Di Kosovo e non solo

“A me, in redazione al TG3 la mattina del primo dei 78 giorni di bombardamento, l’invito a considerare l’attacco un “intervento umanitario” (il primo di quelli costati all’umanità l’Afghanistan, la Somalia, l’Iraq, la Libia, la Siria, lo Yemen, l’Honduras, diononvoglia il Venezuela), non tornò né giusto, né corretto. Impossibile condividere, schifoso sottostare e in RAI non mi feci vedere più. Presi una telecamera e mi feci vedere a Belgrado, insieme alla gente del “target” che, cantando, sfidava sul Ponte Branko, obiettivo per eccellenza, i topgun NATO che partivano da Aviano su ordine, anche, di D’Alema premier e Mattarella vicepremier e ministro della Difesa. A Kraguievac, con Raniero La Valle, Sandra e il bassotto Nando, schivammo un paio di missili, a Belgrado, di notte, vedemmo in fiamme l’ambasciata cinese e, la mattina, colpito il reparto incubatrici dell’ospedale pubblico.
Dal 1999 al 2001 mi aggirai per la Serbia, tra le rovine di ospedali, scuole, ponti, treni, case, orfanotrofi, fabbriche, ambasciata cinese, televisione di Stato e suoi giornalisti e tecnici, la Zastava a Kragujevac, cuore operaio della Serbia jugoslava, vista rasa al suolo dall’uranio e un anno dopo rimessa in opera dagli stessi, eroici, operai. Ne vennero i due unici documentari che in Italia ed Europa provarono a dire un’altra verità. Per la quale, a Belgrado, ora hanno avuto la generosità di offrirmi un riconoscimento. Che terrò incorniciato e in vista, per non dimenticare mai. Come promesso dai convegnisti del Forum di Belgrado.
(…) Ero venuto a Belgrado per il convegno nel X anniversario dell’aggressione. Ci sono tornato ora nel XX. Dubito, a 85 anni, che mi rivedranno al XXX. Ma loro terranno duro, fino a quando la vulgata delle menzogne su Jugoslavia, Serbi, loro uccisori e devastatori non sarà riconosciuta da un’opinione pubblica che insiste a farsi turlupinare da delinquenti della guerra, dello schiavismo coloniale e dell’informazione. Fino a quando le vittime non saranno state risarcite, bonificati i territori e curati i corpi bruciati dall’uranio impoverito (tra i ragazzi sotto i 15 anni tre volte i tumori della normalità senza uranio) e avvelenati dalle sostanze chimiche fatte sprigionare dagli impianti petrolchimici di Pancevo. Sparute voci invocavano memoria, ma anche perdono. Subito subissate dal coro: “Non dimentichiamo, non perdoniamo”.
Loro che tengono duro, fin dai giorni dell’aggressione, sono capeggiati da un uomo della cui specie ne vorremmo avere anche da noi. Zivadin Jovanovic era ministro degli esteri nel governo di Slobodan Milosevic, testimone dell’infame inganno di Rambouillet, trattato di “pace” con cui Madeleine Albright (quella dei “500mila bambini morti che valevano la pena per prendersi l’Iraq”) pretendeva di imporre alla Serbia di farsi occupare dalla NATO. Testimone, alla fine dei bombardamenti, della “pace” di Kumanovo. Forse l’unico, grande errore di Milosevic: il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo. Difficilmente l’UCK, se non la NATO, avrebbero prevalso, tra le montagne serbe, sull’esercito erede della lotta partigiana ai tedeschi. Avremmo vissuto un’altra storia.
Sicuramente non quella di una Grande Albania che incorpori Kosovo e pezzi di Serbia, Montenegro e Macedonia, vascello pirata sospinto dal soffio NATO e UE, tornato virulento in questi mesi e ansioso di farla finita con una Serbia che a Putin in visita a gennaio offre tripudio, un milione di cittadini in festa e il rifiuto della NATO (“Per difenderci basta il nostro esercito. Non abbiamo bisogno della NATO”. Così, alla conferenza, il ministro della Difesa, Aleksander Vulin, ripetendo ciò che aveva detto il presidente Vucic). Una Serbia che dall’inverno scorso viene descritta come assediata dalle opposizioni anti-Vucic, ma che a fine marzo abbiamo visto in piazza ridotta a poche decine di manifestanti. Tra l’altro con parole d’ordine che richiamano con precisione quelle di Otpor, la Quinta Colonna creata dalla CIA nel 2000 e poi attiva nell’innesco di quasi tutte le “rivoluzioni colorate”, fino al golpe di Guaidò in Venezuela.
(…) Quello del Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali è stato, doveva essere, alla vista dell’oblio indotto dai responsabili e dai loro amanuensi, un convegno della memoria. Ma da Zivadin Jovanovic all’ultimo delegato, eravamo coscienti che la memoria non serve se resta galleria degli antenati e dei paesaggi. Ambiente in cui si crogiola troppa gente. La memoria dei Serbi non cessa di accusare e avvertire: per i necrofori, la Serbia dovrebbe essere diventata il paradigma dell’umanità. O si resiste alle sirene USA, NATO, UE, o si muore tutti. La memoria, quando è denuncia, diventa resistenza. A partire dalla lotta contro coloro che oggi vengono di nuovo incaricati di agitare la piazza. Piazza spuria e strumentale per abbattere un presidente che, forse ondeggiante, ha comunque dichiarato un no epocale alla NATO. Una NATO che, a partire dal progetto che riunisca tutti gli albanesi in unico Stato all’ordine della criminalità internazionale e locale, prosegua l’infinita destabilizzazione dei Balcani e la faccia finita con quel cuore serbo che ha vinto i nazisti e ora rifiuta di farsi testa di ponte per la guerra alla Russia.”

Da Convegno internazionale a vent’anni dall’aggressione “DIMENTICARE? PERDONARE? MAI!”, di Fulvio Grimaldi.

Da “Underground” (1995), di Emir Kusturica, film vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes.

Per la ridiscussione del riconoscimento dell’indipendenza dell’Autoproclamata Repubblica del Kosovo


Il Comitato Promotore della Petizione Popolare di Sensibilizzazione avente come oggetto la richiesta di ridiscussione in Parlamento del riconoscimento, da parte del Governo Italiano, dell’indipendenza dell’Autoproclamata Repubblica del Kosovo ha presentato nei giorni scorsi il testo della petizione, corredato da diverse migliaia di firme, al Governo e al Parlamento della Repubblica Italiana.
Dopo diversi anni di riflessioni su quanto accadde sia negli anni novanta (processo di dissoluzione della Jugoslavia e successiva crisi nella Provincia Autonoma di Kosovo e Metohia della Repubblica di Serbia), sia nel 2008 (proclamazione unilaterale di indipendenza da parte dei rappresentanti della comunità kosovaro-albanese della Provincia Autonoma di Kosovo e Metohia della Provincia di Serbia) una parte crescente dell’opinione pubblica italiana ha sentito il bisogno di sensibilizzare le istituzioni esecutive e legislative della Repubblica Italiana in ordine al carattere iniquo ed inappropriato del passo politico e diplomatico che Roma compì nel 2008, quando riconobbe l’esistenza di un nuovo Stato, sottratto in modo affrettato alla Serbia.
Il Comitato Promotore, argomentando le ragioni che motivano tale petizione, ha chiesto di valutare la ridiscussione parlamentare del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, anche per favorire una reale e duratura stabilizzazione della regione balcanica, basata sulla certezza del diritto e sulla cooperazione di tutte le parti in causa. Il Comitato Promotore (Stefano Pilotto, Stefano Vernole, Marilina Veca, Loreta Baggio, Federico Roberti, Andrea Turi, Alessandro Di Meo, Leandro Chiarelli, Stefano Pavesi, Stefano Bonilauri), composto da intellettuali, diplomatici, professionisti, scrittori e giornalisti, ritiene che il momento sia propizio per un riesame del problema, nella prospettiva di un rilancio efficace dell’integrazione europea e dell’allargamento delle istituzioni comunitarie alla regione balcanica in un contesto di pace e di cooperazione interetnica, che non pregiudichi il rispetto della sovranità degli Stati.

Aiuto per le Cucine Popolari di Kosovo e Metohija

Tutti i giorni dell’anno l’Associazione di volontariato “Majka devet Jugovica”, attraverso sei mense denominate “Cucine Popolari in Kosovo e Metohija”, si occupa di preparare e distribuire pasti per più di 2.000 persone che non possiedono le sufficienti risorse per provvedere al sostentamento primario quotidiano. Il cibo preparato viene consumato presso i locali delle cucine, o trasportato a domicilio, nei villaggi più sperduti, ai soggetti maggiormente svantaggiati: famiglie indigenti e numerose, o anziani rimasti soli.
Per queste ragioni l’Unione dei Serbi in Italia si è prefissata di avviare, ogni anno, la campagna di raccolta fondi necessari a queste Cucine Popolari per acquistare il cibo e portare avanti la distribuzione dei pasti.

Puoi inviare il tuo contributo facendo riferimento ai seguenti dati bancari del conto intestato a Unione dei Serbi in Italia:
COORDINATE IBAN: IT07 H033 5901 6001 0000 0160 885
BANCA PROSSIMA
Causale: Donazione per le Cucine Popolari

Info: humanitarna@savezsrba.it
http://www.savezsrba.it

Cosa succederebbe se il mondo iniziasse ad usare la logica degli USA nelle sue relazioni con l’America?

Sei stato sanzionato! Sei stato bombardato! Sei stato invaso! Gli USA hanno una sfilza di punizioni pronte per gli Stati che secondo loro si stanno comportando male. Ma cosa succederebbe se il resto del modo adottasse gli stessi metodi con gli Stati Uniti?

Lo scorso giovedì è stato un giorno abbastanza strano. Gli USA non hanno imposto nuove sanzioni a qualcuno. A meno che non me ne sia accorto mentre ero disteso sul divano con la tendinite (curata in un giorno, sono lieto di dirlo, da mia moglie con la chiropratica).
Allo stato attuale gli USA utilizzano programmi attivi di sanzioni contro quasi 20 Paesi: dalla Bielorussia allo Zimbabwe. E sapete cosa? In linea di massima le ragioni che gli USA adducono per sanzionare questi Paesi potrebbero essere quasi ugualmente usate per sanzionare gli stessi USA.
Guardiamo le sanzioni recentemente reimposte all’Iran, alcune delle quali sono entrate in vigore il 6 Agosto, con altre valide dal 4 Novembre. Le punizioni finanziarie non colpiscono solo l’Iran. Con una tattica bullista particolarmente odiosa, sullo stile dei campetti scolastici esse colpiscono anche Paesi ed istituzioni finanziarie straniere che commerciano con l’Iran. La Repubblica Islamica è accusata di “comportamento maligno”. Di essere il leader, chiedo scusa, “LO Stato leader mondiale quale sponsor del terrore”.
In verità il crimine di Teheran è stato l’aiutare a sconfiggere il terrorismo, eufemisticamente descritto come “attività ribelle”, sostenuto dagli USA e i suoi alleati regionali in Siria.
Se le sanzioni dovessero essere imposte per “comportamento maligno” e per essere uno “sponsor del terrore” allora sarebbero gli USA a dover essere sanzionati, e non l’Iran. Inoltre, se noi seguiamo la logica statunitense, anche i Paesi e le istituzioni finanziarie che fanno affari con l’America dovrebbero essere colpiti. Provate solo a immaginare le proteste di Washington se l’Iran avesse annunciato lo stesso tipo di misure complessive contro aziende e banche che fanno affari con gli USA che gli Stati Uniti hanno annunciato contro aziende e banche che fanno affari con Teheran. Ma esse sarebbero giustificate, se seguissimo il modo di ragionare del Dipartimento di Stato. Continua a leggere

Volete stabilità nei Balcani? Allora ridateci la Jugoslavia

Torna alta la tensione nei territori della ex Jugoslavia a seguito dell’assassinio di Oliver Ivanovic, esponente di punta della minoranza serba in Kosovo.

L’influente think-tank statunitense Council on Foreign Relations (CFR) ha messo i Balcani nella sua lista di prevenzione dei conflitti nella sua recente inchiesta del 2018.
Tuttavia l’idea, promossa dal CFR, che gli Stati Uniti siano il Paese che può aiutare a preservare “pace e stabilità” deve essere messa alla prova – così come gli stessi Stati Uniti e gli alleati NATO più vicini che sono in verità responsabili di molti dei problemi che affliggono attualmente la regione.
Questi problemi derivano tutti dalla violenta rottura della Jugoslavia multietnica degli anni ’90, un processo che le potenze occidentali hanno sostenuto e addirittura incoraggiato attivamente. Ma questo non è menzionato nel documento di riferimento del CFR “Lo scioglimento degli accordi di pace nei Balcani” (Contingency Planning Memorandum n. 32).
Invece sono i Russi, udite, udite, ad essere considerati i cattivi – con “la destabilizzazione russa del Montenegro o della Macedonia” elencato come uno dei possibili scenari del 2018. La verità è, tuttavia, che tutti i possibili “punti di fiamma” identificati dal CFR, che potrebbero portare a conflitti, possono essere direttamente collegati non a Mosca ma alle conseguenze di precedenti interventi e campagne di destabilizzazione statunitensi o guidate dall’Occidente. Continua a leggere

La questione curda

Il ruolo della attuale dirigenza curda di fronte a un’occasione storica

Ho troppo rispetto per il popolo curdo, per la questione curda, per esprimere giudizi in quella che sarà una pura e semplice valutazione dell’attuale corso del maggior movimento curdo oggi – temporaneamente – alla guida di un territorio da essi denominato Rojava (letteralmente “Ovest”, in riferimento con ogni evidenza a un “Est” iracheno), un’area attualmente di oltre 42mila km quadrati a nord della Siria, superiore per estensione alla superficie di due Regioni come la Lombardia e il Veneto, distribuita in maniera discontinua a occidente (Afrin) e a oriente (il restante territorio) del cuneo occupato dai Turchi proprio per impedirne il ricongiungimento, unico successo ottenuto dall’operazione Scudo dell’Eufrate (Fırat Kalkanı); un’area che nel giro di tre anni è andata ben oltre i tradizionali confini dei villaggi curdi, giungendo a occupare:
– il 23% del territorio siriano;
– le sue tre maggiori dighe (importanti sia per la fornitura di energia elettrica, che per l’irrigazione);
– il 60% della sua superficie coltivabile (fonte).
Interessante, vero? Come si è arrivati a questo, temporaneo, status quo? Quali le cause, quali i presupposti, quali le possibili conseguenze e configurazioni future?
Occorre, come sempre, fare un passo indietro. Un popolo di trenta, quaranta milioni di persone (a seconda di come si considerano i Curdi della diaspora), distribuito principalmente – ma non solo – su quattro Stati indipendenti (Turchia, Siria, Iraq e Iran), la nazione più popolosa al mondo senza Stato, è da oltre un secolo che lotta per la propria indipendenza. All’inizio del secolo scorso, occorre sottolinearlo, i Curdi furono impiegati dai britannici in chiave antiturca (I conflitto mondiale) e tedesca (II conflitto mondiale), sempre con l’illusione di uno Stato promesso e mai realizzato (Dmitrij Minin, I segreti del conflitto siriano: il fattore curdo). Successivamente, si accostarono all’URSS, ma senza successo: la tragica vicenda della Repubblica di Mahabad (1946), primo nucleo di un Kurdistan indipendente in territorio iraniano, vide l’appoggio esterno dei Sovietici, che coprirono successivamente la ritirata del Molla Mustafa Barzani, padre dell’attuale capo del Kurdistan iracheno Mas’ud Barzani. Riparato in Azerbaigian, organizzò campi di addestramento a Tashkent e completò gli studi militari a Mosca (fonte). Fino a metà degli anni Cinquanta i Curdi furono gli unici alleati dei sovietici in Medio Oriente. Tuttavia, anche lì le cose stavano cambiando. L’appoggio sovietico alle rivoluzioni baathiste fece progressivamente spostare l’occhio dei Curdi verso Occidente. I britannici non c’erano più, ma c’era Israele. Sono databili da allora i primi contatti fra Mossad e Curdi (fonti: france-irak-actualite.com; the-american-interest.com), culminati nella visita vera e propria di Barzani padre in Israele. L’opzione rivoluzionaria in senso socialistico persisteva solo fra i Curdi di Turchia, culminante nel 1978 con la fondazione del PKK di Ocalan, ma risultava sempre più minoritaria, in termini di peso specifico sull’intero movimento indipendentistico curdo, a partire soprattutto dalla fine dell’URSS.

Moshe Dayan e Molla Mustafa Barzani, 1967

Il resto è storia recente: la strumentalizzazione della questione curda come fattore destabilizzante in Iraq e in Siria, è segno distintivo della politica mediorientale a stelle e strisce (o, visti anche i precedenti storici appena citati, US-raeliana nel suo complesso). In altre parole, questi due Paesi hanno conosciuto negli ultimi tre anni un’intrusione sempre maggiore degli Statunitensi sul loro territorio con l’istallazione di basi militari nei territori controllati dai Curdi, per combattere ovviamente i propri avversari che non sono, come ormai è sotto gli occhi di tutti, l’ISIS o Al Qaeda. La base aerea siriana di Tabqah, per esempio, abbandonata a causa dell’ISIS, ripresa dai Curdi catapultati oltre l’Eufrate dai mezzi anfibi e dalla copertura aerea americani, è stata seduta stante ceduta ai loro padroni. Un’altra base, ancora più grande, è in costruzione a Kobane, per rendere più costante e consistente l’approvvigionamento ai loro alleati. Forti di questo appoggio, le milizie curde dell’YPG hanno recentemente annunciato un’offensiva verso i territori dello “scudo turco” che li separano da Afrin. A sud di Raqqa, dopo esser stati fermati a Resafa dalla perentoria avanzata dell’esercito siriano, si stanno ritagliando fette di territorio lungo la striscia a sud dell’Eufrate, ufficialmente per chiudere da sud la capitale del sedicente Stato Islamico, in pratica per sondare la possibilità di ulteriori movimenti espansivi verso Sud.
Qui però si ferma la pars construens della loro iniziativa e iniziano problemi non da poco:
1. Afrin, separata dal resto di Rojava dallo “scudo turco” e posta sotto minaccia diretta di invasione, sempre da parte turca, è appena stata “visitata” da una folta rappresentanza di ufficiali russi. Questo avvenimento non può non essere legato alla visita ad Ankara del ministro della difesa russo Šojgu del giorno prima. I Russi ad Afrin si stanno costruendo la loro base, di fatto depotenziando il resto di Rojava in mano all’YPG, garantendo di fatto il ritorno di quella fetta di territorio nell’alveo della Repubblica Araba di Siria. Questo a Erdoğan basta. E avanza. I suoi movimenti di truppe e incidenti di confine sembrano aver sortito l’effetto deterrente voluto.
2. Un diamante è per sempre, ma non l’appoggio USA. Né Londra, né Washington hanno mai dato apertamente garanzie concrete alla costituzione di un Kurdistan indipendente e sovrano. Lo stesso ex-ambasciatore USA in Siria Robert Ford, in una recente intervista, ha definito “non solo politicamente stupida, ma immorale” l’attuale politica verso i Curdi, visto che alla fine “li tradirà”. I Curdi mancano di un appoggio costante a Washington, come sono, per esempio, la lobby ebraica e quella armena. Sembrano più che altro la “cara amica di una sera” del nostro repertorio canoro. Questo Rojava, nella figura del suo presidente Salih Muslim, lo sa benissimo, e infatti cerca – piuttosto maldestramente – di tenere il piede in più scarpe, senza inimicarsi troppo Mosca (da qui la cessione della base di Afrin, anzi, di Afrin punto) e Damasco (senza indire – almeno al momento – “referendum” sulla falsariga di quello appena svoltosi in Iraq). E cerca di trarre il maggior vantaggio dalla presenza USA sul territorio che controlla, di fatto svendendolo al potente alleato… inimicandosi però le popolazioni arabe locali, e non solo.
3. A differenza del Kosovo, dove a fronteggiare la protervia NATO c’era una Serbia indomita ma debole, oggi ci sono Iraq, Iran, Siria e Turchia. La Russia non solo sta vincendo sul campo un conflitto che nei primi sei mesi di quest’anno ha visto radicalmente mutare scenario (vedasi le ultime due cartine della Siria datate 01/01 e 30/06 di quest’anno), non solo ha permesso un graduale ma decisivo ripristino della sovranità nazionale da parte dell’unico governo legittimo, quello che – piaccia o no – fa capo ad Assad (per la prima volta, per esempio, la provincia di Aleppo vede prevalere come possesso di territorio il governo siriano sui suoi nemici e oppositori, come si vede nella cartina proposta sopra le due mappe già citate), ma è riuscita nella non facile impresa di mettere d’accordo Iran e Turchia nella costituzione di unico asse anti-ISIS e anti-Al Qaeda, ovvero anti-israeliano (vedasi, per ultimo ma non da ultimo, dopo i raid aerei israeliani contro le postazioni siriane sul Golan, l’origine degli equipaggiamenti sequestrati dall’esercito siriano ad Al Qaeda, sempre sulle alture del Golan), e anti-USA (vedasi, sempre per ultimo ma non da ultimo, oltre agli attacchi USA contro le postazioni siriane fatti “per errore”, come quello che l’anno scorso ridusse enormemente le difese di Deir Ez-zor prima dell’immancabile offensiva ISIS, anche le forniture dirette via Bulgaria e Jeddah ai terroristi). Il che non significa che siamo di fronte a un blocco compatto e monolitico che fronteggia un altro blocco altrettanto compatto e monolitico. I Turchi oggi ci sono, trattano coi Russi per l’acquisto di sistemi antiaerei e antimissile S-400 Triumf, domani non si sa. Gli Iraniani oggi sono pesantemente coinvolti nelle vicende irachene (delle cosiddette milizie popolari) e siriane, cercano una loro via al Mediterraneo, sono in piena e pluriennale sintonia coi Russi, anche sul versante geopolitico del Caspio in chiave di contenimento dell’iniziativa USA nella regione, poi chissà. Tuttavia, ora sono tutti, incondizionatamente, uniti contro i Curdi e la loro svolta filoamericana.
Gli affari sono affari. E di questo stiamo parlando, meglio, stanno parlando le potenze geopolitiche attualmente presenti sullo scacchiere mediorientale. Prima i Curdi lo capiranno, meglio riusciranno a promuovere la loro causa, cercando di coordinarsi non con chi sta a un oceano di distanza, ma con chi oggi li vede sempre più come un pericolo o, peggio ancora, come una minaccia. Hanno di fronte a sé, dopo un secolo di lotte, un’occasione storica. Non la devono e non la possono perdere. L’alternativa, sarebbe la ripetizione di tragedie già viste.
Paolo Selmi

Legenda delle cartine
Rosso: governativi e alleati
Grigio: Stato Islamico (ISIS-DAESH)
Verde: gruppi vari della galassia “ribelle” (Esercito Libero Siriano, etc.)
Bianco: gruppi derivati dallo scioglimento di Jabhat Al Nusra
Giallo: Curdi

1 gennaio 2017

30 giugno 2017

Lo dite voi ai ragazzi di Manchester?

Gli sponsor del terrorismo

“Lo dite voi ai ragazzi di Manchester che siamo amici degli sponsor dell’ISIS?”: è questa la domanda posta dal giornalista Fulvio Scaglione, non un pericoloso estremista, ma un pubblicista che è stato per 16 anni, dal 2000 al 2016, il vice direttore di Famiglia Cristiana.
La domanda di Scaglione non si deve riferire solo al fatto incontestabile che noi, Paesi europei e nordatlantici, siamo alleati con le orribili monarchie del Golfo Arabico: Arabia Saudita, Qatar, Emirati Uniti, Kuwait, Bahrein, finanziatori attraverso decine migliaia di moschee radicali ed “opere caritatevoli” del peggior integralismo islamico, e organizzatori e sostenitori con soldi ed armi di tutti i gruppi terroristi jihadisti. Non si deve riferire solo al fatto che forniamo a questi Paesi (all’Arabia Saudita in particolare) enormi quantità di armi come testimoniato dagli accordi di fornitura Italia-Sauditi e dall’ultima gigantesca fornitura degli Stati Uniti ai Sauditi, di cui si servono per le loro aggressioni dirette o indirette a Stati sovrani non allineati come lo Yemen o la Siria.
In realtà, il gioco di finanziare ed organizzare estremisti islamici fanatici per colpire gli Stati indipendenti, socialisti, o comunque scomodi perché non si piegavano al gioco imperialista e neo-colonialista, risale almeno agli anni ’70 del secolo scorso, quando gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, il Pakistan e altri alleati formarono l’organizzazione Al Qaeda, diretta da Bin Laden, e finanziarono ed armarono i più retrivi, misogini, feudali signori della guerra, i più feroci mercenari accorsi da tutto il mondo islamico, e gruppi di fanatici locali per scacciare il governo comunista in Afghanistan e far cadere in una trappola mortale i suoi alleati sovietici.
I fanatici islamici ed i soliti mercenari accorsi da vari Paesi servirono anche negli anni ’90 per spazzare via i resti della Jugoslavia socialista, prima con la guerra di Bosnia, poi con quella del Kosovo, entrambe finite con interventi diretti della NATO, e con la partecipazione diretta anche dell’Italia.
I miliziani musulmani bosniaci e kosovari furono fatti passare per vittime dei cattivi Serbi. La propaganda occidentale non ha mai detto la verità su episodi chiave come la presunta strage di Srebrenica (ovvero “la città dei Serbi”, chiamata sempre Srebrenica sui giornali nostrani), su cui non vi sono prove ma solo racconti di parte, mentre ha sempre ignorato i dossier (editi da Zambon o dalla Città del Sole) che documentano le stragi compiute nella zona dai fanatici musulmani a danno dei civili serbi (3.500 morti civili accertati). Non viene mai ricordata la “fake news” della falsa strage di Racak che fornì la scusa per la liquidazione finale dei resti della Jugoslavia nel 1999, con il plauso diretto di D’Alema.
Anche la rivolta della Cecenia fu in gran parte diretta ed attuata da fanatici musulmani integralisti, opportunamente sostenuti dall’esterno da Paesi islamici sunniti e organizzazioni occidentali, per mettere in difficoltà la Russia.
Le organizzazioni estremiste della Libia, come Ansar Al Sharia a Bengasi o le feroci milizie di Misurata legate ai Fratelli Musulmani ed armate dal Qatar e dalla Turchia di Erdogan, servirono come truppe di terra per appoggiare l’attacco della NATO che distrusse il Paese. Non è un caso che il “kamikaze” di Manchester era stato a capo di una di queste milizie di fanatici che odiavano il governo laico di Gheddafi, e che molti dei suoi parenti siano membri di formazioni estremiste.
Il nome del “kamikaze”, i suoi liberi spostamenti dall’Inghilterra alla Libia, alle zone occupate dall’ISIS in Siria, alla Turchia, erano note alle polizie di mezzo mondo (occidentale), ma nessuno è intervenuto.
Inutile ricordare i continui finanziamenti e le forniture di armi a tutte le formazioni armate estremiste che cercano di destabilizzare il governo laico socialista siriano, come Daesh, Al Qaeda, Jaish Al Islam, Ahrar Al Sham, e centinaia di altre milizie mercenarie e fanatiche in gran parte formate da Turcmeni, Uzbechi, Uiguri, Tunisini, Libici, Sauditi e gruppi militanti che sono stati fatti uscire liberamente dall’Europa e sono stati addestrati in Turchia o Giordania.
Ma a questo punto bisogna sottolineare un altro cinico uso che l’Occidente imperialista e neo-colonialista fa di questi terroristi, sfruttando anche gli attentati (non ostacolati), o addirittura i falsi attentati che avvengono sistematicamente in Occidente, a partire dalla “madre di tutti gli attentati” , quello delle Torri Gemelle che permise di scatenare la “guerra al terrore”, l’invasione dell’Afghanistan e la distruzione dell’Irak baathista.
Oggi, con la scusa di combattere Daesh, che per anni si è esteso in Siria ed Irak con gli Occidentali che facevano finta di combatterlo (in alleanza con Turchia ed Arabia Saudita, cioè insieme ai principali finanziatori di Daesh!), gli Statunitensi, i Turchi, ed ultimamente anche gli Inglesi provenienti dalla Giordania, hanno invaso zone della Siria. Nel nord gli USA hanno impiantato le loro basi con l’aiuto dei Curdi, che nel loro cieco nazionalismo sono disponibili ad allearsi anche col diavolo (che li scaricherà quando non serviranno più). Le difese siriane di Deir Ez-Zor, città assediata da 4 anni da Daesh, sono state bombardate “per sbaglio” da aerei USA, australiani e danesi. Non per sbaglio, ma in seguito ad una manifesta provocazione di Al Qaeda che si dichiarava vittima di un attacco chimico, è stato bombardato il più importante aeroporto del centro della Siria da cui partivano le missioni aeree che colpivano Al Qaeda. Oggi si sta verificando un fatto gravissimo che ha avuto scarsa eco sui mass media, ma che è gravido delle peggiori conseguenze.
L’esercito siriano e le milizie filo-governative irachene stavano convergendo sul punto di frontiera strategico di Al Tanf, posto all’incrocio tra le frontiere di Irak, Siria e Giordania, da dove passavano rifornimenti per Daesh attraverso il deserto. Truppe inglesi e statunitensi hanno occupato la zona, insieme a mercenari locali definiti Syria Democratic Forces ed aerei statunitensi hanno bombardato sia le truppe siriane che quelle irachene avanzanti “perché costituivano una minaccia ai soldati statunitensi”.
La Russia ha protestato (blandamente) dicendo che nessuno avrebbe minacciato i soldati USA se fossero rimasti a casa e non avessero apertamente violato il diritto internazionale.
Ora, capiamo sempre meglio perché nessuno ferma i “kamikaze” di Manchester e continua a fornire armi ai loro finanziatori.
Vincenzo Brandi

Militari all’uranio

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“In amore e in guerra tutto è permesso”. È ciò che deve aver pensato il Ministero della Difesa quando ha mandato i nostri inconsapevoli militari italiani alle missioni “di pace” all’estero: Bosnia Erzegovina, Serbia, Kosovo, Eritrea, Afghanistan, Iraq e Gibuti senza avvisarli delle giuste precauzioni da prendere contro un nemico subdolo e all’apparenza innocuo come l’U235. Parliamo di uranio impoverito. Parliamo di 7.678 militari malati, 333 morti e di 72 sentenze di risarcimento vinte.

Da quando l’uranio impoverito ha fatto la sua comparsa nelle cronache italiane, si è detto e (soprattutto) non detto di tutto. In questo libro, la giornalista d’inchiesta Mary Tagliazucchi e Domenico Leggiero, ex pilota militare, ispettore agli armamenti C.F.E, coordinatore dell’Osservatorio Militare e consulente dell’attuale Commissione Parlamentare, cercano di spiegare cosa vi sia davvero dietro l’inspiegabile e impenetrabile muro di omertà, costruito sia da parte delle autorità militari che di quelle politiche.
Una “guerra silenziosa” fra chi tace la verità e chi la grida a gran voce. In questo libro si raccolgono non solo le tragiche storie, vicende e ingiustizie subite dai militari che ancora oggi non smettono di ammalarsi e morire ma anche alcuni importanti retroscena politici che, di fatto, hanno contribuito ad allungare i tempi di questo caso che non sembra conoscere fine.
Un “conflitto” che dura ormai da quasi sedici anni e in cui l’uranio impoverito non è l’unica minaccia. Attraverso il racconto dei due autori, senza zone d’ombra o reticenze, pian piano si arriva a capire più di una verità, che gli stessi consegnano al lettore senza alcuna presunzione. A parlare per loro sono i fatti e i documenti riportati.

Mary Tagliazucchi, nata a Roma nel 1975, è giornalista freelance e fotoreporter. Collabora con La Stampa, Ofcs.report e altre testate giornalistiche. Da sempre si occupa di cronaca e giornalismo d’inchiesta.
Domenico Leggiero nasce a Capua (CE) nel 1964. Arruolatosi nell’esercito nel 1985, diventa pilota militare nel 1988 e, dopo oltre 1000 ore di volo, viene qualificato Ispettore C.F.E. (Control Force Europe) e inserito nei pool internazionali per il controllo degli armamenti, attuazione e rispetto dei trattati internazionali per la riduzione degli armamenti. Consulente in tre commissioni parlamentari d’inchiesta sul fenomeno dell’uranio impoverito, dal 2005 continua la battaglia per i militari malati come Responsabile del Comparto Difesa dell’Osservatorio Militare Centro Studi di cui lui stesso fu cofondatore nel 1999.

Militari all’uranio,
di Mary Tagliazucchi e Domenico Leggiero
David and Matthaus, € 14,90

Il primo pensiero del nuovo anno

E’ rivolto a un nuovo progetto di “solidarietà concreta” portato avanti da S.O.S. Jugoslavia, associazione torinese che i nostri lettori hanno già avuto modo di conoscere.
Si tratta del progetto denominato “Appartenere al futuro”, a favore delle enclavi del Kosovo Metohija.
I dettagli sono contenuti nella “proposta” che Padre Benedetto del Monastero di Decani ha inviato ai referenti dell’associazione, la quale può essere letta qui.
Chiunque volesse sostenerlo, è pregato di mettersi in contatto con S.O.S. Jugoslavia mediante i recapiti segnalati in calce al medesimo articolo.

Aiutiamoli a sopravvivere.
Aiutiamoli a resistere.
Aiutiamoli a restare nella propria terra.

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Perché non aderiamo all’appello ed alla manifestazione del 24 Settembre

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Pur avendo sostenuto per anni la lotta del popolo curdo, siamo molto preoccupati delle scelte che una parte della sua dirigenza ha imposto in Siria. Queste scelte e le loro conseguenze non sono assolutamente messe in discussione dall’appello per il 24 settembre:
1) non viene minimamente condannato il fatto che l’esercito turco ha invaso uno stato indipendente, la Siria, in cui gli stessi Curdi vivono, violandone platealmente la sovranità;
2) Non viene chiarito che gli stessi Curdi della Siria, ed i loro alleati delle “forze democratiche siriane” (spezzoni di vecchie formazioni jihadiste facenti capo al sedicente Esercito Libero Siriano), hanno per primi essi stessi violato la sovranità del loro Paese consegnando nelle mani dell’alleato esercito statunitense una serie di basi su suolo siriano;
3) Viene taciuto che gli stessi statunitensi si servono di queste basi per attaccare e minacciare l’esercito nazionale siriano che difende l’unità, l’indipendenza e la sovranità del Paese, mentre contemporaneamente l’esercito nazionale viene bombardato anche da Israele, che cura anche i feriti di Fateh al-Sham (ex al-Nusra) e dell’ISIS nei propri ospedali..
L’ultimo deliberato bombardamento dell’esercito USA sulle posizioni dell’esercito siriano a Deir Es Zor, città assediata dalle bande dell’ISIS, che ha causato decine di morti, favorendo così gli attacchi dell’ISIS, dovrebbe far riflettere sulle reali intenzioni degli USA. Gli Statunitensi stanno anche sabotando la tregua umanitaria concordata con la Russia, non onorando l’impegno preso di costringere le formazioni armate da loro controllate a cessare il fuoco ed a distaccarsi dai terroristi estremisti dell’ex al-Nusra ed ISIS.
Fin dagli anni ’90 i neocons USA nei loro documenti indicavano una serie di Paesi da distruggere perché non compatibili con i loro sogni di domino mondiale, tra cui la Siria, la Jugoslavia, l’Iraq, l’Iran, la Libia e altri Paesi. A partire dall’amministrazione di Bush jr le indicazioni dei neocons sono state adottate ufficialmente come strategia della politica estera statunitense. Di questo ci sono oltre che i fatti, varie testimonianze, a partire da una famosa intervista rilasciata nel 2008 dal generale Wesley Clark.
Come conseguenza, fin dal 2011 è stata formata una vasta alleanza filo-imperialista con l’intento di distruggere lo Stato siriano laico e progressista, uscito dalle lotte anticoloniali, così come già è stato fatto per la Jugoslavia, Libia, Iraq, Ucraina, Somalia, Costa d’Avorio, Sudan.
Di questa alleanza fanno parte USA, UE, NATO, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, e bande di mercenari jihadisti terroristi che fanno capo all’ex al-Nusra, ISIS, e presunte formazioni “moderate” legate agli USA.
Il movimento curdo siriano, che dichiara di voler lottare per una Siria democratica, dovrebbe precisare se intende portare avanti le proprie rivendicazioni nell’ambito dello Stato laico e progressista siriano, che ha assicurato pieni diritti alle donne, e alle numerose religioni ed etnie presenti nel Paese, o cercare illusoriamente di realizzare le proprie aspirazioni a costo della distruzione della Siria, programmata da tempo dall’imperialismo, con la creazione di uno staterello fantoccio, stile Kosovo.
Altrettanta chiarezza richiediamo a tutte quelle organizzazioni sedicenti pacifiste e di sinistra, che non mancano occasione di attaccare e demonizzare il governo della Siria, e che oggi trovano un facile alibi nell’adesione all’ambigua manifestazione del 24.
Roma, 19 settembre 2016
Lista No Nato – Rete No War Roma

Questo mondo merita una rivoluzione

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In memoria di Costanzo Preve

“Sono molto contento che il mio saggio Il Bombardamento Etico, scritto negli ultimi mesi del 1999 e pubblicato in lingua italiana nel 2000, sia stato tradotto in greco. Rivedendo la traduzione, precisa, corretta e fedele, mi sono reso conto che purtroppo il saggio non è “invecchiato” in dieci anni, ma in un certo senso è ancora più attuale di dodici anni fa. E’ ancora più attuale, purtroppo. E su questo “purtroppo” intendo svolgere alcune rapide riflessioni. Dodici anni non sono pochi, ed è possibile capire meglio che l’uso strumentale e manipolatorio dei cosiddetti “diritti umani” ed il processo mediatico di hitlerizzazione simbolica del Dittatore che di volta in volta deve essere abbattuto (Milosevic, Saddam Hussein, Gheddafi, Assad, domani chissà?) inauguravano una fase storica nuova, che potremo definire dell’intervento imperialistico stabile nell’epoca della globalizzazione con l’uso massiccio della dicotomia simbolica di sicuro effetto Dittatore/Diritti Umani.
L’importantissimo articolo 11 della Costituzione Italiana, entrato in vigore nel 1948 e mai più da allora formalmente abrogato, recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. E’ storicamente chiaro che questo articolo segnala una profonda autocritica morale dell’intero popolo italiano per aver aderito alla guerra di Mussolini fra il 1940 e il 1945. In ogni caso, la presenza dell’articolo 11 ha da allora costretto i governi italiani ad una sorta di ipocrisia istituzionalizzata permanente. Tutte le guerre che sarebbero state fatte dopo il 1948, all’interno dell’alleanza geopolitica NATO a guida USA, avrebbero dovuto costituzionalmente “essere sempre ribattezzate missioni di pace, o missioni umanitarie. Possiamo dire che così l’ipocrisia, la menzogna e la schizofrenia sono state in Italia istituzionalizzate e “costituzionalizzate”. Lo dico con tristezza, perché vivo in questo Paese.”

La prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca de Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente (luglio 2012) prosegue qui.

L’Europa ha disperatamente bisogno di un cambio di regime

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“Tutto questo mi dice una cosa: l’Europa è completamente fallita, moralmente ed intellettualmente. Spesso sentiamo parlare della cosiddetta “civiltà europea” o dei “valori europei”, ma sono frasi senza senso. Se l’Europa moderna avesse dei reali valori di civiltà sarebbe stata capace di affrontare la crisi dei rifugiati. Diavolo, argomenterei perfino che, se l’Europa avesse un qualsiasi valore reale, questa crisi non sarebbe accaduta, tanto per incominciare, semplicemente perché la Unione Europea non sarebbe stata una complice così volenterosa dei grandi schemi statunitensi per la destabilizzazione di tutto il Magreb ed il Mashrek. Proprio come un corpo in salute può far fronte a traumi ed infezioni che sarebbero devastanti per un corpo infettato dall’HIV, così una società in salute può affrontare problemi molto maggiori rispetto a quelli attualmente di fronte all’Europa, ma ciò richiede un “sistema immunitario” intellettuale, morale e spirituale, cioè un qualcosa di cui l’Europa odierna manca completamente.
Quello di cui l’Europa oggi ha disperatamente bisogno è un cambio di regime. E non intendo affatto “regime” in senso cattivo, lo intendo piuttosto in senso di cambio di “sistema”. Proprio come gli USA, a proposito. Sia in USA che in Europa, il sistema politico è marcio fino all’osso, e non ha senso mettere una persona diversa, potenzialmente appena migliore, a capo di un sistema o regime inguaribilmente cattivo. Gli europei del nord erano soliti guardare dall’alto in basso i loro vicini del sud, ma adesso sono coinvolti anche loro dal caos prodotto da un sistema politico completamente disfunzionale: dalla Grecia alla Norvegia, il caos è ovunque.
Per quanto riguarda il problema della immigrazione, credo che sia un affare concluso e niente lo fermerà. L’Europa “Bianca” è finita, è storia. Quei partiti politici che promettono di fermare o invertire quel flusso stanno semplicemente mentendo al loro elettorato. Sì, certo, qualche politico può, una volta al potere, chiudere la “porta principale” suppergiù “tappando” i “buchi” principali che permettono agli immigrati di entrare, ma essi continueranno semplicemente ad arrivare attraverso l’entrata secondaria (potrei scrivere un intero articolo solo su questo). Si può paragonare questa situazione alla patetica “guerra alla droga”, altro futile tentativo di affrontare una “pressione osmotica” di gran lunga troppo grande per essere contrastata da qualsiasi confine o legge. In entrambi i casi, la pressione sociale ed economica è così immensa che non c’è nulla che possa fermarla (e, se credete nella economia capitalistica, allora la spiegazione è pure più semplice, è solo una questione di domanda e offerta: poiché il prezzo dell’ingresso sarà sempre più basso della domanda, l’offerta fornirà sempre le merci).
Suppongo che ci sia una certa eleganza karmica nella conquista dell’Europa da parte di coloro che hanno subito le sue politiche imperialiste e colonialiste (e aspettate finché gli Ucraini cominceranno ad entrare in massa!). Ma questo è solo in astratto. Nella realtà, gente innocente da entrambe le parti soffre a causa degli eventi scatenati dal loro nemico comune, la plutocrazia Anglo-Sionista che domina l’Impero. Finché questo fatto cruciale rimarrà inesprimibile, e perciò non espresso, la crisi continuerà e le vittime continueranno ad attaccarsi a vicenda invece di girarsi contro il loro nemico comune. È per questo che personalmente, per quanto possa essere arduo difendere questa posizione, io propongo ancora un’alleanza fra europei ed immigrati contro coloro che cercano di distruggere il continente europeo, il Magreb ed il Mashrek. I fanatici wahabiti in Siria, i teppisti immigrati di Colonia, la mafia kosovara, i neo-nazisti della Germania (e dell’Ucraina), i “Lupi Grigi” della Turchia, sono tutti strumenti nelle mani dello stesso padrone che cerca solo di dividere per governare. La buona notizia è che tutte queste forze sono composte sempre da una minoranza di teppisti, e ciò lascia aperta la porta alla possibilità di una unione della gente perbene ed onesta in difesa del loro interesse comune.”

Da Qualche pensiero sconnesso sui fatti di Colonia di The Saker.

Sul nuovo radar di Poggio Renatico

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Interrogazione a risposta scritta n. 1653 della X Legislatura, Assemblea regionale Emilia Romagna, circa il rischio ambientale e alla salute conseguente all’installazione di un nuovo radar a Poggio Renatico (FE).
Iscritta al prot. n. 51137 del 24/11/2015.

Premesso che

  • il centro radar di Poggio Renatico ha sede nel vecchio scalo aeroportuale “Giuseppe Veronesi”, ubicato a meno di 4 chilometri dall’omonimo comune del ferrarese;
  • l’installazione sorse nel 1951 quando lo Stato Maggiore dell’Aeronautica decise di localizzarvi, a titolo sperimentale, una piccola antenna radar mobile che operava in coppia con l’analoga postazione di Punta Marina (Ravenna);
  • diciannove anni più tardi a Poggio Renatico fu trasferito l’11° Gruppo Radar che venne integrato nel sistema di comando e controllo NATO denominato “Nadge”, volto a sorvegliare i confini dei Paesi dell’Alleanza, dalla Turchia alla Norvegia. Nel 1983 la base acquisì maggiore importanza grazie all’installazione di una nuova e più potente stazione radar e del sistema di collegamento con i velivoli NATO AWACS entrati in funzione in Europa;
  • all’inizio degli anni ’90 la NATO deliberò il finanziamento per la costruzione a Poggio Renatico di una sede protetta con tre piani interrati, infrastrutture a prova di esplosione atomica ed una sala operativa destinata ad ereditare i compiti del centro operativo regionale di Monte Venda;
  • nel 1998 la base accolse il quartier generale del Centro COFA sino ad allora ospitato a Vicenza presso la sede della 5° Forza Aerea Tattica della NATO (ATAF). L’anno successivo il COFA di Poggio Renatico ebbe il suo battesimo di fuoco partecipando alla pianificazione e alla conduzione dei bombardamenti in Serbia e Kosovo durante l’operazione “Allied Force”;
  • il centro, che vedeva originariamente la partecipazione di solo personale italiano, passò ad ospitare militari provenienti da tredici Paesi dell’Alleanza (Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Turchia e Ungheria);
  • a partire del 2001 nella base radar sono state ampliate le infrastrutture abitative per i militari e le famiglie al seguito, grazie alla realizzazione di oltre 270 nuovi alloggi. La fase di ampliamento ed ammodernamento del COFA e del CAOC5 è continuata sino al giugno 2004;
  • il piano di potenziamento e centralizzazione delle funzioni aeree NATO comporterà la portata e le emissioni dei sistemi di trasmissione radar e, di conseguenza, i rischi di inquinamento elettromagnetico;
  • in passato gli impianti della base erano stati oggetto d’indagine come possibile causa d’insorgenza tumorale tra la popolazione locale. Nel gennaio 2003 la stampa locale riportò i risultati di un’indagine epidemiologica dell’ASL di Ferrara che avrebbe rilevato l’incidenza “statisticamente anomala, sopra la media attesa localmente” di “tumori infantili a livello cerebrale”. L’amministrazione comunale di Poggio Renatico, ricevuto il rapporto dell’ASL, decise di richiedere l’intervento dell’Agenzia regionale per l’ambiente per monitorare l’intensità delle emissioni delle antenne NATO. Da allora non si è saputo più nulla;
  • oggi l’Aeronautica Militare, tramite il Comando Operazioni Aeree (COA) di Poggio Renatico (Ferrara), assicura la sorveglianza e la difesa dello spazio aereo nazionale, 24 ore su 24, attraverso un sistema integrato di radar basati a terra e l’impiego di velivoli intercettori, garantendo la sicurezza dei cieli anche in occasione di grandi eventi;

considerato che

  • l’innovazione tecnologica in corso nelle basi NATO porterà a breve ali installazione di un nuovo radar a Poggio Renatico, i lavori sono iniziati nel mese di dicembre 2014. Radar caratterizzato da una portata operativa di circa 500 Km, il RAT31DL è in grado di operare in reale e completa agilità di frequenza e può supportare diverse funzioni come la difesa da missili anti-radiazione e da contromisure elettroniche. Il nuovo radar, fatto per durare 20 anni, sostituirà quello attuale. A queste innovative funzioni è convinzione diffusa che potrebbero corrispondere un impatto di notevole entità di tipo ambientale e rischi per la salute dei cittadini delle aree limitrofe alla base militare;

 interrogano la Giunta regionale e l’Assessore competente per sapere

  • se il nuovo radar può o meno arrecare rischi per la salute dei cittadini delle aree limitrofe alla base militare;
  • se sono state effettuati negli ultimi anni verifiche e indagine epidemiologica, in caso positivo che risultati hanno prodotto, in caso negativo se non ritenga opportuno effettuare una seria indagine per verificare se vi sono anomalie di tipo epidemiologico;
  • se è a conoscenza dell’installazione del nuovo radar, in caso positivo quali determinazioni ha preso in proposito, in particolare per quanto riguarda la verifica dei rischi di natura ambientale e sanitaria che possono connettersi a tale installazione.

Le consigliere
Giulia Gibertoni
Raffaella Sensoli
(Movimento 5 Stelle)

Fonte

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L’Atlante dei pacifinti

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Risposta ad un’amica “perplessa”

Cara amica, hai ragione ad indignarti per questo Atlante che si autodenuncia, come dici tu, “non vedo non sento non parlo”.
Ma….
Ma che ti aspetti da un carrozzone, la Tavola della pace (adesso si son divisi, è nata anche Rete della pace), che riuscì a non fare nulla contro la guerra nemmeno mentre Sirte in Libia era azzerata dalle bombe NATO? Alla marcia per la pace Perugia-Assisi del 2011, 25 settembre 2011, appunto mentre i Libici erano maciullati nelle ultime settimane, la guerra NATO fu praticamente ignorata. Avevano ragione i nostri cartelli ad urlare invano “Cinque guerre italiane in 20 anni 1991-2011, dove sono gli indignati?”.
Che ti aspetti da un carrozzone, la Tavola della pace, che in piena guerra in Libia come manovra diversiva andava a fare una delegazione in… Afghanistan?
Cosa ti aspetti da una Tavola della pace che durante la guerra NATO detta del Kosovo nel 1999 accoglieva fra i marcianti -oh, per pochi metri! – il primo ministro belligerante D’Alema… ricordo come ieri quando invano gli urlammo “vergogna!” mentre conversava con gli organizzatori.
Cosa ti aspetti da una Tavola della pace che nel 2012 e 2013 organizzava manifestazioni con il cosiddetto Consiglio Nazionale Siriano, in Italia rappresentato dai Fratelli Musulmani, e ben finanziato da Arabia Saudita e altri modelli di pace?

I caccia della NATO sganciarono ordigni inesplosi

“Undici zone di rilascio al largo delle coste pugliesi. La mappa diffusa dalla Capitaneria di Porto di Molfetta durante il conflitto in Kosovo, parla chiaro: i caccia della NATO sganciarono ordigni inesplosi – probabilmente caricati con uranio impoverito – nel basso Adriatico in undici aree, due delle quali a 12 miglia dalla costa.
Questa mappa si infranse, qualche mese dopo la fine della guerra, nel disconoscimento dell’unità di crisi italiana che si occupava della vicenda bombe. «Circa la mappa del basso Adriatico indicante 11 siti di “probabile rilascio”… i rappresentanti del Comando Generale delle Capitanerie di Porto e del Ministero della Difesa non ne hanno riconosciuto l’attendibilità». Ma è difficile credere che allora la mappa non sia stata sconfessata proprio per prevenire possibili rivendicazioni. Quella mappa, redatta sulla base delle indicazioni fornite dalle Autorità militari, avrebbe legittimato la richiesta di una bonifica del basso Adriatico. Disconoscerla ha significato “legittimare” una bonifica mai avvenuta. Le operazioni di sminamento condotte dalla Marina militare e dalla NATO, si sono fermate al di là del Gargano, escludendo la costa pugliese a sud di Manfredonia. Il fermo bellico disposto dal governo nel ’99 fu imposto anche ai pescatori pugliesi, ma accertato che la bonifica del basso Adriatico non è mai stata realizzata, ci chiediamo perché all’epoca del conflitto sia stato ordinato anche a quelle marinerie la sospensione delle attività: un intervento indispensabile, si diceva allora, per il recupero degli ordigni. In Puglia il fermo bellico ha garantito, peraltro con un anno di ritardo, solo gli indennizzi agli operatori. Un tardivo rimborso spese, insomma: il contentino fatto apposta per tacitare gli animi. Di misure di sicurezza e prevenzione degli incidenti sul lavoro, neanche a parlarne. “Continueremo comunque a pescare bombe” – ci disse all’epoca un pescatore, profeta suo malgrado.
Di contro alla rassegnazione dei pescatori, le autorità militari ostentavano sin d’allora il successo delle prime operazioni di bonifica. Ancora, dai documenti ufficiali si apprendeva che le aree designate per il rilascio del carico bellico fossero sei in tutto l’Adriatico (mentre la sola mappa redatta a Molfetta, ne segnalava undici) e che le zone dove erano stati “effettivamente affondati gli ordigni” fossero state “tutte indagate” con le prime operazioni di bonifica. Ma i dati ufficiali sembrano smentiti dalla realtà: molti i ritrovamenti accidentali di bombe finite nelle reti dei pescatori anche dopo la bonifica, mentre sempre l’Icram dichiarava già nel ’99 (verbale della riunione del 30 agosto 1999 dell’Unità di crisi per gli ordigni NATO affondati in Adriatico) l’eventualità che, a operazioni concluse, fosse “rimasto sui fondali adriatici un numero rilevante, probabilmente dell’ordine delle migliaia, di ordigni dispersi” rappresentati soprattutto da piccole bomblets, dell’ordine di grandezza di una ventina di centimetri, provenienti dall’apertura delle bombe a grappolo. La portata di queste dichiarazioni fu tale da indurre il governo ad avviare una nuova fase di bonifica qualche mese più tardi (gennaio 2000). Ma sull’attendibilità della mappa con le zone di rilascio nei mari di Puglia pendeva ancora l’invalicabile veto della NATO, e così le autorità decisero che, di nuovo, il Basso Adriatico potesse attendere.
Nessuna bonifica neppure per gli ordigni a caricamento speciale (iprite e composti contenenti arsenico), affondati nel basso adriatico nel corso della seconda guerra mondiale.
A seguito di specifiche campagne di indagine, l’allora Icram, oggi Ispra, ha accertato la presenza sui fondali del Basso Adriatico di almeno ventimila ordigni con caricamento chimico…”.

Da Armi chimiche: un’eredità ancora pericolosa. Mappatura, monitoraggio e bonifica dei siti inquinati dagli ordigni della seconda guerra mondiale, a cura di Legambiente e Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche, pp. 12-13.

Oggi, sul Portale Ambientale della Regione Puglia, alla voce Disinquinamento del Basso Adriatico, si legge:
“La verifica della presenza degli ordigni bellici nelle aree individuate (già effettuata nel Porto di Molfetta) sarà effettuata dall’ISPRA con il concorso del Centro di Ricerca della NATO “NURC” (NATO Underwater Research Centre). Il piano prevede che la bonifica degli ordigni bellici sia attuata dallo SDAI – Corpo Speciale dello Stato Maggiore della Marina Militare.
Il nucleo SDAI, una volta rinvenuti gli ordigni a caricamento speciale, si avvale del supporto del Centro Tecnico Logistico Interforze Nucleare Biologico e Chimico (CETLI NBC) di Civitavecchia e dell’11° Reggimento Genio Guastatori di Foggia. Obiettivo complementare del Piano è quello di definire lo stato di qualità dei fondali delle aree in esame (prioritarie e non, per un totale di 19) e accertare eventuali successivi interventi di messa in sicurezza e bonifica, a tal fine l’ARPA Puglia, di concerto con il CETLI NBC, effettuerà le apposite determinazioni analitiche dei fondali marini.
L’ARPA Puglia, di concerto con la Direzione Marittima di Bari, sta curando l’organizzazione di corsi di informazione e formazione rivolti agli operatori della pesca circa le migliori pratiche da adottare nel caso di salpamento a bordo di residuati bellici o altri rifiuti pericolosi.”

Ma il sito web specifico per il programma risulta inattivo.

[Il Pentagono, ovverossia Il peggior inquinatore del Pianeta]

La falsità è il ​​segno distintivo del moderno imperialismo statunitense

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“La falsità è allora il ​​segno distintivo del moderno imperialismo statunitense.
L’attuale impero USA è un progetto più subdolo dell’impero britannico – perché almeno allora i Britannici riconoscevano apertamente di avere un impero.
Ma gli Stati Uniti non riconoscono mai la costruzione del proprio impero – non solo ciò, i propagandisti imperiali hanno la faccia tosta di accusare falsamente altri di espansionismo territoriale e di cercare di costruire i loro propri imperi – ad esempio sostenendo che il leader jugoslavo Slobodan Milosevic voleva costruire una “Grande Serbia” o che la Russia ha “invaso” l’Ucraina.
E’ chiaro, da qualsiasi valutazione oggettiva, che l’imperialismo USA è la principale causa di instabilità nel mondo di oggi e lo è da molti anni. La più grave minaccia alla pace globale certamente non era Milosevic, Ahmadinejad, Assad, o uno qualsiasi degli altri “Nuovi Hitler” emersi negli ultimi trenta anni – ma l’aggressore seriale che mette nel mirino i loro Paesi.
Il sorgere dello Stato Islamico (IS) e la crescita di gruppi jihadisti in generale è direttamente causata dalle aspirazioni egemoniche degli Stati Uniti in Medio Oriente – e la loro decisione di colpire i governi secolari, dalla mentalità indipendente come quelli in Irak e Siria, che erano baluardi contro il fondamentalismo islamico.
Mentre in Europa, la sponsorizzazione USA di un “cambio di regime” in Ucraina – al ritmo di 5 miliardi di dollari – e i tentativi di portare il Paese nel suo impero, ha contribuito a causare una crisi umanitaria, in cui più di 2.000 persone hanno perso la vita e oltre 100.000 sono diventate profughi, secondo le Nazioni Unite.
“I nostri Paesi”, allora. Quanto sangue ancora verrà versato nei piani espansionistici di Washington? Quanti Paesi saranno ancora distrutti? E per quanto tempo ancora ci dovremo aspettare che l’esistenza stessa dell’Impero USA venga negata?”

Da “I nostri Paesi” – il piccolo lapsus così rivelatore, di Neil Clark (traduzione nostra).

Kosovo e Ucraina: analogie e differenze

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Neil Clark per rt.com

Ci sono stati almeno due Paesi in Europa nella storia recente che hanno intrapreso operazioni militari “anti-terrorismo” contro “separatisti”, ma hanno ottenuto due reazioni molto diverse dalle élite occidentali.
Il governo del Paese europeo A lancia quella che definisce una operazione militare ‘anti-terrorismo’ contro ‘separatisti’ in una parte del Paese. Noi vediamo immagini sulla televisione occidentale di abitazioni che vengono bombardate e un sacco di persone in fuga. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e le altre potenze della NATO condannano ferocemente le azioni del governo del Paese A e lo accusano di perpetrare ‘genocidio’ e ‘pulizia etnica’ e dicono che vi è una urgente ‘crisi umanitaria’. Politici occidentali e giornalisti dell’establishment ci raccontano che ‘bisogna fare qualcosa’. E qualcosa è fatto: la NATO lancia un intervento militare ‘umanitario’ per fermare il governo del Paese A. Il Paese A è bombardato per 78 giorni e notti. Il leader del Paese (che è etichettato come ‘il nuovo Hitler’) è accusato di crimini di guerra – e viene poi arrestato e inviato con un aereo della RAF per essere processato per crimini di guerra a L’Aia, dove muore, non-condannato, nella sua cella carceraria.
Il governo del Paese europeo B lancia quella che definisce una operazione militare ‘anti-terrorismo’ contro ‘separatisti’ in una parte del Paese. La televisione occidentale non mostra immagini, o almeno non molte, di abitazioni che vengono bombardate e persone in fuga, anche se altre emittenti televisive lo fanno. Ma qui gli Stati Uniti, Regno Unito e le altre potenze della NATO non condannano il governo, o lo accusano di aver commesso ‘genocidio’ o ‘pulizia etnica’. Politici occidentali e giornalisti dell’establishment non ci dicono che ‘bisogna fare qualcosa’ per impedire che il governo del Paese B uccida la gente. Al contrario, gli stessi poteri che hanno sostenuto l’azione contro il Paese A, sostengono l’offensiva militare del governo nel Paese B. Il leader del Paese B non è accusato di crimini di guerra, né è etichettato come ‘il nuovo Hitler’, nonostante il sostegno che il suo governo ha da gruppi nazionalisti estremi, della destra radicale, ma in realtà, riceve generose quantità di aiuti.
Chiunque difenda le politiche del governo nel Paese A, o in alcun modo contesti la narrazione dominante in Occidente viene etichettato come “negatore del genocidio” o un “apologeta dell’omicidio di massa.” Ma un tale obbrobrio non aspetta coloro che difendono l’offensiva militare del governo nel Paese B. Sono coloro che si oppongono alle sue politiche che vengono infangati.
Ciò che rende i doppi standard ancora peggiori, è che da qualsiasi valutazione oggettiva, il comportamento del governo nel Paese B è stato di gran lunga peggiore di quello del Paese A e che più sofferenza umana è stata causata dalle sue azioni aggressive.
Nel caso in cui non abbiate ancora indovinato – il Paese A è la Jugoslavia, il Paese B è l’Ucraina. Continua a leggere

Uno sparo dal mondo

10450530_10152523470801678_986835566447526021_nEcco il titolo piú appropriato per una comunicazione mediatica su quanto avviene nel mondo oggi…, appena fuori dai nostri confini o piú in là ove tramonta il sole.
Ucraina, Libia, Egitto, Siria, Israele e Gaza, Libano, Irak, Nigeria, Sudan, Somalia, Yemen, Pakistan, Afghanistan… quelli in cui lo “sparo” trova grosso riscontro sui media mondiali, piú o meno a secondo di interessi geopolitici, economici e pure ideologici.
Una caterva gli “spari” con silenziatore, quelli “locali” che ancora non innescano alcun interesse o considerati circoscritti a nazioni ancora “controllabili”.
Ciad, Sierra Leone, Repubblica del Congo, Centrafrica nel continente nero.
Cina (con gli Uiguri musulmani), Ceylon, Filippine, India e tante altre nazioni nel mondo…, tutti Paesi e regioni che non vengono in mente fin quando non ne sentiamo il nome in tv o ne abbiamo notizia dai giornali e da internet.
Già, in Europa siamo in pace grazie alla Unione Europea…, così pontificano i signori della dittatura UEista.
Peccato abbiano scatenato una guerra civile in Ucraina rovesciando con la illusione dell’euro un governo democraticamente eletto.
E non guardiamo indietro quando l’UEismo, al servizio degli USA e della NATO, ha aggredito la Serbia, “creato” il Kosovo e partecipato attivamente a tutte le “primavere arabe” che hanno portato al bagno di sangue odierno.
E l’ONU? Assiste, dibatte, ammonisce e…, soprattutto, tace.
Certo non è l’Occidente il solo “male del mondo”, il demone della guerra alligna ovunque. Purtroppo sembra pure connaturato alla natura umana.
Ma, filosofia a parte, il Grande Satana ci mette lo zampino, dove e quando vuole.
Ed i suoi diavoletti scatenano sulla terra veri e propri Sabba infernali, mostrando nel contempo angelici volti alla Renzi.
“Uno sparo dal mondo”… nella speranza che non si tramuti, prima o poi, in un botto definitivo.
Vincenzo Mannello

Il Kosovo, ancora il Kosovo

kusavo flag“Nei drammatici avvenimenti e scenari di guerra in Ucraina e non solo, la cosiddetta “questione Kosovo” attraversa analisi, riferimenti, raffronti, alle volte in modo consono, altre volte strumentale. Chi semina vento raccoglie tempeste, si potrebbe sintetizzare, riferendosi alle strategie e scelte delle leadership occidentali e statunitensi in primis.
Un aspetto sicuramente emerge come dato di fatto, grazie all’”operazione Kosovo”, gestita dalla NATO, lo stravolgimento e annichilimento del Diritto Internazionale, cominciato con il processo di distruzione della Jugoslavia e approdato alla rapina della provincia alla Serbia, ha aperto scenari di destabilizzazione e conflittualità dilaganti e a macchia d’olio in ogni angolo del mondo. Ma il Kosovo resta un modello solo per quelle realtà filo occidentali e vogliose di vendere la propria indipendenza e sovranità ai grandi poteri finanziari e militari occidentali.
Al contrario per paesi e popoli alla ricerca di autonomi ed indipendenti processi di sviluppo e soluzione dei propri problemi, il Kosovo non può essere un modello; semplicemente perché il Kosovo è una soluzione imposta con una guerra della NATO, estraneo a qualsiasi processo di emancipazione, liberazione o indipendenza di un popolo.
Il Kosovo è semplicemente un entità che esiste e sopravvive solo grazie alla presenza di forze militari straniere che impongono lo status quo, per propri interessi geostrategici e per una scelta geopolitica, estranea agli stessi interessi della popolazione onesta albanese. Senza di queste in pochi giorni tornerebbe ad essere ciò che è sempre stato, una provincia serba in cui hanno da sempre convissuto, quattordici minoranze paritariamente, e non ciò che è oggi: un narcostato nel cuore dell’Europa, teatro di pulizie etniche, violenze, terrore e criminalità, imposte da una dirigenza criminale e terrorista alla popolazione civile, occupato militarmente da migliaia di soldati stranieri (occidentali) e dalla più grande base statunitense dai tempi del Vietnam.”

Il Kosovo, ancora il Kosovo, dopo la Crimea, ora anche nell’Ucraina orientale, la “questione Kosovo” ineluttabilmente riemerge, come una metastasi, di Enrico Vigna continua qui (il collegamento inserito è nostro).

La “giurisdizione universale” dell’Occidente

brennan in ucraina“Dunque, ricapitoliamo. In Siria, abbiamo un’insurrezione violenta, appoggiata dall’esterno (petromonarchi e occidentali), che non disdegna di dividere il paese secondo “cantoni” etnico-confessionali (operazione, questa, già tentata alla metà degli anni Venti del secolo scorso e gradita ad Israele da almeno una trentina d’anni). Ma il “mostro” è solo e sempre il governo, peraltro legittimo perché riconfermato anche nelle ultime tornate elettorali che le televisioni ed i giornali americani ed europei (si fa per dire) giudicano farsesche mentre non battono ciglio quando a Kiev o altrove riescono ad insediare, con raggiri e violenze, uomini fedeli agli interessi occidentali.
Che cosa sia il “nuovo governo ucraino” è presto detto: il risultato di una manovra di palazzo, architettata dall’esterno e supportata dalla messinscena barricadiera di Maydan. Un’accolita di prezzolati appoggiati in piazza da energumeni professionisti al cui confronto il “presidente” georgiano che già tentò nel 2008 una spericolata provocazione contro la Russia fa la figura del sincero e disinteressato patriota del suo paese.
Adesso, questo “nuovo governo”, che ha immediatamente ricevuto l’investitura dei “mercati” e delle cancellerie europee, oltre che l’incondizionato sostegno dell’America e di Israele, afferma di combattere il “terrorismo” nelle regioni orientali dell’Ucraina, legate alla Russia per ragioni storiche, culturali ed economiche.
A dire il vero, è l’intera Ucraina ad essere dipendente dalla Russia dal punto di vista economico, a meno che i suoi attuali “dirigenti” pensino che l’Unione Europea – che non riesce più a convincere i suoi stessi sudd… ops, cittadini, di avere una qualche ragion d’essere – sia capace di sostenere gli ucraini, garantendo loro pace e benessere (cioè: l’euro, il pareggio di bilancio, il Fiscal Compact e il MES, le “riforme strutturali” più varie ed eventuali, tra cui un “debito pubblico” inestinguibile ed il “commissariamento” dell’Unione sine die).
Così, in quest’orgia di mistificazione, non stupisce che i media-pappagallo occidentali ripetano che Kiev sta inviando truppe contro i “terroristi”, quando i veri terroristi erano quelli di Maydan che lanciavano molotov alla polizia senza che nessun “autorevole commentatore” di casa nostra, aduso a scandalizzarsi per un corteo di “No-Tav”, si scomponesse più di tanto.
Oltre a ciò, la propaganda imbeccata dall’America sostiene che la Russia ed il suo “zar”, Vladimir Putin (sempre più paragonato a Hitler: che novità!), sono i veri responsabili dei disordini che stanno montando in Ucraina. Si tratta – è bene ricordarlo – degli stessi “organi d’informazione” che non hanno mai trovato nulla da eccepire nell’invio di armi e soldi, da parte degli Stati del Golfo e dei loro mentori occidentali, alle bande che combattono il governo siriano e che hanno ricevuto ogni tipo d’onore nelle varie sedi internazionali e diplomatiche, mentre i legittimi rappresentanti della Siria ne venivano esclusi in quanto “colpevoli” – loro e solo loro – d’ogni sorta di violenza.
Come se tutto ciò non bastasse, c’è un altro fondamentale elemento che viene escluso dalle analisi (!?) dei giornalisti occidentali tutti intenti ad additare la Russia quale “minaccia alla pace e alla sicurezza in Europa” (sta minacciando i tedeschi, i francesi, gli italiani? l’Ucraina è forse già nell’UE?).
Per Mosca, l’Ucraina rientra nel “cortile di casa”. Non può tollerare, al di là della presenza di componenti russofone e cristiano ortodosse nella sua popolazione, che in un paese così a ridosso delle sue frontiere s’insedi un governo ostile, fonte di problemi e provocazioni. Eppure anche questo fatto non viene minimamente, e volutamente, preso in conto.
Ma la cosa più sbalorditiva è che mentre alla Russia si addossa ogni responsabilità stigmatizzandone le “ingerenze” negli affari di un altro Stato, nessun “grande opinionista” si pone il dubbio su che cosa c’entrino l’America ed i suoi “alleati” nelle faccende interne dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia e della Siria… La risposta è tuttavia implicita e scontata: gli Occidentali hanno il diritto d’intervenire dappertutto, per il semplice fatto che essi sono i paladini della “libertà” e dei “diritti umani”, con la sacrosanta missione di difenderli e ristabilirli ovunque essi siano “minacciati”, anche a migliaia di chilometri di distanza. Si sono arrogati, in un vero delirio d’onnipotenza, una sorta di “giurisdizione universale”.”

Da Siria e Ucraina: schizofrenie mediatiche a confronto, di Enrico Galoppini.

Gli Stati Uniti vogliono distruggere il “ponte” ucraino tra l’UE e la Russia – intellettuali tedeschi sostengono Putin

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Membri della società civile tedesca hanno scritto una lettera aperta al presidente russo Vladimir Putin, condannando la russofobia nei mass media e nell’establishment politico tedesco, mostrando supporto per le azioni di Mosca nella crisi ucraina in corso.
Il tenente colonnello dell’aviazione tedesca in pensione Jochen Scholz ha scritto una lettera aperta al leader russo in risposta al discorso che Putin ha fatto il 18 Marzo 2014 a margine della riunificazione della Crimea con la Russia. La lettera è stata controfirmata da centinaia di tedeschi, tra cui avvocati, giornalisti, medici, militari, studiosi, scienziati, diplomatici e storici.
In tale lettera gli intellettuali tedeschi affermano che il discorso di Putin “si è appellato direttamente al popolo tedesco” e meritava una “risposta positiva che corrisponda ai veri sentimenti dei tedeschi.”
La lettera riconosce che l’Unione Sovietica ha infatti svolto un ruolo decisivo nella liberazione dell’Europa dalla Germania nazista e ha sostenuto la riunificazione della Germania e la sua adesione alla NATO dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione del Patto di Varsavia.
All’epoca, il presidente degli Stati Uniti George Bush Sr. aveva assicurato alla Russia che la NATO non si sarebbe allargata verso est, eppure nonostante la dimostrazione di fiducia da parte di Mosca, gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno violato tale impegno, dice Scholz.
“L’espansione della NATO nelle ex repubbliche sovietiche, la creazione di basi militari nei Paesi dell’ex Patto di Varsavia e la messa a punto di un sistema di difesa antimissilistico in Europa orientale, in contemporanea con il ritiro unilaterale dal trattato ABM degli Stati Uniti, costituiscono una flagrante violazione delle promesse,” si legge nella lettera.
Secondo l’autore, tale è la dimostrazione del potere e della disponibilità dell’Occidente a confrontarsi con Mosca in risposta al recente consolidamento economico e politico della Russia, che è diventato evidente dopo che Vladimir Putin è stato eletto presidente nel 2000.
In un’intervista con RT, Scholz ha elaborato la sua posizione sostenendo che gli interessi degli Stati Uniti e la visione dell’ordine mondiale, in cui al continente è assegnato il ruolo di “vassalli” di Washington, sono diversi dagli interessi europei.
“Durante la Guerra Fredda, gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Europa erano quasi il cento per cento identici. Ma dal 1990 le cose sono cambiate. Gli interessi europei sono oggettivamente diversi da quelli degli Stati Uniti”, ha detto a RT. “Quindi il nostro compito qui in Europa, e certamente anche la Russia appartiene ad essa, è quello di prendere le nostre cose nelle nostre mani. Per lavorare reciprocamente in pace e cooperazione nel rispetto dei diritti umani”.
Gli europei sono ora “considerati un ostacolo sulla via delle intenzioni americane nella regione”, come rivelato dalla conversazione telefonica trapelata tra l’Assistente Segretario di Stato per l’Europa Victoria Nuland e l’ambasciatore degli Stati Uniti, afferma Scholz.
Avendo a mente l’obiettivo geopolitico principale degli Stati Uniti di neutralizzare la Russia, il colonnello in pensione crede, come indicato nella lettera, che Washington ha utilizzato il malcontento ucraino come “strumento” per raggiungerlo.
“Questo modello è stato utilizzato più volte: in Serbia, Georgia e Ucraina nel 2004, in Egitto, Siria, Libia e Venezuela,” recita la lettera indirizzata a Putin.
Discutendo la crisi ucraina più in dettaglio, Scholz ha sottolineato che l’obiettivo principale degli Stati Uniti era quello di “negare all’Ucraina un ruolo di ponte tra l’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea.”
“Al contrario, vogliono portare l’Ucraina sotto il controllo della NATO,” il militare in pensione ha detto a RT, sottolineando che egli sostiene la proposta di Putin di costruire una “casa comune europea,” unita mediante una “zona economica comune da Lisbona a Vladivostok”.
Pertanto, l’autore e i co-firmatari della lettera sostengono le azioni intraprese dalla Russia come contrappeso agli interessi statunitensi.
“Basandoci sullo sfondo degli sviluppi in Europa dal 1990, la creazione di circa 1.000 basi militari statunitensi in tutto il mondo, il controllo da parte statunitense degli stretti di mare, così come il pericolo rappresentato dall’abuso di Maidan nei confronti della flotta russa nel Mar Nero – consideriamo la separazione della Crimea come misura difensiva e, allo stesso tempo, come un avvertimento: questa è una linea che non può essere attraversata”, afferma la lettera aperta.
Pur accettando la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo nel 2008 come un precedente per l’autodeterminazione della Crimea, la lettera sostiene che la differenza di principio in confronto è chiara. A differenza della Crimea, nel caso del Kosovo è stata “violata la legge internazionale dalla guerra aerea della NATO in cui la Germania, purtroppo, ha partecipato.”
In conclusione della sua lettera Scholz ha espresso la speranza che le nazioni europee possano concordare di non interferire negli affari di altre nazioni, ciò agendo come garanzia di pace nel resto del mondo. Ha chiamato Vladimir Putin un alleato dell’Europa e gli ha augurato “forza, resistenza e saggezza.”
Commentando la posizione del governo tedesco nei confronti della Russia, al momento, Scholz ha detto a RT che Berlino è in una “posizione molto difficile”, in quanto come membro della UE e della NATO gli obiettivi di questi blocchi sono in contraddizione con il desiderio tedesco “di sviluppare una più stretta relazione con la Russia.”
“Dobbiamo sviluppare la nostra politica di vicinato con la Russia e in quel modo possiamo andare avanti. Ma in ogni caso non ci dovrebbe essere un’ulteriore espansione della NATO verso i confini russi”, ha detto a RT.

[Fonte – traduzione di F. Roberti]

I duri anni dello sviluppo della sua personalità

Catherine_Ashton“Le radici del Processo di Bologna risalgono ai tempi antichi e riflettono la necessità degli imperi europei di educare cretini da piazzare nelle posizioni delle strutture governative. Da allora il sistema di istruzione Bologna è stato modernizzato. Ad esempio, prima dell’inizio della guerra dell’informazione, diplomati e laureati non dovevano nascondere le loro capacità intellettuali. Oggi hanno imparato a fingere di essere sordi, muti, soggetti a temporanea infermità mentale e a pensiero incoerente, ma tutto ciò gli fa acquisire le caratteristiche di combattenti esperti e capaci in difesa dei valori e delle libertà democratiche. Al giorno d’oggi hanno affinato alla perfezione queste loro uniche abilità.
Catherine Ashton, ad esempio, il capo della diplomazia di Bruxelles, ha iniziato a stare più spesso di prima sotto i riflettori, fornendo così un luminoso esempio di imitazione della perdita di coscienza. Vale la pena di aggiungere qualcosa di più su questa straordinaria signora. Catherine arriva dall’oscurità; nata in una ordinaria famiglia della classe operaia, viene fatta Pari a vita (Baronessa Ashton di Upholland) dal governo laburista per particolari meriti di servizio verso Sua Maestà. Il fatto costituisce una solida prova del fatto che il sistema educativo Bologna è profondamente radicato nella società britannica. Poco si sa di suo padre. Si dice che gli piacesse suonare la batteria, producendo suoni martellanti in una piccola città di Upholland, nel Lancashire. Corre voce che a volte gli si impedisse di percuotere tutto ciò che si trovava a portata di mano, comprese le teste della sua prole, dando in questo modo a Catherine un po’ di istruzione in più da aggiungere a quella del sistema Bologna. Ora non solo il suo modo di parlare, ma anche l’espressione del volto riflettono i duri anni dello sviluppo della sua personalità.”

Catherine Ashton: vittima del sistema di istruzione superiore di Bologna, di Dmitriy Sedov continua qui.
(Il collegamento inserito è nostro – ndr)

La pace va conquistata

clintonbill“Da dove comincia l’attuale Kosovo? Per me è iniziato dall’aeroporto di Zurigo – dove si fa scalo giungendo da Roma – all’imbarco per Pristina; lì presiedeva una moltitudine di facce anomale, quasi “incidentate” per la peculiare fisionomia storta e scomposta. Volti granitici, sgraziati e già vecchi, cui ne seguivano altri, quelli delle donne, che, fisse al seguito degli uomini, trovavano riparo sotto il velo: Schipetari, dunque. Di Serbi, a bordo, nemmeno l’ombra; eppure la terra verso cui viaggiavo e che distava poco più di un’ora, la abitano ancora, malgrado tutto e tutti, i Serbi del Kosmet, anzi è proprio la loro, quella terra, solo che a essi non è consentito partire e poi tornare come un qualsiasi cittadino della Comunità Europea o un serbo qualsiasi. Ecco perché la mia prima comprensione ha avuto origine in Svizzera, Paese che poco c’entra con le rovine del sacro Kosmet.
L’appartenenza di questa Provincia alla Serbia è inscritta ancora oggi non solo al catasto, ma nella Storia: fin dal Medioevo sbocciarono chiese e benedizioni, lotte sanguinose e fiere, fierissime sconfitte, tra cui spicca la Battaglia della Piana dei Merli (1389), che vide le truppe ottomane, guidate dal sultano Murad I, sconfiggere quelle cristiane del principe Lazar. Composte da 50.000 unità, le prime, e soltanto dalla metà, le seconde.
Fu una disfatta tremenda: perirono nobili e cavalieri – l’aristocrazia, dunque; nulla a che vedere con gli odierni mercenari – e venne aperta la via alla dominazione turca che, a distanza di cento anni, si sarebbe insediata nell’invitta memoria serba. Dalla rovinosa battaglia fiorirono un’epica e un’eredità irripetibili: non separarsi mai dal destino della propria terra, che, in tutto e per tutto, coincide con quello individuale e comunitario dei Serbi.
Ancora, tanta storia celeste è rintracciabile nelle spoglie immortali – il suo corpo che profuma di rose, dopo secoli, non ha mai preso la rigidità destinata a ogni comune mortale – del Santo Stefano Uroš, fondatore di Visoki Dečani, il monastero più importante, più assediato e più bello di tutto il Kosmet, meta di ogni pellegrinaggio del cristianesimo ortodosso, in cui si trova la rarissima, o forse unica, icona del Cristo con la spada: la pace va conquistata, non subita.
La geografia terrena, però, oggi spesso non coincide con quella spirituale ed è così che, attraversando Pristina – capitale per gli “indipendentisti”, semplice capoluogo per i Serbi – sembra di piombare nella modernità più consunta: palazzi in serie, negozi in franchising, macchine lussuose e ingombranti, night club e divertissement squisitamente occidentali. Addentrandosi nella città, ci si trova in boulevard Bill Clinton, in onore dell’ex presidente americano, che ha favorito la cacciata del popolo serbo e che sullo stesso viale gode persino di una statua, lì eretta nel 2009 per non dimenticare tanto favorevole “accordo” degli onnipresenti Stati Uniti.”

Il reportage di Fiorenza Licitra, Orizzonti dal Kosovo e Metohija, continua qui.

Natale ortodosso in Kosovo Metohija

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“Dopo il giorno di ricorrenza dei morti a novembre, in Kosovo Metohija le genti hanno vissuto spiritualmente la ricorrenza del Natale ortodosso il 7 gennaio. E, come profonda tradizione nella cultura e spiritualità slava, e serba in questo caso, non c’e’ molta differenza tra credenti e laici; sono giorni ove ciascuno pur vivendoli in forme esteriori differenti, li vive interiormente come riflessioni/meditazioni nell’anima.
Di questo ne sono testimone oculare per vita vissuta con loro, con Padri, ferventi credenti o figure laiche di onesti socialisti, di profondi patrioti, di integerrimi sindacalisti, diversi tra loro per visioni di società o idee politiche, ma fratelli e sorelle, compagni di situazioni che abbiamo vissuto e condiviso insieme, ai limiti delle nostre stesse vite…ciascuno possiede nell’anima radici spirituali profonde e saldissime. Anche questo, piacendo o non piacendo a taluni esperti di Serbia virtuale, e’ il popolo serbo, e forse, ANCHE grazie a queste radici, che ha resistito per 17 anni alle aggressioni straniere ed ancora oggi resiste nel Kosovo.
Forse in modo ancora più profondo, ciò avviene nella tragica realtà dei serbi del Kosovo, prigionieri in una moderna forma di apartheid: le enclavi; una realtà dove nessuno dei diritti fondamentali dell’uomo sanciti nella Carta delle Nazioni Unite e’ rispettato, ancor di meno quelli sanciti nei primi dieci Articoli dei Diritti dell’Infanzia. Nel momento in cui il Consiglio Europeo discute, minaccia, sanziona circa i diritti umani in Siria, nel Kosovo Metohija, stato artificiale ed illegale, il mondo dovrebbe vedere cosa ha inventato e mantiene: una società dove la profanazione di tombe di famiglia, di luoghi sacri, di monasteri e luoghi spirituali e’ quotidiana, e dove, da anni, vengono quotidianamente attaccati, vandalizzati, distrutti.”

I giorni della spiritualità e del raccoglimento vissuti nel Kosovo martoriato, di Enrico Vigna continua qui.
Il documento contiene anche le indicazioni necessarie per fare solidarietà concreta.

Misteri di una Repubblica a sobrietà variabile

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“Mauro è riuscito a parlare di un bombardiere concepito per l’attacco preventivo, o meglio per il “first strike” (anche nucleare) sul territorio nemico nel quale dovrebbe penetrare invisibile ai radar, senza mai usare parole che potrebbero far pensare alla guerra. Uno sforzo lessicale teso a cancellare ogni forma di trasparenza che fa sorridere tenuto conto che pure i bambini sanno che il JSF rimpiazzerà Tornado, Harrier e Amx, guarda caso gli stessi jet che hanno lanciato oltre 700 bombe e missili sulla Libia più molte altre in passato su Kosovo, Bosnia, Iraq e più recentemente sull’Afghanistan. Non sarebbe stato più serio e trasparente affermare che quei velivoli ci servono per bombardare il nemico insieme ai nostri alleati, o meglio bombardare quei nemici che la “comunità internazionale” ci indicherà? Forse no perché a ben riflettere i libici che bombardammo nel 2011 non erano nostri nemici ma bensì alleati ai quali eravamo legati persino da un trattato militare. E poi il termine “nemico” indica inequivocabilmente la guerra che la nostra Costituzione ripudia almeno parzialmente: per questo l’abbiamo ribattezzata “missione di pace”.
Cercare di spacciare l’acquisto degli F-35 con la “necessità di avere mezzi efficienti di altissimo livello che servono a garantire la pace, ad evitare effetti collaterali” come ha ribadito il ministro della Difesa a Uno Mattina è tendenzioso e fuorviante sia perché i danni collaterali i nostri piloti sono riusciti a evitarli (o a limitarli) anche senza gli F-35, sia a fronte dei costi che dovremo affrontare per acquisire i jet statunitensi e tenerli in linea nei prossimi decenni. Costi incompatibili con le risorse che la Difesa assegna (e presumibilmente assegnerà anche nell’immediato futuro) all’Esercizio, cioè alla parte del bilancio adibita alla gestione di mezzi e infrastrutture e all’addestramento. Che non ci siano alternative all’F-35 è poi quanto meno discutibile dal momento che i tedeschi (che non acquistano l’F-35) impiegano i loro Eurofighter Typhoon anche per l’attacco al suolo.
Cosa che potrebbe fare anche l’Italia e che farà dal momento che armi come il missile da crociera Storm Shadow che oggi equipaggiano i Tornado verranno imbarcati in futuro sui Typhoon… anche perché non entrano nella stiva degli F-35. Il Typhoon del resto è un cacciabombardiere idoneo a svolgere operazioni contro altri velivoli come contro bersagli a terra e come tale viene impiegato anche dai britannici. Se vogliamo parlare di sprechi chiediamoci piuttosto perché stiamo cercando di svendere sul mercato dell’usato 24 Typhoon della prima serie, velivoli ancora nuovi, per ridurre il numero di quei jet in forza all’Aeronautica da 96 a 72 e ”fare posto “ a 75 F-35.
Se avessimo mantenuto la commessa prevista di 121 Typhoon, aggiornando i primi esemplari, avremmo già i velivoli necessari a tutte le esigenze dell’Aeronautica con un forte risparmio generale, dal costo di acquisizione a quello logistico determinato dal disporre di un solo aereo da combattimento e col vantaggio di puntare su un prodotto europeo nel quale la nostra industria è progettista, produttrice ed esportatrice. Curioso che un europeista convinto come il ministro Mauro si accodi alla lunga fila di coloro che ci vogliono mettere tecnologicamente e sul piano industriale e strategico nelle mani degli Stati Uniti.”

Da Se l’F-35 diventa “di pace”, di Gianandrea Gaiani.

Nel narco-staterello di Hashim Taci

kusavo flagKosovo. L’orrore diventa un film

Nel narco-staterello di Hashim Taci, il Kosovo e Metohija, si chiede in questi giorni di proclamare “persona non grata” il regista di fama mondiale Emir Kusturica perché intende a realizzare un film sulla tratta degli organi dei serbi fatta dai secessionisti schipetari dell’UCK. Kusturica ha affermato di non capire il nervosismo di Pristina perché non è stato lui a inventare questa storia, ufficialmente presentata da Dick Marty nel suo rapporto sui trattamenti inumani e i traffici d’organi dei serbi in Kosovo, relazione che puntava direttamente al premier kosovaro ed ex leader dell’UCK Hashim Taci, approvata il 16 dicembre 2010 dalla Commissione affari legali e diritti umani dell’Assemblea del Consiglio d’Europa. Il film sarà realizzato basandosi su un romanzo di Veselin Dzeletovic intitolato “Il cuore serbo di Johann”. Si tratta della storia vera di un tedesco che porta nel petto il cuore di un serbo rapito dall’UCK e ucciso per strappargli il cuore e venderlo al mercato nero. Questo tedesco ha poi adottato il figlio della vittima. L’autore del romanzo ha parlato direttamente con l’uomo tedesco, molte volte, dal 2004 al 2007. Lo scrittore Dzeletovic racconta: “Sono andato nel Kosovo e Metohija a portare libri da donare e lì ho sentito parlare di una donna serba violentata da cinque schipetari e che si è suicidata non potendo più vivere con quel ricordo tremendo. Quella donna è stata la moglie di un mio amico rapito dagli schipetari nel 1999. Durante la sepoltura della poveretta, nel cimitero con molti monumenti distrutti dagli albanesi, c’era un tedesco che voleva aiutare materialmente la famiglia della donna perché aveva saputo da chi e come aveva avuto il suo cuore trapiantato. Voleva acquietare la propria coscienza. Intendeva donare una grossa cifra, ma dopo aver capito che il figlio della donna era rimasto solo, che non aveva fratelli né sorelle, ha deciso di adottarlo. Lo zio del ragazzo non accettava che il ragazzo diventasse tedesco e per questo il tedesco Johann accettò di convertirsi e diventare ortodosso per avere l’approvazione dello zio all’adozione. Il destino ha voluto invece quest’adozione. Oppure la volontà divina! Dunque, il tedesco stava nel povero cimitero ortodosso serbo vestito molto diversamente dalla gente del posto, cioè signorilmente. Seguiva i funerali con una certa distanza aristocratica e gli stava accanto in ogni momento un agente della BND cioè della Bundesnachrichtendienst (servizio informazioni federale della Repubblica Federale Tedesca). Ad un certo momento il ragazzo, la cui mamma veniva seppellita, si mise ad abbracciare le gambe di quel tedesco e disse ad alta voce: “Papà”. Il ragazzo istintivamente ha riconosciuto il cuore del suo padre in un altro uomo. È una storia tragica che non può lasciare indifferente nessuno. Tutti i fatti del mio romanzo sono veri tranne i nomi dei personaggi e del villaggio”. Il romanzo di Dzeletovic offre anche delle informazioni che nessuno voleva pubblicare finora, neppure Dick Marty. Per esempio, le operazioni del trapianto non venivano fatte in Albania, ma in Italia. I serbi rapiti venivano portati in Albania per essere uccisi secondo gli ordini che arrivavano: i loro organi venivano estratti in Albania con i metodi più crudeli e poi trasportati in frigoriferi in Italia. Sono stati usati i motoscafi con i quali si raggiungeva l’Italia in meno di tre ore. Le basi logistiche di questi traffici loschi sono state poste prima dell’aggressione della NATO alla Serbia, quando i figli dei poveri d’Albania venivano venduti agli italiani ricchi ancora prima del 1999. In tal modo sono stati stabiliti i primi contatti con i contrabbandieri cementati poi con i traffici illegali di sigarette e di droga. Ricordiamo che il testimone protetto K-144 del Tribunale dell’Aia dichiarò: “Io so di almeno 300 reni e di altri 100 organi estratti ai rapiti del Kosmet. Si estraevano anche il fegato e i cuori. Un rene si vendeva da dieci a cinquanta mila marchi tedeschi… Hashim Taci prendeva l’80% del guadagno che lui spartiva poi con altri comandanti dell’UCK…” Nella televisione irachena, un certo sceicco Bahramin si è vantato, nel 2000 ,d’aver avuto un cuore nuovo in Turchia. Diceva di stare benissmo e gli dispiaceva solo un fatto: il cuore era di un serbo cristiano. L’autore del romanzo “Il cuore serbo di Johann” ha detto d’aver incontrato recentemente un funzionario dell’Eulex e che era possibile che le indagini si sarebbero ampliate all’Italia e alla Germania. Comunque sia, Kusturica dice che girerà questo suo film in Russia, dove ha tanti amici che gli daranno una mano a realizzarlo. Ovviamente l’Europa, e specialmente i Balcani, compresi l’Albania e la stessa Serbia con la sua provincia del Kosovo e Metohija, cioè i territori dove sono avvenuti questi crimini, non sono un palcoscenico dove è possibile girare un film su questi delitti orrendi, anche se è stato comunque possibile commettervi questi crimini genocidi, non immaginabili da una mente normale. E con l’assoluta complicità di Bruxelles e di Washington.
Dragan Mraovic

Fonte

SOS Yugoslavia onlus: conoscerla e sostenerla

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L’associazione di volontariato SOS Yugoslavia si costituisce nella primavera del 1999, durante i bombardamenti della NATO sul territorio dell’allora Repubblica Federale Yugoslava.
A fronte di quella tragedia, l’associazione sceglie di portare aiuto là dove minimi risultano i soccorsi internazionali, e insieme a parte della comunità slava di Torino si impegna nella produzione di materiale informativo per divulgare la realtà della cultura e dell’attualità balcanica.
Terminata l’aggressione militare, le strategie della politica internazionale non consentono il ripristino delle condizioni di vita precedenti la guerra. Permangono e addirittura si aggravano i problemi economici e sanitari, determinando una situazione che si fa sempre più drammatica, soprattutto per il quasi milione di profughi -di tutte le etnie- residenti in Serbia.
Cosciente e consapevole delle condizioni di vita nella ex Repubblica Federale Yugoslava, l’associazione mantiene il proprio impegno a favore della popolazione civile più provata: bambini, profughi, orfani e vedove di guerra.
Oggi, a fronte della drammatica situazione socio-economica dei popoli residenti in Serbia, e a quella ancora più difficile del Kosovo dove permane lo stillicidio di violenze e l’assedio alle poche enclavi non albanesi, SOS Yugoslavia svolge un’attività di informazione e divulgazione che vuole superare i luoghi comuni.
Con l’intento di contribuire alla costruzione di una cultura di pace, essa fornisce occasioni di approfondimento sull’attualità dell’ex Yugoslavia, promuovendo l’avvicinamento a una realtà culturale su cui pesano le tragiche vicende del recente conflitto bellico. Tale attività si sostanzia in conferenze e dibattiti, percorsi didattici interculturali sulla letteratura dei Balcani, produzione di quaderni tematici, proiezione di videodocumentari, etc.
I materiali distribuiti fra i soci, oltre ad essere uno strumento indispensabile di divulgazione, sono finalizzati a stimolare le offerte economiche a sostegno dei progetti dell’associazione, ossia i programmi di solidarietà concreta delle adozioni a distanza e a favore delle comunità ancora residenti nelle enclavi serbe del Kosovo-Metohja.
L’adozione a distanza richiede un impegno annuale rinnovabile, che prevede un versamento di 310 euro, pari a € 26 mensili. L’importo costituisce un sostegno alla famiglia dell’adottato, che viene scelto e proposto dagli enti con cui l’associazione collabora, in base a un ordine di priorità.
Al donatore viene consegnata una scheda che riporta i dati relativi al destinatario del sostegno economico, con fotografia, dati anagrafici e scolastici, indicazioni circa la situazione familiare, indirizzo e numero di telefono. La famiglia beneficiaria riceve dati e recapiti del sostenitore italiano, in modo da poter corrispondere.
Possono aderire alla formula sia singoli che gruppi, amministrazioni pubbliche e associazioni. I contributi raccolti vengono consegnati da una delegazione di SOS Yugoslavia direttamente alle famiglie nel corso di assemblee pubbliche, alla presenza dei responsabili degli enti collaboranti, di stampa e televisioni.
Il programma è gestito in collaborazione con l’Ufficio adozioni della fabbrica di auto ex Zastava (ora FIAT) di Kragujevac che assiste le famiglie degli ex dipendenti ora disoccupati, con l’associazione profughi Zastava di Pec in Kosovo che assiste le famiglie degli ex dipendenti della filiale kosovara della fabbrica ora profughi residenti a Kragujevac e con l’associazione Decjia Istina di Belgrado che presta assistenza agli orfani e alle vedove di guerra.
Il programma di solidarietà a favore delle enclavi serbe nel Kosovo-Metohja è diviso in tre parti.
La prima a favore delle enclavi di Goradzevac e Orahovac, fornendo aiuto economico alle famiglie e alle strutture scolastiche locali, aiuti alimentari, vestiario e medicine.
La seconda, in collaborazione con l’associazione Srecna Porodica, è a sostegno dei minori la cui famiglia è stata vittima di sparizioni consumatesi nel quadro delle violenze interetniche avvenute nel Kosovo a partire dalla primavera del 1999.
La terza va in aiuto dell’Associazione malati di sclerosi multipla di Kosovska Mitrovica, con l’invio di medicinali e materiali sanitari per tutte le enclavi della regione.
Il carattere eccezionale del contesto, causa il permanere di violenze ai danni dei serbi e delle etnie non albanesi, riveste un significato speciale che va oltre il rendiconto economico degli aiuti.
In quelle zone sono davvero pochi coloro i quali vanno a fare solidarietà, basti pensare al fatto che le enclavi sono raggiungibili solo sotto scorta dei militari appartenenti alla missione di stabilizzazione KFOR a guida NATO, e a proprio rischio e pericolo, ma proprio perciò assume un valore speciale nella costruzione di una cultura di solidarietà fra i popoli, distinguendosi per lo sforzo che richiede e per l’umanità che se ne riceve in cambio.
Il progetto ha quindi un duplice obiettivo, da un lato la solidarietà concreta per sostenere economicamente le famiglie più bisognose e fornire alla comunità quanto richiesto in maniera urgente, dall’altro lato l’informazione e la testimonianza su quanto è accaduto e ancora accade in quella terra martoriata.
SOS Yugoslavia, oggi costituita nella forma di organizzazione non lucrativa di utilità sociale (onlus), ha ricevuto il premio “Alta nobiltà umanitaria” 2012 di Novosti Serbia, per l’alto valore morale e materiale della solidarietà verso le popolazioni serbo-kosovare del Kosovo Metohja nell’arco degli ultimi dieci anni.
Per contribuire alle attività di SOS Yugoslavia è possibile fare un versamento sul conto corrente bancario presso Banca Intesa-San Paolo con IBAN IT56K0306909217100000160153 oppure sul conto corrente postale n. 78730587.
E’ anche possibile destinare il proprio 5 per mille in occasione dell’annuale dichiarazione dei redditi, inserendo nell’apposito spazio il codice fiscale 97587940012.
L’associazione, con sede a Torino in via Reggio 14, è contattabile al recapito telefonico 339/5982381 e all’indirizzo di posta elettronica sosyugoslavia@libero.it.
Federico Roberti

Un’aspirina al giorno

“L’11 marzo 2006, alle 10:00, a 65 anni, Miloševic veniva trovato morto nella sua cella situata a Scheveningen, all’Aja, Paesi Bassi, mentre il suo processo per presunti crimini di guerra era in pieno svolgimento, con la presentazione delle prove della difesa. Secondo i patologi olandesi, la causa della morte fu un arresto cardiaco. Oltre alla autopsia, un’analisi tossicologia venne richiesta. Secondo i funzionari dell’Aja, la salute di Miloševic aveva iniziato a peggiorare bruscamente e progressivamente quando era iniziato il processo, ed era sotto costante supervisione da parte di “personale medico altamente qualificato”.
L’autore, tuttavia, ha scoperto il fatto che solo un medico generico e un infermiere componevano l’intera squadra del centro di detenzione dell’Aja composto da ‘personale medico altamente qualificato’. De Ruiter rivela anche che la ‘terapia’ che Miloševic ricevette durante il primo anno di detenzione, consisteva in una singola aspirina al giorno, nonostante il fatto che fosse noto che soffrisse di problemi cardiaci e di pressione alta. L’avvocato di Miloševic, Zdenko Tomanovic, afferma che d’allora la salute del suo cliente venne sistematicamente erosa.
Quando il presidente Miloševic morì, lo specialista russo Dr. Leo Bokeria, del famoso Istituto Bakulev, rivelò ai media: “Negli ultimi tre anni abbiamo sempre insistito, senza successo, che Miloševic venisse ricoverato in un ospedale per essere correttamente diagnosticato. Se a Miloševic fosse stato consentito l’accesso a una qualsiasi clinica specialistica, avrebbe avuto un trattamento adeguato e avrebbe vissuto molti anni.”
All’inizio di maggio 2003, un gruppo di tredici medici tedeschi inviarono al tribunale un testo, esprimendo la loro preoccupazione per la salute di Miloševic e l’assenza di un trattamento adeguato. Ma tutti i suggerimenti dei medici specialisti vennero scartati e una terapia adeguata rimase indisponibile. Inoltre, non vi fu alcuna risposta a questa e ad altre proteste scritte dallo stesso gruppo di medici.
Dopo un anno di trattamento della miracolosa aspirina quotidiana come panacea per malattie cardiovascolari, un gruppo di medici messo su dai burocrati del tribunale emise la seguente diagnosi: danni secondari a vari organi e pressione estremamente alta che in determinate condizioni potrebbe portare a ictus, arresto cardiaco e coronarico o morte prematura. In contrasto con questi risultati, il procuratore generale dell’Aja Carla del Ponte, che sembrava saperne di più, affermò che secondo lei Miloševic “stava eccezionalmente bene”.
L’analisi medica nel 2005 aveva mostrato la presenza di sostanze chimiche “sconosciute” presenti nei sangue di Miloševic, che annullavano gli effetti dei farmaci per la pressione alta. A causa di questa scoperta, Miloševic chiese di essere curato da specialisti russi. Anche se il governo russo il 18 gennaio 2006 offrì la garanzia che Miloševic sarebbe stato messo a disposizione del tribunale, dopo le cure, la richiesta di Miloševic venne negata a febbraio. Poche settimane dopo era già troppo tardi: Miloševic subì l’annunciato e atteso infarto. Tra gli altri, De Ruiter cita la conclusione della rivista olandese Obiettivi: “Il fatto stesso che i giudici [Robinson, Kwon e Bonomy] si rifiutassero di dar seguito alla sua richiesta di cure, è sufficiente motivo per sporgere denuncia contro il Tribunale per omicidio premeditato.”
Ulteriori sospetti vennero sollevati dal fatto che le ripetute richieste della famiglia di Miloševic, di un’autopsia indipendente al di fuori dei Paesi Bassi, vennero negate e ignorate. Robin de Ruiter cita anche la dichiarazione di Hikeline Verine Stewart di Amnesty International, che ha sottolineato che la morte prematura di Miloševic era stata conseguenza diretta dei farmaci controindicati trovati nel suo sangue. “Siamo certi che siano la causa della morte. La morte per cause naturali è assolutamente fuori questione“, disse.”

Da Chi ha ucciso Slobodan Miloševic e perché, sul testo di Robin de Ruiter, pubblicista e storico olandese, di prossima pubblicazione in Serbia e disponibile anche in lingua tedesca in formato kindle.

Un’amicizia molto pericolosa

alleati
Il fondamentalismo islamico alleato tattico degli USA

““Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale”. Questa frase, che Samuel Huntington colloca in chiusura del lungo capitolo del suo Scontro delle civiltà intitolato “L’Islam e l’Occidente”, merita di essere letta con un’attenzione maggiore di quella che ad essa è stata riservata finora.
Secondo l’ideologo statunitense, l’Islam in quanto tale è un nemico strategico dell’Occidente, poiché è il suo antagonista in un conflitto di fondo, che non nasce tanto da controversie territoriali, quanto da un fondamentale ed esistenziale confronto tra difesa e rifiuto di “diritti umani”, “democrazia” e “valori laici”. Scrive infatti Huntington: “Fino a quando l’Islam resterà l’Islam (e tale resterà) e l’Occidente resterà l’Occidente (cosa meno sicura) il conflitto di fondo tra due grandi civiltà e stili di vita continuerà a caratterizzare in futuro i reciproci rapporti”.
Ma la frase riportata all’inizio non si limita a designare il nemico strategico; da essa è anche possibile dedurre l’indicazione di un alleato tattico: il fondamentalismo islamico. È vero che nelle pagine dello Scontro delle civiltà l’idea di utilizzare il fondamentalismo islamico contro l’Islam non si trova formulata in una forma più esplicita; tuttavia nel 1996, allorché Huntington pubblicò The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, una pratica di questo genere era già stata inaugurata.
“È un dato di fatto – scrive un ex ambasciatore arabo accreditato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – che gli Stati Uniti abbiano stipulato delle alleanze coi Fratelli Musulmani per buttar fuori i Sovietici dall’Afghanistan; e che, da allora, non abbiano cessato di far la corte alla corrente islamista, favorendone la propagazione nei paesi d’obbedienza islamica. Seguendo le orme del loro grande alleato americano, la maggior parte degli Stati occidentali ha adottato, nei confronti della nebulosa integralista, un atteggiamento che va dalla benevola neutralità alla deliberata connivenza”.
L’uso tattico del cosiddetto integralismo o fondamentalismo islamico da parte occidentale non ebbe inizio però nell’Afghanistan del 1979, quando – come ricorda in From the Shadows l’ex direttore della CIA Robert Gates – già sei mesi prima dell’intervento sovietico i servizi speciali statunitensi cominciarono ad aiutare i guerriglieri afghani.
Esso risale agli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati Uniti, individuato nell’Egitto nasseriano il principale ostacolo all’egemonia occidentale nel Mediterraneo, fornirono ai Fratelli Musulmani un sostegno discreto ma accertato. È emblematico il caso di un genero del fondatore del movimento, Sa’id Ramadan, che “prese parte alla creazione di un importante centro islamico a Monaco in Germania, intorno al quale si costituì una federazione ad ampio raggio”. Sa’id Ramadan, che ricevette finanziamenti e istruzioni dall’agente della CIA Bob Dreher, nel 1961 espose il proprio progetto d’azione ad Arthur Schlesinger Jr., consigliere del neoeletto presidente John F. Kennedy. “Quando il nemico è armato di un’ideologia totalitaria e dispone di reggimenti di fedeli devoti, – scriveva Ramadan – coloro che sono schierati su posizioni politiche opposte devono contrastarlo sul piano dell’azione popolare e l’essenza della loro tattica deve consistere in una fede contraria e in una devozione contraria. Solo delle forze popolari, genuinamente coinvolte e genuinamente reagenti per conto proprio, possono far fronte alla minaccia d’infiltrazione del comunismo”.
L’uso strumentale dei movimenti islamisti funzionali alla strategia atlantica non terminò con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti fondamentalisti armati in Asia centrale, gl’interventi a favore delle bande sovversive in Libia ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia in cui gli USA e i loro alleati si avvalgono della collaborazione islamista.”

Da L’islamismo contro l’Islam?, di Claudio Mutti, editoriale di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”,  n. 4, anno 2012.