovanni Gentile, ma anche Karl Marx e Antonio Gramsci.
La gravità di una tale liturgica investitura risiede tutta nell’inautenticità dell’antifascismo.
Ad un primo approccio un sistema del genere, così condiviso da non essere mai messo in discussione più da nessuno, sembrerebbe spianare la via ai suoi utilizzatori, un a priori che equivale a mettersi dalla parte dei buoni, mentre i cattivi, gli altri, dall’altra. Un’illusione di farsi giudice delle regole della vita per “vincere facile”, ma a lungo andare le astrazioni che durano troppo hanno sempre il merito di chiedere il conto ai suoi ciechi sostenitori.
Vediamo qualche particolare.
Fino al 1936, malgrado tutto, al PCI il fascismo, almeno non tutto, non doveva apparire così orrido, visto “L’appello ai fratelli in camicia nera” firmato da sessanta dirigenti del Partito, compreso Togliatti. Nello stesso anno iniziano le purghe staliniane ed i processi ai trotskisti.
Con la guerra di Spagna s’assiste forse al primo tentativo di usare l’antifascismo come fosse un’arma, e questa volta l’uso che se ne fa è senz’altro politico. I compagni anarchici e trotskisti del POUM vengono massacrati perché inspiegabilmente s’erano messi al soldo del fascismo secondo l’accusa. Il format calunnioso, di una sola maschera da mettere in faccia a tutti i nemici, viene sperimentato anche altrove, sempre con buoni risultati. Si trovano infuocate pagine su l’Unità, siamo nel gennaio del 1944, che invitano a schiacciare tutti gli infiltrati, sempre trotskisti, fattisi oramai la V colonna del nazifascismo. Il messaggio probabilmente era rivolto anche al più grande gruppo partigiano di Roma, il Movimento Comunità d’Italia riunito sotto il quotidiano Bandiera Rossa che, cosa da non crederci, era più diffuso de l’Unità. Il gruppo Bandiera Rossa era distante anni luce dal CLN, cosi come dal PCI, in quanto antimonarchico, antibadogliano, ma soprattutto avrebbe voluto non consegnare Roma agli Alleati, ma bensì proclamare “La Repubblica Romana dei Lavoratori”. Stranamente questi compagni, malgrado il loro grandissimo contributo alla resistenza, non appariranno negli annali della epopea dell’ANPI, mentre molti di loro moriranno sotto le provvidenziali raffiche naziste delle Fosse Ardeatine.
Fondamentale è il documento di chiusura della III Internazionale comunista, maggio 1943, in esso scompare esplicitamente il concetto di rivoluzione socialista lasciando il posto alla necessità d’aderire al “blocco antifascista”.
Bordiga, altro fondatore del PCI, ebbe modo d’affermare che la cosa peggiore che aveva prodotto il fascismo era proprio l’antifascismo, il tronfio antifascismo che abbracciava anche l’odiato nemico borghese.
Alla affermazione di Bordiga, gli farà eco più di mezzo secolo dopo, confermando il mortale abbraccio con il nemico di classe, quella di Costanzo Preve quando disse che peggio del fascismo c’era solo l’antifascismo. Tra i due comunisti, solo qualche bagliore di lucidità, primo fra tutti quello di Pier Paolo Pasolini.
L’inautenticità dell’antifascismo risiede nel suo essere antistorico e non contestuale, quindi non un momento antitetico da opporre alla sua affermazione, ma un opporsi che diventa evanescente perché il farlo non contempla il momento della tesi reale e di conseguenza quello del divenire nella sintesi. La sua pretesa di autenticità necessaria passerà allora esclusivamente nel vedere nel qualunque altro, quello fuori da sé, un fascista.
Non si tratta più di un solo uso mistificante del termine, ma questo diventa una piattaforma psudoideologica onnivora, capace per questo di procedere ad un processo di metamorfosi genetica.
La rimozione della missione storica del corpo sociale, sedato dall’antifascismo nel tempo, è stata lenta ma costante, fino ad essere completa. Dallo scambiare il socialismo per un riformismo che nel suo procedere non aveva neanche più il coraggio di nominarlo, fino al rendere inutile tutta la critica marxiana al capitalismo.
Mentre l’orchestrina intonava “Bella Ciao”, si scoprivano nuove icone sovrastrutturali, da Kennedy ad Obama, da Blair a Clinton, da Paolo di Tarso a Papa Francesco, da Macron ad Juncker, dalla troika alla NATO, da Chicco Testa a Vladimir Luxuria.
La globalizzazione diventa l’internazionalismo realizzato, il meticciato è la società senza classi, il consumismo la distribuzione della ricchezza, il precariato altro non è che un’opportunità.
Ed allora, in fase oramai matura, al dogma dell’antifascismo, si può affiancare con orgoglio il dogma del neoliberismo, la tanto agognata lotta per la libertà e la giustizia sociale possono finalmente rispecchiarsi realizzate nelle libertà dei diritti umani e nelle pari opportunità che il mercato a tutti offre.
In conclusione, l’oscenità dell’antifascismo risiede tutta nell’aver abbandonato il Socialismo, foss’anche come sogno raggiungibile del non ancora, appiattendosi invece acriticamente su quest’attimo presuntuoso ritenuto eterno a cui non manca niente. Questo è stato il vero profondo potere di questo antifascismo inautentico, ma anche la sua più grande e indelebile colpa.
Lorenzo Chialastri

[Modificato in data 8/5/2019]

Declino americano: vasche a cielo aperto piene di liquami fognari nel Paese più ricco del mondo

Di Rania Khalek per rt.com

Mentre i ricchi continuano ad erodere il Paese, la domanda non è se gli Stati Uniti smetteranno di offrire un tenore di vita decente al proprio popolo. Piuttosto è il numero di persone che verrà sacrificato durante il declino.

In America, la nazione più ricca del mondo quando misurata freddamente solo dal PIL, i bambini si ammalano poiché abitano vicino a vasche a cielo aperto piene di liquami fognari. Questa è stata una delle tante scioccanti conclusioni delle Nazioni Unite alla fine dello scorso anno, a seguito di un’indagine di due settimane sull’estrema povertà negli Stati Uniti.
Il rapporto delle Nazioni Unite è stato pubblicato lo scorso dicembre da un gruppo di investigatori che ha visitato la California, l’Alabama, la Georgia, Porto Rico, la Virginia dell’Ovest e Washington DC.
“Gli Stati Uniti sono uno dei Paesi più ricchi, potenti e tecnologicamente innovativi del mondo; ma né la sua ricchezza, né il suo potere, né la sua tecnologia vengono sfruttate per affrontare la situazione per cui 40 milioni di persone continuano a vivere in povertà “, ha scritto Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani.
Ha continuato: “Ho incontrato molte persone che sopravvivevano faticosamente a Skid Row presso Los Angeles, ho assistito a un poliziotto di San Francisco che diceva a un gruppo di senzatetto di andarsene ma non avendo risposta quando gli è stato chiesto dove potevano trasferirsi, ho sentito che migliaia di persone povere ricevono avvisi di infrazione minore che sembrano intenzionalmente progettati per causare rapidamente un debito non rimborsabile, incarcerazione e ricostituzione delle casse comunali. Ho visto fogne a cielo aperto in Stati i cui governi non considerano le strutture igienico-sanitarie di loro competenza, ho visto persone che hanno perso tutti i denti perché le cure dentistiche per adulti non sono coperte dalla stragrande maggioranza dei programmi disponibili per i più poveri, ho sentito parlare dell’aumento del tasso di mortalità e della distruzione di famiglie e comunità causata dagli oppioidi, e ho incontrato persone a Porto Rico che vivono accanto a una montagna di cenere di carbone completamente non protetta che piove su di loro portando malattie, invalidità e morte”.
Le fogne a cielo aperto sono state rinvenute in zone povere come la contea di Lowndes, in Alabama, dove molte persone non possono permettersi di installare fosse biologiche, facendo sì che i liquami si depositino presso le loro case. Questo rifiuto non trattato crea il potenziale per tutti i tipi di malattie. A Lowndes, ha provocato la proliferazione di anchilostoma, una malattia parassitaria dell’intestino che si trova comunemente nei Paesi in via di sviluppo più poveri del mondo.
La scoperta di livelli di povertà e malattia da terzo mondo nel Paese più ricco e più potente del globo, per quanto scioccante, è solo una parte della storia. Le conclusioni tratte dalle Nazioni Unite sono in linea con la parabola discendente dell’America. Continua a leggere

Venezuela, alle elezioni di aprile il popolo deve votare senza interventi esterni

Strana dittatura quella venezolana. Sembra in effetti lo Stato al mondo con la maggiore densità di appuntamenti elettorali negli ultimi vent’anni. E il prossimo sarà davvero decisivo. Eppure, bizzarramente, i paladini della democrazia che siedono a Washington o Bruxelles, non sono affatto contenti che all’inizio di aprile il popolo venezolano sia chiamato a decidere chi sarà il presidente del Paese nei prossimi quattro anni. Forse perché sanno che, con ogni probabilità, il prescelto sarà nuovamente Nicolas Maduro Moros. Una vecchia abitudine, questa di voler “manipolare” le elezioni altrui, ricordata per esempio nel bel film di Steven Spielberg attualmente in circolazione, The Post.
Ho avuto occasione di recarmi in Venezuela l’11 dicembre per le elezioni comunali e ho potuto riscontrare una situazione di tranquilla normalità. Ordine pubblico e pace sociale garantiti dopo il tentativo di insurrezione messo in scena dalla destra, che tuttavia è costato molte vittime, buona parte delle quali presunti sostenitori del governo, membri delle forze dell’ordine e ignari passanti. Mercati aperti e situazione dell’approvvigionamento migliorata grazie alle misure messe in atto che prevedono una più precisa disciplina per gli operatori economici al fine di evitare le speculazioni. Domenica pomeriggio ho visitato un quartiere popolare venuto in essere di recente con la costruzione di varie centinaia delle centinaia di migliaia di appartamenti costruiti dall’amministrazione chavista, verificando l’esistenza di un compatto ed entusiasta sostegno al governo Maduro tra la gente di quel quartiere, uguale a tanti altri del Venezuela.
Consenso del resto confermato dall’esito delle elezioni comunali che hanno visto la vittoria del PSUV in molte città e che in precedenza era stato espresso in occasione delle elezioni regionali e prima ancora di quelle per l’Assemblea costituente. Di fronte a questa sequela di vittorie del chavismo molti stanno letteralmente perdendo la testa. Innanzitutto ovviamente i dirigenti della destra venezolana antisistema (che paradossalmente sono quelli che ottengono più credito in Occidente), sempre più divisi fra di loro e brancolanti nel buio, e sempre più inferociti per la perdita dei loro enormi privilegi che non è certo finita con l’avvento del chavismo, ma si sta concretizzando sempre di più nell’inevitabile e giusta prospettiva di un autentico socialismo.
Poi, gli autentici padroni del circo, e cioè i governanti di Washington, con il “bullo” Trump che segue alla lettera le indicazioni del più lucido Rex Tillerson, che ovviamente non si rassegna alla perdita degli enormi giacimenti petroliferi del Paese, e minaccia l’intervento armato. Sanno del resto di avere, almeno apparentemente, recuperato qualche posizione in America Latina, con le “strategie” di attacco giudiziario (il processo Lula o contro l’ex vicepresidente ecuadoriano Glass) o sul piano elettorale (con l’elezione di Macri in Argentina) o golpista classico (con il sospetto di brogli elettorali in Honduras e le violenze su decine di manifestanti in pochi giorni) e vorrebbero oggi completare la normalizzazione del subcontinente neutralizzando il chavismo e facendo tornare il Venezuela nella sua storica condizione semicoloniale.
Non credo tuttavia che possano riuscirci. Lo dico a ragion veduta dopo aver visitato il Paese a dicembre. Va capito in questo senso che i risultati elettorali, che ovviamente hanno enorme importanza, sono solo il riflesso di una condizione di accresciuta consapevolezza e organizzazione di milioni di venezolani. Un’enorme forza tranquilla che non si farà certo mettere fuori gioco da un personaggio come Donald Trump e meno ancora dalle sue marionette locali. Se però si dovessero concretizzare le minacce di intervento armato potremmo trovarci di fronte a un nuovo Vietnam in America Latina, con tremende conseguenze sulla pace nel mondo, dato anche il netto schieramento di Russia, Cina ed altri in appoggio al legittimo governo venezolano. Intanto gli Stati Uniti, spalleggiati dai loro valletti europei, tentano la carta della destabilizzazione economica mediante sanzioni che non hanno alcun fondamento e rappresentano gravi violazioni del diritto internazionale.
Ne tengano conto gli sprovveduti governanti europei e italiani. L’Italia ha importanti interessi in Venezuela sia per la presenza di un’importante comunità di emigrati che per gli accordi di cooperazione in essere per lo sfruttamento delle risorse energetiche ed in altri settori. Sarebbe ora che gli italiani disponessero di un governo la cui politica estera fosse mirata alla difesa degli interessi nazionali e non a seguire gli sconnessi deliri del governo statunitense. Speriamo che anche da noi le elezioni del 4 marzo portino un qualche miglioramento da questo punto di vista.
Fabio Marcelli

Fonte

Davos: dove parlare di “diseguaglianza” è conveniente, ma un hamburger in piatto costa 59 dollari

Neil Clark per rt.com

La località svizzera di Chateaux-d’Oex è nota per le sue mongolfiere. La località svizzera di Davos è conosciuta per l’aria fritta. O almeno per una settimana all’anno, quando alcuni dei più grandi chiacchieroni del mondo si incontrano per discutere di questioni “significative”.
Quest’anno, la cosa interessante e di tendenza circa la quale esprimere preoccupazione per il World Economic Forum è (stata) la “disuguaglianza”. Ok, yes? Tutti sembravano d’accordo sul fatto che bisognava fare qualcosa per restringere lo “sconcertante” divario tra ricchi e poveri – per ripetere la frase usata dal Primo Ministro liberale hipster canadese Justin Trudeau, l’uomo con quei graziosi calzini gialli e viola.
Il presidente francese Emmanuel Macron, che ci è stato detto essere stato salutato come una “rockstar”, ha dichiarato: “Nel processo globale, il capitalismo è diventato un capitalismo di superstar, la diffusione del valore (a quelli più in basso della scala) non è più equa.”
Ma le soluzioni che avrebbero effettivamente ridotto la disuguaglianza erano meno imminenti. Mi ha ricordato le espressioni annuali di “preoccupazione” quando gli aumenti delle tariffe dei treni al di sopra dell’inflazione  sono annunciati in Gran Bretagna, il Paese con le tariffe più alte in Europa. I politici che sostengono il governo dicono che “questo è deludente” – e indovinate un po’ – l’anno prossimo le tariffe saliranno di nuovo. Nessuno vuole essere citato per dire che sono favorevoli al fatto che l’82% della ricchezza è goduto dall’1% più ricco, ma allo stesso tempo non sono disposti a prendere i provvedimenti che renderebbero ciò impossibile.
Questo l’estratto dal discorso del Primo Ministro britannico Theresa May: “Dobbiamo fare di più per aiutare la nostra gente nella mutevole economia globale, per ricostruire la loro fiducia nella tecnologia come motore del progresso e garantire che nessuno rimanga indietro mentre facciamo il prossimo salto in avanti… Dobbiamo ricordare che i rischi e le sfide che affrontiamo non superano le opportunità. E nel cercare di aggiornare le regole per affrontare le sfide di oggi, non dobbiamo perdere quelle di domani”.
Qualcuno sa capire di cosa stesse effettivamente parlando la May? C’era verbosità in abbondanza nel suo discorso, ma soluzioni pratiche?
È la cosa più facile del mondo affermare che “dobbiamo fare in modo che nessuno resti indietro mentre facciamo il prossimo salto in avanti”, ma farlo è tutta un’altra cosa.
In un certo senso, Davos ci fa rimpiangere i tosti thatcheriani del passato che, almeno, erano onesti riguardo a ciò che speravano di ottenere. Ora abbiamo dei thatcheriani mascherati da “centristi” sdolcinati in una stazione alpina del jet set dove il costo di un hamburger in piatto ha raggiunto i 59 dollari americani e una camera d’albergo oltre i 500 dollari a notte – e ciò non sembra giusto. Continua a leggere

Volete stabilità nei Balcani? Allora ridateci la Jugoslavia

Torna alta la tensione nei territori della ex Jugoslavia a seguito dell’assassinio di Oliver Ivanovic, esponente di punta della minoranza serba in Kosovo.

L’influente think-tank statunitense Council on Foreign Relations (CFR) ha messo i Balcani nella sua lista di prevenzione dei conflitti nella sua recente inchiesta del 2018.
Tuttavia l’idea, promossa dal CFR, che gli Stati Uniti siano il Paese che può aiutare a preservare “pace e stabilità” deve essere messa alla prova – così come gli stessi Stati Uniti e gli alleati NATO più vicini che sono in verità responsabili di molti dei problemi che affliggono attualmente la regione.
Questi problemi derivano tutti dalla violenta rottura della Jugoslavia multietnica degli anni ’90, un processo che le potenze occidentali hanno sostenuto e addirittura incoraggiato attivamente. Ma questo non è menzionato nel documento di riferimento del CFR “Lo scioglimento degli accordi di pace nei Balcani” (Contingency Planning Memorandum n. 32).
Invece sono i Russi, udite, udite, ad essere considerati i cattivi – con “la destabilizzazione russa del Montenegro o della Macedonia” elencato come uno dei possibili scenari del 2018. La verità è, tuttavia, che tutti i possibili “punti di fiamma” identificati dal CFR, che potrebbero portare a conflitti, possono essere direttamente collegati non a Mosca ma alle conseguenze di precedenti interventi e campagne di destabilizzazione statunitensi o guidate dall’Occidente. Continua a leggere

“Una strategia fallita ma che ha lasciato un effetto duraturo”

L’intervento del dott. Guido Salvini, magistrato presso il Tribunale di Milano, presentato al convegno “La rete eversiva di estrema destra in Italia e in Europa (1964-1980)”, svoltosi a Padova l’11 novembre 2016.

“Il quinquennio 1969-1974 rappresenta il periodo cruciale e più sanguinoso, l’apice di quella che è stata chiamata la strategia della tensione: in Italia si verificano ben cinque stragi, un’altra mezza dozzina di stragi almeno, soprattutto su linee ferroviarie, falliscono per motivi tecnici perché l’ordigno non esplode o il convoglio riesce a superare il tratto di binario divelto, vi è il tentativo di colpo di Stato del principe Valerio Borghese seguito da altri progetti che durano fino al 1974, vi è infine un attentato in danno dei Carabinieri quello di Peteano, con tre vittime, del maggio ‘72 caratterizzato, come vedremo, da una propria specificità.
Già l’anno 1969 in Italia anno è denso di avvenimenti politici.
In quel momento il governo è un debole monocolore guidato dall’on. Rumor che si muove in una situazione incandescente per il rinnovo dei più importanti contratti e la mobilitazione quindi di centinaia di migliaia di operai; inizia la protesta studentesca nei licei e nelle università con un anno di ritardo rispetto al 1968 francese. Sono poi in discussione in quella fase politica riforme decisive sul piano strutturale e culturale come lo Statuto dei Lavoratori, l’approvazione del sistema delle Regioni, la legge sul divorzio.
Nixon è presidente gli Stati Uniti e sono gli anni della dottrina Kissinger, quella secondo cui i governi italiani e i partiti politici di centro dovevano respingere ogni ipotesi di accordo e di compromesso con il PCI e le forze di sinistra, scelta facilitata in passato, come ha ricordato anche Aldo Moro nel suo memoriale scritto dalla prigionia, da continui flussi di finanziamenti distribuiti nascostamente dall’amministrazione americana a partiti e organizzazioni di centrodestra talvolta tramite il SID del gen. Miceli. Il 27 febbraio 1969 il presidente della Repubblica americano fa una visita in Italia ed incontra al Quirinale il presidente Saragat. Vi è stata da poco la scissione del PSI e attorno al PSDI, cui Saragat appartiene, si radunano le correnti più determinate in senso filo-atlantico e più contrarie al mantenimento dell’esperienza di centro-sinistra.
Secondo un dossier contenuto negli archivi di Washington e desecretato il Presidente italiano concorda con quello americano sul “pericolo comunista” e afferma che agli occhi degli italiani il PCI si fa passare per un partito rispettabile ma è dedito agli interessi del Cremlino.
Il giorno della visita del presidente Nixon a Roma la città è blindata e scoppiano gravissimi incidenti tra la polizia ed extraparlamentari di sinistra cui seguono nell’Università scontri tra questi ultimi e militanti dell’estrema destra: vi è la prima vittima di quell’anno Domenico Congedo, uno studente anarchico, Congedo che durante un attacco dei fascisti alla facoltà di Magistero precipita da una finestra.
Del resto a livello internazionale la situazione è critica per il blocco occidentale in quanto molti Paesi afro-asiatici sotto la spinta della decolonizzazione entrano nell’orbita dei Paesi socialisti e alcuni passaggi di campo vengono impediti solo attraverso guerre civili o colpi di Stato molto sanguinosi da quello in Indonesia nel 1965 a quello in Cile nel 1973.
Non sembra un caso che la stagione delle stragi si collochi all’interno di questo quadro internazionale e coincida quasi perfettamente con la durata della presidenza Nixon e declini nel 1974 dopo la crisi del Watergate e lo sfaldarsi dei regimi dittatoriali in Europa, la Grecia, la Spagna, il Portogallo con il conseguente venir meno dell’ipotesi di un colpo di Stato anche in Italia che s’ispiri a quelle esperienze.”

Gli anni 1969-1974 in Italia: stragi, golpismo, risposta giudiziaria continua qui.

La demonizzazione del sovranismo

C’è una parola, “sovranismo” che è sotto attacco propagandistico dal giorno della sua introduzione nel linguaggio politico nella primavera del 2012. Coloro che si rifanno a questo concetto, i sovranisti, assistono impotenti alla sua quotidiana delegittimazione, alimentata da un flusso costante, sebbene strisciante, di notizie che accostano il termine a significati apparentemente simili che tuttavia non ne colgono il significato profondo. Ricordate l’espressione TINA (There Is Not Alternative)? Quell’acronimo è l’emblema di una comunicazione politica il cui contenuto informativo è di zero bit, cioè assenza di scelta. Affinché sia possibile operare una scelta è infatti necessario almeno un bit, che sia 0 oppure 1, ma questo nel mondo della comunicazione politica modello TINA è precluso. Nel suo significato più profondo, dunque, “sovranismo” è il bit mancante nell’informazione politica, grazie al quale si può ricostruire il primo indispensabile operatore politico, l’operatore NOT. La sola presenza del NOT fa sì che diventi riconoscibile l’operatore nascosto che, ormai da decenni, è l’unico adoperato, l’operatore NOP, che sta per No-Operation (nessuna operazione).
Tutta la comunicazione politica di sistema agisce al fine di promuovere l’operatore NOP, il sovranismo invece proclama il NOT. Solo la possibilità di negare una tesi, una visione, una proposta politica, ne permette l’affioramento e, dunque il riconoscimento. Il globalismo, cioè l’idea della libera circolazione, della società vista come somma aritmetica di individui ognuno con la sua libertà che dipende solo dal suo capitale finanziario e umano (ricordate la Thatcher: “la società non esiste”), insomma l’ordine internazionale dei mercati posto come dato “naturale”, emerge nella sua qualità di scelta politica solo nel momento in cui si impugna l’operatore NOT. Ecco perché la parola sovranismo è entrata nel mirino della propaganda politica dei media liberisti, che hanno ricevuto il compito di distruggerla demonizzandone l’uso.
Un’operazione che viene portata avanti ricorrendo all’unico mezzo possibile, consistente nel riassorbirla nelle pieghe del linguaggio politico unico. Lo stratagemma usato è quello di far sì che essa venga inserita all’interno di narrazioni politiche apparentemente anti liberiste, che del liberismo sono varianti cosmetiche. Ecco allora che il sovranismo viene proposto con significanti limitati, dall’uscire dall’euro – la sovranità monetaria, alla rivendicazione etnica – prima gli Italiani, fino al risibile decideranno gli elettori con un referendum. Vediamo i movimenti No-Vax assimilati ai sovranisti (come se non ci fossero i No-Vax liberisti, europeisti, atlantisti e chi più ne ha più ne metta), si usa la parola “fascismo” come sinonimo, come pure “populismo”, fatto quest’ultimo indubbiamente meno grave, ma altrettanto capzioso.
Ora il punto cruciale da capire per intendere il significato profondo della parola sovranismo, e dunque il suo potenziale eversivo rispetto alla logica TINA, è già stato enunciato, e sono le parole della Thatcher, “la società non esiste”. Parole che possono essere intese, in fondo, come un manifesto a posteriori del marginalismo, oppure, per farci capire anche da vegani e new agers, come affermare che “il tutto è la somma delle parti”, ovvero che, per spiegarlo, basta studiare e comprendere il comportamento delle singole parti che lo compongono. Ecco, il sovranismo opera su tutto questo con un NOT: non è vero che la società non esiste, la società esiste eccome! Il tutto è più della somma delle parti.
Il che significa che le entità collettive esistono, siano esse le classi sociali, le etnie, le nazioni, i popoli, i sindacati, le associazioni capitaliste, le società segrete, le religioni, i legami di sangue, quelli tribali; insomma tutto quello che era pacificamente ammesso ancora cento anni fa e, da allora, è stato prima messo in discussione, e infine negato e annichilito, per effetto dell’azione politica di un movimento di idee, nato nella seconda metà del XIX secolo, che risponde al nome di marginalismo, con un’operazione NOT analoga a quella che oggi ripropone il sovranismo. Ed è stato annichilito perché, così facendo, il marginalismo ha camuffato la sua tesi da sintesi, elevandola a tale dignità usando in modo spregiudicato gli strumenti della comunicazione pubblicitaria di massa. Dunque un’operazione culturale di grande successo, certamente sofisticata ma anche promossa grazie all’enorme dispiegamento di mezzi messi a disposizione dalla ricchezza finanziaria e dall’impetuoso sviluppo dei mezzi di comunicazione.
Ora questo problema si pone, in Occidente, soprattutto al livello della percezione delle masse europee, in particolare italiane, perché altrove, perfino negli USA, l’idea che c’è un “noi” e un “loro” è ancora presente, e dunque che questa poltiglia che ci viene venduta come modernità, costituita dalla fiaba “dell’allocazione efficiente delle risorse all’interno di un mercato a concorrenza perfetta e cioè all’interno di un mercato in cui vi è un’ottima diffusione di informazioni”, posta a fondamento della loro idea di democrazia, è una boiata pazzesca.
L’intuizione sovranista, dunque, consiste nella riscoperta della realtà concreta – oltre la narrazione TINA – che la società esiste e non è formata dalla somma aritmetica di singoli individui, ma è attraversata da confini e confitti di ogni genere, che essa stessa genera continuamente in un processo senza fine in cui il tempo gioca un ruolo fondamentale. Se ieri c’era la classe degli operai, oggi c’è il terziario impoverito; se appena due secoli fa un popolo non esisteva e non aveva coscienza di sé, oggi pretende di difendere la sua identità. E lo stesso – chiamiamolo così – campo sovranista, è attraversato da divisioni, perché ci sono quelli che si definiscono costituzionali e democratici, ma anche i sovranisti nazionalisti; non è un caso se, nel 2012, decidemmo di raccattare da terra questo termine, sovranismo, proprio per distinguerci dai nazionalisti. Ma resta vero che il nemico ideologico comune è il marginalismo, quell’ideologia fatta propria dal grande capitale (quello sì) internazionalista, e usata per dire a tutti i suoi nemici “voi non esistete”. E’ in questo modo, convincendo tutti del fatto di non esistere, che costoro hanno vinto. Per il momento.
Quanto appena esposto potrebbe essere inteso come uno sdoganamento della possibilità di unire tutti i sovranisti, ma questo sarebbe un errore imperdonabile. Non basta, per unire, il fatto di denunciare l’idea farlocca della fine della storia, così come non basterebbe, in una società per azioni, prendere coscienza che un socio di minoranza ha fatto credere a tutti di avere la maggioranza delle quote e che non ci fosse alternativa al suo dominio, per unire tutti gli altri in un’alleanza durevole. La fine della narrazione TINA, la rinascita della consapevolezza crescente che la società è divisa in classi, che le nazioni e i popoli esistono, segna solo il momento in cui il bluff della minoranza, che era riuscita a porsi come unico soggetto della storia del mondo, è stato scoperto. Dunque siamo sì, oggi, tutti “sovranisti”, ma torneremo presto a dirci socialisti, comunisti, popolari, democristiani, repubblicani e, feccia della feccia, perfino liberali.
Dalle parti di questo blog oggi siamo sovranisti, ma domani saremo socialisti.
Fiorenzo Fraioli

Fonte

Portella della Ginestra strage fascista?

“La riflessione prende spunto da un articolo di Simona Zecchi, nel quale la bravissima giornalista ricorda con lucidità e aderenza alla verità la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947.
Simona Zecchi, nel suo articolo, denuncia che a distanza di 70 anni dal fatto, lo Stato italiano non ha ancora reso pubblici tutti i documenti che ad esso si riferiscono.
C’è da aggiungere che è stato un governo italiano di centrosinistra a chiedere a quello americano di non rendere pubblici i documenti della CIA di quel periodo, in particolare quelli riferiti alle elezioni politiche del 1948.
Si devono piangere i morti ma non si deve dire perché sono morti e, soprattutto, chi li ha fatti morire.
La storia di Salvatore Giuliano è quella di un giovane mafioso che è stato usato dalla politica e dalle forze di sicurezza dell’epoca (servizi segreti, carabinieri e polizia) per contenere l’avanzata elettorale dei Partiti comunista e socialista.
La Sicilia e la Sardegna, difatti, dovevano servire come base per l’eventuale riconquista del territorio peninsulare se fosse caduto nelle mani dei comunisti sostenuti dall’Unione Sovietica e dalla Jugoslavia.
Bloccare i comunisti e i socialisti loro alleati in Sicilia non era, quindi, solo un problema politico ma anche militare.
Il compito di controllare il territorio, mantenere l’ordine pubblico, contrastare il comunismo, Alcide De Gasperi in nome dello Stato italiano lo ha affidato, con la benedizione del Vaticano, alla mafia.
Non a caso la prima base della cosiddetta “Gladio” in Sicilia è stata costituita nel 1987. A svolgere il ruolo ed assolvere i compiti dei “gladiatori” in Sicilia fino a quel momento era stato la mafia.
Portella della Ginestra è stata, di conseguenza, la prima strage di Stato compiuta per finalità esclusivamente politiche, a vantaggio della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati.
Questa è la verità.
Non bisogna farsi confondere dal numero degli attori che hanno partecipato ai fatti, perché si rischia di attribuire ad altri le responsabilità che sono esclusivamente governative.
L’ispettore generale di PS Ciro Verdiani, che è stato in contatto con Salvatore Giuliano fino al giorno primo della sua morte per indurlo ad abbandonare la Sicilia e rifugiarsi all’estero, al processo di Viterbo ha dichiarato di aver sempre tenuto informato l’allora ministro degli Interni Mario Scelba.
Non è stato smentito.
Il libro di Casarrubea e Cereghino, giustamente citato da Simone Zecchi, è però fuorviante anche nel titolo, “Lupara nera”, perché attribuisce agli uomini della Decima Mas, considerati “neofascisti”, un ruolo che, se ricoperto, rispondeva alle esigenze di un regime e di uno Stato che erano ormai antifascisti.
È sbagliato considerare tutti coloro che hanno aderito alla Repubblica Sociale Italiana come “fascisti”.
Tanti vi hanno aderito solo perché si trovavano al di qua della Linea Gotica, tanti per opportunismo, tanti per condurre il doppio-gioco, tanti hanno trovato comodo tradire man mano che si delineava la vittoria alleata.
Il reparto della divisione “Decima”, preposto all’addestramento dei sabotatori ed al loro invio dietro le linee alleate, quello di cui avrebbero fatto parte i “gladiatori” ante litteram della Decima, il battaglione “Vega”, era diretto dal capitano di vascello Mario Rossi, imposto al comando dal principe Junio Valerio Borghese, che lavorava per l’OSS e per James Jesus Angleton.
Il 25 aprile 1945, Mario Rossi se ne andò a casa propria, e Genova, e nessuno è mai andato a cercarlo.
Decima o non Decima, lupara rimane bianca, se si vuole affermare la verità.
Spacciare Portella della Ginestra come strage “fascista” vuole dire favorire l’impunità dei mandanti che fascisti non erano.
Prova ne sia che la verità ancora non si conosce per scelta di governi di centro, di centro-destra, di centro-sinistra all’interno dei quali non risulta che abbiano mai ricoperto incarichi fascisti o presunti tali.
Se leggiamo i fatti per come si sono svolti, la tattica tanto cara ai politici italiani dei “chiagne e fotte” non darà più risultati.
E sarà un bene, per i vivi e per i morti.”

Da “Chiagne e fotte” di Vincenzo Vinciguerra.

La teoria del gradiente culturale

A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre

“In Europa la promozione del modello liberale in opposizione all’autocrazia e l’affermazione della civiltà in opposizione alla barbarie asiatica hanno dato luogo anche alla teoria del gradiente culturale.
Secondo questa concezione, la civiltà progredirebbe da Occidente a Oriente partendo da un focolaio centrale che sarebbe situato fra Parigi e Londra, e si diffonderebbe in seguito vero Est man mano che si civilizzerebbero i popoli dell’Europa centrale, poi dell’Europa orientale e infine della Russia.
(…) La teoria del gradiente culturale è interessante poiché permette di integrare la Russia nella civiltà europea o escluderla a piacere, a seconda delle circostanze. Quando la Russia diventa utile – e lo diventerà per la Francia nell’ultimo decennio del XIX secolo, per il Regno Unito nel primo decennio del XX e di nuovo durante la Seconda Guerra Mondiale – la si ammetterà nel mondo civile sottolineando, come Leroy-Beaulieu, la sua compatibilità con l’Occidente. Si insisterà allora – come avvenne in tempi più recenti durante il periodo Gorbacëv, e successivamente negli anni 2001-2003 dopo gli attentati del World Trade Center – sull’avvicinamento della Russia agli ideali dell’Occidente, quelli di democrazia pluralista ed economia liberale.
Ma quando la Russia viene percepita come una minaccia – dopo il 1815, il 1917 e il 1945 o dopo che Vladimir Putin riprese in mano l’economia nel 2003 – allora la teoria del gradiente torna utile nell’altro senso in quanto permette di escluderla dalle nazioni civili e rigettarla nella barbarie, ricorrendo a tutto l’arsenale dei consueti cliché: autoritarismo, atavico espansionismo, statalismo, conservatorismo retrogrado.
Non è dunque sorprendente che l’ipotesi dello sviluppo graduale della civiltà secondo un asse Ovest-Est, o Nordovest-Sudest, a partire dalla Rivoluzione Francese non tenga alcun conto dei comportamenti occidentali devianti. La barbarie degli Europei nelle colonie sudamericane, africani e asiatiche, come anche quella del terrore imposto in Cina dagli eserciti coloniali dopo la ribellione dei Boxer nel 1901, non vengono mai menzionate; si tace della barbarie degli Americani contro gli Indiani, o del fatto che l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti avvenne pressapoco nello stesso periodo di quella della servitù della gleba in Russia. Quindi, in quegli anni, da un punto di vista strettamente umano, gli Stati Uniti non erano certo più civili della Russia.
(…) Di fatto, da esplicativa che era ai suoi inizi, la teoria del gradiente culturale è rapidamente divenuta essenzialista: definendo la Russia come in ritardo sui suoi modelli europei occidentali, si reificherà questo ritardo, lo si ipostatizzerà per trasformarlo in un elemento costitutivo e discriminatorio in senso assoluto, seguendo il consueto ragionamento razzista: il russo è barbaro come l’ebreo è avaro, il nero pigro, il musulmano terrorista. Da lì a descrivere la Russia come nemica della civiltà il passo è breve, come la penna degli editorialisti contemporanei ci mostra quotidianamente.
Inoltre questo bisogno di classificare, sistemare, gerarchizzare le diverse società umane, questa ossessione per la tassonomia e il ranking, vanno a colmare l’angoscia così tipicamente occidentale da primo della classe che deve incessantemente verificare di essere in testa alla corsa e di mantenere le distanze dai suoi inseguitori. Dopo l’Illuminismo, l’Occidente ha incessantemente bisogno di rassicurarsi, di provare a sé stesso di essere sempre all’avanguardia del progresso e della civiltà e che i suoi “valori” siano effettivamente universali. E’ il prezzo da pagare per lo spirito di superiorità e la volontà di supremazia. E la Russia, al contempo così vicina e così diversa, è l’ideale metro di paragone.
(…) “Il lettore deve fare lo sforzo di riconoscere che i contadini russi, pur avvolti nelle loro pelli di montone, sono esseri umani come noi”, scriveva l’autore britannico Donald Mackenzie Wallace nel 1877. Centoquarant’anni più tardi le pelli di montone sono scomparse, ma non la mentalità che presenta il Russo come un ritardatario che fatica sempre a inerpicarsi sui gradini dell’economia liberale e della democrazia pluralista, quintessenza dell’avanzata civiltà occidentale.”

Da Russofobia. Mille anni di diffidenza, di Guy Mettan, Sandro Teti Editore, pp. 192-196.

Solo la sovranità è progressista

Se uccidi oggi un Sankara, domani avrai a che fare con mille Sankara.
Thomas Sankara

All’indomani del vertice dei 25 Paesi membri dell’Organizzazione per l’Unità Africana, il 26 luglio 1987, il Presidente del Consiglio Nazionale Rivoluzionario del Burkina Faso denunciava in questi termini il nuovo asservimento dell’Africa: “Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Coloro che ci hanno prestato denaro sono quelli che ci hanno colonizzato, le stesse persone che hanno gestito i nostri Stati e le nostre economie, sono i colonizzatori che hanno indebitato l’Africa con i finanziatori”. Il debito del Terzo Mondo è il simbolo del neocolonialismo. Perpetua la negazione della sovranità, piegando le giovani nazioni africane ai desiderata dei poteri ex-coloniali.
Ma il debito è anche ciò di cui i mercati finanziari si nutrono. Il prelievo parassitario da economie fragili, arricchisce i ricchi nei Paesi sviluppati a scapito dei poveri nei Paesi in via di sviluppo. “Il debito (…) dominato dall’imperialismo è una riconquista abilmente organizzata affinché l’Africa, la sua crescita, il suo sviluppo obbediscano a standard che ci sono totalmente estranei, facendo in modo che ognuno di noi diventi uno schiavo della finanza, cioè schiavo di coloro che hanno avuto l’opportunità, l’astuzia, l’inganno di piazzare da noi i fondi con l’obbligo di rimborso”.
Decisamente, era troppo. Il 15 ottobre 1987, Thomas Sankara cadde sotto i proiettili dei cospiratori a favore del “Françafrique” e del suo succoso affare. Ma il capitano coraggioso di questa rivoluzione soffocata ne dettò i principi fondamentali: un Paese si sviluppa solo se è sovrano e questa sovranità è incompatibile con la sottomissione al capitale globalizzato. Il vicino del Burkina Faso, la Costa d’Avorio ne sa qualcosa: colonia specializzata nell’esportazione di monocolture di cacao a partire dagli anni ’20, è stata rovinata dalla caduta dei prezzi e trascinata nella spirale infernale del debito.
Il mercato del cioccolato vale 100 miliardi di dollari ed è controllato da tre multinazionali (una svizzera, una statunitense e una indonesiana). Con la liberalizzazione del mercato richiesta dalle istituzioni finanziarie internazionali, queste multinazionali dettano le loro condizioni a tutto il settore. Nel 1999, il FMI e la Banca Mondiale hanno chiesto la rimozione del prezzo garantito al produttore. Il prezzo pagato ai piccoli coltivatori è stato dimezzato, essi impiegano per sopravvivere centinaia di migliaia di bambini schiavi. Impoveriti dai prezzi in calo della sovrapproduzione, il Paese è anche costretto a ridurre le imposte sulle imprese. Privato delle risorse, schiavo del debito e ostaggio dei mercati, il Paese è in ginocchio.
La Costa d’Avorio fa scuola. Un piccolo Paese con una florida economia (il cacao rappresenta il 20% del PIL e il 50% dei proventi delle esportazioni) è stato letteralmente silurato dagli stranieri che cercano solo di massimizzare i profitti con l’aiuto delle istituzioni finanziarie e la collaborazione di leader corrotti. Thomas Sankara l’aveva capito: se è schiavo dei mercati, l’indipendenza di un Paese in via di sviluppo è pura finzione. Non riuscendo a rompere gli ormeggi con la globalizzazione capitalista, un Paese si condanna alla dipendenza e alla povertà. In un libro profetico pubblicato nel 1985, Samir Amin ha chiamato questo processo di rottura “la disconnessione del sistema mondiale”.
Quando si considera la storia dello sviluppo di un Paese, appare evidente che: i Paesi migliori sono quelli che hanno completamente conquistato la loro sovranità nazionale. Per esempio, la Repubblica Popolare Cinese e i nuovi Paesi sviluppati dell’Asia orientale hanno perseguito politiche economiche proattive e hanno promosso un’industrializzazione accelerata. Queste politiche erano basate – e lo sono ancora in gran parte – su due pilastri: la gestione unitaria degli sforzi pubblici e privati ​​sotto la guida di uno Stato forte e l’adozione quasi sistematica di un protezionismo selettivo.
Una tale osservazione dovrebbe bastare a spazzare via le illusioni alimentate dall’ideologia liberale. Lungi dal gioco libero delle forze del mercato, lo sviluppo di molti Paesi nel ventesimo secolo è il risultato di una combinazione di iniziative di cui lo Stato ha fissato sovranamente le regole. Da nessuna parte si vede uscire lo sviluppo dal cappello magico degli economisti liberali. Ovunque, è stato il risultato di una politica nazionale e sovrana. Protezionismo, nazionalizzazioni, rilancio della domanda e istruzione per tutti: è lungo l’elenco delle eresie grazie alle quali questi Paesi hanno scongiurato – in vari gradi e a costo di molteplici contraddizioni – l’angoscia del sottosviluppo.
Senza offesa per gli economisti da salotto, la storia insegna l’opposto di ciò che la teoria afferma: per uscire dalla povertà, è meglio la forza di uno Stato sovrano che la mano invisibile del mercato. E’ quello che hanno capito i Venezuelani che cercano dal 1998 di restituire al popolo il profitto della manna petrolifera privatizzata dall’oligarchia reazionaria. Questo è quello che intendevano Mohamed Mossadegh in Iran (1953), Patrice Lumumba in Congo (1961) e Salvador Allende in Cile (1973) prima che la CIA li facesse sparire dalla scena. Questo è ciò che Thomas Sankara chiedeva per l’Africa che cadeva nella schiavitù del debito dopo la decolonizzazione.
Si obietterà che questa diagnosi sia imprecisa, poiché la Cina si è sviluppata molto rapidamente dopo le riforme liberali di Deng. È vero. Un’iniezione massiccia di capitalismo mercantile sulle sue coste le ha procurato dei tassi di crescita enormi. Ma non bisogna dimenticare che nel 1949 la Cina era un Paese in miseria, devastato dalla guerra. Per sfuggire al sottosviluppo, ha fatto enormi sforzi. Le mentalità arcaiche furono smantellate, le donne emancipate, la popolazione istruita. A costo di molte contraddizioni, le strutture del Paese, la costituzione di un’industria pesante e lo status di potenza nucleare sono stati acquisiti durante il Maoismo.
Sotto la bandiera di un comunismo riverniciata nei colori della Cina eterna, quest’ultima ha creato le condizioni materiali per il futuro sviluppo. Se in un anno veniva costruito in Cina l’equivalente dei grattacieli di Chicago, non era perché la Cina fosse diventata capitalista dopo aver sperimentato il comunismo, ma perché essa ne ha fatto una sorta di sintesi dialettica. Il comunismo ha unificato la Cina, ha ripristinato la sua sovranità e l’ha liberata dagli strati sociali parassitari che ne ostacolavano lo sviluppo. Molti Paesi del Terzo Mondo hanno cercato di fare lo stesso. Molti hanno fallito, di solito a causa dell’intervento imperialista.
In termini di sviluppo, non esiste un modello. Ma solo un Paese sovrano che si è dotato di una vela sufficientemente resistente può affrontare i venti della globalizzazione. Senza una padronanza del proprio sviluppo, un Paese (anche ricco) diventa dipendente e si condanna all’impoverimento. Le società transnazionali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno messo le proprie mani su molti Stati che non hanno alcun interesse a obbedir loro. Leader di uno di questi piccoli Paesi presi alla gola, Thomas Sankara ha sostenuto il diritto dei popoli africani all’indipendenza e alla dignità. Ha inchiodato i colonialisti di ogni genere al loro orgoglio e alla loro avidità. Sapeva soprattutto che il requisito della sovranità non era negoziabile e che solo la sovranità è progressista.
Bruno Guigue

Fonte – traduzione di C. Palmacci

“Make the economy scream!”

Ordinava Richard Nixon alla CIA per piegare il Cile di Salvador Allende.
Lo stesso scenario si ripete in Venezuela, per ora non con i risultati attesi.

“Il 18 gennaio 2013, mentre l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (in inglese FAO) ha da poco pubblicato il suo rapporto annuale, il suo ambasciatore Marcelo Resende de Souza visita in Venezuela un mercato di Valencia (Stato di Carabobo), accompagnato dall’allora vicepresidente Nicolás Maduro. “Possediamo tutti i dati sulla fame nel mondo – dichiara. Ottocento milioni di persone soffrono per fame; 49 milioni in America Latina e nei Caraibi, ma nessuna in Venezuela perché qui la sicurezza alimentare è assicurata”.
Stranamente, passati appena quattro mesi, avendo la malattia portato via Hugo Chávez ed essendo stato eletto capo dello Stato il suo ex-vice-presidente, il quotidiano (e portavoce ufficioso delle multinazionali spagnole) El País intona tutta un’altra canzone: “La penuria mette in difficoltà Maduro”.
Certo, la penuria riguardava principalmente, in quel momento, la carta igienica (che, nelle settimane successive diventerà un appassionante argomento di dissertazione per i piscia-copie del mondo intero), ma, dice El País, si aggiunge a “un’assenza ciclica (…) di farina, polli, deodoranti, olio di mais, zucchero e formaggio (…) nei supermercati”
Così esordisce mediaticamente ciò che diventerà “la peggiore crisi economica” conosciuta da questo Paese, “potenzialmente uno dei più ricchi al mondo”, a causa della sua “dipendenza dall’oro nero”, del “calo del prezzo del barile di petrolio” e dello “sperpero del governo”. Mentre i portavoce dell’opposizione incolpano di ciò l’eccessivo intervento dello Stato, la regolazione “autoritaria” dei prezzi, l’impossibilità che ne consegue per l’impresa privata di coprire i suoi costi di produzione, la mancanza di valute concesse dal potere per importare materie prime e prodotti finiti, la penuria diventa cronica, i reparti dei supermercati desolatamente vuoti, le file in attesa interminabili, il “mercato nero” onnipresente. “In Venezuela, il ribasso del petrolio fa divampare i prezzi dei preservativi” potrà ben presto titolare Le Figaro (17 febbraio 2015). Anche i medicinali diventano introvabili, attizzando l’angoscia e le sofferenze della popolazione.
Una tale situazione ha di che commuovere gli umanitaristi del mondo intero. “Se c’è una crisi umanitaria importante, ovvero un cedimento dell’economia, al punto che loro [i Venezuelani] abbiano disperatamente bisogno di alimenti, di acqua e di cose simili, allora potremmo reagire”, annuncia alla CNN, il 28 ottobre 2015, il capo del Comando sud dell’esercito degli Stati Uniti , (Southern Command), il generale John Kelly, in risposta agli appelli “disperati” della “società civile” venezuelana. Fin da 2014, mentre il Tavolo di unità democratica (MUD) chiamava al rovesciamento del capo dello Stato, lanciando l’operazione “La Salida” (“l’uscita”), una delle sue dirigenti, María Corina Machado, aveva tracciato la via: “Certi dicono che dobbiamo aspettare le elezioni fra qualche anno. Ma chi non riesce a dar da mangiare ai suoi bambini può aspettare? (…) Il Venezuela non può più aspettare!”. La violenta sequenza sovversiva fallisce, ma si chiude con 43 morti e oltre 800 feriti. Ed i Venezuelani continuarono a trovare ogni giorno difficoltà sempre più insopportabili per rifornirsi.
Il 6 dicembre 2015, al momento delle elezioni legislative, avendo le preoccupazioni, le privazioni e il malcontento eroso il morale dei cittadini di ogni parte, il chavismo perde 1.900.000 voti e diventa minoritario in parlamento. Invertendo i termini dell’equazione, la grande internazionale neoliberale celebra questo trionfo della “democrazia” sul “caos”. Sottomessi a un’informazione scelta e raccolta per rinforzare questa visione a priori, ben pochi, in particolare all’estero, hanno consapevolezza che questa vittoria si è fondamentalmente adagiata sul torpore della “rivoluzione bolivariana”, con una destabilizzazione economica simile a quella utilizzata negli anni 1970 in Cile contro Salvador Allende. Denunciata a suo tempo dai progressisti (più organizzati, lucidi e coraggiosi all’epoca rispetto a oggi) quest’ultima fu confermata ufficialmente, trentacinque anni più tardi, dalla declassificazione di ventimila documenti provenienti dagli archivi segreti del governo degli Stati Uniti. Per la “crisi venezuelana”, si può sperare quindi di vedere cessato lo scollamento tra discorso mediatico e realtà tra circa tre decenni. Cosa che, purtroppo, arriverà un po’ tardi per la comprensione degli avvenimenti e la difesa urgente, sulla terra di Bolivar, di una democrazia particolarmente minacciata. Ma permetterà probabilmente a quelli che oggi, per vendere giornali, chiudono intenzionalmente gli occhi o deviano vilmente lo sguardo, di pubblicare e commentare con indignazione queste “stupefacenti rivelazioni”.”

La guerra economica spiegata ai principianti (e ai giornalisti), di Maurice Lemoine continua qui, nella sua prima parte.
Seconda parte.
Terza parte.
Quarta ed ultima parte.

Trump, Syriza & Brexit provano che il voto è solo una piccola parte della battaglia


Di Neil Clark per rt.com

Se il voto cambiasse qualcosa, l’avrebbero abolito. Potrebbe sembrare un po’ scontato ma considerate questi eventi recenti.
Nel gennaio del 2015, il popolo greco, malato e stanco di austerità e di un modello di vita frenetico, ha votato per Syriza, un partito radicale anti-austerità. La coalizione della sinistra, che era stata costituita solo undici anni prima, ha conseguito il 36,3% del voto e 149 dei 300 posti del Parlamento ellenico. Il popolo greco aveva ragionevoli speranze che il suo incubo di austerità finisse. La vittoria di Syriza è stata salutata dai progressisti in tutta Europa.
Ma cosa è successo?
E’ stata applicata dalla “Troika” pressione sulla Grecia per accettare condizioni onerose per un nuovo salvataggio. Syriza si è rivolto alla gente nel giugno 2015 per chiederle direttamente in un referendum nazionale se dovessero accettare i termini.
“Domenica non stiamo semplicemente decidendo di rimanere in Europa, stiamo decidendo di vivere con dignità in Europa”, dichiarò Alexis Tsipras, leader di Syriza. Il popolo greco ebbe doverosamente a concedere a Tsipras il mandato che aveva chiesto e respinse i termini del salvataggio con il 61,3% di ‘No.’
Tuttavia, poco più di due settimane dopo il referendum, Syriza accettò un pacchetto di salvataggio che conteneva tagli più alti delle pensioni e maggiori aumenti di imposta rispetto a quello offerto in precedenza.
Il popolo greco avrebbe potuto starsene comodamente a casa dato che il voto non ha fatto grande differenza.
Molti sostenitori di Donald Trump negli Stati Uniti la pensano senza dubbio allo stesso modo. Continua a leggere

Estranei alla società dell’intrattenimento: due incontri pubblici a Bologna

Machiavelli auspicava di riportare in auge la virtù della Roma repubblicana. La civiltà europea seguì tuttavia un percorso diverso: al posto della virtù del cittadino-soldato e del governo misto, si ebbero la concentrazione del potere statuale, la nascita degli eserciti professionali, nonché lo sviluppo economico necessario al loro finanziamento. A delinearne il modello di base sarà Thomas Hobbes, teorico dell’assolutismo. Machiavelli ed Hobbes saranno incarnazioni di opposti paradigmi, opposti modi di concepire il conflitto tra gli esseri umani. Il modo di concepire il conflitto da parte di Hobbes sarà determinante per tutte le principali ideologie moderne (liberalismo, nazionalismo, socialismo e loro derivazioni).
Non è un caso che cinque secoli dopo, ora che la civiltà europea, trasfiguratasi in quella occidentale, sprofonda nell’anomìa, qualcuno torni ad occuparsi in modo sistematico di Machiavelli, tant’è che è sorta negli ultimi decenni una corrente di studi denominata “repubblicanesimo” a lui ispirata. Da questo dibattito potrebbero venire indicazioni utili per ripensare radicalmente le fondamenta di una politica mai così in crisi e screditata agli occhi dei più.
Occhi che vanno aperti. Se, fin dai tempi antichi, la gestione del potere si è affidata alla massima riservatezza, alla dissimulazione, alle operazioni sotto copertura da parte di specialisti, infiltrati, per millenni la popolazione è stata esclusa a priori dai misteri del comando. Solo in tempi storici relativamente recenti si è avanzata l’esigenza di trasparenza dell’operato dei governi, ma l’avvento dei regimi democratici non ha annullato la segretezza delle decisioni cruciali e delle operazioni strategiche più delicate. Individuare queste strategie non è facile, meno ancora contrapporvisi. Del resto, vi è anche il rischio è di scivolare in ricostruzioni fantasiose in cui ogni dinamica sociale vien spiegata attraverso schemi elementari e stereotipi. Se la mania complottista è una deriva di menti poco lucide, tuttavia l’anticomplottismo sistematico è il frutto di una sindrome non meno controproducente e forse più pericolosa.

Quando la sinistra non aveva paura della sua ombra

“Cos’è successo tra il 1973 e il 2017? Mezzo secolo fa, la sinistra francese ed europea era generalmente solidale – almeno a parole – con i progressisti e i rivoluzionari dei Paesi del Sud. Senza ignorare gli errori commessi e le difficoltà impreviste, non sparava alla schiena dei compagni latinoamericani. Non distribuiva responsabilità ai golpisti e alle loro vittime con giudizi salomonici. Si schierava, a costo di sbagliare, e non praticava, come fa la sinistra attuale, l’autocensura codarda e la concessione all’avversario a mo’ di difesa. Non diceva: tutto questo è molto brutto, e ognuno ha la sua parte di responsabilità in queste violenze riprovevoli. La sinistra francese ed europea degli anni ‘70 era certamente ingenua, ma non aveva paura della sua ombra, e non beatificava a ogni piè sospinto quando si trattava di analizzare una situazione concreta. È incredibile, ma pure i socialisti, come Salvador Allende, pensavano di essere socialisti al punto da rimetterci la vita.
A guardare l’ampiezza del fossato che ci separa da quell’epoca, si hanno le vertigini. La crisi venezuelana fornisce un comodo esempio di questa regressione perché si presta a un confronto con il Cile del 1973. Ma se si allarga lo spettro dell’analisi, si vede bene che il decadimento ideologico è generale, che attraversa le frontiere. Nel momento della liberazione di Aleppo da parte dell’esercito nazionale siriano, nel dicembre 2016, gli stessi “progressisti” che facevano gli schizzinosi davanti alla difficoltà del chavismo, hanno cantato insieme ai media detenuti dall’oligarchia per accusare Mosca e Damasco delle peggiori atrocità. E la maggior parte dei “partiti di sinistra” francese (PS, PCF, Parti de Gauche, NPA, Ensemble, i Verdi) hanno organizzato una manifestazione davanti all’ambasciata russa a Parigi, per protestare contro il “massacro” dei civili “presi in ostaggio” nella capitale economica del Paese.
Certo, questa indignazione morale a senso unico nascondeva il vero significato di una “presa di ostaggi” che c’è stata, in effetti, ma da parte delle milizie islamiste, e non da parte delle forze siriane. Lo si è visto non appena sono stati creati i primi corridoi umanitari da parte delle autorità legali: i civili sono fuggiti in massa verso le zone governative, a volte sotto le pallottole dei loro gentili protettori in “casco bianco” che giocavano ai barellieri da una parte, e ai jihadisti dall’altra. Per la sinistra, il milione di siriani di Aleppo Ovest bombardata dagli estremisti abbigliati da “ribelli moderati” di Aleppo Est non contano, la sovranità della Siria nemmeno. La liberazione di Aleppo resterà negli annali come un tornante della guerra per procura combattuta contro la Siria. Il destino ha voluto che, purtroppo, segnasse un salto qualitativo nel degrado cerebrale della sinistra francese.
Siria, Venezuela: questi due esempi illustrano le devastazione causati dalla mancanza di analisi unita alla codardia politica. Tutto avviene come se le forze vive di questo Paese fossero state anestetizzate da chissà quale sedativo. Partito dalle sfere della “sinistra di governo”, l’allineamento alla doxa diffusa dai media dominanti è generale. Convertita al neoliberismo mondializzato, la vecchia socialdemocrazia non si è accontentata di sparare alla schiena degli ex compagni del Sud, si è anche sparata nei piedi.
(…)
Potrà anche rompere con la socialdemocrazia, ma questa sinistra aderisce alla visione occidentale del mondo e al suo dirittumanismo a geometria variabile. La sua visione delle relazioni internazionali è direttamente importata dalla doxa pseudo-umanista che divide il mondo in simpatiche democrazie (i nostri amici) e abominevoli dittature (i nostri nemici). Etnocentrica, guarda dall’alto l’antimperialismo lascito del nazionalismo rivoluzionario del Terzo Mondo e del movimento comunista internazionale. Invece di studiare Ho Chi Min, Lumumba, Mandela, Castro, Nasser, Che Guevara, Chavez, Morales, legge “Marianne” [una sorta di “l’Espresso” francese – n.d.t.] e guarda France 24 [la Rainews24 francese – n.d.t.]. Pensa che ci siano i buoni e i cattivi, che i buoni ci somigliano e che bisogna bastonare i cattivi. È indignata – o disturbata – quando un capo della destra venezuelana, formata negli USA dai neoconservatori per eliminare il chavismo, viene incarcerato per aver tentato un colpo di Stato. Ma è incapace di spiegare le ragioni della crisi economica e politica del Venezuela. Per evitare le critiche, è restia a spiegare come il blocco degli approvvigionamenti sia stato provocato da una borghesia importatrice che traffica con i dollari e organizza la paralisi delle reti di distribuzione sperando di abbattere il legittimo presidente Maduro.
Indifferente ai movimenti di fondo, questa sinistra si contenta di partecipare all’agitazione di superficie. In preda a una sorta di scherzo pascaliano che la distrae dall’essenziale, essa ignora il peso delle strutture. Per lei, la politica non è un campo di forze, ma un teatro di ombre. Parteggia per le minoranze oppresse di tutto il mondo dimenticando di domandarsi perché certe sono visibili e altre no. Preferisce i Curdi siriani ai Siriani tout court perché sono una minoranza, senza vedere che questa preferenza serve alla loro strumentalizzazione da parte di Washington che ne fa delle suppellettili e prepara uno smembramento della Siria conformemente al progetto neo-conservatore. Rifiuta di vedere che il rispetto della sovranità degli Stati non è una questione accessoria, che è la rivendicazione principale dei popoli di fronte alle pretese egemoniche di un occidente vassallo di Washington, e che l’ideologia dei diritti umani e la difesa del LGBT serve spesso come paravento per un interventismo occidentale che si interessa soprattutto agli idrocarburi e alle ricchezze minerarie.
(…)
Drogata di “moralina”, intossicata da formalismo piccolo-borghese, la sinistra radical-chic firma petizioni, intenta processi e lancia anatemi contro i capi di Stato che hanno la brutta abitudine di difendere la sovranità del proprio Paese. Questo manicheismo le impedisce il compito di analizzare ciascuna situazione concreta e di guardare oltre il proprio naso. Pensa che il mondo sia uno, omogeneo, attraversato dalle stesse idee, come se tutte le società obbedissero agli stessi principi antropologici, evolvessero secondo gli stessi ritmi. Confonde volentieri il diritto dei popoli all’autodeterminazione e il dovere degli Stati di conformarsi ai requisiti di un Occidente che si erge a giudice supremo. Fa pensare all’abolizionismo europeo del XIX secolo, che voleva sopprimere la schiavitù presso gli indigeni, portando la luce della civiltà con la canna del fucile. La sinistra dovrebbe sapere che l’inferno dell’imperialismo oggi, come il colonialismo ieri, è sempre lastricato di buone intenzioni. Nel momento dell’invasione occidentale dell’Afghanistan, nel 2001, non abbiamo mai letto tanti articoli, nella stampa progressista, sull’oppressione delle donne afghane e sull’imperativo morale della loro liberazione. Dopo 15 anni di emancipazione femminile al cannone 105, queste sono più coperte e analfabete che mai.”

Da 1973-2017 : il collasso ideologico della “sinistra” francese (ed europea), di Bruno Guigue.