Al castello di Rambouillet

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“L’estremo tentativo per evitare l’intervento militare che già la NATO stava minacciando si svolse al castello di Rambouillet, vicino a Parigi, dove il 6 febbraio 1999 si aprirono i “colloqui di pace ” che  culminarono al contrario nella guerra del successivo 24 marzo.
Nella bozza di accordo presentata dal Gruppo di contatto, formato da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Russia, non si accennò mai ad una possibile indipendenza del Kosovo ma solo ad un’autonomia che si sarebbe incarnata in un parlamento, un presidente, una costituzione e una corte costituzionale.
Il documento prevedeva ampi poteri ai verificatori dell’OSCE, che sarebbero dovuti rimanere nella Provincia per un periodo di tre anni, il ritiro non totale delle forze di polizia e di sicurezza serbe, l’impossibilità per il Kosovo di avere un proprio esercito, una propria moneta e una propria politica estera (prerogative che sarebbero rimaste nelle mani del governo di Belgrado).
La bozza del Gruppo di contatto lasciò invece irrisolto lo status della Provincia allo scadere dei tre anni di “verifica” ; gli albanesi avrebbero voluto un referendum per l’autodeterminazione del Kosovo, i serbi insistettero che un’eventuale consultazione avrebbe dovuto riguardare anche i restanti abitanti della Federazione Jugoslava.
L’UCK, che inizialmente rifiutò il contenuto dell’accordo, dietro chiare pressioni statunitensi decise di accettarne una formula così limitata e la sua delegazione a Rambouillet assunse un’importanza ben superiore a quella dello stesso “moderato” Rugova.
Durante i 17 giorni dei colloqui svoltisi all’interno del castello, la rappresentanza serba non s’incontrò mai con quella albanese; la conferenza venne preparata a Londra in una riunione del 29 gennaio del Gruppo di contatto e da una successiva consultazione del 30 gennaio a Bruxelles, durante la quale il Consiglio Atlantico conferì al segretario generale della NATO, Javier Solana, l’autorizzazione ad interventi aerei contro la Serbia nel caso quest’ultima si fosse rifiutata di firmare l’accordo.
Gli albanesi presentarono 17 negoziatori, dei quali 9 referenti dell’UCK e solo 4 del movimento di Rugova, ma quello che colpì fu la qualità dei consiglieri che li accompagnarono, tra i quali spiccarono Marshall Harris e Paul Williams (ex funzionari del Dipartimento di Stato americano), Morton Abramowitz (noto esponente dell’International Crisis Group), Filippo di Robilant (già portavoce di Emma Bonino in seno alla Comunità europea e rappresentante della Coalition for International Justice) e alcuni ufficiali della NATO in borghese.
La delegazione della Serbia, guidata dal suo presidente Milan Milutinovic, si compose di 15 persone, tra le quali sette rappresentanti della comunità islamica, turca e gorana, rom ed egiziana, insieme a due albanesi esponenti di piccoli partiti (l’Iniziativa democratica del Kosovo e il Partito delle riforme democratiche degli albanesi).
(…)
Come detto, le trattative si svolsero tramite canali separati, stante l’impossibilità di far comunicare direttamente delegati serbi ed albanesi (un impasse che però il presidente jugoslavo Milutinovic attribuì alla cattiva volontà dei mediatori): ai primi non piacque l’annesso militare dell’accordo proposto dal Gruppo di contatto e ai secondi il mancato riferimento ad un possibile referendum allo scadere dei tre anni.
Per convincersi a firmare il documento, Hashim Thaci indirizzò una lettera a Madeleine Albright in cui ribadì di «comprendere che alla fine dei tre anni la popolazione del Kosovo eserciterà la sua volontà»; questa precisazione è molto importante, perché lasciò intendere che la consultazione popolare non avrebbe riguardato i restanti abitanti della Federazione Jugoslava.
Agli albanesi la diplomazia internazionale fece ulteriori concessioni, parlando della possibilità di emanare leggi senza l’autorizzazione di Belgrado, di legiferare in materia fiscale per instaurare programmi economici, scientifici, tecnologici, regionali e di sviluppo sociale.
Alle autorità di Pristina si ventilò la possibilità di sviluppare una politica estera all’interno delle sue aree di responsabilità, mentre all’esercito serbo si confermò la necessità di un suo ritiro dal territorio del Kosovo, ad eccezione di un limitato contingente militare di frontiera.
Al capo della Missione di Implementazione Civile sarebbe andata l’autorità di emettere direttive vincolanti alle parti su ogni argomento ritenuto importante, inclusa la nomina e la rimozione di ufficiali e aderenti alle istituzioni”.
Molto interessante la parte finanziaria: «L’economia del Kosovo funzionerà secondo i principi del libero mercato. Non vi sarà alcuna restrizione alla libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali, ivi compresi quelli di origine internazionale».
Mentre il 23 febbraio la conferenza di Rambouillet si concluse con un nulla di fatto, Thaci, riconvocato per nuovi incontri a Parigi fissati il 15 marzo, decise di recarsi prima in Kosovo nella valle della Drenica, dove, sotto scorta statunitense, riuscì a strappare l’assenso dei capi militari dell’UCK.
La rappresentanza serba, invece, rifiutò l’intesa anche a Parigi, fornendo il pretesto alla NATO per i bombardamenti che iniziarono il successivo 24 marzo.
Per chiarire i motivi di questo rifiuto, ancora una volta bisogna analizzare attentamente che cosa la Comunità internazionale concretamente propose alla delegazione di Belgrado.
Nel capitolo VII, articolo 8, delle 82 pagine del protocollo d’intesa, l’allegato B si rivelò micidiale per la sovranità nazionale della Serbia, in quanto la forza militare dell’Alleanza Atlantica doveva essere dispiegata non solo in Kosovo ma in tutto il territorio della Repubblica jugoslava: «Il personale della NATO dovrà godere, con i suoi veicoli, vascelli, aerei ed equipaggiamenti, libero e incondizionato transito attraverso l’intero territorio della Federazione delle Repubbliche jugoslave, ivi compreso l’accesso al suo spazio aereo e alle sue acque territoriali. Questo dovrà includere, ma non essere a questo limitato, il diritto di bivacco, di manovra e di utilizzo di ogni area o servizio necessario al sostegno, all’addestramento e alle operazioni».
Esso si aggiungeva al già inaccettabile articolo 7, riguardante lo status delle truppe della NATO operanti in Serbia: «Il personale NATO sarà immune da ogni forma di arresto, inquisizione o detenzione da parte delle autorità della Repubblica jugoslava. Personale NATO erroneamente arrestato o detenuto dovrà essere immediatamente riconsegnato alle autorità NATO».
Agli articoli 9 e 10 si specificò poi che: «La NATO non sarà tenuta a pagare tasse o qualsiasi altro onere fiscale e tariffario, né dovrà subire qualsivoglia controllo doganale.» Per “servizi” a disposizione dell’Alleanza Atlantica l’articolo 15 spiegò trattarsi: «Il pieno e libero uso delle reti di comunicazione, Tv inclusa, e il diritto di usare l’intero campo elettromagnetico, il tutto free of costs.
La NATO avrebbe cioè potuto utilizzare gratis aeroporti, strade, ferrovie, porti e vie d’acqua, utilizzare tutte le caserme e le postazioni militari, mentre le autorità jugoslave avrebbero dovuto appoggiare tutte le priorità indicate nell’allegato.
L’articolo 20 precisò che il personale locale eventualmente impiegato dalla NATO «sarà soggetto esclusivamente alle condizioni e ai termini stabiliti dalla NATO stessa», mentre all’articolo 21 si affermò che la NATO sarà autorizzata a «detenere persone e a consegnarle al più presto alle autorità appropriate» [senza specificare chi fossero tali autorità…].
Alla luce di questa umiliante proposta, apparve illuminante l’analisi dell’ex console serbo a Bari, Dragan Mraovic: «Nel luglio del 1942, l’America aveva firmato con il re serbo di allora, Pietro II Karadjordjevic, un contratto preliminare segreto nel quale si diceva, tra l’altro, che l’America riteneva il settore dei fiumi di Morava (Serbia) e Vardar (Macedonia) un suo corridoio di massimo interesse nazionale e di sicurezza. Dopo la rottura con l’URSS Tito chiese gli aiuti dagli americani e l’unica conditio sine qua non impostagli era stata la riconferma di quanto re Pietro II aveva firmato. Così la Jugoslavia di Tito ottenne i primi 55 milioni di dollari di aiuti americani […]. Nel 1953 e 1954 Tito firmò gli accordi bilaterali segreti di Bled (in Slovenia) con la Grecia e con la Turchia, associando praticamente la Jugoslavia socialista alla NATO. Nel 1960 tali documenti furono ampliati con la Grecia e Tito si impegnò che, in caso di guerra in Europa (era evidente che l’unica guerra possibile era quella tra gli USA e l’URSS), la Jugoslavia avrebbe messo tutto il suo territorio e tutte le sue basi militari a disposizione della NATO. Gli accordi di Rambouillet, che Slobodan Milosevic, il presidente della RF di Jugoslavia, si rifiutò di firmare nel 1999, erano incredibilmente simili a quelli firmati da Tito. Dopo la rottura con l’URSS del 1948, la Jugoslavia firmò oltre 170 accordi prevalentemente segreti che la legavano agli usA […]».
Il no di Milosevic, apparve dunque agli occhi degli Stati Uniti la rottura di una storica “alleanza”, che la Serbia dovette pagare con 78 giorni di bombardamenti scatenati da 18 Paesi della NATO.”

Da La questione serba e la crisi del Kosovo, di Stefano Vernole, Noctua Edizioni, pp. 90-94.
[grassetto nostro]

2 thoughts on “Al castello di Rambouillet

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