La Sicilia è il centro focale della Intelligence USA non solo per il MUOS, ma anche (e soprattutto) per quel mega hub di connessioni, cuore di Internet per vastissima parte del pianeta, chiamato Sicily Hub.
Che l’isola sia da sempre considerata una base essenziale per gli interessi degli Stati Uniti e per il suo braccio operativo euro-atlantico, la NATO, è storia antica: le antenne del MUOS completano uno scenario che comprende fra l’altro Sigonella, divenuta la più importante base dello Zio Sam nel Mediterraneo allargato, il porto di Augusta, l’aeroporto di Birgi, le assai poco conosciute stazioni radar a Lampedusa e nelle Eolie e molto altro ancora. La sterminata serie di installazioni disseminate ovunque fanno della Sicilia un territorio a sovranità ancor più limitata di quanto non lo sia già l’Italia nel suo complesso.
Una situazione di completo asservimento vecchia ormai di oltre settant’anni; per descriverla, la vicenda del MUOS è esemplare: a Niscemi un radar c’è stato da sempre, ma come noto il Pentagono ha pensato di basarvi una stazione della rete satellitare in uht (ad altissima frequenza) per mantenere in costante collegamento i centri di comando e controllo dello Zio Sam (comandi, centri logistici, gruppi operativi in combattimento, cruise, droni e i suoi circa 18mila terminali militari al momento in funzione, oltre alle ovvie ricadute per la Intelligence USA). Abbiamo detto dello Zio Sam perché la NATO, sempre invocata per giustificare ogni ingerenza, non c’entra.
È nota la strenua opposizione opposta dalle popolazioni (le amministrazioni isolane, come sempre, si sono inchinate ai desideri del “padrone”), ma in barba a ricorsi, sentenze e tribunali, la fine della vicenda è stata comunicata nel marzo scorso, quando il console statunitense a Palermo, Shawn Baxter, nell’ambito di una cerimonia per presentare la nuova sede consolare, si è limitato a pronunciare 5 parole: “Il MUOS è pienamente operativo” per liquidare la faccenda. Notizia che, come tutte quelle importanti, ha avuto scarsa o nulla risonanza sui media tradizionali.
Ma a parte le infrastrutture visibili, la Sicilia è il fulcro di un enorme Internet exchange point, il Sicily Hub, che ha i propri centri operativi a Palermo e Catania; un hub di straordinario quanto poco conosciuto peso realizzato essenzialmente da Sparkle, società controllata al 100% da Telecom Italia, che si aggiunge alla ristretta cerchia di exchange point esistenti a Francoforte, Londra, Amsterdam e Marsiglia.
La scelta della Sicilia non è casuale, perché è da qui che passano i cavi del traffico generato in Africa, Medio Oriente ed Asia. Un traffico che già in passato vi transitava ma che adesso viene gestito dalla Sparkle tramite le infrastrutture create appositamente, a cui s’aggiunge il sistema di connessione operato da Fastweb, che sta realizzando un altro mega-hub.
Attraverso questo apparato logistico passa una mole immensa di informazioni, dai social media ai motori di ricerca, dalle informazioni finanziarie a quelle commerciali ed economiche: una miniera preziosa quanto inesauribile per la Intelligence USA, che con l’eterna scusa delle attività antiterroristiche vi guazza dentro a piacimento, realizzando un vantaggio strategico incalcolabile per lo Zio Sam e gli interessi del sistema a stelle e strisce.
Dai nodi di Palermo, Catania, Trapani e Mazara si diramano 16 cavi transcontinentali che raggiungono gli Stati Uniti, l’Africa, il Mediterraneo Orientale e l’Asia fino all’Estremo Oriente, tutte aree sensibili di enorme valore. E di enorme valore è la rete che attraversa la Sicilia, un’infrastruttura d’incalcolabile interesse strategico che è alla base dell’offensiva della francese Vivendi per assicurarsi il controllo di Telecom, che come detto controlla la Sparkle.
Il motivo è che il Sicily Hub nasce come diretto competitor dell’hub di Marsiglia, per contendergli una torta economica stimata in 142 mld di dollari, ma d’inestimabile valore per il controllo su quei flussi, non mediato da Parigi, esercitato dalla Intelligence USA. Attualmente il 90% di quella torta è in mani francesi ma, secondo stime prudenziali, entro due anni sarà la metà di essa a passare dalle reti siciliane, con la prospettiva di notevoli incrementi nel futuro.
Insomma, per la Intelligence USA è una guerra per il power control dell’informazione vinta in partenza sul territorio siciliano, un vantaggio enorme che spazia dall’area miliare (vedi MUOS) al business ed al commercio. Ma, come sempre, di quell’immenso tesoro nulla rimarrà in Sicilia, al più qualche scarso impiego secondario, meno che briciole per compensare una sudditanza che dura da oltre settant’anni. Insomma, un paradiso offerto ancora e sempre gratis alla Intelligence USA e allo Zio Sam.
Salvo Ardizzone
trapani birgi
Ricordate Calipari?
Riflessioni sull’uccisione dei due tecnici italiani in Libia.
La tragica vicenda – ancora misteriosa – dei due tecnici italiani ci induce a qualche riflessione in libertà, non basata su dati certi (che mancano), ma su considerazioni logiche e domande che chiunque abbia un minimo di raziocinio può porsi.
I tecnici italiani erano stati rapiti mesi fa da bande di jihadisti-criminali-mercenari (le tre cose non sono affatto in contraddizione nel panorama nordafricano e mediorientale), ritenute vicine allo Stato Islamico, nella città di Sabrata, posta a circa 60 Km ad ovest di Tripoli, verso la frontiera tunisina.
Queste bande si disputavano il territorio con le altre bande che hanno preso il potere a Tripoli (come “Alba Libica”) e Misurata, legate alla Fratellanza Musulmana e finanziate da Turchia e Qatar. Negli ultimi mesi era stata esercitata una forte pressione internazionale perché il “governo di Tobruk”, unico riconosciuto internazionalmente, di tendenze laiche e sostenuto dalle truppe del generale Haftar e dall’Egitto, si alleasse con il cosiddetto “governo di Tripoli”, formando un unico governo. Il parlamento di Tobruk ha finora rifiutato, ed anzi ha attaccato le bande jihadiste che dominavano a Bengasi (come “Ansar Al-Sharia”), potenziali alleate del “governo di Tripoli”.
Poco tempo fa aerei statunitensi partiti dall’Italia, probabilmente da Trapani o Sigonella (non si è mai detto da dove fossero partiti), hanno attaccato Sabrata uccidendo una quarantina di jihadisti. Contemporaneamente droni partiti da Sigonella hanno attaccato le posizioni dello Stato Islamico che si disputano il territorio con le bande di Tripoli e Misurata.
Possiamo immaginare quanto questi bombardamenti abbiano giovato alla faticosa trattativa che i servizi segreti italiani stavano tenacemente sviluppando per la liberazione dei nostri quattro connazionali sequestrati (ovviamente dietro pagamento di un riscatto, come già avvenuto nel caso di Giuliana Sgrena in Iraq e delle due ragazzette filo-jihadiste, Greta e Vanessa, catturate in Siria).
Ma quando sembrava che le trattative fossero finalmente andate in porto, ecco che scatta la provocazione. Le milizie dei Fratelli Musulmani, legate al “governo di Tripoli”, attaccano i jihadisti che stanno spostando gli ostaggi, presumibilmente per consegnarli ai servizi italiani. Due tecnici perdono tragicamente la vita, forse uccisi dagli stessi rapitori per rappresaglia, forse uccisi dal “fuoco amico” come i due ostaggi serbi uccisi dai bombardamenti americani (ma erano due “cattivi” Serbi: a chi interessa?).
Chi ha suggerito questa provocazione, e perché? Non possiamo dimenticare il caso del povero Calipari, ucciso in Iraq da una pattuglia dell’esercito statunitense in circostanze poco chiare (ma si sa che gli USA non gradiscono trattative con i “terroristi” fatte da altri).
Ma giungono altri segnali ancora più significativi. Poco tempo fa il Segretario di Stato Kerry ha dichiarato che un intervento militare a guida italiana contro l’ISIS in Libia (e quindi a sostegno delle bande di Tripoli e Misurata) sarebbe stato molto gradito. Oggi l’ambasciatore statunitense a Roma dichiara che il governo italiano aveva promesso un corpo di spedizione italiano di 5.000 uomini e rampogna l’Italia per le sue esitazioni. Forse l’attivismo dei concorrenti francesi che sono già scesi in campo ed hanno aiutato il governo di Tobruk a scacciare i jihadisti da Bengasi (il compenso potrebbe essere il petrolio della Cirenaica da concedere alla francese Total) ha innervosito gli USA.
Renzi e Gentiloni, dopo aver promesso interventi militari massicci, ora cercano di svincolarsi dall’abbraccio soffocante del “grande fratello” che si serve dell’Italia come della sua portaerei privata. E’ vero che il 10 febbraio è stato varato – al di fuori di qualsiasi dibattito parlamentare – un provvedimento che permette l’invio di forze militari speciali italiane, “con licenza di uccidere”, nel peggior stile dei film di 007. Ma Renzi, conscio dell’opposizione della maggior parte degli Italiani a questa nuova guerra (anche se pochi scendono in piazza rompendo il silenzio imposto dal Partito Democratico, da una TV corrotta e da una stampa venduta) cerca di liberarsi dalla trappola evitando di prendere, per ora, la decisione di un intervento più palese e massiccio.
Scattano allora i messaggi mafiosi dell’ambasciatore USA, dell’aviazione statunitense e della NATO. Ricordate Calipari?
Vincenzo Brandi
Trapani-Birgi, 19 ottobre 2015
C’è chi dice NO?
“Trident Juncture interesserà lo spazio aereo e marittimo compreso tra lo Stretto di Gibilterra e il Mediterraneo centrale e i grandi poligoni di guerra di Spagna, Portogallo e Italia. Sotto la supervisione del JFC – Joint Force Command Neaples (JFC), il comando alleato con quartier generale a Lago Patria (Napoli), prenderanno parte alla maxi esercitazione oltre 30.000 militari, 200 velivoli e 50 unità navali di 33 nazioni (i 28 membri NATO più 5 partner internazionali). Ospiti d’eccezione, i manager delle industrie militari di 15 Paesi, onde consentire una “conoscenza più amplia e più profonda tra il settore produttivo e il regime addestrativo dell’Alleanza”, come dichiarato dal Comando NATO di Bruxelles. “Trident Juncture è finalizzata all’addestramento e alla verifica delle capacità dei suoi assetti aerei, terrestri, navali e delle forze speciali, nell’ambito di una forza ad elevata prontezza d’impiego e tecnologicamente avanzata, da utilizzare rapidamente ovunque sia necessario”, spiegano i vertici militari. “L’esercitazione simulerà uno scenario adattato alle nuove minacce, come la cyberwar e la guerra asimmetrica e rappresenterà, inoltre, per gli alleati ed i partner, l’occasione per migliorare l’interoperabilità della NATO in un ambiente complesso ad alta conflittualità”.
All’ultimo vertice dell’Alleanza tenutosi in Galles nel settembre dello scorso anno, è stato approvato il cosiddetto Readiness Action Plan (RAP) che prevede l’implementazione di una serie di strumenti militari per consentire alla NATO di “rispondere velocemente e con fermezza” alle minacce che intende affrontare nell’immediato futuro nell’area compresa tra il Medio Oriente e il Nord Africa e nell’Europa centrale ed orientale, specie alla luce della recente crisi in Ucraina. “Il nuovo Piano di pronto intervento prevede anche un cambiamento della postura delle forze armate alleate di fronte alla minaccia rappresentata dalla guerra ibrida (sovversione, uso dei social network per diffondere foto false, intimidazione con la presenza massiccia di truppe ai confini, disinformazione, propaganda, ecc.), in aggiunta alla guerra convenzionale”, spiegano gli strateghi NATO. Tra le adaption measures più rilevanti adottate in Galles, quella di triplicare il numero dei militari assegnati alla NATO Response Force (NRF), la forza di pronto intervento in grado di essere schierata in tempi rapidissimi in qualsiasi parte del pianeta e che proprio Trident Juncture 2015 dovrà certificarne centri di comando e controllo e capacità di risposta.
(…)
L’esercitazione Trident Juncture 2015 consentirà di sperimentare per la prima volta in scala continentale quella che è destinata a fare da corpo d’élite della NRF, la Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), la forza congiunta di pronto intervento opportunamente denominata Spearhead (punta di lancia). Prevista dal Readiness Action Plan, la VJTF sarà pienamente operativa a partire dal prossimo anno e verterà su una brigata di terra di 5.000 militari, supportata da forze aeree e navali speciali e, in caso di crisi maggiori, da due altre brigate con capacità di dispiegamento rapido, fornite a rotazione e su base annuale da alcuni paesi dell’Alleanza. La leadership sarà assunta alternativamente da Germania, Italia, Francia, Gran Bretagna, Polonia e Spagna. “La Spearhead force sarà in grado di essere schierata in meno di 48 ore”, afferma il Comando NATO.”
Da Trident Juncture 2015. Il più grande spettacolo dopo il big bang…, di Antonio Mazzeo.
[I collegamenti inseriti sono nostri]
I Global Hawk di Sigonella, il MUOS e il ministro Mauro
Sicilia, anno 70 era atlantista.
“La base di Sigonella è una delle installazioni storiche che caratterizzano la presenza militare americana in Italia. Originariamente, alla fine degli Anni ’50, fu istituita per decongestionare le infrastrutture di Malta della Marina Americana e divenne sede di un’unità equipaggiata con velivoli antisommergibili.
Nel corso degli anni, Sigonella è diventata il più importante polo logistico per le attività di supporto alla Sesta Flotta della Marina Militare Americana schierata nel Mediterraneo, ospitando depositi, un aeroporto, un ospedale e un numeroso contingente di genieri costruttori della Marina Americana noti con la denominazione di “Sea-Bees”.
Nel 1980 l’installazione ha ricevuto, per la parte americana, la sua attuale denominazione di Naval Air Station – Stazione Aeronavale (NAS) Sigonella e, nel 1985, ha raggiunto la ribalta nazionale per quella che è stata ribattezzata dalla stampa “Crisi di Sigonella”. Nella notte tra giovedì 10 e venerdì 11 ottobre Carabinieri e militari della Vigilanza Aeronautica Militare Italiana, su ordine del Governo italiano, si sono rifiutati di consegnare alle forze armate statunitensi un gruppo di terroristi palestinesi capeggiato da Abu Abbas (responsabile del sequestro della nave Achille Lauro e dell’uccisione del cittadino americano Leon Klinghoffer) e costretto ad atterrare a Sigonella dopo che l’aereo di linea su cui viaggiavano era stato lì dirottato da caccia della Marina Americana.
A seguito della fine della Guerra Fredda, e del conseguente mutamento delle esigenze operative, la parte americana di Sigonella ha perso la caratteristica di base dedicata esclusivamente al supporto di unità della Marina Americana, per trasformarsi in un’installazione destinata al più generale sostegno delle operazioni delle diverse forze armate statunitensi nel Mediterraneo.
In particolare, oggi il ruolo di Sigonella si sta ulteriormente trasformando nel contesto delle operazioni americane e NATO con gli Aeromobili a Pilotaggio Remoto (APR) Global Hawk stanziati permanentemente nella base e con la presenza di altri APR lì basati in virtù di autorizzazioni temporanee.”
Così recita l’introduzione a Impiego di velivoli “Global Hawk” presso la base militare di Sigonella, di Francesco Tosato, approfondimento a cura del Ce.S.I. a beneficio dell’Osservatorio di politica internazionale, ente quest’ultimo originato dalla collaborazione di Camera, Senato e ministero degli Esteri (il collegamento inserito, ovviamente, è nostro).
L’autore sottolinea che la presenza permanente di forze USA a Sigonella va inserita nel quadro giuridico-normativo determinato da diversi documenti, tra i quali il più significativo è il Technical Arrangement firmato il 6 Aprile 2006.
Esso viene modificato mano a mano che nella base vengono schierate nuove unità statunitensi, come nel caso dei tre Global Hawk prodotti dalla Northrop Grumman -aeromobili a pilotaggio remoto, altresì detti droni, progettati per eseguire esclusivamente missioni di osservazione a differenza dei più noti Predator- il cui rischieramento permanente è stato autorizzato nel 2010.
A questi si andranno ad aggiungere altri 5 esemplari acquisiti dalla NATO, entro il 2017, anno di completa operatività del programma Alliance Ground Surveillance nell’ambito del quale si collocano.
Secondo l’accordo tecnico citato, peraltro, risultano in uso esclusivo alle forze armate USA sia il poligono di Pachino, situato nella punta sud-orientale dell’isola, che -soprattutto- la stazione per telecomunicazioni di Niscemi, dove è attualmente in costruzione il MUOS.
Risulta, quindi, molto difficile dare credito alle recenti dichiarazioni del ministro della Difesa Mario Mauro, secondo il quale il MUOS “rappresenterà (…) un sistema strategico di comunicazione satellitare di cui potranno servirsi anche le forze armate italiane”.
Tornando invece alla questione dello schieramento dei Global Hawk presso Sigonella, urge che il ministro Mauro spieghi in maniera più convincente all’opinione pubblica il perché le autorità italiane hanno aperto lo spazio aereo siciliano alle operazioni dei droni USA e NATO, con numerosi effetti negativi sul traffico passeggeri negli scali di Catania Fontanarossa e Trapani Birgi.
E’ infatti notizia di pochi giorni or sono che il governo Merkel ha deciso di fermare il programma di acquisizione dei cosiddetti Euro Hawk. Dopo un investimento di 550 milioni di euro per realizzare il primo prototipo, le autorità tedesche hanno fatto sapere che non si doteranno più dei velivoli senza pilota derivati dal Global Hawk schierato dalle forze armate USA a Sigonella.
Come riporta Antonio Mazzeo, il ricercatore dell’Istituto per gli Affari Internazionali e la Sicurezza di Berlino, Christian Mölling, intervistato dalla radiotelevisione tedesca, ha spiegato che più del denaro hanno pesato nella scelta del governo le difficoltà ad integrare l’Euro Hawk nello spazio aereo europeo. “Ciò non è un problema solo per questo tipo di drone ma riguarda tutti i droni nel continente”, ha aggiunto l’esperto. “Ad oggi non ci sono soluzioni in Europa. Di certo il governo tedesco era a conoscenza da tempo della questione. Il problema delle restrizioni al traffico dei droni non è esploso adesso; una nuova regolamentazione per l’uso dello spazio aereo è in agenda da tantissimo tempo. Non si può dare una soluzione in ambito strettamente nazionale, ma è in ambito europeo che si deve decidere come potranno operare insieme i velivoli con pilota e quelli senza. Bisognerà prevedere una serie di innovazioni tecniche e di norme legali che assicurino che i droni non si scontrino in volo con gli aerei di linea”.
Nel Marzo 2010, infatti, l’agenzia europea per il controllo del traffico aereo (Eurocontrol) aveva indicato le linee guida a cui gli Stati membri si sarebbero dovuti attenere per la gestione degli aerei senza pilota nello spazio europeo, raccomandando di prevedere “normalmente rotte specifiche” per evitare che i droni “sorvolino aree densamente popolate o uno spazio aereo congestionato o complesso”. In considerazione che i droni “mancano delle capacità di sense & avoid e di prevenzione delle collisioni con altri velivoli che potrebbero incrociare le proprie rotte”, Eurocontrol chiedeva inoltre d’isolare i Global Hawk nelle fasi di ascensione ed atterraggio (le più critiche) e durante le attività di volo in crociera che “devono avvenire in alta quota al di fuori dello spazio aereo riservato all’aviazione civile”.
Tali linee guida non erano obbligatorie ma il governo tedesco le ha accolte mentre le autorità italiane no.
Perché, signor ministro?
Federico Roberti
Frattini e La Russa ministri-servi
Di Quirinale, Terzo polo e poteri forti.
Con “Bunga Bunga” a fare da spettatore ricattato.
Non c’è attacco aereo di Unified Protector che non necessiti per una missione di bombardamento sulla Jamahiryia di almeno due rifornimenti in volo da aerei cisterna, uno durante la fase di avvicinamento al “target“, il secondo dopo lo “strike“ nel ritorno alle basi di decollo in Sicilia: Trapani Birgi e Sigonella.
Nell’intero mese di Luglio, nell’arco delle 24 ore, le missioni di appoggio aereo della NATO si sono attestate su una media di 150, i bombardamenti dall’aria hanno raggiunto i 47.
Il numero dei morti e dei feriti tra i residenti della Tripolitania e della Cirenaica è aggiornato, via internet, da Libyan Free Press – Jamahiriya News.
Cosa costi ogni ora di volo un bi-quadrireattore Boeing Kc 767 A o Kc 135 che faccia da mucca per rifornire per due-tre volte un singolo velivolo della NATO che attraversi il Mediterraneo Centrale ve lo lasciamo immaginare.
Si tenga di conto che un Eurofighter Typhoon dell’Aeronautica Militare Italiana compreso l’addestramento del pilota, escluso l’armamento, ha un costo, per le sfiatatissime casse dell’Erario pubblico, di 80.000 euro per ora di volo. Un solo missile Storm Shadow o Scalp Ec, con una testasta bellica di 247 kg, lanciato da un cacciabombardiere tricolore arriva a superare abbondantemente il milione di euro.
Quanti gingilli come questi siano andati a bersaglio a cura dell’Aeronautica Militare Italiana in territorio libico è coperto da “segreto militare“.
Gli unici jets d’attacco che possono sottrarsi a questa dispendiosissima routine di rifornimento in volo sono quelli in dotazione alle portaerei-portaereomobili che operano in prossimità, interna ed esterna, della linea immaginaria che unisce Tripoli a Bengasi, l’enorme area d’acqua del Golfo della Sirte.
Dopo 90 giorni di permanenza in mare, il 7 Luglio scorso la “Garibaldi“ è stata ritirata dalla zona di operazioni, e il 10 Agosto è toccato alla “De Gaulle” abbandonare la missione per rientrare nel porto di Tolone. Il dispositivo d’attacco di Unified Protector ha perso (momentaneamente?) 40 tra aerei ed elicotteri.
Il 2 Agosto la Norvegia, strage di Utoya o no, ha ritirato, come programmato, i suoi quattro F-16.
Il Ministro della Difesa di Londra, Liam Fox, ha coperto l’abbandono di Oslo con l’invio con altrettanti Tornado Idv.
Per Longuet, la portaerei francese è stata ritirata dal Mediterraneo Centrale per manutenzione al ponte di volo da cui decollano e atterrano Rafale e Super Etendard e alle catapulte di lancio.
L’Italia, per bocca di La Russa, ha motivato l’abbandono della “Garibaldi” dal teatro operativo per limitare le gigantesche uscite finanziarie che ne comporta l’utilizzo prolungato in navigazione.
Il Bel Paese, per non fare cosa sgradita agli alleati, ha però provveduto a sostituire l’ammiraglia della M.M. con l’unità da assalto anfibio “S. Giusto”, che ospita il comando navale di Unified Protector e imbarca in permanenza il battaglione di fanteria marina S. Marco (350 militari), 210 tra ufficiali, sottoufficiali e marinai, armi, logistica e blindati da sbarco, oltre a tre elicotteri medi per impiego antisommergibile, antinave e controcosta SH 3D.
Una volontà di limitare i costi o un cambio di strategia in corso d’opera?
Una strategia che preveda il passaggio dai bombardamenti aerei effettuati da 4-6 jets Harrier a decollo verticale impiegati dalla “Garibaldi“ per battere i target sulla Litoranea a un attacco alle coste della Jamahiriya con incursori e fanteria di marina della “S. Giusto“? Continua a leggere