Lo “schema Seberg”

Per capire come funziona il mondo dell’informazione nell’“Occidente libero degli amanti della democrazia” utilizzerò lo “schema Seberg”. Jean Seberg era un’attrice nordamericana, musa di diversi registri francesi della cosiddetta “Nouvelle Vague”, da Godard (con il quale girò “À bout de souffle”, vero e proprio manifesto del movimento) a Chabrol. La Seberg aveva un “difetto”, simpatizzava per il Black Panthers Party al quale faceva puntualmente generose donazioni. Ora, in questo contesto non ci interessa discutere le idee politiche della Seberg, se queste fossero valide o meno. Ciò che importa è tenere a mente che questa sua simpatia politica non era affatto gradita all’FBI che su di lei scatenò una vera e propria campagna “mediatica” volta a screditarla sia come personalità pubblica che come attrice. La strategia dell’FBI, nello specifico, si fondava sull’imporre ai giornali scandalistici dell’epoca di pubblicare articoli, scritti sotto dettatura degli agenti di Edgar J. Hoover, concernenti aspetti privati della vita dell’attrice che potessero mettere la stessa in cattiva luce di fronte all’opinione pubblica. Poco importa che quanto venisse scritto fosse vero o meno, tanto, anche se l’attrice avesse sporto denuncia, la verità sarebbe venuta a galla solo quando non sarebbe importato più niente a nessuno.
Adesso, proviamo ad applicare tale schema alle relazioni internazionali tenendo bene a mente anche quanto dichiarò il giornalista tedesco Udo Ulfkotte (anche’egli oggetto di campagne denigratorie piuttosto gravi): ovvero, che i principali mezzi di informazione occidentali (storicamente) pubblicano materiale che viene loro servito da agenzie legate alla CIA o da uomini addestrati dalla stessa (si pensi, in questo caso, alle rivelazioni di Wikileaks sul ruolo della Stratfor Enterprise). Si prenda ad esempio il motivo scatenante dell’aggressione alla Serbia (ex Jugoslavia) nel 1999: il presunto massacro di Račak, quando i miliziani kosovari dell’UCK raccolsero alcuni loro compagni caduti in battaglia per poi vestirli con abiti civili e spararli alla testa onde dare l’idea della fossa comune e di una pulizia etnica portata avanti dalle forze serbe. Si prenda, inoltre, ad esempio il motivo scatenante dell’attacco all’Iraq nel 2003: la sceneggiata di Colin Powell alle Nazioni Unite con lo sventolio in diretta mondiale della fialetta contenente le prove della costruzione di armi chimiche da parte di Saddam. E si prenda ancora ad esempio il motivo che scatenò l’aggressione NATO alla Libia: nessuno, eccetto una violenta campagna nei mezzi di informazione occidentali che parlavano apertamente di migliaia di morti, fosse comuni e di genocidio del popolo libico da parte del “regime di Gheddafi”. Le prove di suddetto genocidio, ovviamente, non vennero mai mostrate per il semplice motivo che non esistevano. Ed anche Human Rights Watch fu costretta ad ammettere che le rivolte dei primi mesi del 2011 portarono alle morte di 373 persone (tra l’altro, in larga parte membri delle forze di sicurezza libiche). Senza considerare che la risoluzione ONU 1973/2011 prevedeva la creazione di una “zona di interdizione al volo” e “misure per proteggere i civili”. Non prevedeva affatto l’inizio di un vero e proprio conflitto contro la Libia (come venne interpretata molto fantasiosamente da Francia, Regno Unito e USA). Dunque, non importa che quanto viene detto sia vero o meno. La cosa importante è la reazione che scatena nel pubblico. In altri termini, la verità è sostituita dalla “sentimentalità”, o dalla sua teatralizzazione. Oggi, non esiste alcuna prova che i miliziani di Hamas abbiano decapitato 40 bambini (così come non c’era alcuna prova che i soldati russi si fossero macchiati di crimini nella cittadina ucraina di Bucha, altra questione passata in cavalleria che nessuno ricorda più). Eppure, i mezzi di informazione continuano a propinare tale notizia come “verità inattaccabile” per preparare l’opinione pubblica ad un nuovo massacro o per la guerra a oltranza.
Daniele Perra

[Fonte – collegamenti inseriti a cura della redazione]

Volete stabilità nei Balcani? Allora ridateci la Jugoslavia

Torna alta la tensione nei territori della ex Jugoslavia a seguito dell’assassinio di Oliver Ivanovic, esponente di punta della minoranza serba in Kosovo.

L’influente think-tank statunitense Council on Foreign Relations (CFR) ha messo i Balcani nella sua lista di prevenzione dei conflitti nella sua recente inchiesta del 2018.
Tuttavia l’idea, promossa dal CFR, che gli Stati Uniti siano il Paese che può aiutare a preservare “pace e stabilità” deve essere messa alla prova – così come gli stessi Stati Uniti e gli alleati NATO più vicini che sono in verità responsabili di molti dei problemi che affliggono attualmente la regione.
Questi problemi derivano tutti dalla violenta rottura della Jugoslavia multietnica degli anni ’90, un processo che le potenze occidentali hanno sostenuto e addirittura incoraggiato attivamente. Ma questo non è menzionato nel documento di riferimento del CFR “Lo scioglimento degli accordi di pace nei Balcani” (Contingency Planning Memorandum n. 32).
Invece sono i Russi, udite, udite, ad essere considerati i cattivi – con “la destabilizzazione russa del Montenegro o della Macedonia” elencato come uno dei possibili scenari del 2018. La verità è, tuttavia, che tutti i possibili “punti di fiamma” identificati dal CFR, che potrebbero portare a conflitti, possono essere direttamente collegati non a Mosca ma alle conseguenze di precedenti interventi e campagne di destabilizzazione statunitensi o guidate dall’Occidente. Continua a leggere

Kosovo e Ucraina: analogie e differenze

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Neil Clark per rt.com

Ci sono stati almeno due Paesi in Europa nella storia recente che hanno intrapreso operazioni militari “anti-terrorismo” contro “separatisti”, ma hanno ottenuto due reazioni molto diverse dalle élite occidentali.
Il governo del Paese europeo A lancia quella che definisce una operazione militare ‘anti-terrorismo’ contro ‘separatisti’ in una parte del Paese. Noi vediamo immagini sulla televisione occidentale di abitazioni che vengono bombardate e un sacco di persone in fuga. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e le altre potenze della NATO condannano ferocemente le azioni del governo del Paese A e lo accusano di perpetrare ‘genocidio’ e ‘pulizia etnica’ e dicono che vi è una urgente ‘crisi umanitaria’. Politici occidentali e giornalisti dell’establishment ci raccontano che ‘bisogna fare qualcosa’. E qualcosa è fatto: la NATO lancia un intervento militare ‘umanitario’ per fermare il governo del Paese A. Il Paese A è bombardato per 78 giorni e notti. Il leader del Paese (che è etichettato come ‘il nuovo Hitler’) è accusato di crimini di guerra – e viene poi arrestato e inviato con un aereo della RAF per essere processato per crimini di guerra a L’Aia, dove muore, non-condannato, nella sua cella carceraria.
Il governo del Paese europeo B lancia quella che definisce una operazione militare ‘anti-terrorismo’ contro ‘separatisti’ in una parte del Paese. La televisione occidentale non mostra immagini, o almeno non molte, di abitazioni che vengono bombardate e persone in fuga, anche se altre emittenti televisive lo fanno. Ma qui gli Stati Uniti, Regno Unito e le altre potenze della NATO non condannano il governo, o lo accusano di aver commesso ‘genocidio’ o ‘pulizia etnica’. Politici occidentali e giornalisti dell’establishment non ci dicono che ‘bisogna fare qualcosa’ per impedire che il governo del Paese B uccida la gente. Al contrario, gli stessi poteri che hanno sostenuto l’azione contro il Paese A, sostengono l’offensiva militare del governo nel Paese B. Il leader del Paese B non è accusato di crimini di guerra, né è etichettato come ‘il nuovo Hitler’, nonostante il sostegno che il suo governo ha da gruppi nazionalisti estremi, della destra radicale, ma in realtà, riceve generose quantità di aiuti.
Chiunque difenda le politiche del governo nel Paese A, o in alcun modo contesti la narrazione dominante in Occidente viene etichettato come “negatore del genocidio” o un “apologeta dell’omicidio di massa.” Ma un tale obbrobrio non aspetta coloro che difendono l’offensiva militare del governo nel Paese B. Sono coloro che si oppongono alle sue politiche che vengono infangati.
Ciò che rende i doppi standard ancora peggiori, è che da qualsiasi valutazione oggettiva, il comportamento del governo nel Paese B è stato di gran lunga peggiore di quello del Paese A e che più sofferenza umana è stata causata dalle sue azioni aggressive.
Nel caso in cui non abbiate ancora indovinato – il Paese A è la Jugoslavia, il Paese B è l’Ucraina. Continua a leggere

La pace va conquistata

clintonbill“Da dove comincia l’attuale Kosovo? Per me è iniziato dall’aeroporto di Zurigo – dove si fa scalo giungendo da Roma – all’imbarco per Pristina; lì presiedeva una moltitudine di facce anomale, quasi “incidentate” per la peculiare fisionomia storta e scomposta. Volti granitici, sgraziati e già vecchi, cui ne seguivano altri, quelli delle donne, che, fisse al seguito degli uomini, trovavano riparo sotto il velo: Schipetari, dunque. Di Serbi, a bordo, nemmeno l’ombra; eppure la terra verso cui viaggiavo e che distava poco più di un’ora, la abitano ancora, malgrado tutto e tutti, i Serbi del Kosmet, anzi è proprio la loro, quella terra, solo che a essi non è consentito partire e poi tornare come un qualsiasi cittadino della Comunità Europea o un serbo qualsiasi. Ecco perché la mia prima comprensione ha avuto origine in Svizzera, Paese che poco c’entra con le rovine del sacro Kosmet.
L’appartenenza di questa Provincia alla Serbia è inscritta ancora oggi non solo al catasto, ma nella Storia: fin dal Medioevo sbocciarono chiese e benedizioni, lotte sanguinose e fiere, fierissime sconfitte, tra cui spicca la Battaglia della Piana dei Merli (1389), che vide le truppe ottomane, guidate dal sultano Murad I, sconfiggere quelle cristiane del principe Lazar. Composte da 50.000 unità, le prime, e soltanto dalla metà, le seconde.
Fu una disfatta tremenda: perirono nobili e cavalieri – l’aristocrazia, dunque; nulla a che vedere con gli odierni mercenari – e venne aperta la via alla dominazione turca che, a distanza di cento anni, si sarebbe insediata nell’invitta memoria serba. Dalla rovinosa battaglia fiorirono un’epica e un’eredità irripetibili: non separarsi mai dal destino della propria terra, che, in tutto e per tutto, coincide con quello individuale e comunitario dei Serbi.
Ancora, tanta storia celeste è rintracciabile nelle spoglie immortali – il suo corpo che profuma di rose, dopo secoli, non ha mai preso la rigidità destinata a ogni comune mortale – del Santo Stefano Uroš, fondatore di Visoki Dečani, il monastero più importante, più assediato e più bello di tutto il Kosmet, meta di ogni pellegrinaggio del cristianesimo ortodosso, in cui si trova la rarissima, o forse unica, icona del Cristo con la spada: la pace va conquistata, non subita.
La geografia terrena, però, oggi spesso non coincide con quella spirituale ed è così che, attraversando Pristina – capitale per gli “indipendentisti”, semplice capoluogo per i Serbi – sembra di piombare nella modernità più consunta: palazzi in serie, negozi in franchising, macchine lussuose e ingombranti, night club e divertissement squisitamente occidentali. Addentrandosi nella città, ci si trova in boulevard Bill Clinton, in onore dell’ex presidente americano, che ha favorito la cacciata del popolo serbo e che sullo stesso viale gode persino di una statua, lì eretta nel 2009 per non dimenticare tanto favorevole “accordo” degli onnipresenti Stati Uniti.”

Il reportage di Fiorenza Licitra, Orizzonti dal Kosovo e Metohija, continua qui.

Nel narco-staterello di Hashim Taci

kusavo flagKosovo. L’orrore diventa un film

Nel narco-staterello di Hashim Taci, il Kosovo e Metohija, si chiede in questi giorni di proclamare “persona non grata” il regista di fama mondiale Emir Kusturica perché intende a realizzare un film sulla tratta degli organi dei serbi fatta dai secessionisti schipetari dell’UCK. Kusturica ha affermato di non capire il nervosismo di Pristina perché non è stato lui a inventare questa storia, ufficialmente presentata da Dick Marty nel suo rapporto sui trattamenti inumani e i traffici d’organi dei serbi in Kosovo, relazione che puntava direttamente al premier kosovaro ed ex leader dell’UCK Hashim Taci, approvata il 16 dicembre 2010 dalla Commissione affari legali e diritti umani dell’Assemblea del Consiglio d’Europa. Il film sarà realizzato basandosi su un romanzo di Veselin Dzeletovic intitolato “Il cuore serbo di Johann”. Si tratta della storia vera di un tedesco che porta nel petto il cuore di un serbo rapito dall’UCK e ucciso per strappargli il cuore e venderlo al mercato nero. Questo tedesco ha poi adottato il figlio della vittima. L’autore del romanzo ha parlato direttamente con l’uomo tedesco, molte volte, dal 2004 al 2007. Lo scrittore Dzeletovic racconta: “Sono andato nel Kosovo e Metohija a portare libri da donare e lì ho sentito parlare di una donna serba violentata da cinque schipetari e che si è suicidata non potendo più vivere con quel ricordo tremendo. Quella donna è stata la moglie di un mio amico rapito dagli schipetari nel 1999. Durante la sepoltura della poveretta, nel cimitero con molti monumenti distrutti dagli albanesi, c’era un tedesco che voleva aiutare materialmente la famiglia della donna perché aveva saputo da chi e come aveva avuto il suo cuore trapiantato. Voleva acquietare la propria coscienza. Intendeva donare una grossa cifra, ma dopo aver capito che il figlio della donna era rimasto solo, che non aveva fratelli né sorelle, ha deciso di adottarlo. Lo zio del ragazzo non accettava che il ragazzo diventasse tedesco e per questo il tedesco Johann accettò di convertirsi e diventare ortodosso per avere l’approvazione dello zio all’adozione. Il destino ha voluto invece quest’adozione. Oppure la volontà divina! Dunque, il tedesco stava nel povero cimitero ortodosso serbo vestito molto diversamente dalla gente del posto, cioè signorilmente. Seguiva i funerali con una certa distanza aristocratica e gli stava accanto in ogni momento un agente della BND cioè della Bundesnachrichtendienst (servizio informazioni federale della Repubblica Federale Tedesca). Ad un certo momento il ragazzo, la cui mamma veniva seppellita, si mise ad abbracciare le gambe di quel tedesco e disse ad alta voce: “Papà”. Il ragazzo istintivamente ha riconosciuto il cuore del suo padre in un altro uomo. È una storia tragica che non può lasciare indifferente nessuno. Tutti i fatti del mio romanzo sono veri tranne i nomi dei personaggi e del villaggio”. Il romanzo di Dzeletovic offre anche delle informazioni che nessuno voleva pubblicare finora, neppure Dick Marty. Per esempio, le operazioni del trapianto non venivano fatte in Albania, ma in Italia. I serbi rapiti venivano portati in Albania per essere uccisi secondo gli ordini che arrivavano: i loro organi venivano estratti in Albania con i metodi più crudeli e poi trasportati in frigoriferi in Italia. Sono stati usati i motoscafi con i quali si raggiungeva l’Italia in meno di tre ore. Le basi logistiche di questi traffici loschi sono state poste prima dell’aggressione della NATO alla Serbia, quando i figli dei poveri d’Albania venivano venduti agli italiani ricchi ancora prima del 1999. In tal modo sono stati stabiliti i primi contatti con i contrabbandieri cementati poi con i traffici illegali di sigarette e di droga. Ricordiamo che il testimone protetto K-144 del Tribunale dell’Aia dichiarò: “Io so di almeno 300 reni e di altri 100 organi estratti ai rapiti del Kosmet. Si estraevano anche il fegato e i cuori. Un rene si vendeva da dieci a cinquanta mila marchi tedeschi… Hashim Taci prendeva l’80% del guadagno che lui spartiva poi con altri comandanti dell’UCK…” Nella televisione irachena, un certo sceicco Bahramin si è vantato, nel 2000 ,d’aver avuto un cuore nuovo in Turchia. Diceva di stare benissmo e gli dispiaceva solo un fatto: il cuore era di un serbo cristiano. L’autore del romanzo “Il cuore serbo di Johann” ha detto d’aver incontrato recentemente un funzionario dell’Eulex e che era possibile che le indagini si sarebbero ampliate all’Italia e alla Germania. Comunque sia, Kusturica dice che girerà questo suo film in Russia, dove ha tanti amici che gli daranno una mano a realizzarlo. Ovviamente l’Europa, e specialmente i Balcani, compresi l’Albania e la stessa Serbia con la sua provincia del Kosovo e Metohija, cioè i territori dove sono avvenuti questi crimini, non sono un palcoscenico dove è possibile girare un film su questi delitti orrendi, anche se è stato comunque possibile commettervi questi crimini genocidi, non immaginabili da una mente normale. E con l’assoluta complicità di Bruxelles e di Washington.
Dragan Mraovic

Fonte

Crimini di guerra mediatico-giudiziaria

A distanza di un mese e passa dal primo attacco di elicotteri Apache finalizzato alla distruzione di centri comunicazione e radar in prossimità di Marsa el Brega, in Libia la situazione sul terreno è rimasta pressoché immutata.
Le forze di Gheddafi in Cirenaica continuano a mantenere sia il controllo di questo terminal energetico, di importanza strategica, posizionato a 800 km da Tripoli, che di ampie zone del territorio circostante fin sotto Ajdabiya.
L’ultima strage dall’aria, quindici morti tra i residenti, è arrivata a ridosso del porto della Cirenaica, nel centro città, nelle stesse ore in cui è uscita allo scoperto un’altra clamorosa balla sulle travolgenti avanzate dei ribelli del CNT lanciate alla conquista del compound di Bab al Azizia per consegnare Gheddafi, come hanno solennemente promesso, alla CPI dell’Aja.
L’ha raccontata il 27 Giugno alla Reuters, tramite telefono cellulare (!), il solito testimone creato dal nulla che questa volta ha assunto il nome di Juma Ibraim.
Il “suo“ racconto è arrivato dalla periferia sud di… Bir el Ghanam.
La “notizia“ è rimbalzata nel Bel Paese con l’Ansa. La diffusione della flagrante patacca su giornali e tv è stata tanto capillare da trovare spazio anche su quotidiani come Il Sole 24 ore e Milano Finanza.
Ci siamo presi la briga di andare a vedere su Google Earth dove si trovasse questo nuovo caposaldo dato nelle mani dei “sostenitori“ di Re Idris.
E’ un villaggio abbandonato di qualche decina di abitazioni, posizionato ad ovest di un tracciato in ambiente desertico a 87 km da Tripoli, difficilissimo da raggiungere, a ridosso com’è di una invalicabile catena collinare di sabbia.
Il 29 Giugno, Le Figarò darà notizia di altre armi paracadutate dalla Francia di Sarkozy a “formazioni di irregolari“ a Misurata, Nalut, Tiji, al Javash, Shakshuk e Yafran, precisando la natura dei “vettovagliamenti“ dall’aria: denaro, logistica, lanciarazzi, fucili d’assalto, mitragliatrici e missili anticarro Milan.
In realtà, al momento, di ribelli lanciati alla conquista di Tripoli non se ne vedono da un pezzo. Rimangono sulla difensiva in Cirenaica solo esigue formazioni “fluide“ di tagliagole, attestate ai margini della Litoranea, oltre i 30‘ nord e i 20‘ sud, pronte a innestare le marce avanti dei pick-up per qualche centinaio di metri nelle ore immediatamente successive ai bombardamenti della NATO e a ingranare le retromarce nei momenti di pausa tra uno strike e l’altro.
Una sorta di claque, vestita di un pagliaccesco criminale, usata fin dalla prima settimana di Marzo per dare credibilità a una rivolta popolare “repressa nel sangue dalle forze di Gheddafi“, capace di giustificare un “intervento umanitario“ dall’esterno e di portare a maturazione il progetto di Stati Uniti ed Europa di destabilizzare, con l’esplicito appoggio di Ban Ki Moon, uno Stato sovrano. Continua a leggere

Al castello di Rambouillet

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“L’estremo tentativo per evitare l’intervento militare che già la NATO stava minacciando si svolse al castello di Rambouillet, vicino a Parigi, dove il 6 febbraio 1999 si aprirono i “colloqui di pace ” che  culminarono al contrario nella guerra del successivo 24 marzo.
Nella bozza di accordo presentata dal Gruppo di contatto, formato da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Russia, non si accennò mai ad una possibile indipendenza del Kosovo ma solo ad un’autonomia che si sarebbe incarnata in un parlamento, un presidente, una costituzione e una corte costituzionale.
Il documento prevedeva ampi poteri ai verificatori dell’OSCE, che sarebbero dovuti rimanere nella Provincia per un periodo di tre anni, il ritiro non totale delle forze di polizia e di sicurezza serbe, l’impossibilità per il Kosovo di avere un proprio esercito, una propria moneta e una propria politica estera (prerogative che sarebbero rimaste nelle mani del governo di Belgrado).
La bozza del Gruppo di contatto lasciò invece irrisolto lo status della Provincia allo scadere dei tre anni di “verifica” ; gli albanesi avrebbero voluto un referendum per l’autodeterminazione del Kosovo, i serbi insistettero che un’eventuale consultazione avrebbe dovuto riguardare anche i restanti abitanti della Federazione Jugoslava.
L’UCK, che inizialmente rifiutò il contenuto dell’accordo, dietro chiare pressioni statunitensi decise di accettarne una formula così limitata e la sua delegazione a Rambouillet assunse un’importanza ben superiore a quella dello stesso “moderato” Rugova.
Durante i 17 giorni dei colloqui svoltisi all’interno del castello, la rappresentanza serba non s’incontrò mai con quella albanese; la conferenza venne preparata a Londra in una riunione del 29 gennaio del Gruppo di contatto e da una successiva consultazione del 30 gennaio a Bruxelles, durante la quale il Consiglio Atlantico conferì al segretario generale della NATO, Javier Solana, l’autorizzazione ad interventi aerei contro la Serbia nel caso quest’ultima si fosse rifiutata di firmare l’accordo. Continua a leggere

La Kosovo Security Force e la NATO

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Pristina, 21 gennaio – A meno di un anno dalla proclamazione di indipendenza dalla Serbia, il Kosovo ha dato vita alle proprie forze di sicurezza, provocando una dura reazione di protesta da parte di Belgrado. La Kosovo Security Force sarà costituita da una forza permanente formata da 2.500 unità provviste di armamento leggero ed 800 riservisti ed è destinata a sostituire i Kosovo Protection Corps istituiti nel settembre 1999 dall’amministrazione ONU come forza di protezione civile.
(Adnkronos/Dpa)

Pristina, 23 gennaio – Secondo il suo comandante, Sulejman Selimi, la nuova Forza di sicurezza del Kosovo (KSF) mira a diventare parte della NATO ed è aperta a tutti i cittadini del Kosovo. In dichiarazioni riportate dal quotidiano kosovaro in lingua albanese ‘Epoka e Re’, Selimi ha sottolineato che sin dall’ inizio il processo di formazione della KSF è avvenuto in cooperazione con la NATO, che ha mostrato interesse in questa Forza. Il comandante – un ex leader dell’UCK, l’Esercito di liberazione del Kosovo che combattè contro i serbi alla fine degli anni Novanta – ha detto che i serbi del Kosovo sono i benvenuti nella nuova Forza di sicurezza. Selimi non ha voluto tuttavia commentare la posizione della Serbia, che è decisamente contraria alla KSF e mira al suo scioglimento, limitandosi a osservare che la Serbia sembra volersi opporre a tutto quello che è positivo in Kosovo. La KSF, insediatasi mercoledì scorso, è composta da 2.500 uomini e 800 riservisti, è dotata di armi leggere e viene addestrata dalle forze NATO.
(Ansa)

Kosovo Italia Serbia, pro memoria 1999

Il 24 Marzo di nove anni or sono l’attacco aereo a Serbia, Montenegro e Kosovo Metohija vide l’Italia in prima fila per numero di aerei impiegati tra Tornado, ECR, AMX e F104 dell’Aeronautica Militare Italiana: 52, come da dichiarazione ufficiale dell’allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema.
Il primo governo di coalizione guidato da un ex esponente del PCI si fece anche carico dell’assistenza a terra degli altri 263 cacciabombardieri della prima linea d’attacco della NATO. Con un provvedimento ad hoc, le Forze Armate italiane coprirono tutti gli oneri di spesa, dalla fornitura del carburante avio al munizionamento a guida laser da scaricare sul territorio della Repubblica Federale di Jugoslavia: 78 giorni di ininterrotti bombardamenti, in aperta violazione del diritto internazionale e, per quanto riguarda l’Italia, dell’articolo 11 della Costituzione.
Sui 1.378.000 abitanti del Kosovo Metohija, 461.000 erano cittadini di origine serba. Il censimento effettuato nel 2006 dall’UNMIK ne ha registrati come residenti meno di 100.000, perché gli altri sono stati cacciati dalle loro case, in presenza delle forze NATO appartenenti alla KFOR, ed ora vivono in estrema precarietà nei campi profughi sparsi in Serbia. Dei 55.000 che vivevano a Prishtina prima del 1999, ne rimangono 42. La stessa sorte è toccata a diverse migliaia di croati, rom, gorani (slavi di religione musulmana) ed agli albanesi considerati “collaborazionisti” – almeno a quelli non assassinati a sangue freddo dall’UCK, descritto come “senza alcun dubbio, un gruppo terroristico” da Robert Gelbard, inviato speciale del presidente Clinton nei Balcani. Gli schipetari hanno inoltre dato alle fiamme e saccheggiato 148 monasteri medievali e decine di migliaia di case, realizzando quella pulizia etnica che non era riuscita nemmeno a Mussolini quando si era impegnato a costruire una “Grande Albania”.
Il Kosovo è oggi privo di economia. Quel poco che consente la sopravvivenza della popolazione è basato quasi unicamente su traffici illegali. E tutto questo dopo avere ricevuto dall’Unione Europea due miliardi di euro in assistenza dal 1999 ad oggi. La bilancia commerciale parla chiaro: entrate da traffici vari (droga e armi soprattutto, ma anche automobili e marchi contraffatti) valgono per circa l’80%, gli aiuti internazionali per poco meno del 20%.
Stando alle stime dell’Interpol, è dal Kosovo che passa l’80% del traffico di eroina del Vecchio Continente. Si parla di un volume d’affari totale pari a due miliardi di dollari e di un flusso mensile compreso tra le 4 e le 6 tonnellate di droga. E una buona fetta dei proventi rientra poi in Kosovo, finendo anche nelle casse dei principali partiti.
Secondo la Banca mondiale, il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Il Kosovo ha il Pil più basso d’Europa. La disoccupazione è stimata al 60%, l’analfabetismo è vicino al 10% tra gli uomini ed al 20% fra le donne, cifre dieci volte superiori alla media regionale.
Ogni 15 giorni, i Nuclei di Polizia Internazionale emettono provvedimenti di chiusura a carico di locali adibiti al traffico di stupefacenti e/o di armi, al riciclaggio di denaro sporco, alla prostituzione; nella sola Prishtina, i bordelli – assiduamente frequentati dai militari stranieri ivi operanti – si contano in diverse centinaia. Le bande criminali censite sono 2.417. Le armi, corte o lunghe, a disposizione delle stesse sono stimate in 400.000 circa.
Per contro, ferma qualsiasi precedente attività mineraria estrattiva, la produzione artigianale ed industriale è pressoché nulla, con una compressione rispetto al volume sviluppato nel 1999 pari al 92% in meno. Con conseguenza, fra le altre, che il tasso di disoccupazione permanente nella fascia d’età tra i 18 ed i 45 anni sfiora l’82%.
A fronte delle 32 tonnellate di uranio impoverito seminate dai proiettili dell’USAF, nella popolazione residente si è registrato, in sei anni, un incremento del 25% degli aborti spontanei, del 15% delle malformazioni nei feti, del 17% di leucemie e tumori ad ossa, cervello, reni, fegato e vie urinarie. Tra i soldati italiani della KFOR avvicendatisi nella regione, i decessi per cancro registrati al gennaio 2007 sono 52, mentre più di 300 sono quelli in cura nelle strutture sanitarie nazionali.