L’Iniziativa di Sicurezza della Proliferazione (PSI) ed il controllo degli oceani

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Il controllo degli oceani del mondo. Preludio alla guerra?
L’Iniziativa di Sicurezza della Proliferazione (PSI) e la flotta USA da 1.000 navi

di Rick Rozoff, Global Research, 30 gennaio 2009

Fra i più monumentali ed ampi sforzi, benché frequentemente ignorati, da parte dell’ex amministrazione Bush di pianificare il dominio militare su scala planetaria e così facendo inoltre alterare le relazioni internazionali, c’è quello che il suo iniziatore, John Bolton, nel suo ruolo di Sottosegretario di Stato per il Controllo degli Armamenti e la Sicurezza Internazionale, all’epoca chiamò l’Iniziativa di Sicurezza della Proliferazione (PSI – Proliferation Security Iniziative).
Avviata ufficialmente il 31 maggio 2003, la PSI era la più ampia applicazione della proiezione internazionale di potere da parte degli USA nell’epoca post-Guerra Fredda, implicando niente meno che la capacità di esercitare controllo navale, interdizione ed eventualmente azione militare autonoma in tutti gli oceani del mondo.
Seguendo e rinforzando l’operazione Enduring Freedom e le sue sei aree di responsabilità dall’Asia meridionale al Corno d’Africa e dall’Oceano Indiano al Mar dei Caraibi, e il preludio e prototipo della NATO all’Iniziativa di Sicurezza della Proliferazione, la cosiddetta Operazione Active Endeavour che ha posto per oltre 7 anni tutto il mar Mediterraneo sotto il suo controllo, la PSI è un’operazione militare concepita ed implementata unilateralmente da Washington senza aver consultato le nazioni ed i popoli delle aree interessate. E come l’operazione Enduring Freedom e l’operazione Active Endeavour (nella seconda categoria che segue) la sua autoproclamata missione è illimitata come area d’azione e durata nel tempo.
La PSI venne annunciata con l’obiettivo asserito di, secondo il sempre compiacente New York Times, “interdire i materiali nucleari ed il contrabbando”. Un’immunità abbastanza ampia da includere la maggior parte delle operazioni navali ovunque e per ogni attuale proposito Washington voglia ampliarla.
Qualcosa che, nondimeno, senza esitazioni affiancasse la ricerca manipolata di armi di distruzione di massa da parte di Washington con il “terrorismo globale”, come si vedrà più avanti. E semplicemente estendere la presenza navale USA ed alleata e la capacità di fare guerra su rotte marine geostrategicamente vitali ed agognate, regioni costiere, canali di transito energetici e militari ed in qualsiasi mare in qualsiasi momento, così facendo incontrare le attuali esigenze politiche e strategiche.
L’obiettivo principale della PSI nella maggior parte dei riferimenti nei suoi primi giorni era la Corea del Nord. In seguito l’Iran venne sempre più identificato secondo una possibile logica di estenderla nel Golfo Persico e, qualora gli USA ed i loro alleati avessero trovato qualche modo per arrivarci, il Mar Caspio pur privo di collegamento coi mari aperti. Effettivamente l’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld era un bramoso sostenitore di quella che considerava una Guardia Caspica.
Il Mar Caspio è, certamente, un’entità racchiusa fra terre ed inaccessibile alle navi eccezion fatta per quelle dei suoi cinque Stati litoranei.
Come si dimostrerà in seguito, la PSI non s’impegnò a lungo nella caccia al “contrabbando nordcoreano” nei mari Egeo e Nero, il Golfo Persico ed il Mar della Cina meridionale, fra gli altri, ma la sua maggior concentrazione resta in Asia.
Lo stesso articolo del New York Times del 22 maggio 2006 dal quale proviene la precedente citazione, comprende anche questa chiosa rivelatoria: “L’iniziativa comprende anche tentativi di restringere i finanziamenti e le transazioni commerciali sospette verso Iran, Corea del Nord, Siria, Cuba ed altri Paesi”.
I Paesi nominati sono quattro dei sette indicati dal governo USA subito dopo gli attacchi dell’11 Settembre come “Stati sostenitori del terrorismo”, vale a dire Cuba, Iran, Iraq, Libia, Corea del Nord, Siria e Sudan.
Il sottoscritto scrisse il 12 settembre 2001 che di questi sette Stati, solo uno, il Sudan, aveva un vecchio legame con Osama bin Laden, all’incirca cinque anni prima; che nessuno di essi aveva riconosciuto l’ordine Talebano in Afghanistan (nonostante gli alleati storici degli USA Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti lo avessero fatto, e gli EAU sono l’unica nazione araba con un contingente militare in Afghanistan, a completare l’assurdità); e che tre dei sette Paesi presi di mira – Iran, Iraq e Siria – erano stati vittima di quello stesso terrorismo che erano accusati di sostenere.
Gli “Stati sostenitori del terrorismo” vennero ampliati ed in più casi sostituiti dalla Consigliera per la Sicurezza Nazionale Condoleeza Rice durante il suo intervento al Senato per la conferma a Segretario di Stato nel gennaio 2005, allorché svelo la nuova lista nera, gli “avamposti della tirannia”: Bielorussia, Cuba, Iran, Myanmar, Corea del Nord e Zimbabwe.
Di tali nazioni, alcune hanno sistemi parlamentari multipartitici; alcuni sono stati a partito unico; cinque hanno governi laici, uno solo lo ha religioso; riguardo al retroterra religioso, tre sono principalmente cristiani, due buddisti ed uno musulmano.
L’unico collegamento concepibile che avevano in comune è che ognuno di essi è stato soggetto di intensi ed accaniti tentativi da parte di USA ed Occidente in generale di isolarli localmente e di additarli al pubblico ludibrio internazionale preliminarmente al tentato “cambio di regime”.
E tutti e sei hanno concluso relazioni bilaterali con Russia e Cina.
Si può capire che un avversario, una “minaccia” è richiesta in ogni continente ed area critica, così l’Europa ha la Bielorussia; l’Africa, lo Zimbabwe; l’America Latina, Cuba; il Medio Oriente, l’Iran; e l’Asia, probabilmente per effetto della sua grandezza in paragone, Myanmar e Corea del Nord.
Cuba, Iran e Corea del Nord sono gli unici Stati ad essere passati da “Stati sostenitori del terrorismo” ad “avamposti di tirannia”.
Se, con le suddette definizioni inventate, la logica iniziale per la PSI era sia nebulosa abbastanza da servire qualsiasi proposito che sufficientemente malleabile per adeguarsi al desiderio di pianificare schieramenti contro nuovi avversari di comodo, la sua evoluzione ed estensione sbugiardò il suo mito fondante e rivelò le reali intenzioni dei suoi promotori.
Una breve cronologia della PSI dai suoi esordi alla sua attuale situazione illustrerà che il suo ambito è molto più ampio che dare la caccia ai cargo in uscita o diretti in Corea del Nord.
Quando l’Iniziativa cominciò ad avventurarsi nel suo secondo anno, l’esperto giornalista indiano Siddharth Varadarajan sottolineò lo scetticismo se non il sospetto che destava fra le potenze di gran parte del mondo, specialmente in Asia:
“Piuttosto che strumenti extra-legem per controllare la proliferazione come l’Iniziativa di Sicurezza della Proliferazione, Russia e Cina stanno sottolineando la necessità di un sistema legale multilaterale. E anticipando che il programma statunitense di difesa missilistica condurrà molto presto alla militarizzazione dello spazio, i due Paesi stanno richiedendo un bando su qualsiasi arma su razzo nello spazio esterno.” (The Hindu, 4 luglio 2005)
Quanto sopra è un collegamento interessante ed una posizione corretta riguardo genuine preoccupazioni sulla proliferazione in confronto a versioni largamente fantomatiche a servizio di altri obiettivi geopolitici.
Cioè, gli USA regolarmente ostacolano l’altrimenti unanime opposizione presso le Nazioni Unite alla militarizzazione dello spazio mentre agitano lo spettro di complotti in qualche angolo oscuro del mondo che altre nazioni, incluse quelle dell’area, non riescono a notare od a preoccuparsene.
Uno dei maggiori quotidiani indiani commentò riguardo la PSI tre giorni prima la precedente citazione:
“La PSI [Proliferation Security Initiative] è una controversa iniziativa multinazionale a guida USA comprendente l’interdizione in mare aperto a navi di Paesi terzi. A prescindere dalla sua dubbia legalità, la PSI colpisce esplicitamente un approccio davvero multilaterale ed equilibrato al problema della proliferazione. Fra i maggiori Paesi asiatici contrari alla PSI ci sono Cina, Indonesia, Malesia ed Iran”. (The Hindu, 1 luglio 2006)
Che due dei quattro Paesi appena nominati si affaccino sullo Stretto di Malacca che collega l’Oceano Indiano e il Pacifico non è una coincidenza.
L’importanza dello Stretto è stata rilevata dai maggiori comandanti militari statunitensi in relazione al piano navale globale degli USA da 1.000 navi che esamineremo più avanti in quest’articolo.
Meno di un anno dopo l’avvio della PSI, l’allora vice Primo Ministro e ministro della Difesa malese Najib Razak disse di un palesamento regionale della PSI che “questa riguarda la questione della nostra sovranità nazionale”.
Il Financial Times di Londra espresse la preoccupazione come segue:
“Malesia ed Indonesia si oppongono ad una proposta da parte di Washington di impiegare Marines statunitensi con imbarcazioni ad alta velocità per vigilare gli stretti di Malacca, uno degli snodi navali più congestionati al mondo. […] L’Iniziativa per la Sicurezza Marittima Regionale è stata divulgata la scorsa settimana durante l’audizione al Congresso dell’Ammiraglio Thomas Fargo, vertice del Comando Statunitense del Pacifico. La proposta è esterna alla PSI.” (Financial Times, 5 aprile 2004)
Circa due anni dopo il Ministro degli Esteri indonesiano Hassan Wirajuda, rifiutando di partecipare alla PSI, spiegò l’opposizione del suo Paese:
“Se l’Indonesia accettasse l’iniziativa, gli Stati Uniti od altri grandi Paesi potrebbero attuare un’interdizione per controllare se le navi in transito in quelle acque trasportino materiali connessi ad armi di distruzione di massa” ha detto (il Ministro degli Esteri Hassan Wirajuda) “inoltre, l’iniziativa non era stata avviata attraverso un processo multilaterale, bensì solo un gruppo di nazioni che avevano l’obiettivo comune di condurre una certa iniziativa”, ha detto Wirajuda. “L’iniziativa era avversa alla convenzione del diritto internazionale sui mari, la Convenzione delle Nazioni Unite sulla Legge del Mare del 1982”, ha evidenziato Wirajuda. (Xinhua News Agency, 17 marzo 2006)
Non c’è voluto molto tempo per confermare le apprensioni di Indonesia e Malesia.
Nell’agosto 2005 Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda e Giappone condussero l’Esercitazione “Sciabola Profonda” come parte della PSI partendo dalla base navale Changi di Singapore nel Mar Cinese Meridionale.
L’agenzia di stampa cinese Xinhua News Agency fornì questa descrizione:
“L’esercitazione “Sciabola Profonda” coinvolge circa 2.000 effettivi fra esercito, guardia costiera, doganieri ed altre agenzie di 13 Paesi della PSI fra i quali Singapore, Stati Uniti, Gran Bretagna ed Australia, come pure 10 imbarcazioni di superficie e 6 aircraft della guardia marittima”. (Xinhua News Agency, 15 agosto 2005)
Un’altra nazione nell’Estremo Oriente che ha rifiutato di aderire alla PSI, che adesso ha 70 Paesi membri, è la Corea del Sud.
Teme che il suo vicino al nord voglia interpretare un blocco navale unilaterale della sua frontiera marittima, un’azione energica ed il sequestro delle sue imbarcazioni per ciò che essi sono – atti di guerra – il che significherebbe un nuovo conflitto di vasta scala a livello peninsulare.
Tre anni fa i media statali della Corea del Nord presentarono una tale prospettiva.
“La Corea del Nord ha intimato alla Corea del Sud di non scatenare una ‘guerra nucleare’ aderendo ad un’esercitazione internazionale a guida statunitense destinata ad intercettare armi di distruzione di massa”, hanno riportato i media statali. “La Corea del Sud ha detto il mese scorso che avrebbe mandato un gruppo ad “osservare” un’esercitazione della PSI a guida statunitense al largo dell’Australia in aprile.” Minju Joson, il giornale pubblicato dal governo del Nord, sabato avvertiva anche che Seoul aderendo all’esercitazione avrebbe “precluso le relazioni fra le due Coree a favorevoli sviluppi e portato […] ad una guerra nucleare sulla penisola coreana.” (Agenzia France-Presse, 12 febbraio 2006)
L’Agenzia France-Presse di oggi riferisce riguardo uno “studio” del Consiglio Americano sulle Relazioni Estere, il quale afferma: “Gli Stati Uniti ed i loro alleati potrebbero dover disporre più di 460.000 soldati in Corea del Nord per stabilizzare il Paese se collassasse e scoppiasse un’insurrezione, ha detto uno studio confidenziale statunitense datato 28 gennaio”.
Il numero preciso di truppe previste suggerisce che l’analisi del Consiglio sia uno studio accademico.
Ed essa casualmente afferma alquanto spassionatamente che:
“La Corea del Nord confina con due grandi potenze – Cina e Russia – che hanno interessi tali da preoccuparsi del futuro della penisola. Che esse vogliano intervenire attivamente in ogni futura crisi riguardante la Corea del Nord è virtualmente certo.”
Non che gli Stati Uniti non abbiano avventatamente ignorato la preoccupazione della Corea del Sud in proposito. La PSI è la componente navale internazionale di un ben più ampio sforzo voluto dagli USA per espandere la dominazione militare occidentale in tutto il mondo attraverso la NATO.
Un articolo intitolato “Gli USA vogliono che la Corea predisponga legami militari con la NATO” osservava:
“[Un ufficiale sudcoreano] ha detto che Washington punta a prevenire la proliferazione di armi di distruzione di massa dalla Corea del Nord approfittando della NATO oltre che della PSI…” (Chosun Ilbo, 23 novembre 2006)
In un lancio di agenzia intitolato “L’amministrazione entrante dovrebbe valutare di scegliere il programma di difesa missilistico statunitense”, un giornale sudcoreano riferiva che:
“La Corea del Sud è stata restia ad aderire alla PSI in passato per paura di infastidire il Nord, sebbene sia stato recentemente riferito che il Ministro degli Affari Esteri e del Commercio ha proposto al gruppo di transizione che la questione venga presa in seria considerazione.” (Hankyoreh, 21 gennaio 2008)
La PSI è anche stata sfruttata per puntellare altri membri della NATO asiatica, comprese Australia e Nuova Zelanda.
Nell’aprile 2006 USA, Australia, Gran Bretagna, Giappone, Nuova Zelanda e Singapore hanno tenuto una “esercitazione internazionale anti-terrorismo” di tre giorni nell’Australia settentrionale. Nel luglio dell’anno scorso un’esercitazione simile, che è stata raccontata da un quotidiano locale, ha avuto luogo in Nuova Zelanda, che una volta andava orgogliosa della sua presunta neutralità:
“In quel che si vedrà come un altro passo nella rottura del blocco ventennale da parte degli americani nel prender parte ad esercitazioni militari di routine, il suo (degli Stati Uniti – ndr) esercito sarà fortemente rappresentato in un contingente di più di 30 Paesi in arrivo ad Auckland per l’Esercitazione Maru. L’esercitazione è stata organizzata nell’ambito dell’impegno neozelandese nella PSI.” (The Dominion Post, 22 luglio 2008)
Mentre fra l’Australia e la Nuova Zelanda si svolgeva tale esercitazione militare PSI, un’altra esercitazione con 41 nazioni, “Scudo del Pacifico 07”, veniva condotta al largo del Giappone:
“Navi ed aerei da Australia, Gran Bretagna, Francia, Giappone, Nuova Zelanda e Stati Uniti sono stati impiegati nel primo dei tre giorni di esercitazione nel Mare di Sagami al largo della Baia di Tokyo […] nell’ambito della PSI promossa dal Presidente George W. Bush nel 2003.”
Come elemento del processo di inglobamento dell’India in entrambe le NATO, asiatica e globale, è stata anch’essa presa di mira per l’adesione alla PSI.
Un periodico indiano del 2007 evidenzia:
“In anni recenti, Nuova Delhi sembra fare il possibile per assecondare gli “interessi strategici” di Washington. Esercitazioni militari congiunte che coinvolgono le truppe dei due Paesi si sono intensificate per obiettivi e grandezza dal loro inizio a metà anni Novanta. Il desiderio di Washington di circondare la Cina con un’alleanza filoamericana è ben noto. La leadership giapponese ha richiesto a Nuova Delhi di aderire ai progetti ispirati da Washington come la PSI.” (Frontline, 14-27 luglio 2007)
E nello stesso anno Siddharth Varadarajan ha scritto:
“Nonostante l’India rimanga contraria alla PSI, le ultime due esercitazioni navali ‘Malabar’ hanno visto esercitazioni connesse alla PSI come interdizione marittima ed operazioni VBSS (visit – board – search – seizure: visita – a bordo – ricerca – sequestro).” (The Hindu, 5 luglio 2007)
La ricerca di “contrabbando nordcoreano” su scala planetaria e sempre in espansione ha seguito un curioso percorso dall’Oceano Indiano al Golfo Persico passando per i Mari Mediterraneo e Nero.
Nell’ottobre 2006 navi da guerra dagli Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Australia e Bahrein presero parte ad un’esercitazione PSI al largo della costa iraniana nel Golfo Persico.
Il successore di John Bolton al Dipartimento di Stato, Robert Joseph, aveva preparato il lavoro di base in precedenza, avendo “recentemente visitato i vicini dell’Iran, Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, Oman, Kuwait, Arabia Saudita e Qatar, oltre all’Egitto, per discussioni riguardo il comportamento da tenere nei confronti della minaccia iraniana. Le consultazioni erano andate avanti di pari passo con il contesto della PSI…” (Dipartimento di Stato USA, 21 aprile 2006)
Cinque mesi prima dell’esercitazione nel Golfo Persico gli USA avevano guidato “Sole d’Anatolia 2006”, un’esercitazione navale multinazionale al largo della costa mediterranea della Turchia.
Un’agenzia di stampa italiana diramò questa notizia:
“La Turchia ospiterà un’esercitazione militare congiunta con truppe statunitensi nel Mediterraneo orientale a partire da mercoledì – una dimostrazione di forza che giunge contestualmente all’aumento di pressione da parte di Washington nei confronti di Teheran riguardo il suo programma nucleare. Chiaramente parte dell’Iniziativa per la Sicurezza della Proliferazione contro le armi di distruzione di massa, gli ufficiali statunitensi citati nel quotidiano New York Times hanno descritto le manovre come un segno della determinazione di Washington a far sì che la tecnologia missilistica e nucleare non raggiunga l’Iran.” (ADNKronos International, 23 maggio 2006)
Riguardo alla medesima operazione il New York Times ha aggiunto che “gli Stati Uniti stanno tentando di persuadere amichevolmente i Paesi vicini al Golfo Persico, al Mar Arabico e all’Oceano Indiano ad aderire alle esercitazioni…” (New York Times, 22 maggio 2006)
Andando più a ovest, gli USA hanno arruolato Cipro nella PSI nell’aprile 2005.
Nel maggio dell’anno scorso gli USA e la Polonia si sono impegnati in un’altra operazione PSI, “Scudo Adriatico 08”, ospitata dalla Croazia, che includeva la partecipazione di Bosnia, Croazia, Italia, Montenegro e Slovenia.
Sette mesi più tardi il Congresso statunitense avrebbe elogiato la Croazia – quella della famigerata Operazione Tempesta del 1995 diretta dagli USA e della nostalgia strisciante per i collaborazionisti nazisti Ustasha – con una risoluzione che esprimeva la certezza degli USA che “la Croazia può dare un significativo contributo alla NATO e che ha già spedito il suo contingente in Afghanistan” come parte della Forza di Assistenza e Sicurezza Internazionale (ISAF) a guida NATO e la Croazia “sta partecipando alla PSI con nazioni altrettanto ben disposte nel mondo…” (Hina, 15 dicembre 2005)
Al summit della NATO dell’anno scorso in Romania, la Croazia venne invitata ad aderire all’Alleanza come un membro a tutti gli effetti e diverrà tale al summit del 3-4 aprile per il 60° anniversario della NATO.
Analogamente il proconsole americano in Ucraina, Viktor Yushchenko, lasciapassare della NATO per un confine di 2.400 chilometri con la Russia, un anno fà promise solennemente che “l’Ucraina interagisce con gli Stati membri della NATO tramite il nuovo meccanismo di cooperazione nella stesura ed implementazione dei trattati fondamentali riguardanti la sicurezza internazionale. In particolare, il nostro Paese ha aderito all’Iniziativa per la Sicurezza della Proliferazione…” (ForUm, 16 gennaio 2008)
Riguardo il tema generale della relazione della PSI con la NATO globale, questi estratti da un discorso del 2005 del Segretario Generale Jaap de Hoop Scheffer in Giappone chiarificheranno le questioni:
Noi vogliamo assicurare che una molto più ampia proporzione delle nostre forze militari è subito disponibile per operazioni lontano dalla madrepatria. Noi comprendiamo anche molto bene che affrontare le minacce globali odierne richiede la cooperazione internazionale più ampia possibile e così noi stiamo stringendo relazioni con i nostri alleati in Europa, Caucaso ed Asia Centrale, ed in Nord Africa e nel Medio Oriente. E come molti alleati della NATO anche voi [giapponesi] siete un partecipante attivo dell’Iniziativa per la Sicurezza della Proliferazione…” (NATO International, 4 aprile 2005)
Le precedenti considerazioni dimostrano che, proprio come per il dislocamento da parte di Washington di basi missilistiche di intercettori in terza linea, ma potenzialmente da primo colpo, nell’Europa dell’est, la Corea del Nord e l’Iran sono pretesti più che cause.
E la sottostante, incessante, spietata strategia è quella di espandere e mantenere schieramenti militari globali sia per ricatto che per aggressioni.
Se l’Operazione Enduring Freedom in Afghanistan mira ad assicurare attraverso altri ambiti il controllo navale ed alleato dell’Oceano Indiano; se l’Operazione Enduring Freedom nelle Filippine porta la forza navale occidentale nel sudest asiatico; se l’Operazione Enduring Freedom nel Corno d’Africa rafforza il controllo del Mare Arabico, del Golfo di Aden e del Mar Rosso, con il recente coinvolgimento della NATO e dell’UE nell’Operazione Atalanta; se l’Operazione della NATO Active Endeavour controlla tutta la navigazione verso ed attraverso il Mediterraneo, complementarmente al blocco navale del Libano da parte della Germania e di altre nazioni NATO, prossimo a venire applicato pure a Gaza; se tutte queste operazioni assicurano il dominio di regioni critiche degli oceani e dei mari del mondo, la PSI è progressivamente la struttura portante che le integra tutte quante.
E retrostante ed a sostegno della PSI c’è ciò che l’attuale presidente dei Capi di Stato Maggiore Congiunto delle forze armate statunitensi Michael Mullen, mentre spiegava questa strategia in qualità di Capo delle Operazioni Navali, ha chiamato “la Flotta dalle 1.000 Navi” in un editoriale del 29 ottobre 2006 nell’Honolulu Advertiser.
La Flotta da 1.000 Navi, ha detto Mullen, “[è] un’alleanza marittima globale che unisce forze marittime, operatori portuali, armatori commerciali ed agenzie internazionali, governative e non, per affrontare i mutui problemi”.
L’anno seguente, la pubblicazione della Marina Militare USA “Navy Newsstand” riassumeva la questione:
“Il Viceammiraglio John G. Morgan Jr., comandante aggiunto delle Operazioni Navali per Informazione, Piani e Strategia, ed il Contrammiraglio Michael C. Bachman, comandante del Comando dei Sistemi di Guerra Spaziale e Navale, hanno spiegato che la Flotta da 1.000 Navi è una rete internazionale di flotte alleate che lavoreranno assieme per creare una forza in grado di sorvegliare tutti i mari. ‘Una nuova era navale sta cominciando e noi ci stiamo adoperando proprio per quest’obiettivo’ ha detto Morgan. ‘La Flotta è stata sfidata. La Flotta sta viaggiando e dando l’idea a tutto il mondo di una Flotta da 1.000 Navi per sorvegliare i mari.’ ‘Quest’idea della Flotta da 1.000 Navi è soprattutto una rete marittima globale, un’immensa rete di condivisione’ ha detto Morgan. ‘Questa è la più grande sfida che abbiamo di fronte: una rete di flotte di molti Paesi integrate con un solo scopo in mente, quello cioè di sorvegliare i mari del mondo.’

[Traduzione di L. Salimbeni]

5 thoughts on “L’Iniziativa di Sicurezza della Proliferazione (PSI) ed il controllo degli oceani

  1. E cosa pensano di fare con le 1000 navi, forse bloccare i commerci di Russia e Cina? Se tentassero questo, allora i Russi e i Cinesi risponderebbero con i missili nucleari, e poi le mille dove approdano se gli usa non esistono più, e con loro tutti gli altri. Stanno pisciando fuori dal pitale, come al solito….Irak, Afghanistan e sopratutto Vietnam insegnano,
    dio acceca coloro che vuole perdere.

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  2. sbarco in vista?

    (AGI) – Washington, 15 apr. – La lotta alla pirateria nel Golfo di Aden parte dal congelamento dei beni dei banditi. Ne e’ convinto il Dipartimento di stato americano che, ha annunciato Hillary Clinton, ha messo a punto un piano in quattro punti. Il segretario di Stato si e’ appellato alla collaborazione della comunita’ internazionale per far fronte al problema e ha annunciato che un americano inviato partecipera’ alla conferenza dei domatori per la Somalia che si terra’ a Bruxelles il 22 e 23 aprile.
    “Avremo pure a che fare con un crimine da 17mo secolo, ma dobbiamo affrontarlo con mezzi da 21mo secolo” ha detto la Clinton, “il nostro inviato lavorera’ con gli alleati per aiutare i somali a contribuire a colpire le basi dei pirati e creare incentivi che tengano i giovani lontani dalla tentazione di unirsi a queste bande”. Washington valutera’ anche come fare per congelare i beni dei pirati, e far si’ che “gli stati si assumano la responsabilita’ di perseguire e incarcerare i pirati catturati”. Ma dall’inconsistente governo somalo viene un altro appello: non manca la volonta’, ma i mezzi per combattere il fenomeno.
    “Il governo somalo vuole impegnarsi in un seria lotta contro i pirati e porre fine alle loro gesta che hanno guastato l’immagine della Paese nel mondo” ha detto Abderrahman Abdel Chakour a margine di una riunione dell’Unione africana a Tripoli, “siano pronti a creare una forza navale che li combatta, ma abbiamo bisogno del sostegno internazionale nella logistica, nei finanziamenti e nell’addestramento. La battaglia non deve cominciare in mare, ma sulla terra: e’ li’ che bisogna concentrare gli sforzi della comunita’ internazionale”.

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  3. Contro i pirati del Corno d’Africa è guerra totale,
    di Antonio Mazzeo

    Una nuova ondata di sequestri di navi e petroliere, circa 300 marinai nelle mani dei sequestratori, gli inseguimenti da parte di una cinquantina di imbarcazioni militari provenienti da Europa, Asia, Africa e Nord America, gli arresti e le deportazioni a paesi terzi, le prime 5 vittime, quattro “pirati” ed un ostaggio, dopo la controffensive delle unità da guerra francesi e statunitensi. Ha subito una drammatica escalation la campagna internazionale contro la “pirateria” che imperversa nelle acque del Golfo di Aden. L’evento più emblematico, seguito in diretta da centinaia di milioni di telespettatori, è avvenuto la domenica di Pasqua, quando i tiratori scelti del corpo d’élite dei Navy Seals della marina statunitense, imbarcati sulla fregata lanciamissili “Bainbridge”, hanno ucciso tre pirati che navigavano a bordo di una scialuppa a largo delle coste somale. Nell’imbarcazione era tenuto prigioniero il capitano Richard Philipps, sequestrato dopo il fallito arrembaggio alla nave cargo Maersk-Alabama. Un quarto sequestratore è stato fatto prigioniero dai marines e condotto sull’unità navale USNS Lewis and Clark, trasformata in vero e proprio carcere galleggiante per la detenzione “provvisoria” delle persone accusate di pirateria. I militari USA decideranno nei prossimi giorni se deportare il prigioniero in Kenya, paese con cui è stato sottoscritto un accordo che ricorda le extraordinary renditions post 11 settembre, o se processarlo invece direttamente negli Stati Uniti.
    (…)

    Un atto “dovuto” quello del sanguinoso blitz dei Navy Seals, non fosse altro che la persona in mano ai pirati era al comando di una delle maggiori imbarcazioni da trasporto della compagnia di navigazione statunitense Maersk Line Limited, una delle più strenue sostenitrici di Africom, il nuovo comando istituito dalle forze armate USA per le operazioni di guerra nel continente africano. Il 27 novembre 2007, la società privata aveva organizzato un convegno dal titolo “Africom: anticipare le richieste logistiche”, invitando come relatore Dan Pike, direttore del team per gli affari africani del Dipartimento della Difesa USA.
    (…)

    Con l’acutizzarsi della crociata anti-pirateria, l’ammiraglio Mike Mullen che guida la flotta USA anti-pirati, ha preannunciato che le forze armate rivedranno “globalmente e profondamente” le loro strategie operative. In discussione l’ipotesi di estendere le azioni armate direttamente in territorio somalo, forti dell’autorizzazione deliberata recentemente dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
    (…)

    http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o14767

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  4. L’ONU chiede d’intensificare le attività militari contro i pirati somali,
    di Antonio Mazzeo

    Il rafforzamento delle operazioni di pattugliamento delle acque del Corno d’Africa, a cui partecipano già una settantina di fregate, cacciatorpediniere e navi da sbarco di Stati Uniti, NATO, UE, Cina, Russia, Iran e paesi africane e mediorientali, non è però considerata la scelta più opportuna ed appropriata dagli analisti militari occidentali. Per Peter Pham, direttore dell’Istituto di studi internazionali della “James Madison University” di Harrisonburg, Virginia, la fitta presenza navale nel Golfo di Aden sta accrescendo la possibilità che si verifichino gravi d’incidenti. “Penso innanzitutto ai rischi o d’incidenti navali che coinvolgano una parte delle unità e delle flotte che operano in un’area relativamente stretta e dove si concentra la maggior parte dei pattugliatori, ognuno dei quali segue regole di ingaggio differenti e spesso contraddittorie”, spiega Peter Pham. Per il docente è sempre più probabile che le numerose unità militari diventino facile bersaglio di azioni terroristiche da parte di gruppi dei sequestratori.

    Lo scarso coordinamento tra le flotte che operano in Corno d’Africa, in particolare quelle battenti bandiera NATO e dell’Unione europea, preoccupa particolarmente anche Bjoern H. Seibert, ricercatore del Royal United Services Institute (RUSI) di Londra. “Le due missioni non cooperano come dovrebbero”, afferma Seibert. “Ciò duplica gli sforzi e il disordine che ne deriva può favorire i pirati. Ogni istituzione spera di provare la propria superiorità, la rivalità UE -NATO è inutile e forse anche controproduttiva. Per coprire rapidamente e in modo efficace un’area operativa vasta e sconosciuta e dove non si può contare sull’appoggio della nazione ospitante, è vitale il coordinamento tra le forze militari. Con strutture di comando separate, le duplicazioni e le contraddizioni sono inevitabili”. Per il ricercatore del RUSI non sono poi giustificabili i costi finanziari raggiunti dalle due missioni UE e NATO, specie adesso che “i budget per la difesa negli Stati Uniti e in Europa sono colpiti dalla crisi economica”.

    Di certo i numeri non danno ragione a chi ha investito ingenti mezzi nella caccia marittima ai pirati. Secondo l’International Maritime Bureau, gli atti di pirateria al largo della Somalia sono decuplicati nel primo trimestre del 2009, rispetto allo stesso periodo del 2008 (6 contro 61). Così al Pentagono e a Bruxelles si guarda con sempre più favore alla possibilità di estendere la guerra sulla terraferma. Il summit internazionale convocato dalle Nazioni Unite il prossimo 23 aprile e che vedrà una trentina di Paesi discutere di pirateria, avrà tra i punti all’ordine del giorno la valutazione di un possibile piano d’attacco in territorio somalo.

    “L’aumento del numero dei sequestri di navi mercanti dimostra che per contrastare la pirateria, gli sforzi in mare non sono sufficienti e che bisogna preparasi ad intervenire contro le basi terrestri”, commentano a Washington. Unità da sbarco di Stati Uniti Gran Bretagna, con a bordo centinaia di marines, sarebbero in rotta verso la Somalia,mentre sono stati messi in stato d’allarme gli oltre 2.000 militari del Combined Joint Task Force – Horn of Africa, la forza di pronto intervento USA ospitata a Camp Lemonier (Gibuti), dipendente dal nuovo comando per le operazioni nel continente africano, Africom. Camp Lemonier è divenuto il principale hub logistico per le operazioni marittime nel Golfo di Aden e buona parte dei velivoli aerei di stanza nella base sono impegnati in missioni di sorveglianza anti-pirateria. Anche se alla task force USA è affidato un ampio ventaglio di interventi in un’area geografica che si estende dal Sudan al Sud Africa, la lotta per la “libertà di navigazione” ha contribuito enormemente all’accelerazione dei programmi di ampliamento e potenziamento della base di Gibuti. Camp Lemonier è oggi la maggiore delle installazioni militari USA in Africa; con un estensione di 500 acri (erano solo 94 nel 2004), ospita piste aeree e infrastrutture da guerra che solo nell’ultimo triennio hanno comportato per il Pentagono una spesa di più di 100 milioni di dollari.
    (…)

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  5. (ASCA-AFP) – Pyongyang, 27 mag – La Corea del Nord ha alzato i toni, lanciando un nuovo missile, dichiarandosi non piu’ legata all’armistizio del 1953 con la Corea del Sud e minacciando il suo vicino meridionale di un attacco militare, in un escalation della tensione due giorni dopo l’annuncio da parte di Pyongyang di un test nucleare condannato da tutta la comunita’ internazionale.
    In un comunicato dell’esercito citato dall’agenzia Kcna, il regime comunista ha fatto sapere di ritenere la decisione annunciata ieri da Seoul di unirsi all’iniziativa di sicurezza contro la proliferazione (Psi) una ”dichiarazione di guerra”. Dopo aver annunciato lunedi’ un secondo test nucleare (il primo aveva avuto luogo nel 2006), condannato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, Pyongyang ha proceduto ieri e oggi a nuovi lanci di missili, nonostante gli appelli internazionali per nuove sanzioni nei suoi confronti. Secondo la stampa sudcoreana, lo Stato stalinista avrebbe inoltre riavviato la produzione di combustibile nucleare nel suo sito di Yongbyon, dove sono state constatate delle emissioni di vapore.
    Fino a oggi Seoul aveva solamente lo status di osservatore della Psi. Lanciata dagli Stati Uniti nel 2003, la Psi, alla quale hanno aderito 90 Paesi, autorizza il fermo in alto mare per controlli di navi sospettate di trasportare materiale nucleare e altri armi di distruzione di massa.

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