Oltre la sudditanza psicologica

La dismisura, il gigantismo della tecnica che sovrasta e schiaccia la natura, la violenza predatoria, sono i fondamenti della società nordamericana. Dunque, non dovrebbero affatto sorprendere i metodi utilizzati dalle forze di polizia per garantire un ordine che si fonda sul monopolio dell’uso della violenza. Non dovrebbe neanche sorprendere il sistema del “due pesi due misure” con il quale i mezzi di informazione ed i vertici politici dell’“Occidente” a guida nordamericana si rapportano alle manifestazioni di protesta negli Stati Uniti o a quelle di Hong Kong, così come in qualsiasi altro Paese “non allineato”.
Uno degli effetti indubbiamente più deleteri degli oltre sette decenni di occupazione militare dell’Europa da parte di Washington è senza ombra di dubbio quello status mentale che porta a considerare ciò che avviene nel centro pseudoimperiale come qualcosa di determinante anche per la sua periferia. La sudditanza psicologica nei confronti degli Stati Uniti è arrivata ad un punto tale da scatenare vere e proprie tifoserie che sostengono le parti opposte nello spettacolo elettorale della democrazia americana, nella speranza che la vittoria dell’una o dell’altra possa per lo meno garantire un qualche miglioramento nella comunque ben accetta condizione di sottoposto.
Tale condizione ha subito un forte processo di estremizzazione nel corso delle elezioni presidenziali del 2016, che hanno portato alla vittoria del magnate Donald J. Trump, arrivata comunque in un momento di declino per la potenza talassocratica.
In questo contesto non si vuole in alcun caso riportare l’ormai stucchevole spettacolarizzazione propagandistica della lotta tra il Presidente ed il cosiddetto “deep state”. Chiunque abbia un minimo di familiarità con i meccanismi di potere nordamericani sa perfettamente che esiste un complesso industriale-politico-militare che persegue delle finalità geopolitiche e si muove in determinate direzioni, a prescindere da chi stia al vertice dell’impianto. Lo stesso processo di privatizzazione del Pentagono ha creato un sistema di contrattazione militare privata che si nutre di conflitto, ricavando da questo immani profitti. Basti pensare che, in piena pandemia, Washington ha votato contro una risoluzione ONU per il congelamento dei conflitti e delle sanzioni.
In questo senso l’attuale costruzione di una nuova retorica bipolare (in cui la Cina è presentata come un nuovo impero del male), oltre a garantire a Washington quel ruolo di guida democratica del “mondo libero” che gli USA non potrebbero permettersi di assumere in una condizione di multipolarità, serve essenzialmente a mantenere tale sistema in costante tensione.
Viene spesso enfatizzato il fatto che l’amministrazione Trump non ha scatenato alcun nuovo conflitto. Questa affermazione non trova alcun riscontro nella realtà geopolitica. In primo luogo, è un dato di fatto che le “guerre commerciali” sono guerre a tutti gli effetti e spesso rappresentano il preludio a più articolate azioni militari. In secondo luogo, ciò che ha impedito nuove azioni militari non è stata l’elezione di Trump, ma il rafforzamento dell’alleanza strategica tra Mosca e Pechino (fattore che aveva già spaventato la precedente amministrazione), la quale ha da subito lasciato intendere le sue posizioni, ad esempio, nel caso venezuelano e in quello iraniano. Lo stesso trumpismo, tra l’altro, non è affatto estraneo all’istinto eccezionalista che vorrebbe modellare il mondo a immagine e somiglianza degli USA. Si pensi, a questo proposito, al progetto di matrice bannoniana della New Federal China: ovvero l’idea di fare della Cina, liberata dal governo del PCC, una sorta di nuova CSI (la Comunità di Stati Indipendenti che soppiantò l’URSS dopo il suo crollo).
Quella che è stata definita come violenza predatoria (il saccheggio delle risorse petrolifere in Siria, ad esempio) è, di fatto, ciò che continua a garantire agli Stati Uniti una forza egemonica sufficiente per mantenere il dominio coloniale su un’Europa che ha rinunciato da tempo tanto alla volontà quanto alla decisione. Aspetti che hanno invece caratterizzato la sua tradizione politica prima del totale asservimento all’“Occidente”.
Ora, se l’Europa, in uno slancio di ritrovata autostima, volesse provare a riconquistare la propria sovranità, il primo passo da compiere sarebbe necessariamente l’identificazione del proprio nemico esistenziale e geopolitico. Questo nemico è l’America.”

Da Il nemico è l’America, di Daniele Perra.

Gli “zii d’America”

“Pochi casi più della presente convergenza sulla Cina aiutano a capire quanto la presunta incompatibilità tra Soros e Bannon sia una narrazione strumentale: i due rappresentano le principali manifestazioni della proiezione oltre Atlantico degli interessi strategici USA.
Soros, da un lato, protagonista già a partire dagli anni Ottanta di assidue campagne di finanziamento volte a erodere il terreno ai regimi comunisti dell’Est Europa, è portavoce e capofila dell’ala liberal-progressista del mondo a stelle e strisce. Un’ala, con relativi apparati, gruppi d’influenza e cordate politiche, favorevole a difendere lo status quo e la narrazione della globalizzazione in quanto estremamente favorevole al mantenimento della supremazia e della centralità statunitense nel mondo. Capace di portare avanti un’agenda ideologica (in cui l’apertura delle frontiere al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali sono molto spesso sottovalutate rispetto al più visibile sostegno alla libera circolazione degli uomini) che ha preso piede soprattutto nella Sinistra europea in cerca di punti di riferimento dopo la caduta del Muro e l’avvio della globalizzazione.
Bannon, invece, rilancia in tono “sovranista” la narrazione che aveva già animato l’azione degli Stati Uniti ai tempi dell’egemonia dei gruppi neoconservatori nell’epoca di George W. Bush. Dunque: occidentalismo spinto, esaltazione del legame con alleati come Israele contro un mondo, quello islamico, ritenuto compatto nella sua incompatibilità con l’Occidente; critica formale alla globalizzazione in nome del primato dell’interesse americano (il famoso “America First” di Trump) senza la sostanziale volontà di stravolgere la governance mondiale; rilancio delle culture wars contro la presunta egemonia dell’ideologia del “politicamente corretto”; sdoganamento dell’ideologia economica neoliberista. Un’ideologia che Pietrangelo Buttafuoco ha definito una “minestra revotata dei neo-con occidentalisti”.
Soros e Bannon rappresentano dunque due diverse anime degli apparati di potere americani, in certi momenti estremamente duri nel loro confronto e nella loro dialettica (la fase attuale non fa eccezione), ma concordi sul nocciolo duro dell’interesse nazionale statunitense, ovvero il mantenimento del controllo geopolitico sull’Europa e la lotta contro qualsiasi forma di potere esterno capace di sfidare l’egemonia americana nel mondo. La comune critica alla Cina segnala la salda convinzione dei decisori strategici di Washington che sia arrivato il tempo di iniziare a capire come regolare i conti con Pechino. E in questa campagna gli USA hanno bisogno dell’Europa come alleato fedele, non tentato da cedimenti all’Impero di Mezzo.
(…) Soros e Bannon sono gli “zii d’America” che hanno offerto al mondo politico europeo fondi, propulsione ideologica e organizzazione per strutturare una nuova dialettica. Nel caso di Bannon il risultato è stato addirittura più radicato, in quanto l’ex consigliere di Donald Trump è riuscito a impiantare in Europa un’ideologia che ha, nelle sue priorità, diverse assonanze con l’interesse nazionale dell’amministrazione USA: essa, infatti, dal sovranismo incassa la destabilizzazione dell’Unione Europea, nell’ottica del divide et impera, un avvicinamento all’asse costruito in Medio Oriente con Israele e Arabia Saudita e, ora, la dura e profonda critica alla Cina. Condivisa da Soros, che nell’evoluzione in senso gradito a Pechino della globalizzazione avrebbe da perdere in influenza assieme alla sua ala politica di oltre Atlantico.
Il problema di fondo è la debolezza politica dell’Europa: continente incapace di produrre spinte ideologiche o politiche propulsive, sviluppi innovativi o idee da portare al grande dibattito mondiale, ma anche di esercitare la minima influenza sui decisori dell’ordine mondiale. Soros o Trump, Bannon o Xi che sia, l’Europa è sempre vista come oggetto, e non come soggetto, delle dinamiche internazionali. E questo certifica più di ogni altra considerazione il declino del Vecchio Continente.”

Da Come mai Soros e Bannon la pensano uguale sulla Cina?, di Andrea Muratore.

Chiamati a scegliere tra due gang

“Per sovranità si intende correntemente la qualità giuridica pertinente allo Stato considerato come potere originario e indipendente da qualunque altro potere, cosicché uno Stato può dirsi sovrano solo se è indipendente rispetto agli altri Stati ed è in grado di determinare la propria politica estera in maniera autonoma.
Quanto alle condizioni oggettive che al di là dei formalismi giuridici permettono ad uno Stato di essere realmente sovrano, ce n’è una che non può essere elusa, perché concerne il “livello critico in materia di dimensioni d’uno Stato”: si tratta della “soglia critica quantitativa” necessaria affinché lo Stato disponga della potenza sufficiente ad agire in maniera autonoma nelle relazioni internazionali, le quali sono sostanzialmente regolate da rapporti di forza. Orbene, tale “soglia critica quantitativa” non corrisponde più, nell’epoca attuale, alla ridotta dimensione dello Stato nazionale, ma alla dimensione di un “grande spazio”.
In un mondo che come l’attuale è dominato da due tendenze contrapposte – quella perseguita dagli Stati Uniti, favorevoli alla frammentazione dei grandi spazi, e quella che invece mira alle integrazioni continentali – un piccolo Stato nazionale è dunque condannato a svolgere un ruolo subalterno, se non trova il modo di integrarsi in una più ampia unità territoriale.
Perciò non è un caso che a favorire l’illusione sovranista siano gli strateghi dell’imperialismo statunitense, i quali hanno individuato nel sovranismo, variante aggiornata del piccolo nazionalismo, uno strumento ideologico idoneo a destabilizzare ulteriormente l’Europa e ad allontanare da essa qualunque prospettiva di unità, perfino quella che è rappresentata dalla miserabile costruzione denominata Unione Europea.
Ciò che in Europa preoccupa il potere statunitense, al di là delle laceranti controversie tra le fazioni in cui esso è diviso, è il “problema tedesco”, costituito dall’eccedenza commerciale della Germania e dagli accordi che quest’ultima ha stabilito con la Russia e con la Cina. D’altra parte la diffusa insofferenza nei confronti della Germania, causata dalla politica di austerità imposta da Berlino, agevola il disegno del potere statunitense, che intende utilizzare come proprie pedine le forze politiche euroscettiche, populiste e sovraniste.
Il compito di coordinare tali pedine sulla scacchiera europea è stato assunto dallo stratega ufficioso di Donald Trump: l’uomo d’affari, produttore cinematografico e giornalista Steve Bannon.
(…) L’offensiva di Steve Bannon nella politica italiana è stata immediatamente seguita dallo speculare intervento di un suo connazionale, finanziatore a sua volta della campagna elettorale di Hillary Clinton: George Soros. Dopo avere elargito i propri consigli all’Europa, il noto “filantropo” ha parlato dalla tribuna del Festival dell’Economia di Trento, dicendosi “molto preoccupato” per il fatto che i due partiti che sostengono il nuovo esecutivo hanno chiesto l’abolizione delle sanzioni contro la Russia. Preoccupazione eccessiva quella del “filantropo”, perché il governo giallo-verde, con la massima nonchalance, ha dato il proprio beneplacito all’Unione Europea quando si è trattato di prorogare di altri sei mesi le sanzioni antirusse.
Comunque sia, la simultanea ingerenza dei due grandi manipolatori statunitensi negli affari politici italiani costituisce un simbolo eloquente della tragica situazione in cui si trovano attualmente l’Italia e con essa l’Europa intera, chiamate a scegliere tra la gang di Hymie Weiss e quella di Al Capone.”

Da La geopolitica giallo-verde, di Claudio Mutti, editoriale di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, n. 4/2018.

La Via Yankee al Sovranismo

Le ambivalenze della emergente prospettiva sovranista analizzate relativamente al caso italiano.
Un contributo da leggere con attenzione.

Ho iniziato a parlare dell’esistenza di una Via Yankee al Sovranismo, più o meno da quando ho iniziato a identificarmi, da un punto di vista marxista, con tale categoria politica. Dunque, intorno al 2012.
Infatti, dall’avvento dell’austerity del Governo Monti nel 2011, si è immediatamente palesato che, a fronte della rigidità tedesca che indirizzava le posizioni dell’Unione Europea imponendo politiche di macelleria sociale a Grecia e Italia, da parte degli Stati Uniti vi era un atteggiamento decisamente più elastico nei confronti della spesa pubblica e del bilancio statale. La troika che impartiva ordine ai governi euro-mediterranei, in altre parole, risultava essere composta dal “poliziotto buono” FMI e dal “poliziotto cattivo” Commissione Europea.
Così, molte figure pubbliche che in quel periodo e a vario titolo si pronunciavano contro l’austerity – per esempio Paolo Barnard, ma anche Stefano Fassina – enunciavano altresì esplicitamente la necessità di cercare sponda politica negli Stati Uniti e nel Fondo Monetario per uscire dalla trappola mortale del fiscal compact e dal controllo tedesco sulla nostra economia.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti.
Otto anni di austerity hanno quasi del tutto eroso, presso l’opinione pubblica italiana ed europea, il preesistente sostegno alla prospettiva eurofederalista e hanno portato, quindi, il sovranismo al centro del dibattito politico e reso maggioranza parlamentare quelle forze politiche che, con varia gradazione, alle tematiche sovraniste sostengono di rifarsi.
Il punto è che a questa centralità dell’istanza sovranista, corrispondono manovre e strategie di carattere geopolitico da parte di forze straniere – in particolar modo gli Stati Uniti – per orientare a proprio vantaggio il ruolo dell’Italia nell’Europa che nascerà, dopo il probabile fallimento dell’Eurozona e dopo il possibile affossamento della prospettiva federalista.
A fronte di queste manovre, l’atteggiamento delle forze a vario titolo sovraniste (cioè i sovranisti-costituzionalisti, i marxisti critici dell’eurofederalismo e le forze più orientate a destra) è confuso, diviso, talora addirittura indifferente e comunque, all’atto pratico e a mio parere, inadeguato ad affrontare questo nodo strategico. Continua a leggere