Ai confini della realtà

Riceviamo da un nostro lettore, cittadino russo residente in Italia fin dalla tenera età, questa testimonianza relativa alla sua esperienza da studente presso l’Università di Bologna, ed in particolare circa l’esito della laurea magistrale conseguita presso la facoltà di scienze politiche, sede di Forlì.

Ho deciso di raccontare cosa è successo lo scorso settembre durante la mia procedura di laurea. Sono passati sette mesi, ma se ci penso divento ancora realmente cattivo. In buona parte la cosa la si deve all’Ateneo, in piccola ma sostanziale parte alla locale Polizia. Nel settembre 2016, avrei dovuto conseguire la mia laurea magistrale presso la facoltá di scienze politiche dell’Universitá di Bologna (sede di Forlì), il giorno 21 ho sostenuto la discussione e il 23 sarebbe dovuta avvenire la proclamazione. Mi laureavo in Relazioni Internazionali (LM-52), corso di laurea internazionale, interamente in lingua inglese, il primo anno in Italia, il secondo all’estero. Faccio qualche precisazione tecnica per contestualizzare. La tesi è stata caricata sulla mia pagina personale nel sito dell’Ateneo il 24 agosto 2016, quando il termine di consegna era il 5 settembre. Lo stesso giorno, 24 agosto, la tesi è stata inviata al relatore (chiamato Supervisor), il quale l’ha approvata per e-mail il 29 successivo. Dal 5 al 21 settembre, giorno fissato per la discussione, l’Ateneo doveva inviarla al correlatore (chiamato Second Reader, e scelto liberamente dall’Ateneo). Il correlatore non si è mai messo in contatto con me né con il relatore in tutto il periodo, vi erano oltre 15 giorni dalla data di consegna al giorno della discussione e dubito (anche se al riguardo non ho certezza) che l’Ateneo abbia inviato al correlatore la tesi all’ultimo, inoltre dubito che il correlatore abbia letto la tesi il giorno prima o il giorno stesso della discussione. Infine la tesi stampata e rilegata, presentata il 21 alla Commissione durate la discussione, era la stessa inviata al relatore, e caricata sul sito dell’Ateneo. Io come studente ho quindi rispettato totalmente la parte tempistica e burocratica.
La tesi, già dal titolo – The New Silk Road in the Eurasian Integration, against the Western World Order. An analysis of possible future implications in international politics and economy – presenta una contrapposizione politica; a mio parere, è ovvio che una tesi di relazioni internazionali non possa mai essere oggettiva perché Relazioni Internazionali é una disciplina basata su politica, filosofia politica ad altre scienze sociali le quali non potrano mai essere totalmente oggettive come possono essere le materie scientifiche. La tesi, divisa cinque capitoli e relative conclusioni, vuole dimostrare che il processo di multipolarizzazione del mondo, di cui il progetto cinese “The New Silk Road” è parte, può porre fine al dominio unilaterale occidentale. Essa non si basa sul descrivere questo progetto, per ora non ancora realizzato, ma analizza lo scenario internazionale degli ultimi anni e spiega perché è auspicabile la multipolarizzazione in politica internazionale. Vi è quindi esposta una visione, una concezione politca delle relazioni internazionali antitetica a quella attuale, che puó non essere apprezzata o condivisa soprattutto in ambienti occidentali. Continua a leggere

La resistenza in Yemen: coraggio, compassione e molto cuore

Nella parte più buia dell’Arabia del sud, lontano dai riflettori, là dove nessun giornalista osa avventurarsi perché Riad ha costruito una cortina di ferro, ecco lo Yemen, un Paese spezzato – un sanguinante buco nero umanitario, e un deserto dal punto di vista istituzionale.

Nei sussulti di questo mortale attacco contro il suo popolo, la sua sovranità e il suo diritto all’autodeterminazione politica, lo Yemen è riuscito in qualche modo a resistere alla furia della coalizione militare a guida saudita; eppure, è la parte misera in un conflitto che da tempo avrebbe dovuto vincere ogni sua resistenza.
Ma lo Yemen non è un Paese qualunque. Ha già dimostrato che il suo popolo, anche quando sanguina, mantiene una forza d’acciaio che nessun conquistatore nella storia è mai riuscito a vincere. Gli Yemeniti non sono un popolo conquistato, così come non sono un popolo di conquistatori. Sono, piuttosto, un popolo gentile e armonioso.
L’anima dello Yemen, le sue mura, i suoi monumenti, le sue montagne e vallate recano la memoria dei tempi antichi, quando il profeta camminava sulla Terra e Dio parlava con i miracoli. La leggenda vuole che Sana’a, la capitale, sia stata fondata da Shem, figlio del patriarca Noè.
Gemma storica, Sana’a rischia di essere per sempre annichilita da Riad – e tutto ciò in nome di un feudalesimo politico. Il regno saudita infatti non cerca in Yemen di riportare al potere l’ex presidente Abd Rabbu Mansour Hadi, che da tempo ha perso ogni possibile legittimazione alla presidenza. I reali Saud perseguono piuttosto un obiettivo di riduzione in schiavitù del Paese, dal punto di vista politico e istituzionale, e l’ancoraggio del wahabismo nell’Arabia del sud, l’ultimo bastione religioso indipendente nella regione.
Oggi lo Yemen è piagato dalla distruzione. Da dieci interminabili mesi il regno dei Saud devasta questo Paese impoverito, facendo piovere dal cielo morte, crudeltà e abominio con ogni bomba a grappolo, con ogni esplosione.
La guerra contro lo Yemen è la meno mediatizzata dell’ultimo decennio. Il Paese sta quasi letteralmente scivolando nel precipizio, ignorato e abbandonato perché la sua lotta è contro l’agenda imperialista dell’Arabia Saudita wahabita, una nazione che l’amicizia con gli Stati Uniti d’America ha reso eccezionale. Continua a leggere

Per un goccio di oro nero

lainfo-es-33289-protesta_yemen-5f0f8

Aerei che lanciano bombe sui civili, una popolazione martoriata, assediata e affamata, bambini cenciosi, strade, ponti, scuole, ospedali, aree residenziali, cimiteri, aeroporti distrutti, un patrimonio archeologico devastato. No, questa volta non si tratta della Siria, ma di una nazione dimenticata, lo Yemen.

Dal 25 marzo, lo Yemen viene attaccato e invaso dall’Arabia Saudita, questo Paese amico, che ci rifornisce di petrolio e acquista le nostre armi.
Secondo l’ONU, in meno di 200 giorni di guerra, il regime wahhabita ha ucciso nello Yemen circa 5.000 persone tra cui 500 bambini.
Il numero delle vittime civili della guerra in Yemen è proporzionalmente maggiore rispetto al numero di civili uccisi nella guerra in Siria.
Infatti, nello Yemen la metà dei morti sono civili mentre sono un terzo le vittime civili in Siria.
Eppure nessuno tra gli umanitari di professione che insultano Assad apre bocca contro il re Salman.
La Siria si è vista imporre una guerra condotta per procura da terroristi, una politica di isolamento e di sanzioni economiche. Per contro, l’Arabia Saudita raccoglie i nostri salamelecchi e la nostra compiacenza.
Con le sue bombe il “nostro amico Re” Salman non fa che distruggere. Impone un blocco terrestre, marittimo e aereo che secondo Medici Senza Frontiere (MSF) uccide tanti civili quanto la guerra guerreggiata. 20 milioni di yemeniti infatti rischiano di morire di fame e di sete a causa della guerra e dell’embargo saudita.
Raramente si vede all’opera in modo così eclatante la politica dei due pesi e delle due misure che scatena le passioni sulla Siria e lascia di marmo sullo Yemen.
Questa politica dei due pesi e due misure sembra un incontro di boxe tra un peso massimo e un peso mosca, dove il peso massimo può colpire il peso mosca sotto la cintura, ma non il contrario.

Il vaso di ferro contro il coccio di argilla
L’aggressione saudita contro lo Yemen riveste una dimensione mitica.
E’ la storia del Paese arabo più ricco del mondo in guerra contro il Paese arabo più povero del mondo.
Ancora una volta, siamo soggetti alla legge del più forte.
Abbiamo acconsentito che il nostro amico re Salman fabbricasse una guerra tra sciiti e sunniti in Yemen quando la maggior parte dei musulmani del Paese pregano insieme in moschee senza etichette confessionali.
Abbiamo demonizzato e vietato il movimento ribelle Ansarullah definendolo “sciita” o “huthi” per compiacere il nostro amico re Salman quando Ansarullah è una coalizione patriottica che include molte figure sunnite come Saad Ibn Aqeel o gruppi non religiosi, come il Partito socialista arabo Baath dello Yemen.
Abbiamo escluso Ansarullah dai colloqui di pace mentre il movimento ribelle stava negoziando con i suoi avversari politici, tra cui con Abderrabo Mansour al Hadi, agente saudita che allora era agli arresti domiciliari.
Abbiamo lasciato lo Yemen diventare il cortile di Re Salman mentre questa nazione sognava l’indipendenza.
Abbiamo stornato lo sguardo quando gli scagnozzi del re Salman (Al Qaeda e ISIS) hanno bruciato la chiesa di San Giuseppe ad Aden e bombardato la moschea sciita di Al Moayyad a Jarraf.
Non abbiamo versato una sola lacrima per i bambini dello Yemen bruciati vivi dai bombardieri del nostro amico re Salman.
Lo Yemen è un Paese così lontano che i suoi rifugiati non possono raggiungerci.
Lo Yemen è un Paese così disprezzato che le sue lamentele non possono arrivarci.
Se Jean de la Fontaine avesse assistito alla guerra del re dell’Arabia Saudita contro il suo povero vicino, avrebbe citato il seguente passo della sua favola del vaso di terracotta e del vaso di ferro:
“Il più debole andò in mille pezzi
senza avere il tempo di dire amen”.
Ecco che da quasi 200 giorni il movimento internazionale per la pace lascia che il vaso di ferro si scontri con un Paese fragile come una vaso di terracotta.
E’ come se una pentola di ferro ci fosse caduta in testa.

Lo Yemen di oggi è il Vietnam di ieri
Durante gli anni ’60 e ’70, il Vietnam ha sperimentato più o meno lo stesso scenario dello Yemen di oggi.
Ngo Dinh Diem era il fantoccio degli USA nel Vietnam del Sud come d’Abderrabo Mansour al Hadi lo è nello Yemen.
I Vietcong (FNL) di ieri sono Ansarullah di oggi.
Che il primo avesse una connotazione comunista e il secondo sia di ispirazione sciita, poco importa. I movimenti nazionalisti vietnamita e yemenita mirano entrambi all’unificazione del loro Paese e all’emancipazione dal dominio degli Stati Uniti.
All’epoca, il movimento internazionale per la pace ha difeso la resistenza del popolo vietnamita, nonostante fosse comunista e sostenuto dall’Unione Sovietica e dalla Cina.
Oggi, il movimento internazionale per la pace, non solo rifiuta di difendere i diritti del popolo yemenita alla resistenza, con il pretesto che è sostenuta da Iran e Siria, ma non difende neppure quella che è la sua ragione d’essere, vale a dire la pace.

Niente sangue per il petrolio
Non molto tempo fa, nel 1991 e nel 2003, gli USA hanno usato il suolo saudita per condurre la loro guerra contro l’Irak.
Allora eravamo milioni di persone a gridare: “Niente sangue per il petrolio” (No Blood for Oil).
Oggi, né gli USA, né l’Arabia Saudita, né i motivi della guerra sono cambiati.
Inoltre, il sangue continua a scorrere per il petrolio.
Solo il movimento per la pace è cambiato.
Non è nemmeno più un movimento, ma solo una massa inerte e silenziosa, cullata dalle illusioni come la “rivoluzione araba”, il “diritto di ingerenza” e la “responsabilità di proteggere”… a colpi di bombe della NATO.
Nel frattempo, il popolo dello Yemen è vittima di una guerra, una guerra che a noi non è estranea, una guerra molto sanguinosa alla quale i nostri governi hanno dato il via libera per un goccio di oro nero.
Bahar Kimyongür

Fonte

550046_514038708642269_138765216_n

L’ISIS contro lo Yemen

CFztHu3UMAASmCb

Quattro bombe dell’ISIS contro le moschee di Sana’a

A poche ore dall’inizio del mese sacro di Rama­dan, ieri sera 4 auto­bomba hanno vio­lato di nuovo la capi­tale yeme­nita Sana’a. Almeno 31 i morti, secondo il bilan­cio a pochi minuti dall’attacco, desti­nato a salire. Kami­kaze hanno cen­trato tre moschee e il quar­tier gene­rale del movi­mento sciita Hou­thi, che da set­tem­bre ha occu­pato la capitale.
«Quat­tro auto­bomba hanno col­pito l’ufficio poli­tico di Ansa­rul­lah [il par­tito Hou­thi] e le moschee di Hashush, Kibsi e Qubat al-Khadra», ha detto un fun­zio­na­rio Hou­thi. In tarda serata è giunta la riven­di­ca­zione online di soste­ni­tori dell’ISIS che attri­bui­scono l’attacco allo Stato Isla­mico. Già prima gli Hou­thi ave­vano pun­tato il dito con­tro l’ISIS, respon­sa­bile del deva­stante attacco con­tro una moschea di Sana’a che il 20 marzo uccise quasi 150 per­sone: quel giorno il califfo mostrava di avere cel­lule attive nel paese dove ad avere il mono­po­lio dell’estremismo è al Qaeda.
Poche ore prima gli Hou­thi ave­vano fatto sal­tare in aria la casa del lea­der gover­na­tivo Abdel Aziz Jubari, impe­gnato a Gine­vra al nego­ziato ONU. Perché, men­tre lo Yemen esplode per la guerra civile e le bombe sau­dite, in Sviz­zera va in scena il silen­zio: le parti non si par­lano. Gli Hou­thi, che hanno pro­po­sto una tre­gua accet­tata dal governo uffi­ciale, rifiu­tano di discu­tere con il pre­si­dente Hadi «per­ché ille­git­timo» e chie­dono il nego­ziato diretto con l’Arabia Sau­dita, la mano che muove i fili della crisi. Hadi risponde insi­stendo con la sua pre­con­di­zione: il ritiro degli sciiti dai ter­ri­tori occupati.
Così muore il ces­sate il fuoco ane­lato da Ban Ki-moon per dare respiro alla popo­la­zione nei primi giorni di Ramadan.
Chiara Cruciati

Fonte

Sono stato testimone di un crimine contro l’umanità!

Un messaggio di Caleb Maupin dal porto di Gibuti

Dal porto di Gibuti in Nord Africa, è con grande tristezza e bruciante indignazione che annuncio che il viaggio della nave di salvataggio Iran Shahed si è concluso. Non raggiungeremo la nostra destinazione al porto di Hodiedah in Yemen per consegnare aiuti umanitari.
La conclusione senza successo della nostra missione è il risultato di una sola cosa: il terrorismo saudita appoggiato dagli Stati Uniti.
Ieri [23 maggio 2015 – ndr], come il nostro arrivo apparve imminente, le forze saudite hanno bombardato il porto di Hodiedah. Essi non hanno bombardato il porto solo una volta, o anche due. Le forze saudite hanno bombardato il porto di Hodiedah un totale di otto volte in un solo giorno!
Il numero totale di innocenti lavoratori portuali, marinai, scaricatori di porto, e passanti uccisi da questi otto attacchi aerei è ancora da calcolare.
Inoltre, i rivoluzionari yemeniti hanno arrestato 15 persone ieri, che facevano parte di un complotto per attaccare la nostra nave. Il piano era quello di attaccare l’Iran Shahed al nostro arrivo, e uccidere tutti a bordo, me compreso.
Con le sue tante minacce e azioni criminali, il regime saudita stava mandando un messaggio alla squadra di medici, tecnici medici, anestesisti, e altri volontari della Mezzaluna Rossa a bordo della nave. Il messaggio era: “Se tentate di aiutare i bambini affamati dello Yemen noi vi uccideremo”.
Queste azioni, progettate per terrorizzare e intimidire coloro che cercano di portare aiuti umanitari, sono una chiara violazione del diritto internazionale. Posso dire, senza alcuna esitazione, che ho assistito a un crimine contro l’umanità.
Nel contesto delle estreme minacce saudite, dopo lunghi negoziati che hanno avuto luogo tutto il giorno a Teheran, è stato stabilito che la Società della Mezzaluna Rossa non può completare questa missione. Le 2.500 tonnellate di forniture mediche, cibo e acqua vengono scaricati, e consegnati al Programma Alimentare Mondiale, che ha accettato di distribuirle per nostro conto entro il 5 giugno.

Gibuti e l’imperialismo statunitense
Qui a Gibuti, posso vedere chiaramente ciò contro cui i popoli di Yemen e Iran hanno combattuto per così tanto tempo. A differenza di Teheran, qui a Gibuti vedo masse di gente disperata che soffre la fame. Impoveriti Africani, alla disperata ricerca di una giornata di lavoro, sono allineati al di fuori del porto. Essi sono insieme a profughi yemeniti che sono fuggiti dai combattimenti, e hanno attraversato il mare. I profughi yemeniti vivono in tendopoli.
C’è una enorme base militare americana qui a Gibuti, e questo piccolo Paese di soli 3 milioni di persone è ben sotto il controllo del neo-liberismo occidentale. Questo Paese è stato fondamentalmente scolpito sulle mappe del mondo dagli imperialisti. Mentre i saccheggiatori europei si spartivano il continente africano, hanno creato questo piccolo Paese in modo che basi navali possano essere comodamente collocate in una posizione strategica.
Gli imperialisti hanno falsamente disegnato i confini del continente africano nello stesso modo in cui hanno diviso i popoli arabi e i popoli dell’America Latina. Le mappe sono state disegnate per servire i colonizzatori, e determinare chi abbia il diritto di rubare e sottomettere la popolazione di ogni regione specifica.
Le condizioni di vita che vedo qui a Gibuti sono terribili rispetto all’Iran. L’Iran ha rotto le catene dell’imperialismo, e si sta sviluppando in modo indipendente. In Iran, ho visto poche persone mendicare un lavoro, e le poche che ho visto sono rifugiati provenienti dall’Afghanistan.
Dal momento dell’invasione statunitense dell’Afghanistan, la Repubblica Islamica ha aperto le porte a 3 milioni di rifugiati, e la maggior parte di loro sono costantemente impiegati. Le risorse petrolifere dell’Iran sono nelle mani di un governo nato da una massiccia rivoluzione popolare. I ricavi del petrolio sono stati utilizzati per creare un vasto apparato di programmi sociali.
Uno dei volontari della Mezzaluna Rossa mi ha detto: “Il governo iraniano ha un dipartimento per fare in modo che nel nostro Paese tutti quelli che vogliono lavorare, possano farlo”. Alle madri iraniane viene dato un sussidio garantito per ciascuno dei loro figli. L’istruzione nelle università iraniane è assolutamente gratuita, e il Ministero della Sanità offre assistenza medica gratuita a tutti nel Paese.
Rispetto ai milioni di lavoratori stranieri schiavizzati in ​​Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, o la gente immiserita in tutto il continente africano, anche gli Iraniani più poveri sono molto, molto ricchi. Rompendo con il neoliberismo, l’Iran è stato in grado di garantire a tutti i suoi cittadini una grande quantità di sicurezza economica.
Il Leader Supremo della Rivoluzione Islamica ha denunciato a gran voce il sistema del capitalismo, e ha detto che i principi religiosi e la compassione per i bisognosi, dovrebbero sempre avere la priorità rispetto ai profitti e alla finanza.

“Stare con gli oppressi”
Se le forze della resistenza hanno successo nella loro lotta contro l’attacco saudita, lo Yemen si unirà presto all’Iran nel diventare un Paese indipendente. Il logo dell’organizzazione Ansarullah mostra una mano che tiene un fucile per rappresentare la resistenza armata. Perpendicolare al fucile sul logo Ansarullah è uno stelo di grano, a rappresentare lo “sviluppo economico”.
Non è un segreto che lo Yemen ha vaste risorse petrolifere, non sfruttate. Se le forze di resistenza sono vittoriose, possono valersi di queste risorse, e iniziare a utilizzarle per costruire la società yemenita. Lo Yemen può quindi cominciare a fare ciò che il popolo del Venezuela ha fatto, e trasformare il Paese con il controllo pubblico delle risorse naturali.
Il gruppo religioso che guida Ansarullah, gli Zaidi, ha uno slogan. Dicono: “Un vero Imam è un Imam che combatte”.
Essi oppongono le loro credenze religiose a quelle dei Wahabiti che guidano l’Arabia Saudita. I leader religiosi sauditi affermano che i musulmani devono evitare la ribellione e la protesta perché ciò porta a instabilità e caos. Essi sottolineano l’obbedienza al governo e alle figure autorevoli.
Gli Zaidi, che guidano Ansurrullah e sono al centro dell’attuale rivoluzione yemenita, sottolineano che un capo religioso non sta veramente facendo il lavoro di Dio, a meno che non prenda una spada o una pistola e “combatta per gli oppressi”.
Mentre mi preparo a tornare a Teheran sono diventato ancora più convinto della necessità di rovesciare il sistema del capitalismo monopolistico occidentale. Sto rafforzandomi nella convinzione che ci deve essere un’alleanza globale di tutte le forze che si oppongono all’imperialismo. Che si tratti di marxisti-leninisti, bolivariani, anarchici, sciiti, sunniti, cristiani, o nazionalisti russi, tutte le forze che si oppongono alla continua dominazione sul pianeta dei banchieri di Wall Street devono fermamente stare insieme.
Il popolo dello Yemen, come le forze della resistenza in tante altre parti del mondo, si è rifiutato di arrendersi. Come si trovano ad affrontare un attacco terribile con le bombe saudite di fabbricazione USA, mi auguro che la notizia della nostra pacifica, missione umanitaria li abbia raggiunti. Spero che siano consapevoli del fatto che nella loro lotta contro il re saudita, i banchieri di Wall Street, e tutte le grandi forze del male, essi non sono soli. Ci sono milioni di persone in tutto il pianeta che stanno dalla loro parte.
L’imperialismo è condannato, e l’intera umanità dovrà presto essere libera!

Fonte – traduzione di F. Roberti.
Nel video che accompagna questo articolo, alcune interviste con i componenti del convoglio umanitario, realizzate da Jonathan Moadab di Agence Info Libre prima della partenza dall’Iran.

11312781_1668997633319809_7188792471909979179_o