Libertà per Mumia Abu-Jamal

“Quella di Mumia Abu-Jamal è una vita quasi completamente priva della libertà.
Arrestato a 27 anni, accusato della morte di un poliziotto bianco, oggi ne ha 67. Quarant’anni spesi a rivendicare la sua innocenza, è senza dubbio uno dei detenuti americani incarcerati da più tempo, e spera ancora di tornare a casa.
Mumia Abu-Jamal, un giornalista afroamericano vicino alle Pantere Nere, impegnato a combattere la segregazione, ha visto la sua vita sconvolta nel dicembre 1981. All’epoca era un tassista notturno per sfamare la sua famiglia. All’alba del 9 dicembre lascia un cliente in un quartiere meridionale di Philadelphia, Pennsylvania, incappa in una sparatoria e viene ferito. Nella sparatoria viene ucciso un poliziotto bianco, Daniel Faulkner: Mumia Abu-Jamal è accusato dell’omicidio. Malgrado la mancanza di prove e un’indagine fallimentare, Mumia Abu-Jamal viene condannato a morte il 3 luglio 1982.
Grazie alla mobilitazione internazionale e americana, è sfuggito all’esecuzione due volte, nel 1995 e nel 1999. Nel dicembre 2001 la sua condanna a morte viene sospesa, anche se resta rinchiuso nel braccio della morte. Dopo 34 anni di carcere, 30 dei quali sperando di sfuggire all’iniezione letale, la condanna di Mumia Abu-Jamal è stata commutata in ergastolo senza possibilità di libertà vigilata. Nel 2011 viene mandato alla prigione di Mahanoy, a due ore e mezza di macchina da Filadelfia. Mumia Abu-Jamal è ancora lì. Il detenuto AM8335 sta entrando nel suo quarantesimo anno di detenzione.”

Mumia Abu-Jamal, quarant’anni dietro le sbarre di Nadine Epstain continua qui.

Compassione a Paesi alterni

Aggiungo soltanto che anche la storia delle lapidazioni in Iran è una bufala. Per quanto la lapidazione sia formalmente prevista dai codici, l’Iran ha posto fin dal 2002 una moratoria su questo tipo di pena capitale, tant’è vero che – come perfino i nostri media ogni tanto sono costretti ad ammettere, tra una lacrimevole sbrodolata e l’altra sui “diritti delle donne in Iran” – la pena cui Sakineh sarebbe condannata in caso di verdetto di colpevolezza per concorso in omicidio (non per semplice adulterio, come favoleggiato dai nostri giornali) sarebbe l’impiccagione, non la lapidazione. Tutte le notizie di lapidazioni in Iran dopo il 2002 vengono da fonti occidentali e non sono mai state confermate (e anzi sono state ripetutamente smentite) dalle autorità iraniane. Inoltre, nel 2008 è stato presentato al Parlamento iraniano un progetto di legge che chiede di eliminare anche formalmente la menzione della lapidazione dai codici penali. La revisione del sistema penale iraniano, in corso dal giugno 2009, mira, tra le molte altre cose, anche a questo obiettivo.
Paesi in cui la lapidazione è effettivamente praticata sono l’Afghanistan e l’Arabia Saudita (che prevede per le adultere anche la pubblica decapitazione), ma raramente vengono citati dalle cronache, trattandosi di “protettorati” o di alleati degli Stati Uniti.
(…)
En passant, ricordo anche che negli Stati Uniti, in Virginia, sta per essere giustiziata Teresa Lewis, per crimini non troppo dissimili da quelli di Sakineh (anche lei aveva organizzato l’omicidio del marito, insieme a quello del figliastro). Curiosamente, i giornali occidentali non hanno dedicato alla sua vicenda neppure un millesimo dello spazio dedicato a Sakineh, niente petizioni pubbliche, niente accorate rimostranze contro la disumanità del sistema penale americano. I riflettori della propaganda, evidentemente, non sono programmati per accendersi sulla barbarie dei dominanti.

Da Santa Sakineh, martire delle corna, di Gianluca Freda.

Novembre 2010, si ricomincia…
Non è stata impiccata, no. Sakineh – processata per l’omicidio del marito – è ancora viva e vegeta in prigione. Eppure gli allarmi rilanciati fino a ieri erano fortissimi: la stanno per uccidere, sì, lei, quella che rischiava la lapidazione perché donna in un regime che odia le donne. Ma non era vero niente. Così, milioni di piazze pavesate con il bel volto della donna iraniana, hanno composto gratis e in buonissima fede lo sfondo per l’instancabile propaganda che vuole la guerra contro Teheran.
Il corpo di Teresa Lewis, una “Sakineh” statunitense, giace da oltre un mese in qualche dimenticato cimitero, senza che «l’Unità» si sia presa la briga di mettere una sola volta la sua foto a fianco della testata, come invece fa ossessivamente da mesi per l’imputata iraniana. Come nascono queste distorsioni della percezione, il diverso peso di una vita rispetto a un’altra? Come mai un sistema penale è improvvisamente sotto gli occhi di tutti (l’Iran) e altri sono dimenticati (gli USA, l’Arabia Saudita?).
Le notizie che rimbalzano sul caso Sakineh, secondo gli organi informativi nostrani, provengono da varie Ong e organizzazioni umanitarie internazionali. Il lettore viene frastornato da una serie di sigle, che accumulandosi mettono in scena un movimento ampio. In particolare si fa riferimento al «Comitato internazionale contro le esecuzioni», al «Comitato internazionale contro la lapidazione», al «Consiglio centrale degli ex-musulmani», a «Iran Human Rights».
La particolarità è che le prime tre di queste organizzazioni fanno capo alla stessa persona: si tratta di Mina Ahadi, dissidente iraniana in Germania.
Le recenti notizie sull’imminente esecuzione di Sakineh Mohammadi Ashtiani comparse sulla nostra stampa sembrano avere tutte, dunque, la stessa fonte: ad esempio il «Sole24Ore» del 3 novembre cita il Comitato contro le esecuzioni (il cui portavoce è Mina Ahadi); il «Corriere della Sera» dello stesso giorno cita come fonte il Comitato contro la lapidazione (sempre Mina Ahadi), ma a rafforzare il discorso viene citato anche il portavoce di Iran Human Rights, il quale parla in una Adnkronos di “segnali inquietanti”, “preoccupanti”, che giungono da Teheran, ma poi specifica che mancano conferme. Dunque le sue dichiarazioni sembrano essere commenti rispetto a quanto già annunciato da Mina Ahadi, non altre fonti.
Le affermazioni di Mina Ahadi fanno sponda con Parigi e vengono riprese dal filosofo militante filoisraeliano Bernard-Henry Lévy che le amplifica attraverso il suo sito La règle du jeu. È da sottolineare che la campagna su Sakineh è partita e si è diffusa dalla Francia in tutta Europa soprattutto ad opera di Lévy, ma costui non cita mai fonti diverse da quelle provenienti da Mina Ahadi.
La Ahadi è anche la fonte principale (se non unica), in quanto testimone uditiva, circa l’arresto del figlio e dell’avvocato di Sakineh, avvenuto mentre i due stavano rilasciando una intervista a dei giornalisti tedeschi con la Ahadi che svolgeva il ruolo di interprete via telefono.
Mina Ahadi è un’esponente del Partito Comunista dei Lavoratori iraniano in esilio. Suo marito, impegnato nella stessa organizzazione, venne ucciso in Iran dopo la rivoluzione khomeinista. Ha lavorato dieci anni per la radio del partito quando faceva base nel Kurdistan iracheno. Riparata in Germania, nel 2007 ha fondato il Consiglio centrale degli «ex-musulmani» che ha come scopo la difesa dei musulmani, soprattutto all’estero, dall’ingerenza delle organizzazioni islamiche locali. Questa organizzazione propone addirittura l’abiura dell’Islam ritenendo che esso non sia riformabile, ma poi specifica che lotta contro l’Islam politico, non contro la religione.
(…)

Da Le distorsioni del caso Sakineh, di Sabrina Scanti.
[grassetto nostro]

Baku, 18 novembre – L’inchiesta su Sakineh Mohammadi-Ashtiani è ancora in corso: lo ha precisato Mahmoud Ahmadinejad in persona. “Stiamo ancora indagando sul caso. Gli investigatori iraniani sono molto competenti e arriveranno alle giuste conclusioni”, ha detto il presidente iraniano durante una visita a Baku, in Azerbagian.
Sulle pressioni della comunità internazionale affinché la sentenza sia rivista, Ahmadinejad ha risposto con una frecciata. “Voglio fare un mio appello: negli USA ci sono 53 donne condannate a morte. Perche’ il mondo non chiede a Washington perdono per queste donne?”, ha detto.
(AGI)

[Continua]