L’imperialismo energetico statunitense


“Con la Libia relegata nel ruolo di Stato fallito, l’Iran espulso dal commercio, il Golfo Persico che si sta trasformando in zona di guerra, il Venezuela sanzionato dai mercati, Boko Haram che interrompe la produzione di petrolio nigeriana, la gigantesca Russia costretta a una nuova Guerra Fredda, i Sauditi in procinto di vendere pezzi di ARAMCO agli Stati Uniti e ad altri investitori capitalisti, e ora con Donald Trump che tiene il petrolio siriano fuori dai mercati globali, gli Stati Uniti spingono il loro petrolio come il più affidabile e facilmente disponibile.
Lo stesso si può dire degli sforzi degli Stati Uniti per espandere i propri mercati di gas naturale liquefatto (GNL). La volontà sistematica di rappresentare la Russia come una minaccia esistenziale che incombe ai confini dell’Europa orientale e centrale ha lo scopo di stigmatizzare la Russia come partner pericoloso e compromettere la sua posizione come principale fornitore economico di gas naturale, fornito dalle pipeline per l’Europa. Di conseguenza, gli Stati Uniti sperano di aprire la porta di quel mercato stabilendo terminali GNL negli Stati più anti-russi. Allo stesso modo, il caos nello Stretto di Hormuz e la lotta all’Iran hanno gettato un’ombra sull’affidabilità dei maggiori concorrenti statunitensi di gas: i vasti giacimenti di gas iraniano e del Qatar.
In questa competizione per i mercati energetici globali, gli Stati Uniti fanno affidamento sulle sanzioni economiche come arma preferita, in particolare bloccando l’attività commerciale dei rivali energetici.
Se imporre la stabilità in un mondo capitalista dipendente dalle importazioni di energia era il primo obiettivo dell’imperialismo USA, la sovrapproduzione di energia da tecnologie innovative ha fissato nuovi obiettivi. Poiché gli Stati Uniti bramano i mercati tradizionali di petrolio e gas naturale, l’imperialismo USA è disposto a convivere e anche favorire l’instabilità globale. Non è un caso che guerre distruttive senza fine, zone a rischio diffuse, minacce e ostilità siano caratteristiche del ventunesimo secolo.
Rafforzare le esportazioni di energia e la vendite di armi rendono gli Stati Uniti il principale piantagrane in un mondo capitalista instabile e ultra competitivo.
L’imperialismo energetico statunitense rende ancora più pericoloso un mondo già instabile.”

Da È solo tutto per il petrolio?, di Greg Godels.

Le implicazioni della politica estera USA al tempo di Trump

Quando Putin afferma che le sanzioni contro la Russia sono una forma di “protezionismo nascosto”

“Gli sviluppi delle ultime settimane rimuovono la nebbia che oscurava gli obiettivi di politica estera della classe dominante USA. Una serie di eventi apparentemente non correlati fanno luce sulle finalità dei responsabili politici in un’era di intensificazione delle rivalità internazionali. Più oltre, sta diventando chiaro che il Presidente Trump sta ora parametrando la politica estera al consenso della classe dirigente; il suo allontanarsi dalla linea è stato sostanzialmente posto sotto controllo.
(…)
Il lungo e incoraggiato modello che vede gli interessi imperialistici USA serviti dal mettere in sicurezza e proteggere da parte degli stessi USA il proprio accesso alle fonti di energia, garantendo l’energia per i suoi alleati della Guerra Fredda è oggi in cerca di un nuova fisionomia. Oggi, gli interessi degli USA consistono nella ricerca di nuovi mercati all’interno dell’economia globale, in competizione con altri fornitori di energia, e creando favorevoli condizioni politiche ed economiche ai fornitori USA. Petrolio, gas ed energia rimangono centrali per l’impresa imperialista, ma i ruoli stanno cambiando in modo importante con importanti implicazioni.
Ho cercato di definire più chiaramente questo ruolo in febbraio, quando ho scritto: Dovrebbe essere chiaro, allora, che l’approssimarsi dell’autonomia petrolifera degli USA, il mutamento del ruolo degli USA da consumatori a produttori, e l’attenzione ai mercati per il petrolio, piuttosto che alle sorgenti del petrolio, influenzano profondamente le politiche strategiche degli USA, incluso l’indebolimento o l’inasprimento delle relazioni con gli altri maggiori produttori di petrolio come l’Arabia Saudita e la Russia.
I fatti han solo rafforzato tale visione. La rabbiosa e crudele intensificazione delle ostilità verso la Russia, la rinnovata demonizzazione dell’Iran, lo strano e bizzarro isolamento del Qatar, e l’accresciuta aggressività nelle numerose guerre di destabilizzazione nel Medio Oriente sottolineano l’evoluzione di un’emergente politica estera, consistente nell’assicurarsi nuovi mercati dell’energia.
L’introduzione e l’espansione delle forze militari USA in punti caldi come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan promettono minore risoluzione dei conflitti, ma garantiscono ulteriore instabilità delle fonti energetiche e del flusso degli idrocarburi. La vendita di vaste scorte di armamenti militari assicura l’intensificazione ed il perdurare delle incursioni saudite nello Yemen.
L’inaspettata ostilità verso il Qatar mostrata dagli altri Stati del Golfo all’inizio della recente volgare performance di Trump in Riyadh (Arabia Saudita) è probabilmente diretta contro la leadership globale del Qatar nell’esportazione di gas liquido naturale, il mercato che gli USA sperano di penetrare ulteriormente. Non è un caso che i giacimenti di gas del Qatar sono posseduti in comune con l’Iran ed entrambi i paesi hanno cooperato nello sfruttamento dei giacimenti e nella produzione del gas naturale. Allo stesso tempo, i sauditi si sono arresi nella guerra dei prezzi con i trivellatori delle argille americane.
(…)
Le ultime sanzioni statunitensi contro la Russia (15/06/17) sono chiaramente dirette ai mercati ed al gas naturale russo. Il Senato ha votato il provvedimento 98-2 per “ampliare le sanzioni sul settore dell’energia russo”, come riferito dal Wall Street Journal. Mentre il messaggio può essere andato perduto sui media mainstream, i quali si crogiolano nel neomaccartismo, e mentre lo stesso messaggio non è stato decodificato da una sinistra distratta, non è andato perduto per gli Europei. Lo hanno immediatamente visto come un attacco al progetto del gasdotto North Stream 2 che dovrebbe portare il gas russo in Germania, Austria ed altre nazioni europee. E lo hanno visto per quello che era; La Germania e l’Austria immediatamente hanno sferzato con una dichiarazione congiunta: “Non possiamo accettare una minaccia di sanzioni extraterritoriali, illegali per il diritto internazionale, contro le compagnie europee che partecipano allo sviluppo delle forniture europee di energia”.
Hanno aggressivamente aggiunto: “La fornitura di energia all’Europa è affare dell’Europa, non degli Stati Uniti d’America” e “il fine odierno [di tali sanzioni] è quello di procurare lavoro per l’industria del gas e del petrolio americana…”
E così è. Il crudo riconoscimento che le azioni americane contro la Russia sono sottili e nascoste operazioni di copertura in favore degli scopi imperialisti degli USA.
Per evitare che qualcuno pretenda che l’imperialismo USA con un passo nuovo sia esclusivamente un prodotto di Trump, si dovrebbe notare come la votazione al Senato della 98-2 non è stata un’aberrazione. Scrivendo sul Washington Post (08/06/17), David Gordon e Michael O’Hanlon – due insiders solidamente connessi con Washington – hanno indicato “diversi segni di speranza” nella politica estera di Trump. Hanno lodato la squadra della sicurezza nazionale del Presidente e il suo atteggiamento nel Medio Oriente. Sono stati in modo particolare entusiasti per la sua continua belligeranza contro la Russia.
L’incauta politica estera dell’Amministrazione Trump ancora oggi devia qualche volta dalla linea della classe dominante espressa negli editoriali del New York Times o del Washington Post. Ma ancor di più diventa incauta perché si conforma a tale linea. La guerra senza fine e l’escalation in quelle guerre senza fine non si sono scontrate con l’impazienza della classe dominante, ma appaiono piuttosto essere la nuova linea globale.
La destabilizzazione dei paesi e la promozione del settarismo appaiono essere meno conseguenze non volute e più risultati delle tattiche deliberatamente calcolate di un potere imperialista che trae beneficio dal caos.
Come nell’era classica della spericolata competizione imperialista ante I Guerra mondiale, l’imperialismo degli USA sta aggressivamente facendo avanzare la propria agenda economica contro i rivali, inclusi i recenti “alleati”. I pericoli posti da queste rivalità in intensificazione minacciano di far scoppiare conflitti più devastanti e guerre ancor più estese.”

Da Imperialismo USA: cambio di direzione?, di Zoltan Zigedy.

Libia

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Nei primi mesi del 2011, a cent’anni esatti dall’impresa coloniale italiana in Libia, si è consumato un nuovo intervento militare contro il Paese nordafricano. Artefici di quest’attacco piratesco, come è qui documentato con precisione, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, a cui presto si è dovuta accodare anche l’Italia, il più stretto e importante partner economico-commerciale della Libia. Ne è seguito un disastro immane le cui vere ragioni sono state tenute nascoste al pubblico internazionale.
Con molta lentezza, mentre si consumava la tragedia che ha dilaniato l’ex colonia italiana, sono emersi qua e là taluni brandelli di notizie sulle cause che hanno portato all’entrata in guerra della NATO contro Mu’ammar Gheddafi. Ma, come già era avvenuto, i media mainstream hanno continuato a tacere sul disegno e le finalità complessive dell’operazione. Oltre a non reclamare giustizia per gli «uomini di Stato» responsabili di una tale catastrofe sociale e umanitaria.
Il libro di Paolo Sensini rappresenta un contributo imprescindibile per chiunque voglia davvero capire cos’è accaduto in Libia e, più in generale, su ciò che è ormai passato alla storia con il roboante nome di «Primavera Araba». È un racconto avvincente, che ci guida per mano nel labirinto libico e di cui l’autore, che ha completato il quadro pubblicando importanti contributi sulla strategia del caos nel Vicino e Medio Oriente, ci aggiorna con dovizia fino agli ultimissimi eventi e oltre.

Libia. Da colonia italiana a colonia globale
di Paolo Sensini
Jaca Book, 2017, pp. 224, € 16

Il Pentagono fa il giro del mondo

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Arriva oggi in Italia il capo del Pentagono Ash Carter che, a nome dell’uscente amministrazione Obama, sta facendo «il giro del mondo per ringraziare le truppe USA schierate in Asia, Medioriente ed Europa e incontrare importanti partner e alleati».
Il tour è iniziato il 3 dicembre dalla California, dove Carter ha tenuto il discorso di chiusura al «Forum Reagan», che gli ha conferito il premio «La pace attraverso la forza».
Carter si è quindi recato in Giappone, dove ha passato in rasegna le truppe USA e incontrato il ministro della difesa Inada.
Il Giappone, che contribuisce con 1,6 miliardi di dollari annui alla permanenza di 50mila soldati USA sul proprio territorio, è particolarmente importante quale base avanzata dei sistemi missilistici USA schierati contro la Cina a «scopo difensivo» e, precisa il Pentagono, è un alleato «in grado di difendere altri paesi che possano essere attaccati».
Dal Giappone Carter è volato in India, divenuta il secondo acquirente mondiale di armi USA dopo l’Arabia Saudita: un risultato della strategia di Washington che mira a indebolire i rapporti dell’India con la Russia, minando il gruppo dei BRICS attaccato allo stesso tempo attraverso il golpe «istituzionale» in Brasile.
Il capo del Pentagono è quindi andato in Bahrein, dove ha partecipato al «Dialogo di Manama» organizzato dall’Istituto internazionale di studi strategici, influente think tank britannico finanziato dall’emirato con oltre 38 milioni di dollari.
Intervenendo sulla «logica della strategia americana in Medioriente», Carter ha precisato che in questa regione sono schierati oltre 58 mila militari USA, tra cui più di 5 mila sul terreno in Iraq e Siria, «non solo per contrastare terroristi come quelli dell’ISIS, ma anche per proteggere i nostri interessi e quelli degli alleati» (ragione per cui gli USA e le monarchie del Golfo, come ampiamente documentato, hanno segretamente sostenuto l’ISIS, funzionale alla loro strategia in Siria e Iraq).
Carter ha accusato la Russia di non combattere l’ISIS in Siria, ma di aver solo «infiammato la guerra civile e prolungato le sofferenze del popolo siriano». Ha quindi aggiunto che, poiché «l’Iran continua a schierare missili», gli USA stanno realizzando con gli alleati «una difesa missilistica regionale», comprendente un potente radar in Qatar, missili Thaad negli Emirati e altri sistemi missilistici (in realtà non di difesa ma di offesa, dato che gli stessi tubi di lancio possono essere usati per missili da attacco anche nucleare).
Dal Bahrein Carter è andato in Israele, dove ieri ha partecipato col ministro della difesa Lieberman alla cerimonia dell’arrivo dei primi due caccia F-35 per l’aeronautica israeliana, simbolo della sempre più stretta partnership militare con gli USA, «portata a livelli senza precedenti dall’accordo decennale di assistenza firmato lo scorso settembre».
Da Israele il capo del Pentagono arriva oggi in Italia, per una visita di due giorni alle truppe USA qui stazionate allo scopo – dichiara un documento ufficiale – di «sostenere le operazioni degli USA e della loro coalizione su scala mondiale, tra cui la deterrenza all’aggressione russa nell’Europa orientale e il rafforzamento del fianco sud della NATO».
Il tour mondiale, che si concluderà a Londra il 15 dicembre con una riunione della «coalizione anti-ISIS», ha uno scopo politico ben preciso: riaffermare alla viglia delle consegne la strategia dell’amministrazione Obama, che avrebbe dovuto proseguire la democratica Clinton, perché restino aperti i fronti di tensione e guerra a Sud e ad Est che il democratico Obama lascia in eredità al repubblicano Trump. Che ha almeno il merito di non essere Premio Nobel per la pace.
Manlio Dinucci

Fonte

nobels

ISIS

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Terrorismo e ISIS: da tempo sui mezzi d’informazione non si parla d’altro, anche in seguito agli ultimi attentati in alcune capitali europee. Concetti declinati in tutte le maniere possibili e immaginabili, soprattutto riferendosi alle guerre combattute nel Vicino e Medio Oriente.
Ma conosciamo tutta la verità? Abbiamo davvero tutte le informazioni per esprimere un giudizio preciso? Quelle che leggiamo sui giornali o ascoltiamo in tv corrispondono alla realtà dei fatti oppure sono menzogne? È possibile che gli uomini di governo dell’Occidente stiano sfruttando il terrorismo, che non cessano di calunniare come se fosse l’origine di tutti i mali, per ottenere un potere straordinario nei confronti della società?
Che cos’è dunque il cosiddetto terrorismo internazionale (Al-Qa’ida, ISIS, Jabhat al-Nusra, Boko Haram, al-Shabaab, etc.)?
Ma, soprattutto, chi ne trae beneficio?
Sono queste le domande fondamentali a cui il libro di Paolo Sensini, dopo aver vagliato un’imponente mole di materiali e documenti originali, risponde per la prima volta in maniera esaustiva e completa.
E lo fa mettendo finalmente in luce la totalità degli aspetti che riguardano i mandanti, i registi, gli attori e le pratiche di quella che definisce come strategia del caos.
In questo scenario anche l’Islam e le sue centrali ideologiche, su cui si sono versati fiumi di parole senza mai toccare il cuore del problema, assumono un significato e dei contorni molto più chiari e definiti. Ne emerge così un quadro sconvolgente, ma allo stesso tempo necessario, per capire e orientarsi nel mare tempestoso in cui ci troviamo a vivere.

Isis. Mandanti, registi e attori del “terrorismo” internazionale,
di Paolo Sensini
Arianna Editrice, 2016, € 14,50

Paolo Sensini, storico ed esperto di geopolitica, è autore di numerosi libri tra cui Il «dissenso» nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977 (Rubbettino, Soveria Mannelli 2010), Libia 2011 (Jaca Book, Milano 2011), Divide et Impera, Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente (Mimesis, Milano 2013) e Sowing Chaos. Libya in the Wake of Humanitarian Intervention (Clarity Press, Atlanta 2016). Suoi scritti sono apparsi su varie riviste italiane ed estere.

2017, guerra con la Russia

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Esce in Gran Bretagna il romanzo 2017, War with Russia. Un trhiller che racconta della prossima guerra tra l’Occidente e Mosca a seguito dell’acuirsi della crisi ucraina. Solo un romanzo certo, “se non che l’autore è sir Richard Shirreff, un generale britannico a quattro stelle, più alto in grado della NATO, secondo al solo comandante supremo, e come tale, testimone e partecipe delle riunioni di più alto livello dove si decidevano le politiche di sicurezza dell’Occidente”. Così sul Corriere della Sera del 9 giugno Ricardo Franco Levi.
Ovviamente nel libro la guerra sarebbe conseguenza dell’aggressività russa. E però, annota l’autore, “se siamo arrivati a questo punto, la responsabilità non è solo della Russia di Vladimir Putin, è anche nostra, dell’Occidente. Dopo aver allargato la NATO ai Paesi dell’Europa centrale, ai Balcani e ai Paesi baltici, con la promessa di un ingresso nell’Alleanza estesa all’Ucraina abbiamo reso concreta la possibilità e acuito la storica paura di un accerchiamento militare in una Russia che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il caos degli anni novanta, stava recuperando la propria potenza e il proprio orgoglio nazionale”.
Levi conclude che è necessario attutire il confronto ed è dovere della politica recuperare «un dialogo e una collaborazione con Mosca», evitando di cercare rassicurazioni solo sul piano della sicurezza militare.

Nota a margine. Il libro di sir Richard Shirreff suona come un campanello d’allarme. L’ennesimo. Ché il pericolo è reale. Come anche la datazione: chi spinge per l’opzione bellica (i neocon) immagina di avere una finestra di opportunità ridotta per la vittoria. Ora o mai più, stante che l’avversario storico sta riprendendo sempre più vigore.
Un’idea folle, che si fonda sulla presunzione di gestire l’eventualità di una guerra atomica grazie al gap tecnologico-militare tra i contendenti. Follia, certo, ma basta vedere la follia dell’ISIS, l’altra faccia della medaglia della rivoluzione globale alimentata dagli ambiti neocon, per capire quanto sia reale e pervicacemente perseguita.
Anche la data ha la sua suggestione per gli ambiti neocon, i quali hanno spinto per la disfatta del comunismo rifiutando l’opzione riformista di Gorbaciov. Infatti, il prossimo anno sarà il centenario della rivoluzione russa, un anno ideale per chiudere definitivamente i conti con il mostro rivoluzionario.
La rivoluzione comunista di Marx, improntata alla difesa dei lavoratori e alla razionalità (almeno negli ideali del filosofo), deve lasciare spazio alla rivoluzione neoconservatrice, fondata sul trionfo dell’aristocrazia plutocratica e l’irrazionalismo.

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Hillary Clinton regina del caos

Intervista a Paolo Borgognone in occasione della pubblicazione a cura di Zambon editore di Hillary Clinton regina del caos, autrice Diana Johnstone.

Strategia segreta del terrore

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«Il nemico oscuro che si nasconde negli angoli bui della terra» (come lo definì nel 2001 il presidente Bush) continua a mietere vittime, le ultime a Bruxelles e a Lahore. È il terrorismo, un «nemico differente da quello finora affrontato», che si rivelò in mondovisione l’11 settembre con l’immagine apocalittica delle Torri che crollavano. Per eliminarlo, è ancora in corso quella che Bush definì «la colossale lotta del Bene contro il Male». Ma ogni volta che si taglia una testa dell’Idra del terrore, se ne formano altre.
Che dobbiamo fare? Anzitutto non credere a ciò che ci hanno raccontato per quasi quindici anni. A partire dalla versione ufficiale dell’11 settembre, crollata sotto il peso delle prove tecnico-scientifiche, che Washington, non riuscendo a confutare, liquida come «complottismo».
I maggiori attacchi terroristici in Occidente hanno tre connotati. Primo, la puntualità. L’attacco dell’11 settembre avviene nel momento in cui gli USA hanno già deciso (come riportava il New York Times il 31 agosto 2001) di spostare in Asia il centro focale della loro strategia per contrastare il riavvicinamento tra Russia e Cina: nemmeno un mese dopo, il 7 ottobre 2001, con la motivazione di dare la caccia a Osama bin Laden mandante dell’11 settembre, gli USA iniziano la guerra in Afghanistan, la prima di una nuova escalation bellica. L’attacco terroristico a Bruxelles avviene quando USA e NATO si preparano a occupare la Libia, con la motivazione di eliminare l’ISIS che minaccia l’Europa.
Secondo, l’effetto terrore: la strage, le cui immagini scorrono ripetutamente davanti ai nostri occhi, crea una vasta opinione pubblica favorevole all’intervento armato per eliminare la minaccia. Stragi terroristiche peggiori, come a Damasco due mesi fa, passano invece quasi inosservate.
Terzo, la firma: paradossalmente «il nemico oscuro» firma sempre gli attacchi terroristici. Nel 2001, quando New York è ancora avvolta dal fumo delle Torri crollate, vengono diffuse le foto e biografie dei 19 dirottatori membri di al Qaeda, parecchi già noti all’FBI e alla CIA.
Lo stesso a Bruxelles nel 2016: prima di identificare tutte le vittime, si identificano gli attentatori già noti ai servizi segreti.
È possibile che i servizi segreti, a partire dalla tentacolare «comunità di intelligence» USA formata da 17 organizzazioni federali con agenti in tutto il mondo, siano talmente inefficienti? O sono invece efficientissime macchine della strategia del terrore? La manovalanza non manca: è quella dei movimenti terroristi di marca islamica, armati e addestrati dalla CIA e finanziati dall’Arabia Saudita, per demolire lo Stato libico e frammentare quello siriano col sostegno della Turchia e di 5mila foreign fighters europei affluiti in Siria con la complicità dei loro governi.
In questo grande bacino si può reclutare sia l’attentatore suicida, convinto di immolarsi per una santa causa, sia il professionista della guerra o il piccolo delinquente che nell’azione viene «suicidato», facendo trovare la sua carta di identità (come nell’attacco a Charlie Hebdo) o facendo esplodere la carica prima che si sia allontanato.
Si può anche facilitare la formazione di cellule terroristiche, che autonomamente alimentano la strategia del terrore creando un clima da stato di assedio, tipo quello odierno nei Paesi europei della NATO, che giustifichi nuove guerre sotto comando USA.
Oppure si può ricorrere al falso, come le «prove» sulle armi di distruzione di massa irachene mostrate da Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 5 febbraio 2003. Prove poi risultate false, fabbricate dalla CIA per giustificare la «guerra preventiva» contro l’Iraq.
Manlio Dinucci

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La guerra ha necessità del caos

12592393_959764024111396_3190308482431481398_n“Il prezzo del petrolio continua a scendere e questo, secondo i calcoli statunitensi e sauditi, dovrebbe mettere con le spalle al muro Putin, i cui bilanci soffrono col barile sotto i 70 dollari. Gli strateghi di Obama hanno quindi messo a punto il loro piano, un rozzo ricatto a Putin: “D’accordo, non siamo riusciti ad ammazzarti e neppure a delegittimarti. Però possiamo mettere in crisi la tua economia, tenendo basso il costo del petrolio. Se tu ci lasci pacificare la Siria, facciamo fuori Assad, com’è già accaduto a Gheddafi, quindi riportiamo in alto il prezzo del barile e siamo tutti contenti, tu e noi, caro Vladimir.”
Questo è il piano; lo sostengono molti osservatori ben più autorevoli di chi scrive. E non c’è dubbio che è temerario. Innanzi tutto i ricattatori non sono in grado di reggere il gioco: la casa saudita è sull’orlo della bancarotta a causa del barile in saldo. Inoltre Putin non è molliccio come Berlusconi, il quale se l’è fatta addosso al primo latrato dei cani. Quando Putin entrò al Cremlino la prima volta, il PIL della Russia era inferiore a quello dell’Olanda, la società era in disfacimento. Tutte le mafie russe rispondevano ai servizi occidentali. La produzione agricola era dissolta, quella industriale ancor più. Tutti gli osservatori davano per imminente un collasso catastrofico della Russia, irreversibilmente destinata a scomparire come prima era accaduto all’Unione Sovietica. I fatti oggi parlano da soli. V’è motivo di sospettare che ancora una volta – come accadde a Napoleone e a Hitler – si stia sottovalutando la capacità dei Russi di compattarsi davanti al nemico e fare fronte comune. La leadership di Putin è già nella storia imperiale della Russia. Chi non lo comprende in tempo è destinato a un vortice di errori, trascinandovi quanti gli daranno credito. Si direbbe che il premio Nobel per la pace sia a buon punto su tale cammino.
In questa baraonda, coloro che pescano nel torbido hanno come naturali collaboratori quanti speculano sulla pelle dei profughi e dei Paesi che li accolgono. Nella nostra classe politica e nelle nostre diocesi abbiamo esempi numerosi e luminosi. Occorre domandarsi perché solo recentemente e per la prima volta un tribunale siciliano ha condannato degli scafisti, neppure a una pena memorabile, solo sei anni.
La guerra ha necessità del caos. La guerra non si accende in una situazione ordinata e tranquilla. La guerra deve essere alimentata con masse di bisognosi senza riferimenti familiari, culturali, religiosi, sociali.
Si inietta il caos attraverso il sovvertimento globale, spezzando tutti i legami economici, politici, nazionali, religiosi, morali, si frammenta la società, spezzandone i codici morali, per assoggettarne gli individui, secondo un rozzo modello premedievale, spegnendo ogni diritto naturale.
Putin lo ha capito da tempo e ha ammonito Obama e gli Stati Uniti davanti alle Nazioni Unite. Tutto è continuato come prima, in apparenza. Tutto sembra andare verso il caos voluto da Obama. Dopo di lui altri dovrebbe continuare sulla stessa strada. Chi? Le elezioni americane questa volta sono di importanza senza precedenti.”

Da Guerra e Pace, qualcuno bara di Piero Laporta.

L’Europa ha disperatamente bisogno di un cambio di regime

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“Tutto questo mi dice una cosa: l’Europa è completamente fallita, moralmente ed intellettualmente. Spesso sentiamo parlare della cosiddetta “civiltà europea” o dei “valori europei”, ma sono frasi senza senso. Se l’Europa moderna avesse dei reali valori di civiltà sarebbe stata capace di affrontare la crisi dei rifugiati. Diavolo, argomenterei perfino che, se l’Europa avesse un qualsiasi valore reale, questa crisi non sarebbe accaduta, tanto per incominciare, semplicemente perché la Unione Europea non sarebbe stata una complice così volenterosa dei grandi schemi statunitensi per la destabilizzazione di tutto il Magreb ed il Mashrek. Proprio come un corpo in salute può far fronte a traumi ed infezioni che sarebbero devastanti per un corpo infettato dall’HIV, così una società in salute può affrontare problemi molto maggiori rispetto a quelli attualmente di fronte all’Europa, ma ciò richiede un “sistema immunitario” intellettuale, morale e spirituale, cioè un qualcosa di cui l’Europa odierna manca completamente.
Quello di cui l’Europa oggi ha disperatamente bisogno è un cambio di regime. E non intendo affatto “regime” in senso cattivo, lo intendo piuttosto in senso di cambio di “sistema”. Proprio come gli USA, a proposito. Sia in USA che in Europa, il sistema politico è marcio fino all’osso, e non ha senso mettere una persona diversa, potenzialmente appena migliore, a capo di un sistema o regime inguaribilmente cattivo. Gli europei del nord erano soliti guardare dall’alto in basso i loro vicini del sud, ma adesso sono coinvolti anche loro dal caos prodotto da un sistema politico completamente disfunzionale: dalla Grecia alla Norvegia, il caos è ovunque.
Per quanto riguarda il problema della immigrazione, credo che sia un affare concluso e niente lo fermerà. L’Europa “Bianca” è finita, è storia. Quei partiti politici che promettono di fermare o invertire quel flusso stanno semplicemente mentendo al loro elettorato. Sì, certo, qualche politico può, una volta al potere, chiudere la “porta principale” suppergiù “tappando” i “buchi” principali che permettono agli immigrati di entrare, ma essi continueranno semplicemente ad arrivare attraverso l’entrata secondaria (potrei scrivere un intero articolo solo su questo). Si può paragonare questa situazione alla patetica “guerra alla droga”, altro futile tentativo di affrontare una “pressione osmotica” di gran lunga troppo grande per essere contrastata da qualsiasi confine o legge. In entrambi i casi, la pressione sociale ed economica è così immensa che non c’è nulla che possa fermarla (e, se credete nella economia capitalistica, allora la spiegazione è pure più semplice, è solo una questione di domanda e offerta: poiché il prezzo dell’ingresso sarà sempre più basso della domanda, l’offerta fornirà sempre le merci).
Suppongo che ci sia una certa eleganza karmica nella conquista dell’Europa da parte di coloro che hanno subito le sue politiche imperialiste e colonialiste (e aspettate finché gli Ucraini cominceranno ad entrare in massa!). Ma questo è solo in astratto. Nella realtà, gente innocente da entrambe le parti soffre a causa degli eventi scatenati dal loro nemico comune, la plutocrazia Anglo-Sionista che domina l’Impero. Finché questo fatto cruciale rimarrà inesprimibile, e perciò non espresso, la crisi continuerà e le vittime continueranno ad attaccarsi a vicenda invece di girarsi contro il loro nemico comune. È per questo che personalmente, per quanto possa essere arduo difendere questa posizione, io propongo ancora un’alleanza fra europei ed immigrati contro coloro che cercano di distruggere il continente europeo, il Magreb ed il Mashrek. I fanatici wahabiti in Siria, i teppisti immigrati di Colonia, la mafia kosovara, i neo-nazisti della Germania (e dell’Ucraina), i “Lupi Grigi” della Turchia, sono tutti strumenti nelle mani dello stesso padrone che cerca solo di dividere per governare. La buona notizia è che tutte queste forze sono composte sempre da una minoranza di teppisti, e ciò lascia aperta la porta alla possibilità di una unione della gente perbene ed onesta in difesa del loro interesse comune.”

Da Qualche pensiero sconnesso sui fatti di Colonia di The Saker.

Gli Stati Uniti sono il nostro nemico

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Colonie

Chi fa esplodere i Paesi alle porte di casa nostra, Ucraina, Libia, Siria, se la ride mentre noi ci scanniamo attanagliati in uno scrupolo morale senza soluzione, ovvero se sia lecito respingere milioni di profughi che si accalcano disperati alle nostre frontiere.
E’ sacrosanto dire che la Russia non è il nostro nemico, ma non basta più. Oggi bisogna dire chiaramente che Obama ci ha attaccato con le sue guerre ibride per spogliarci di ogni rimanente ricchezza ed asservirci ancora di più, sottomettendoci ad una colonizzazione morale, culturale, ideologica, economica politica e militare.
Un caso può essere frutto di pianificazione difettosa, due casi possono essere spiegati con la semplice stupidità, ma tre casi identici e contestuali dimostrano una strategia coerente (e poi che gli è andata male in Egitto, o staremmo già combattendo nelle nostre strade): gli Stati Uniti sono il nostro nemico.
I popoli europei devono combattere una guerra di indipendenza quasi impossibile, ma vitale.
Abituiamoci all’ idea, ripetiamocelo ogni giorno, cerchiamo di sensibilizzare le persone intorno a noi. Basta infingimenti, basta equivoci: gli Stati Uniti sono il nostro nemico.
Ilio Barontini

Fonte

Per l’avvio di un programma di ricerca collettiva

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L’élite mondialista è terrorista e “demoniaca”. Come e perché?

Juan Alberto Guerrero Della Malta, alias Emanuele Montagna, membro fondatore di Faremondo lancia una proposta minima per una comunità di ricerca, rivolta a coloro che hanno condiviso interesse verso le recenti iniziative pubbliche realizzate a Bologna.
I contenuti di questa proposta saranno sviluppati anche qui.

Premessa
Dopo i recenti fatti parigini credo non ci sia più bisogno di portare ulteriori argomenti a sostegno delle idee intorno alla natura criminale e “demoniaca” dell’élite mondialista che domina l’attuale Occidente e un pianeta ormai quasi completamente intossicato dai suoi nefasti maneggi.
Se ad un discreto numero di “attivisti” e “uomini di scienza” le innumerevoli, probanti conferme che al riguardo si sono accumulate dall’11 settembre ad oggi non sono ancora bastate a far sorgere una chiara consapevolezza di questa cosa, vuol dire, con tutta probabilità, che nelle loro teste operano alcuni potenti “sbarramenti” psicologici ed ideologici aventi quanto meno un’intima valenza omeostatica. Se è così, con queste persone non c’è niente da fare, almeno in questa fase: l’opera di una loro paziente “rieducazione” dovrà purtroppo aspettare tempi migliori.
Con questo scritto non intendo quindi rivolgermi a questo genere di persone. Mi rivolgo invece a quanti, a partire da una certa consapevolezza di base della natura specifica dell’élite mondialista, sono disposti a farsi ulteriori e più appropriate domande. Continua a leggere