L’”Apocalypse Now” di Hollywood

I ricchi e famosi stanno fuggendo a frotte poiché i politici liberali ed il coronavirus trasformano la Città dei Sogni in un letamaio invaso da tossicodipendenti e violenti criminali

Di Caroline Graham per The Mail On Sunday, 15 agosto 2020

La palestra “Gold’s Gym” è diventata sinonimo del Sogno di Hollywood.
Situata a pochi metri dall’oceano nella soleggiata Venice Beach, Los Angeles, la palestra Gold’s Gym faceva da sfondo per Pumping Iron, il documentario del 1977 che seguiva un giovane sconosciuto culturista austriaco chiamato Arnold Schwarzenegger durante la sua preparazione alla gara di Mister Universo.
Il film lo proiettò a un successo immediato. Sarebbe poi diventato una superstar globale, sposato una donna del clan Kennedy, ed eletto governatore della California.
Ma oggi la palestra “Gold’s Gym” è nel mezzo di scene post apocalittiche che si sono consumate per lo più a Los Angeles, trasformando la Città dei Sogni in un incubo urbano dal quale la gente sta fuggendo a frotte.
Una città di tende improvvisate fatte di teloni sventolanti e scatoloni di cartone circonda la palestra da tutti i lati.
Tossicodipendenti e senzatetto, molti dei quali chiaramente malati mentali camminano come zombie lungo le strade fiancheggiate da palme – il tutto a pochi isolati dalle case multimilionarie con vista sul Pacifico.
Biciclette rubate sono ammucchiate a pile sui marciapiedi disseminati di siringhe rotte.
I telegiornali sono pieni di storie dell’orrore da tutta la città, di donne che sono attaccate mentre la mattina fanno jogging o di residenti che ritornando a casa si ritrovano degli estranei che defecano nel loro giardino.
Oggi, Los Angeles è una città sull’orlo del precipizio. Cartelli con scritto “In vendita” sono a quanto pare disseminati su ogni strada periferica poiché le classi medie, in particolare quelle con famiglia, fuggono verso sobborghi più sicuri, con molte che scelgono di lasciare del tutto Los Angeles. Continua a leggere

Hollywood prima di Weinstein

La sentenza per Harvey Weinstein, il produttore hollywoodiano ormai acclarato molestatore seriale di stelle e stelline, è fissata per il prossimo 11 marzo. In base alle accuse per le quali è stato ritenuto colpevole, egli rischia fino a 25 anni di carcere, ma prima di lui…

“Nel 1949 di droga si parlava ancora sottovoce e l’LSD era di là da venire. In quell’anno ci si divertiva in maniera, come dire?, innocente. In una casa di Vermont Avenue, nel cuore di Hollywood, venne organizzata una festicciola durante la quale vi sarebbe stata una gara per il più bel paio di coscie. Le partecipanti, per non influenzare la giuria, dovettero intervenire al party debitamente incappucciate di nero e con le mani legate dietro la schiena. Vinse una bionda sconosciuta, attrice fallita, che per ottenere un po’ di pubblicità aveva in precedenza dovuto fare la benzinara in un motel servendo i clienti in un ridottissimo bikini. Una nota stella, delusa per essersi classificata solo al quarto posto, nonostante che le sue coscie apparissero da mesi sulle più diffuse copertine, non ci vide più dalla rabbia, si strappò il cappuccio nero e si avventò sulla vincitrice. Le due donne, avvinghiate, si presero a schiaffi e a graffi sinché finirono per precipitare in una vasca di plastica colma di champagne con cui si sarebbe dovuto rinfrescare la vincitrice. Un fotoreporter, tanto abile quanto pronto allo scatto, filmò l’intera scena. Ancora oggi a Hollywood è possibile acquistare sottobanco per pochi dollari il filmino che è intitolato “Lotta nello champagne” e che ha avuto un discreto successo, forse superiore a quello in cui si può ammirare Jayne Mansfield nuda, offerto dal negoziante che ha la propria sede al numero 6311 di Yucca Street.
Qualche anno dopo, nel 1952, una minorenne per poco non morì bruciata viva mentre, durante un party, le venne imposto di sostenere il ruolo di Giovanna d’Arco. La sua tunica di nailon prese fuoco e solo con un idrante fu possibile coprire di schiuma la ragazza e salvarla. Per ottenerne il silenzio venne poi scritturata e pagata per due film che non furono mai girati.
Con il passare del tempo, la droga fece la sua comparsa e le feste assunsero un tono più chiaramente orgiastico. Ora era la “stellina” che nell’estasi dell’hashish usciva nuda da una torta di panna montata, ora era la diva già affermata che, in cerca di sensazioni, si spingeva tutta sola sulla strada sperando di imbattersi in qualche camionista, che la riconoscesse ed apprezzasse. Poi si passò a manifestazioni più “forti”, di mano in mano che i gusti si andavano complicando e per vincere la noia certi giochetti si rivelavano insufficienti, troppo scontati.
Sul Sunset Boulevard, dove vendono le penne a sfera con dentro l’attrice spogliata che si contorce in stile orientale, cominciarono ad incassare fior di dollari con le cinture di castità arrugginite e con il lucchetto che stride, con candele nere (speciali per riti satanici), con candele di ogni genere, reggipetti di filo spinato per schiave ribelli. Così il sadismo cominciò a trionfare e alle fruste di un tempo, leggere, satinate, fini, si sostituirono quelle grezze, autentici staffili tipo “Gestapo”, con nodi che entrano nella carne e lasciano i segni.
Questi aggeggi invasero Hollywood insieme alle provette di plastica che si rompono con una lieve pressione dell’unghia per far schizzare fuori un liquido rosso identico al sangue. Un’attrice italiana, che ebbe una breve esperienza ad Hollywood, si appassionò a tal punto di questi strumenti medievali che li importò a Roma. Un ombrellaio che sino a qualche anno fa bene o male riusciva a vivere presso Trinità dei Monti, oggi si è arricchito smerciando manette, collari, pugnali e corsetti metallici. La sua specialità è il “nodo Borgia” che stringe il seno fino a farne stillare sangue; costa tredicimila lire.
Nelle orge hollywoodiane, secondo una nuova moda, le ragazze potevano essere appese al soffitto con ganci di nailon, strette in corsetti adorni di croci greche, celtiche o uncinate, oppure fatte correre nel parco, nude naturalmente, per essere prese al laccio.
Una per poco non ci rimise la pelle. Il cavaliere, e si scusi l’eufemismo, immedesimato nella parte, continuò a stringere il laccio e a trascinare la vittima nel prato urlando frasi irripetibili che coprivano le grida di aiuto della poveretta.
Tutto è ammesso purché non si giunga al crimine, non perché il delitto in questa ristretta cerchia di collezionisti di sensazioni sia, in sé e per sé, considerato qualcosa di riprovevole, ma perché fatalmente vuol dire morte e la morte a Hollywood non è gradita. Disturba, suscita pettegolezzi ed attira lo sguardo degli stupidi del mondo esterno.
Un ricco coreografo che per una serata in grande stile aveva speso qualcosa come sei milioni di lire italiane, presentò agli ospiti una stupenda schiava bionda (giunta due giorni prima da Las Vegas) e raccomandò loro: “Fatele tutto ciò che volete ma non uccidetela. A me non piace avere grane”.”

Da Hollywood nera. Droga, alcool, sesso e perversioni nella capitale mondiale del cinema di Renzo Rossotti, Edizioni MEB, Torino, 1970, pp. 15-17.
Rossotti (1930-2014) è stato giornalista, scrittore e autore di saggi e romanzi, scrivendo oltre sessanta opere, oggi per la maggior parte esaurite.
Esordì giovanissimo nella stampa studentesca e universitaria per approdare nel 1954 al mondo dei quotidiani e, quindi, nel 1959, ai settimanali in voga. Nascite e matrimoni nelle famiglie reali d’Europa lo videro inviato, soprattutto in Gran Bretagna. Intervistò Charlie Chaplin, Walt Disney, Brigitte Bardot e decine di altri celebri attori, Duke Ellington, John Lennon, Salvador Dalì, nonché scienziati che lasciarono il segno, come Albert B. Sabin, a cui Rossotti dedicò i proventi di una fiaba.

Divi di (quello) Stato 6°

Nel macellare interi Paesi non sono ammesse discriminazioni di genere e, nelle stanze dei bottoni, non si possono allungare le mani.
La diva di Stato Angelina Jolie, inviato speciale dell’ONU nonché membro del Council on Foreign Relations (CFR), grazie alla sua “forte voce” e “grande autorevolezza” vigila affinché la NATO faccia le cose per bene.
Del resto, solo lo scorso dicembre, insieme all’amico Jens ha pubblicato un editoriale molto esaustivo per spiegare al mondo intero Perché la NATO deve difendere i diritti delle donne.

Il fondamentalismo hollywoodista di Roberto Quaglia

“Ho appena terminato di scrivere. Il fondamentalismo hollywoodista.
Cos’è il fondamentalismo hollywoodista? Per capirlo, dobbiamo innanzitutto renderci conto che non è vero che tutte le ideologie siano morte, come si usa dire. Anche il mondo delle ideologia è probabilmente soggetto alla selezione naturale di Darwin, alcune ideologie agonizzano, altre si estinguono, ma le nicchie ecologiche che si liberano vengono subito occupate da qualche nuovo arrivato. La natura aborrisce il vuoto. In molti casi assistiamo all’insorgere di piccoli culti più o meno strampalati, culti pseudoreligiosi o pseudoscientifici. Di solito rimangono confinati a quattro gatti e durano poco. Ma in altri casi compare un nuovo grande predatore, una super ideologia che in quattro e quattr’otto si pappa tutto e tutti in vastissime porzioni del mondo. Il paradosso è che più questa ideologia è vasta, più chiunque ne venga assorbito non la riconosce più in quanto ideologia. Quando ci si è dentro, l’ideologia assume la forma della realtà, e tutto ciò che si trova al di fuori dell’ideologia diventa un’eresia. Quando la Chiesa perseguiva gli eretici, era proprio perché per lei essi si collocavano al di fuori della realtà, e così facendo mettevano in crisi, per la Chiesa, il concetto stesso di realtà. Per quanto possa suonare strano alle nostre orecchie, un fenomeno analogo è in atto proprio ora, ed il “Vaticano” di questa nuova ideologia-religione – i due concetti in parte si sovrappongono – è situato a Hollywood.
L’Occidente oggi non si rende conto di essere ideologico, profondamente ideologico, così ideologico da fare impallidire le altre grandi ideologie del passato. No, non sto parlando del capitalismo, del liberismo, e nemmeno della democrazia – queste sono tutte cosucce nel confronto dell’ideologia di cui sto parlando, ed in una certa misura ne sono parte. La grande ideologia della quale non siamo bene consapevoli di essere succubi in Occidente è l’Hollywoodismo, un vero e proprio sistema completo di valori, di modelli di comportamento e di pensiero, di come ci si debba abbigliare e cosa si debba mangiare, eccetera eccetera. Insomma, un intero modello di realtà, a cui in varia misura finiamo per credere. Ed è proprio chi non è consapevole della natura fideistica della fede che lo attanaglia che in men che non si dica si ritrova essere un fondamentalista, cioè qualcuno che crede ciecamente ai propri modelli di riferimento senza rendersi conto in nessuna misura della loro relatività. Ci piaccia o no siamo quindi tutti fondamentalisti hollywoodisti – in vita nostra abbiamo guardato troppo cinema e televisione americani per non esserlo. Alcuni lo saranno più di altri, ma nessuno sfugge.”

Fonte

Il messaggio oscuro del nuovo Guerre Stellari: i super-ricchi contro tutti gli altri

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‘Guerre Stellari’ è una semplice storia del bene contro il male, la luce contro le tenebre, e la libertà contro la tirannia. In altre parole, è la storia della lotta dell’America per preservare la democrazia e la civiltà in un mondo afflitto dal male e dai ‘malfattori’.

Film e propaganda politica hanno a lungo camminato mano nella mano. Infatti, se mai un medium era adatto alla propaganda è il medium del cinema. E se mai ad un’industria potrebbe essere attribuita la creazione di una realtà alternativa in modo così pervasivo da riuscire a convincere generazioni di Americani e di altri in tutto il mondo che l’alto è basso, il nero è bianco e la sinistra è destra, quella industria è Hollywood.
George Lucas, il creatore della saga di Guerre Stellari, che, includendo questa ultima puntata, ha sfornato sette film da quando l’originale è apparso nel 1977, è (insieme a Steven Spielberg) un figlio della reazione alla contro-cultura americana degli anni Sessanta e Settanta.
Sebbene siano entrambe frutto degli anni Sessanta – un decennio in cui la cultura e le arti, in particolare il cinema, sono state nella prima linea di resistenza al complesso militare-industriale degli Stati Uniti – Lucas e Spielberg sono giunti alla ribalta a metà degli anni ’70 con film i quali piuttosto che mettere in discussione il ceto dirigente, invece abbracciavano il suo ruolo sia come protettore del popolo americano che come arbitro della morale della nazione. Continua a leggere

Hollywood è la macchina del pensiero

 

“Bisogna riconoscere un successo all’America. In tutto il mondo ha esercitato una clinica e precisa manipolazione del potere, mascherandola come strumento del bene universale. E’ un vero e proprio atto d’ipnosi, brillante e ben riuscito.”
Harold Pinter

In quasi tutto il mondo, la storia di un paese è scritta dagli storiografi, in America è Hollywood a scriverla sullo schermo. Non che manchino polposi e ponderosi tomi di storia, ma per lo più sono scritti da accademici per altri accademici. Inoltre, un’immagine che scorre veloce sullo schermo lascia poco tempo allo spettatore di meditare su quello che vede e sente. E’ una strada a senso unico, dallo schermo propagandante allo spettatore propagandato e quindi esentato (o precluso) dal formarsi una propria opinione.
Hollywood è la macchina del pensiero, di quel che si vuole che la gente sappia e di quel che si vuole che la gente ignori.
Ai comandi della macchina del pensiero è il nucleo del potere, espressione ombrosa e chiaroscura, come del resto lo è la struttura che vuole descrivere. perché il nucleo del potere è un’entità simile alle particelle della meccanica quantistica, che si agitano ma non si può dire cosa sono o dove siano, perché possono essere descritte soltanto statisticamente. Il nucleo del potere esiste e come (!), ma è viscido, strisciante, proteiforme, inafferrabile – anche se sceglie i politici e, con diabolica precisione, determina gli oggetti del pensiero delle masse e di come gli oggetti debbano essere pensati.
Da quando la macchina del pensiero è diventata tecnicamente affidabile (più o meno dal 1920 in poi), si sono succedute varie fasi della storia hollywoodiana dell’America. Poi, con l’avvento della televisione, estensione domestica della macchina del pensiero, l’indottrinamento e il controllo della mente collettiva è totale.
All’inizio cinematografico c’erano gli indiani, bestiali e selvaggi, che angariavano e ammazzavano i poveri onesti lavoratori bianchi fino a quando arrivavano i nostri. La guerra civile era un mal combinato matrimonio andato a male tra Clark Gable e Vivian Lee in “Via col Vento”. Poi l’America vinse da sola la seconda guerra mondiale, grazie ai marines che sempre eliminavano i perfidi tedeschi.
Ai tedeschi fecero seguito gli altrettanto perfidi coreani comunisti. Mentre il controspionaggio americano (James Bond docet), sempre scopriva in tempo le sordide trame, molto spesso dei russi comunisti, atei e malvolenti.
Sul fronte domestico, gli indiani selvaggi e bestiali avevano lasciato il posto a loschi e crudeli banditi, preferibilmente messicani – vedi le dozzine dei cosiddetti spaghetti western.
I negri, in origine solo comparse e servi domestici, arrivano sullo schermo dopo Martin Luther King e il movimento per i diritti civili.
Ma delle ribellioni, delle impiccagioni, delle schiavistiche condizioni di lavoro , degli eccidi di operai che si agitavano per qualche minimo diritto, riduzione delle ore lavorative, formazione di sindacati etc. … praticamente niente.
Jimmie Moglia

Fonte

AMERICAN SNIPER

The Monuments Men e le balle della redenzione

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Il commento di Philippe Daverio a margine della presentazione al festival cinematografico di Berlino dell’ultima produzione del divo di Stato George Clooney.

“Andremo a vedere il film “The Monuments Men” appena approderà nelle nostre sale cinematografiche. Ma nel frattempo faremo un piccolo ripasso di storia. Non sono gli stessi americani che hanno forse inutilmente bombardato l’abbazia di Monte Cassino distruggendo uno dei luoghi dove era nata la rivoluzione monastica che cambiò la faccia dell’Occidente? Non sono forse loro che nell’agosto del 1943, quando ormai si era ad un passo dell’8 settembre, cioè dell’armistizio con Badoglio e della fuga di Mussolini, fecero a Milano con gli inglesi il primo bombardamento culturale della storia umana, distruggendo il Museo di Brera, il museo Poldi Pezzoli, la Scala, il Conservatorio, il Teatro Carcano, il Museo di Storia Naturale, il Museo delle Scienza e della Tecnica, il Cenacolo di Leonardo, la Biblioteca Ambrosiana e quella di Sant’Eustorgio e tanti altri luoghi della cultura italiana perché pensavano che gli italiani fossero colti e come tali suscettibili di deprimersi per motivi estetici.
In Germania la cattedrale di Magdeburgo, centro della cristianità d’Occidente fu inutilmente rasa al suolo in gennaio 1945 quando la questione bellica era già alla frutta. La guerra ha le sue logiche; non raccontateci storie edificanti a posteriori. Allora la questione era caldissima ma era come se avessero deciso di distruggere non il nemico bensì quella matrice culturale d’Europa dalla quale erano nati: in hoc signo vinces sul serio. Noi eravamo colpevoli, i tedeschi anche di più, ma alle balle della redenzione si fa fatica a credere. Agli appetiti invece sì.”

[Ipocrisia anglo-americana]

Qui c’è qualcosa sotto

jolie-cfr“Cosa c’è dietro la ‘scelta coraggiosa’ della nota attrice hollywoodiana?
O meglio, cosa significa questa scelta per lei, ma anche – vista la risonanza mediatica – cosa significherà inevitabilmente per migliaia di altre donne?
O di uomini, visto che – è notizia di ieri – già qualcuno ha pensato bene di farsi togliere una prostata sana solo per prevenire eventuali insorgenze tumorali.
Affronteremo questa analisi su vari piani – economico, scientifico, di comunicazione e spirituale – ma partiamo dall’inizio, o meglio, da un dettaglio non insignificante.
Come è noto la Jolie si è sottoposta a doppia mastectomia perché la presenza di un gene difettoso, il BRCA1, a dire dei medici, la predisponeva a sviluppare un tumore al seno.
La notizia della scelta di Angelina è ‘strillata’ con tanto di foto a tutta pagina in copertina della nota rivista People, praticamente in contemporanea con l’annuncio ufficiale, nonostante che di regola la rivista venga ‘chiusa’ redazionalmente tre settimane prima di arrivare nelle edicole.
Mmmmh, qui c’è qualcosa sotto.
Diverse cose.
Iniziamo con il suggerimento, un po’ desueto, ma che funziona sempre: follow the money.
Ebbene, tutto sarebbe nato – secondo quanto ci è stato raccontato dalla stampa – da un test genetico, il BRACAnalysis, che avrebbe stabilito, nel caso della bella Angelina, una percentuale molto elevata (87%) di possibilità di contrarre un cancro al seno.
Il test è stato brevettato dalla Myriad Genetics e ha un costo di circa 4000 dollari.
Ma, guarda caso, il prezzo del titolo della Myriad Genetics (MYGN) ha avuto un notevole beneficio dall’outing della Jolie, oltre ad aver registrato incrementi di valore da oltre 50 settimane.
Ma questo è niente; se la Corte Suprema USA decidesse di approvare la BRACAnalysis, inserendola nel sistema sanitario nazionale, aprirebbe la strada a un business di migliaia di miliardi nei prossimi anni.
Dunque azioni che salgono, profitti enormi per gli azionisti della Myriad Genetics, tutto da una decisione dell’attrice.
Coincidenza?
Guarda caso in ambienti ben informati si parla molto seriamente di far rientrare il test all’interno della famigerata ObamaCare…
Insomma un test ‘lanciato’ dall’attrice hollywoodiana, che farebbe leva sul terrore di milioni di donne e che porterebbe a riversare sui contribuenti – già poco entusiasti della riforma di Obama – i costi assicurativi del test.
Non dimentichiamo che Angelina Jolie non è semplicemente una notissima attrice, ma anche una rappresentante ufficiale delle Nazioni Unite [e anche membro del “famigerato” Council on Foreign Relations (CFR), aggiungiamo noi – ndr], dunque il suo appello non è solo privato, personale; è in grado di influenzare occultamente le donne americane trasformando il loro corpo in profitto.
Insomma una vera e propria ‘svendita’ della donna, travestita da ‘libera scelta femminile’ per meglio manipolare gli animi.”

La scelta di Angelina, di Piero Cammerinesi continua qui.

Niente esagerazioni, solo propaganda di (quello) Stato

zdt“Sono rimasto profondamente deluso perché non aggiunge niente di nuovo a TUTTO quello che già sapevamo, incluse le torture, già documentate.”
Il commento di uno spettatore dopo la visione dell’ultimo film di Kathryn Bigelow rende lampante quanto venga costantemente travisato il senso della produzione hollywoodiana da parte del pubblico italiano, e non solo.
Filmografia la cui (principale) funzione è quella di scolpire indelebilmente nell’immaginario collettivo “tutto quello che già sapevamo”, la versione -edulcorata e romanzata- dei fatti per come ci viene ammansita.
Resta da ribadire l’invito a una lettura intensiva de I divi di Stato, che può funzionare da efficace antidoto contro ulteriori somministrazioni di propaganda.
Casca a fagiolo, dato che oggi è il turno dell’immarcescibile Bruce Willis, ché gli esportatori di democrazia non riposano mai.

Divi di (quello) Stato 5°

Preparatevi!

E’ in arrivo Argo, l’ultima perla della propaganda a stelle e strisce.
Con ricca dotazione di Divi di Stato e un coproduttore di sicuro affidamento.
Nelle parole del protagonista, trattasi di “un omaggio a tutti gli americani che servono il nostro Paese all’estero, in situazioni davvero pericolose…”.

A casa propria, mai?

I Divi di Stato

Il controllo politico su Hollywood.
Di John Kleeves, l’introduzione.

“Staccate da un muro un manifesto pubblicitario, portatelo da un critico d’arte e chiedetegli che cos’è quell’oggetto. Cosa pensereste se costui lo prendesse per una stampa come un’altra e si perdesse in lunghe e dotte descrizioni sul formato del foglio, la grammatura della carta, la scelta dei colori, le scene rappresentate, lo stile, la “scuola” e così via, e mancasse di notare: È una stampa pubblicitaria? Pensereste che forse è un grande intenditore d’arte ma che sicuramente non sa dove vive.
Ebbene esattamente questo è l’atteggiamento dei nostri critici cinematografici di fronte ai prodotti della filmografia statunitense, per antonomasia Hollywood. Pensano che sia una filmografia come un’altra, come una qualunque filmografia Occidentale, o almeno come una qualunque filmografia espressa da un paese a governo parlamentare e ad economia di mercato. Pensano che i film di Hollywood siano il frutto di artisti o artigiani – i registi – liberi di esprimere la loro visione delle cose e il loro talento, solo condizionati dall’esigenza dei loro finanziatori – le Case di produzione – che il lavoro fatto sia commercialmente valido, che “si venda”. Pensano cioè che l’unico vincolo cui deve sottostare Hollywood è la redditività commerciale. Invece mentre ciò è vero per la generalità dei paesi Occidentali non così è per gli Stati Uniti. Qui la produzione filmica oltre che alla redditività commerciale deve sottostare anche ad un’altra esigenza: fare propaganda per il Paese, nei termini e con le modalità stabilite dal governo. In parole povere Hollywood è controllata dal governo centrale di Washington ed esprime ciò che né più né meno si chiama una filmografia di Stato. La situazione è del tutto analoga a quella che si verifica nei paesi totalitari classici, con la sola benché notevole differenza che mentre in questi ultimi la filmografia è completamente finanziata dal governo, che si accolla utili e perdite relative, negli Stati Uniti la medesima si deve autofinanziare: i suoi prodotti devono sia avere la desiderata valenza propagandistica che essere commercialmente validi.
Così i nostri critici parlano e riparlano dei film americani, e li esaminano da ogni punto di vista, da ogni angolatura possibile, e fanno certamente un grande sfoggio di erudizione e di competenza artistica, ma mancano di notare la cosa più importante: questi film sono il prodotto di una filmografia di Stato. Ciò non toglie che i medesimi non possano essere valutati anche dal punto di vista artistico. Il film La corazzata Potemkin di Sergej Ejzenstejn era certamente il prodotto di una filmografia di Stato, e niente di meno che di quella dell’URSS di Stalin, ma ciò non impedì che risultasse un capolavoro filmico. È esattamente come nel caso dei manifesti pubblicitari: queste opere possono anche risultare artisticamente valide, ma rimangono dei manifesti pubblicitari, prodotti per certi scopi e con certi criteri ben definiti e in genere estranei al loro autore materiale. Ciò il pubblico ha il diritto di saperlo.
Mi rendo conto che quanto appena detto giunge nuovo al lettore, e gli pare forse stupefacente: nei più o meno tanti anni della sua vita probabilmente mai aveva sentito tale cosa sulla cara, vecchia, familiare Hollywood. Ma ciò sarà dimostrato con abbondanza nel prosieguo di questo libro. Ho iniziato puntando il dito sui critici cinematografici perché sarebbe stato proprio il loro mestiere individuare tale status di Hollywood: relazionando su un manifesto pubblicitario possono entusiasmarsi o disgustarsi quanto vogliono sui suoi contenuti ma la prima cosa che devono dire è che si tratta di un manifesto pubblicitario.
Il problema però è più generale, come oramai si comincia a intuire. I nostri critici cinematografici hanno potuto compiere questo clamoroso errore di valutazione perché tutta la nostra società – la società Occidentale – aveva compiuto a monte un errore di prospettiva ancora più grande. Mi riferisco naturalmente agli Stati Uniti, la matrice di Hollywood. La nostra società li ritiene un normale paese “Occidentale” e così diventa logico assegnare lo stesso status alla sua filmografia. Invece gli Stati Uniti non sono davvero un “normale paese Occidentale”.
Come è stato possibile un errore così grande e così generalizzato? Non è un mistero extraterrestre, non è una questione metafisica. Prima del 1945 l’Occidente europeo aveva una nozione se non esatta almeno abbastanza approssimata della realtà statunitense. Si parlava infatti al riguardo di una “plutocrazia”, termine abbastanza aderente ma appunto dimenticato. Dopo quella data, e cioè dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti per dei precisi motivi che vedremo iniziarono e continuarono a diffondere nel mondo una propaganda politica e culturale di intensità e dimensioni cosi’ colossali da risultare difficili da credere, ma in verità perfettamente adeguati alle loro dimensioni (all’epoca rappresentavano più della metà del Prodotto Interno Lordo mondiale; ora ne rappresentano un quarto). Tale propaganda, in cui la para-statalizzata Hollywood veniva a giocare un ruolo sempre maggiore, aveva molti scopi ma il principale alla fin fine era proprio quello di camuffare la realtà statunitense, di farla passare per qualcosa che non era. Così col tempo le impressioni del periodo precedente si offuscavano sempre più e venivano sostituite dalle nuove, proposte dalla propaganda statunitense, mentre mano a mano nascevano nuove generazioni. Di qui l’errore.
Una situazione un po’ complicata dunque: non riusciamo a riconoscere la reale natura di Hollywood perché non riconosciamo la reale natura del suo paese produttore, e ciò per azione in gran parte della medesima Hollywood. Ma è il problema che si incontra ogni volta che si affronta un aspetto della realtà americana: non lo si può trattare indipendentemente da tutto il resto perché tale realtà è un sistema chiuso, autosufficiente e altamente interdipendente, e in più diverso da ogni altro. In effetti, e come già detto, gli Stati Uniti non sono un “normale paese Occidentale, “essi sono in verità una civilizzazione a sé stante, e che con l’Occidente ha ben poco a che vedere benché da questo sia derivata. Perciò, il punto di partenza per spiegare Hollywood sarebbe un’esposizione finalmente corretta della realtà americana in toto, nelle sue componenti di storia e attualità e bonificata dei luoghi comuni, delle falsificazioni e degli equivoci portati da mezzo secolo di inquinamento propagandistico statunitense. Ciò è stato da me fatto nel libro Un Paese pericoloso. Storia non romanzata degli Stati Uniti d’America (Edizioni Barbarossa, Milano, 1999), che non è naturalmente possibile riprodurre qui. Eseguirò allora nella Premessa una stringatissima sintesi del medesimo, rimandando sin d’ora i più allibiti od increduli al medesimo per ogni possibile ed esauriente conferma. Quindi passerò allo scopo proprio del presente lavoro, e cioè a dimostrare come Hollywood esprima una filmografia di Stato. Hollywood non è nata in questa maniera; vi è stata progressivamente ridotta e ciò che sarà fatto sarà sostanzialmente di esporre la storia di tale asservimento, ed i suoi effetti. In questa storia spicca un periodo nodale: quello che va dal 1947, l’anno in cui iniziarono le inchieste su Hollywood dell’HUAC (House Committee on Un-American Activities), al 1953, l’anno in cui venne creata l’USIA (United States Information Agency). Tale periodo opera uno spartiacque nella storia dell’asservimento di Hollywood, e così l’esposizione sarà divisa in tre capitoli; nel primo sarà esaminata la filmografia americana dalle origini al 1947, nel secondo saranno esposte le motivazioni politiche e le metodologie giudiziarie che travolsero Hollywood dal 1947 al 1953, e nel terzo sarà considerata la filmografia americana che ne risultò, che è quella ancora stabile al giorno d’oggi.”

Il testo integrale è liberamente scaricabile qui.

[Aggiornato il 5 dicembre 2017]

Divi di (quello) Stato 4°

Richard Gere è sul libro paga del governo statunitense.
Il famoso attore, presidente della Campagna Internazionale per il Tibet, lo scorso 2 Giugno ha partecipato a un’audizione di fronte al Comitato per gli Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti.
Come regolamento esige, la copia stampata del suo contributo orale è accompagnata da una dichiarazione circa l’organizzazione da lui rappresentata e i finanziamenti governativi ricevuti, in prima persona o all’organizzazione stessa, dall’1 Ottobre 2008.
Ebbene, il signor Gere ha dichiarato di ricevere 50.000 dollari annui, a partire dal 2009 per ciascun anno compreso quello corrente, tramite il National Endowment for Democracy (NED).
Tutto sommato poca roba, per una stella di Hollywood.
La prova autografa è qui, nell’ultima pagina del documento.

P.s.: la colonia Italia, dal canto suo, lo premia con il “Marc’Aurelio”.

Omaggio a Jean Seberg

“Le operazioni contro il Black Panther Party coinvolgono anche gli artisti che simpatizzano per i nazionalisti neri e che vengono pertanto sottoposti a campagne ostili, per neutralizzare l’influenza esercitata attraverso i media. Il termine neutralizzare, ricorrente nei rapporti dell’FBI, maschera manovre illegali e banditesche. Una vicenda allucinante travolge l’attrice Jean Seberg, interprete di numerosi film di successo girati da Otto Preminger (Bonjour tristesse! e Santa Giovanna), Jack Arnold (Il ruggito del topo) e Jean-Luc Godard (Fino all’ultimo respiro). Sostenitrice dei diritti delle minoranze etniche, l’attrice finanzia le Pantere Nere e alcuni gruppi di nativi indiani. Nella primavera del 1970 entra nel mirino di Hoover: inclusa nel Security Index, è bersagliata con operazioni di guerra psicologica finalizzate a distruggerne l’immagine. Sposata con l’intellettuale antifascista Romain Gary, è al quinto mese di gravidanza quando dal quartiere generale dell’FBI scatta la trappola, affidata a un funzionario senza scrupoli: Richard W. Held, che imbastisce una lettera anonima destinata a una giornalista compiacente (Joyce Haber, del «Los Angeles Times»), per insinuare che l’imminente maternità sia frutto della relazione clandestina con Raymond Hewit, dirigente delle Black Panthers, e che pertanto il sostegno dell’attrice al movimento sia dettato da motivazioni che con gli ideali hanno poco a che fare. Held fabbrica contestualmente un documento che indica Hewit come informatore dell’FBI, per attirare sul «traditore» la vendetta dei compagni: è questa una classica operazione prevista dal programma di controintelligence contro i «Gruppi nazionalisti neri dell’odio». Il rapporto redatto il 6 maggio 1970 dall’agenzia di Los Angeles per il direttore dell’FBI è infatti intestato «Counterintelligence Program – Black Nationalist Hate Groups – Racial Intelligence – Black Panther Party». La scelta del momento è l’ulteriore riprova della perfidia dei provocatori: «Per proteggere la nostra fonte informativa e per assicurare il successo del piano, il Bureau ritiene preferibile attendere all’incirca un altro paio di mesi, finché la gravidanza della Seberg sia a tutti evidente». E, a dimostrazione della criminalità dei vertici dell’FBI, nel documento si annota: «Jean Seberg è stata una finanziatrice del BPP e dovrebbe essere neutralizzata».
Il gossip sull’attrice bianca ingravidata dal rivoluzionario nero è amplificato da quotidiani e periodici di mezzo mondo; oltre a compromettere l’immagine della trentunenne attrice, la diffamazione la prostra sul piano psicofisico in un periodo per lei delicatissimo. Il 23 agosto nasce, con due mesi d’anticipo, la piccola Nina, che non riesce a sopravvivere. Il corpicino è composto in una bara di vetro, a smentire le vociferazioni sulla paternità extraconiugale. Un rapporto dell’Intelligence registra «la nascita prematura e il decesso della figlia della sostenitrice dell’estremista Black Panther Party, attrice promiscua e sessualmente pervertita».
Jean Seberg ricollega la morte della figlia allo shock provocato dalla campagna-stampa e querela per diffamazione tre giornalisti, condannati a risarcirla con 11.000 dollari. I mandanti rimangono nell’ombra e ottengono i risultati che si erano ripromessi: colpire l’immagine dell’attrice e distruggerne l’equilibrio. Convinta di essere spiata, assolda due guardie del corpo, nonostante il marito e gli amici la sconsiglino, convinti che si tratti di paranoia. La squallida vicenda precipita la donna nell’alcool e nella dipendenza da psicofarmaci, Nel primo anniversario della morte di Nina l’angosciata madre tenta il suicidio; salvata in extremis, riproverà altre volte e nel settembre 1979 verrà ritrovata esanime in un’automobile, uccisa da un’overdose di barbiturici. Romain Gary, che nel frattempo aveva ottenuto il divorzio, sostiene che la moglie sia stata «distrutta dall’FBI» (qualche mese più tardi, anche lui si suiciderà).”

Da Rock & servizi segreti, di Mimmo Franzinelli, Bollati Boringhieri, pp. 81-83.

Oggi, 30 agosto 2019, al Festival del Cinema di Venezia verrà presentato fuori concorso il film Seberg, diretto da Benedict Andrews, dove l’attrice è interpretata da Kristen Stewart.

Divi di (quello) Stato 3°

Un gruppo di mercenari guidato dal veterano Barney Ross (Sylvester Stallone) riceve il compito di infiltrare un paesino del Sudamerica e rovesciarne il dispotico dittatore, il generale Gaza (David Zayas) ma i soldati di ventura scopraranno ben presto che il loro cliente ha omesso alcuni particolari di vitale importanza e, per salvare una vita innocente e raddrizzare una serie di torti, il gruppo si troverà a fronteggiare nemici interni, oltre che esterni.
Della squdra, oltre a Ross, fanno parte anche Lee Christmas (Jason Statham), un ex membro delle forze speciali britanniche, esperto in armi da taglio, il maestro di arti marziali Yin Yang (Jet Li), l’esperto di armi Hale Ceasar (Terry Crews), amico di Ross da lunga data, il demolitore Toll Road (Randy Couture), che funge da intellettuale del gruppo e il tormentato Gunnar Jensen (Dolph Lundgren), cecchino provetto.
Dopo aver ricevuto la prima tranche del pagamento dal loro cliente, l’enigmatico Mr. Church (Bruce Willis), Ross e i suoi si recano sul posto e prendono contatti con la resistenza locale, nella persona della ribelle Sandra (Giselle Itié). La scoperta del loro vero avversario, tuttavia, sarà un autentico shock: l’operativo CIA James Monroe (Eric Roberts) e il suo pefido tirapiedi Paine (il wrestler Steve Austin).

I mercenari, ovvero come tentare di riabilitare una categoria che ultimamente non gode proprio di buona stampa.
Dall’1 settembre al cinema…

Divi di (quello) Stato 2°

Hollywood sforna ambasciatori di alto profilo e Clooney ce lo siamo beccati noi.
Il fatto che abbia flirtato con la Canalis, che prenda case in Toscana e sul lago di Como, che sia perennemente in mostra qui da noi… casualità?

Angelina Jolie era stata membro temporaneo all’importante Council on Foreign Relations, uno dei più prestigiosi concili di politica estera degli Stati Uniti. Con lei, altri importanti personaggi di spicco nel corso della storia, dalla nascita nel 1921, tra cui Henry Kissinger, Colin Powell, Condoleezza Rice e Madeleine Albright.
Il Council, con sede a New York a Park Avenue e a Washington ha aperto le porte anche ad un pluripremiato attore/regista di Hollywood, il bel George Clooney.
Oltre a personaggi famosi, il Concilio è rappresentato da ex segretari, ex ambasciatori ed esperti di economia. Prima di Clooney era stato chiesto ad altri due attori di far parte dei membri; Michael Douglas e Warren Beatty.
Clooney ha dunque raggiunto l’importante traguardo come membro a vita del Concilio, grazie al suo apporto umanitario in Darfur, dove ha dato una mano per i profughi insieme al rappresentante del New York Times Nick Kristof che tra l’altro lo ha fatto entrare nel Concilio.
Al Washington Post, Clooney, ha confermato poi che la carica che gli hanno assegnato lo riempie di orgoglio ed è onorato di essere stato prescelto per tale mansione.
Ha poi scherzato ai microfoni sull’importante carica di membro a vita, dicendo: “Parteciperò alle riunioni e mi hanno detto che il rito di iniziazione è tremendo”.
Insieme a Clooney, anche l’ex capo della FED (la Federal Reserve) Alan Greenspan e l’ex vice presidente degli Stati Uniti al tempo della carica di George W. Bush Dick Cheney, hanno avuto questa importante carica.
(…)

Da Clooney come Kissinger: membro a vita del Foreign Relations, di Andrea Bandolin.
[grassetto nostro]

L’Avatar della dabbenaggine

“Esistono film dalla visione dei quali si esce più intelligenti. Avatar di James Cameron non è tra questi. Potrei anzi sostenere che Avatar dona allo spettatore di qualunque livello intellettivo una sostanziosa dose omaggio di rimbecillimento supplementare. Una persona di media stupidità lascia il locale barcollando sotto il peso dell’idiozia aggiuntiva accumulata nel corso dello spettacolo e non riesce più a pensare a nulla di intellettualmente rilevante. Cito il mio caso: mentre mi dirigevo verso casa dopo la fine dello spettacolo, ho cercato disperatamente di elucubrare un pensiero critico sulla pellicola, ma mi venivano in mente solo cretinate. Pensavo alle barzellette su Toro Seduto che mi raccontavano da bambino, frasi nominali come “Augh, grande capo bianco” interferivano con le facoltà razionali, canticchiavo canzonette come “blululù-le-mille-bolle-blu” e se mi costringevo a smettere il cervello continuava a salmodiarle da solo e non c’era verso di fermarlo. E’ stato orribile. Giunto a casa esanime, mi sono aggrappato a “La conquista dell’America” di Zvetan Todorov e solo così ho avuto salva la vita. Sconsiglio vivamente la visione del film alle persone già completamente idiote. L’overdose sarebbe loro fatale.
Ero andato a vedere Avatar su suggerimento di un collega, il quale mi aveva consigliato di farlo senza aspettarmi nulla di particolare. In questo modo, egli sosteneva, sarei uscito dal cinema piacevolmente sorpreso. Ho seguito alla lettera la parte metodologica della sua raccomandazione, che si è rivelata molto efficace. E’ la parte profetica che necessita di una drastica messa a punto. So che esprimendo queste opinioni impietose mi attirerò accuse di snobismo intellettualoide, nonché l’ira di coloro che mi faranno notare – giustamente – le meraviglie dell’animazione computerizzata, la perfezione delle ricostruzioni paesaggistiche, la sottigliezza delle citazioni fumettistiche e cinematografiche (e meno male che sarei io l’intellettualoide). Tutto vero. Infatti non dico che il film sia brutto. Non dico nemmeno che chi lo ha realizzato sia un completo idiota, tutt’altro. Dico solo che è stato studiato e accuratamente cesellato per rendere idiota chi lo guarda e che ci riesce benissimo.
Sostengo ormai da tempo che l’intero apparato di ciò che chiamiamo informazione, spettacolo, perfino letteratura o arte o scienza nella più recente declinazione estetica di queste categorie, non sia altro che uno strumento di propaganda pervasiva il cui scopo ultimo è quello di ridurre ai minimi termini i nostri modelli interpretativi della realtà, costringendoci a racchiudere il mondo, tutto intero, in uno schema rarefatto e impoverito. Il fine è insomma quello che Orwell aveva ben intuito nella sua descrizione operativa del Newspeak: toglierci il maggior numero possibile degli elementi segnici con cui rappresentiamo il mondo a noi stessi, in modo tale che il mondo, ricco e complesso com’è sempre stato per diritto di nascita, ci escluda con sdegno dalla sua reggia, come da un cocktail party del Bilderberg si escluderebbe un accattone analfabeta con le toppe al culo, lasciandolo fuori al freddo a biascicare da solo le sue incomprensibili e irrilevanti maledizioni. Tutto questo, in gergo filosofico, si potrebbe chiamare “rarefazione delle categorie del pensiero”. Io lo chiamo, più cordialmente, rimbecillimento collettivo mediaticamente indotto. Avatar di James Cameron è uno degli induttori di dabbenaggine percettiva più poderosi che mi sia mai capitato di sperimentare sulla mia pelle. Ed è progettato, con straordinaria intelligenza, per produrre proprio questo effetto.”

La recensione di Gianluca Freda continua qui.

Tanks a lot, Uncle Sam

hollywar

Affari cinematografici, i militari coordinano i piani di battaglia per un reciproco beneficio*
di Peter Debruge
(articolo tratto da Variety, il settimanale internazionale dell’intrattenimento, 22-28 giugno 2009, pp. 1 e 30; grassetti nostri)

Shia LaBeouf, Megan Fox e Megatron potrebbero essere il centro della pubblicità di “Transformers: la vendetta del caduto”, ma c’è la struttura a sostegno del fragoroso seguito di Michael Bay che è il vero colpaccio.
Il sequel della Dream Works-Paramount, uscito nelle sale il 24 giugno, mette in scena quattro delle cinque specialità delle Forze Armate – una coalizione che è stata pensata come una primizia per Hollywood (solamente la Guardia Costiera è rimasta esclusa).
Hollywood ed i militari solitamente non marciano molto ravvicinati, ed è ogni tanto sorprendente vedere quali film abbiano beneficiato della collaborazione militare – il patriottico “Independence Day” uscì senza aiuti mentre “Stripes – Un plotone di svitati”, ironico nei confronti dell’esercito, acconsentì a pesanti censure in cambio di una piena cooperazione – ma di questi tempi lo spettacolo ed i militari stanno trovando modi in cui disporre le proprie forze con reciproco beneficio.
La relazione fra i due è spesso un riflesso dei tempi. Anni dopo la fine del Vietnam e appena terminato lo svolgimento della maggior battaglia in Iraq, i film di Hollywood mettono il combattimento ed i suoi effetti in una brutta luce, con il risultato di ottenere meno aiuto e cooperazione dalle forze armate. Pellicole come “Il cacciatore” e “Apocalypse now” dipinsero un truculento aspetto del Vietnam, e in anni recenti, film quali “Nella Valle di Elah” e “Home of the Brave” presentarono i militari come brutali e con un forte impatto emotivo.
Adesso, mentre un nuovo presidente s’impegna per far uscire le forze dall’Iraq ed il ritornello “Sostieni le nostre truppe” fa parte dello spirito dei tempi, “Transformers: la vendetta del caduto” ha fatto copiosamente ricorso a macchinari, personale e logistica dell’esercito americano.
“Questo è probabilmente il maggior film in sinergia con l’esercito mai realizzato”, si vanta il Tenente Colonnello dell’Esercito Greg Bishop, che fu in servizio in Iraq prima di venire designato ai rapporti con Hollywood l’anno scorso. Continua a leggere

Subliminale propaganda cinematografica

The_Men_Who_Stare_at_Goats

Ora, con ricca dotazione di Divi di Stato, vorrebbero insinuare che l’esercito del Paese con i programmi di armamento più costosi al mondo sconfigge il nemico senza spargimento di sangue…
Ma mi faccia il piacere!

[Propaganda giocattolo]
[Dietro le quinte di Hollywood]

Propaganda giocattolo

gi joe 70

Negli Stati Uniti esiste da sempre uno strano collegamento tra il mondo dei giocattoli, quello del cinema e quello del Department of Defense (Ministero della difesa). Milioni di bambini di generazioni diverse sono cresciuti ammirando e desiderando soldatini, robot patriottici, combattenti mutanti, uomini ragno o pipistrello o addirittura alieni che lottavano per la “democrazia”, per la famiglia e per i “virtuosi” valori americani. L’ultimo della serie è G.I. Joe, il soldatino giocattolo per eccellenza, entrato nei cuori di milioni di bambini negli anni ottanta, in piena guerra fredda.
Il film G.I. Joe è pieno di scene pirotecniche, piene di trionfalismo militare che finisce inevitabilmente per sembrare uno spot per lo strapotere tecnologico del Pentagono. Film come G.I. Joe hanno sempre avuto un ruolo importante nella cultura americana. Oltre a mostrare i muscoli dell’apparato militare USA, servivano anche a desensibilizzare l’audience, soprattutto i giovani, agli orrori della guerra, nonché incoraggiare i ragazzi ad arruolarsi nel ”glorioso” esercito degli Stati Uniti.
Questo tipo di film diventa ancora più importante dal momento che il popolo americano inizia a mostrare un po’ di freddezza verso la cultura guerrafondaia. Il motivo per l’improvviso scetticismo verso la violenza militare nasce dall’ideologia pseudo-religiosa dell’amministrazione Bush, basata sull’odio verso il mondo islamico e sulla propagazione del concetto dell’esportazione della democrazia. La virata sociale causata da questi fenomeni rappresenta probabilmente una delle poche cose per la quale dovremo ringraziare Bush e il suo vice Dick Cheney, che hanno finito per avere sul pubblico l’effetto opposto di quello che speravano nella Casa Bianca di allora.
Tornando al film, bisogna riconoscere che nonostante il fallimento di tale ideologia, il Pentagono e il DOD (Department of Defense) continuano a spingere il fenomeno del connubio giocattoli-Hollywood-esercito, con film che rappresentano la guerra in una forma gloriosa e affascinante, sperando di utilizzarli per reclutare giovani nell’esercito, e possibilmente di fargli prendere come esempio l’eroismo sacrificale dei G.I. Joe di turno.
(…)
GI JOE 80
La scena iniziale del film ci racconta di un trafficante d’armi scozzese che nel 700’ viene condannato in Francia per aver venduto armi ad entrambi le parti in guerra. Lui è un traditore! Non si deve neanche prendere in considerazione l’idea che lui possa aver voluto ascoltare le ragioni di entrambi le parti in causa. In effetti si racconta la condanna ad indossare una maschera di ferro che gli viene letteralmente squagliata sul viso con il fuoco.
Durante il film c’è poi l’inevitabile scena in cui un monumento famoso (in questo caso la Torre Eiffel) viene distrutto, cadendo rovinosamente sulle persone terrorizzate nelle strade. Lo abbiamo già visto in passato con il Big Ben in “Independence Day”, o con la Statua della Libertà in “Pianeta delle Scimmie”, o con il Colosseo in “The Core” o ancora con il Queens World Fair in “Men in Black”. Tali scene servono a fare capire al pubblico (soprattutto quello non americano) che senza l’intervento militare USA, nessuno è al sicuro.
Queste scene e questi concetti vengono propagate da anni in serie di film di enorme successo mondiale, quali Superman, James Bond, Batman, Spiderman, Terminator, X-Men, la serie Bourne, Transformers, e anche ahime, il fantastico Guerre Stellari. Hanno tutti lo stesso fine: glorificare chi combatte per la democrazia e per proteggere i valori americani (anche quando sono alieni, i valori in questione non cambiano) contro l’infedele di turno. Il ragazzo che esce dal film vuole immedesimarsi e “diventare” il salvatore del mondo a tal punto di essere disposto dare la vita per salvare la cultura con la quale è cresciuto. Un sogno che si avvera per chi progetta guerre ed ha bisogno di giovani da mandare allo sbaraglio per vincerle.
GI JOE 2000
Ora G.I. Joe sta cercando di fare ciò che Guerre Stellari fece negli anni 70: re-introdurre un concetto ormai impopolare come la guerra nelle menti e nelle aspirazioni di milioni di giovani, americani anzitutto, ma anche stranieri, in un mondo globalizzato. I dialoghi ridicoli e le scene talmente esagerate da sembrare impossibili anche ai bimbi lo rendono infinitamente inferiore a Guerre Stellari, ma il tentativo di risuscitare ciò che Bush e Cheney hanno distrutto è chiarissimo.
Non è una coincidenza che il Pentagono e il DOD abbiano dato la loro “consulenza” ai produttori del film, arrivando anche a prestare soldati e attrezzature (elicotteri Apache e i fuoristrada Humvee) alle scene. Con tanto di ringraziamenti sia al Pentagono che al Ministero della Difesa USA nei lunghissimi titoli di coda.
Se G.I. Joe si dimostrerà capace del ruolo a lui affidato lo diranno solo gli incassi. La tiepida risposta del pubblico americano ci dice che non è un film in grado di scalzare l’odio verso la guerra causato dall’amministrazione Bush. Ma poiché il film serve anche ad influenzare le menti dei giovani stranieri, a giudicare dall’avvio con incassi record in Corea, in Cina e in Russia (paradossalmente i bersagli preferiti del passato a Hollywood) nella prima settimana di proiezioni, si ha la sgradevole sensazione che qualcosa stia funzionando. Ma più che a Hollywood e negli uffici della Hasbro (azienda produttrice del soldatino G.I. Joe) i veri festeggiamenti saranno nelle stanze segrete del Pentagono e del DOD statunitense.

Da G.I. Joe, un giocattolo per la democrazia di Cliff Campidoglio.
[grassetti nostri]

Divi di (quello) Stato

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L’attore comico statunitense Stephen Colbert (al centro, fra le donne soldato) saluta le truppe presso l’Al Faw Palace di Camp Victory a Baghdad, Iraq, il 5 giugno scorso.
Qui altre foto ed un resoconto dell’Operation Iraqi Stephen: Going Commando: “In order to prepare for the trip, Colbert attended basic training at Fort Jackson…”

[Dietro le quinte di Hollywood]

Dietro le quinte di Hollywood

hollywood

Sono diversi gli enti governativi statunitensi che possiedono uffici di collegamento a Hollywood, dall’FBI alla NASA per arrivare alle varie agenzie di intelligence. Pochi di loro, comunque, hanno qualcosa di significativo da offrire, e così la loro influenza sull’industria cinematografica americana risulta minima. La maggiore eccezione è rappresentata dal Pentagono, che mantiene un aperto ma scarsamente pubblicizzato rapporto con Hollywood nel cui contesto, in cambio di consigli, uomini e mezzi di inestimabile valore, quali aerei ed elicotteri, il Pentagono chiede di prassi che le sceneggiature vengano alterate in senso a lui favorevole. In questo ambito rimane insuperata Top Gun, la pellicola interpretata nel 1986 da Tom Cruise, allora nascente “divo di Stato” (secondo l’azzeccata definizione di John Kleeves).
Lo svolgimento di questo genere di attività governative, per quanto moralmente discutibile, è almeno di pubblico dominio. Ciò non può essere detto a proposito dei maneggi fra Hollywood e la CIA che, fino a tempi recenti, erano largamente misconosciuti da parte dell’agenzia di spionaggio. Solo nel 1996, la CIA ha reso noto – con poca enfasi – il campo di responsabilità del suo ufficio di collegamento con i media, da poco istituito, retto dall’agente veterano Chase Brandon.
La decisione della CIA di lavorare pubblicamente con Hollywood fu preceduta, nel 1991, dal “Rapporto sulla più grande trasparenza della CIA” stilato da una task force – creata appositamente dall’allora direttore Robert Gates – che aveva dibattuto (segretamente!) sulla questione se l’agenzia dovesse essere meno reticente. Nel rapporto, la CIA ammetteva di aver “modificato alcuni soggetti riguardanti l’agenzia, sia a carattere documentaristico che di finzione, su richiesta degli stessi estensori che chiedevano un aiuto in termini di accuratezza ed autenticità”.
E’ però con l’undici settembre 2001, e con la successiva “Guerra Globale al Terrore” dichiarata dall’amministrazione Bush, che il legame tra Hollywood ed il governo USA fa un salto di qualità. Continua a leggere