“Al venir meno di una regolata e corretta vita istituzionale si aggiunge quindi anche una spesso totale incompetenza degli attori dello scenario politico e amministrativo, che produce danni che vanno ben oltre alle conseguenze di politiche, per esempio, di tagli radicali ai finanziamenti destinati a scuola e università, aggiungendo la iattura di scelte insensate ed esiziali, prodotte da impreparazione, velleitarismo, superficialità e irresponsabilità intellettuale di funzionari, politici e ministri.
Fra i più recenti progetti di riforma della didattica universitaria, che sembrano appartenere a quel gruppo di decisioni e di proposte generate da superficialità, si colloca senz’altro quello di imporre l’uso dell’inglese come lingua dei corsi della laurea specialistica, avanzato da Francesco Profumo, attuale [ex! – ndr] Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nel governo di tecnici a cui dovrebbe essere affidato il delicato compito di risollevare le sorti in rovina del paese.
Fermo restando che non solo è opportuno, ma è necessario che gli studenti, sin dal termine degli studi medi superiori, conoscano in modo approfondito non solo l’inglese, ma anche tutte le altre materie, italiano naturalmente in primo luogo, oggetto dell’insegnamento dei loro corsi di studio, appare insensato pensare di utilizzare in Italia, nelle nostre università, l’inglese come lingua di comunicazione nei corsi della laurea specialistica.
Una simile scelta porterebbe alla creazione di un’élite anglofona e alla distruzione della cultura e della lingua italiana, che rappresentano la nostra ricchissima e invidiabile tradizione e la nostra identità intellettuale. Rinunciarvi, adottando ai livelli culturali e formativi più elevati la lingua dell’Impero Statunitense, rappresenterebbe un vero e proprio suicidio culturale, che non si comprende come possa essere proposto dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca italiano, che invece dovrebbe avere fra i suoi obiettivi proprio la tutela della nostra tradizione culturale e della nostra lingua.
Un sistema universitario sano ed efficiente attira gli studenti stranieri per l’eccellenza della formazione che è in grado di offrire nella propria lingua nazionale, che chi vuole accedere a quelle competenze si assume l’onere di imparare, e non per i prezzi da saldo che è disposto a praticare. Al MIT gli studenti che aspirano a una formazione tecnica di alto livello vanno non perchè i corsi sono in inglese, ma per l’eccellenza dell’insegnamento che è in grado di garantire per alcune discipline.
(…)
Da diversi anni purtroppo, in generale nella società italiana e, in particolare, nella realtà accademica ha preso sempre più piede un atteggiamento di subalternità intellettuale, oltre che economica, già più volte ripetutosi nei secoli passati di fronte alle culture degli stati dominanti: comportamenti, mode, gusti e valori della società si sono nel tempo adattati ai modelli statunitensi (almeno in alcuni ambiti, perchè, per esempio, i modelli borbonici della vita politica e della pubblica amministrazione sono rimasti tutti italici), con gli esiti di degrado culturale che sono sotto gli occhi di tutti.
Il mondo accademico non si è sottratto a questa tendenza, facendosene anzi convinto promotore. Da anni si assiste a un’anglofilia alimentata da un provinciale senso d’inferiorità rispetto a quello che si ritiene essere il centro del mondo occidentale, quindi superiore anche da un punto di vista culturale e creatore di forme e modelli intellettuali da imitare. Ci sono riviste italiane che accettano contributi solo se stesi in inglese; altre che, seppure finanziate con fondi pubblici italiani, vengono pubblicate da editori stranieri, in quanto si ritiene che sia così più facile raggiungere quel contesto culturale, che evidentemente si ritiene l’unico interlocutore interessante, si organizzano convegni in Italia in cui l’unica lingua accettata è l’inglese e così via con simili amenità. Nelle stesse valutazioni concorsuali sembra ormai che l’eccellenza sia espressa solo da contributi stesi in inglese su riviste straniere, quando è ovvio che si possono scrivere – e molto frequentemente si scrivono – banalità prive di alcun valore scientifico su pubblicazioni in inglese in sedi internazionali e cose molto intelligenti e originali in italiano su riviste nazionali, magari neppure di fascia A, cioé indicate dalle consorterie accademiche e dalle clientele politiche e ideologiche dell’Anvur (con abusi scandalosi, denunciati pubblicamente, ma sinora mai corretti) come di superiore livello scientifico rispetto alle altre.
Il provincialismo è evidentemente di chi vede bene e buono solo in quello che ritiene il centro del mondo occidentale, scordandosi dello straordinario valore della lingua e della tradizione culturale italiana e mostrandosi così privo di autonomia intellettuale da non voler giudicare opere e scritti per quello che sono, ma per la lingua in cui sono stesi.”
Dalla Premessa di Dario Generali al volumetto di Antonio Vallisneri Che ogni Italiano debba scrivere in lingua purgata italiana, Leo S. Olschki, 2013, Firenze.