“Più saranno i Paesi… meglio sarà per noi”

In Somalia sono decine di migliaia i morti per la grave carestia che ha colpito buona parte del paese, mentre 750.000 persone potrebbero morire di fame nei prossimi quattro mesi se la comunità internazionale non garantirà sufficienti aiuti alimentari alle popolazioni del Corno d’Africa. Secondo le Nazioni Unite, dodici milioni e mezzo di persone hanno urgente bisogno di cibo, acqua e medicinali, mentre sta crescendo giorno dopo giorno il numero dei disperati in fuga dalle sei macroregioni somale duramente colpite dalla siccità. Oltre 600.000 somali hanno attraversato il confine per raggiungere i campi profughi sorti nei paesi confinanti. Nella tendopoli di fortuna di Dadaab, Kenya orientale, il più affollato centro per rifugiati al mondo, sono stipati oggi più di 420.000 persone. In Etiopia, le agenzie internazionali hanno installato quattro grandi campi di accoglienza, dove affluiscono oltre un migliaio di sfollati al giorno. Una crisi umanitaria imponente ma con radici lontane, che le grandi reti mediatiche stanno rendendo visibile internazionalmente sulla scia della campagna interventista lanciata dal Dipartimento di Stato e da USAID, l’agenzia per gli aiuti allo sviluppo degli Stati Uniti d’America. Per Washington è indispensabile aprire manu militari corridoi “umanitari” che consentano il flusso degli aiuti alle popolazioni colpite. Un’occasione da non perdere per chiudere di rimessa e definitivamente, la partita in Africa orientale contro le organizzazioni combattenti nemiche.
“Abbiamo contribuito con quasi 600 milioni di dollari nei primi otto mesi del 2011 fornendo aiuti a più di 4,6 milioni di abitanti del Corno d’Africa e confermando il ruolo degli Stati Uniti come il maggiore dei donatori mondiali nella regione”, affermano i funzionari di USAID. “Il nostro governo ha inoltre annunciato che finanzierà la fornitura di aiuti umanitari addizionali al popolo somalo e sta lavorando con le agenzie internazionali per portare alla popolazione i bisogni basici”. A metà agosto, il presidente Obama ha approvato uno stanziamento straordinario di 105 milioni di dollari per l’acquisto di “cibo, farmaci, shelter e acqua potabile per coloro che hanno disperatamente bisogno di aiuto in tutta la regione”, come recita un dispaccio del Dipartimento di Stato. Troppo poco. Per le Nazioni Unite, infatti, c’è bisogno di un miliardo di dollari in più per rispondere a tutte le necessità alimentari e sanitarie in Corno d’Africa. Gli ha risposto solo l’Unione europea annunciando fondi per 100 milioni di dollari e, bontà sua, la Banca mondiale, disponibile a stanziare sino a 500 milioni di dollari, 8 milioni appena per affrontare l’emergenza, il resto per chissà quali progetti “a lungo termine” a favore degli “agricoltori della regione”. Washington però avverte: sino a quando opereranno impunemente in Corno d’Africa le milizie degli Shebab, le formazioni integraliste somale ritenute vicine alla costellazione di al-Qaeda, “per le organizzazioni umanitarie sarà impossibile raggiungere e prestare assistenza alle popolazioni”.
“La mancanza di sicurezza e di vie di accesso alle aree colpite limita significativamente gli sforzi assistenziali in Somalia”, ha dichiarato il vicesegretario di Stato per gli affari africani, Don Yamamoto, in una sua audizione al Senato. “Esistono difficoltà a portare cibo dove c’è più necessità a causa della presenza dell’organizzazione terroristica degli Shebab. Le sue minacce hanno costretto le Nazioni Unite a ritirarsi dai programmi di assistenza in diverse parti della Somalia sin dall’inizio di quest’anno”. Secondo Yamamoto, “i più colpiti dall’odierna siccità sono gli oltre due milioni di somali intrappolati nelle aree meridionali e centrali della Somalia sotto il controllo degli Shebab”. Secondo il vicesegretario, gli Stati Uniti si stanno attivando insieme ai principali partner internazionali “per contrastare gli Shebab e impedire che minaccino i nostri interessi nell’area o continuino a tenere come ostaggio la popolazione somala”. In che modo ci ha pensato lo staff di USAFRICOM, il Comando degli Stati Uniti per le operazioni militari nel continente africano, riunitosi a fine luglio a Stoccarda (Germania).
“La grave carestia in Corno d’Africa è una delle priorità del Comando USA congiuntamente alla crescita nella regione dei gruppi estremisti violenti”, ha spiegato il generale Carter F. Ham, comandante di AFRICOM. “La situazione attuale non richiede un significativo ruolo militare, ma il governo USA potrebbe chiederci qualche forma di supporto per il futuro. Se vado aldilà dell’aspetto umanitario e guardo a quello militare, posso affermare che il rischio più grave in Africa orientale è oggi rappresentato dagli estremisti di Shebab”. Per il generale Ham, il primo passo per “indebolire” le milizie è quello di accrescere l’assistenza USA nel campo della “sicurezza e della stabilità interna” al Governo federale di transizione della Somalia e agli altri paesi della regione. “L’organizzazione di esercitazioni e scambi militari multinazionali è un mezzo importante per sviluppare la cooperazione tra le nazioni africane”, ha dichiarato Ham. “Più saranno i Paesi che si uniranno per partecipare simultaneamente alle esercitazioni e meglio sarà per noi”.
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Grazie ad AFRICOM è stata costituita la East Africa’s Standby Force (EASF), una forza di pronto intervento a cui i paesi dell’Africa orientale hanno assegnato i propri reparti d’élite. La formazione del personale EASF e l’addestramento operativo è curato dai marines della Combined Joint Task Force-Horn of Africa (CJTF-HOA), la task force USA creata a Gibuti nel 2002 per “combattere le cellule terroristiche in Africa orientale” e che, dopo la creazione di AFRICOM nel 2008, è divenuta la struttura chiave per la proiezione avanzata delle forze armate statunitensi nel continente. Oltre a formare i reparti militari africani, CJT-HOA ricopre un variegato ventaglio di missioni, compresi la pianificazione delle operazioni multinazionali in Africa, la negoziazione di accordi legali per futuri interventi e/o installazioni in loco, il sostegno alle operazioni anti-pirateria delle flotte USA, NATO ed UE nelle acque del Mar Rosso.
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Il Comando USA per le operazioni speciali in Africa è lo stesso che dal mese di giugno pianifica e dirige le operazioni in Somalia di bombardamento missilistico con l’utilizzo di velivoli UAV senza pilota (i droni del tipo Predator) contro obiettivi top secret, come rivelato dai maggiori quotidiani statunitensi. Il Pentagono sta inoltre preparando il trasferimento di quattro UAV alle forze armate di Uganda e Burundi, che hanno messo a disposizione 9.000 uomini per la forza multinazionale dell’Unione Africana presente a Mogadiscio e in altre città somale. Ai due Stati africani Washington ha fornito nei mesi scorsi equipaggiamenti militari (camion di trasporto, blindati, giubbotti antiproiettile, visori notturni, ecc.), per un valore di 45 milioni di dollari.
Attivissima nella formazione dei militari somali nell’individuazione e smascheramento dei miliziani Shabab è anche la famigerata CIA – Central Intelligence Agency degli Stati Uniti d’America. Oltre a finanziare ed armare la neo costituita agenzia di spionaggio nazionale (la Somali National Security Agency), la CIA ha collaborato alla realizzazione di una grande stazione d’intelligence all’interno dell’aeroporto di Mogadiscio, nota localmente come “the Pink House” o più semplicemente “Guantanamo”, perché utilizzata per gli interrogatori sotto tortura dei prigionieri sospettati di terrorismo. Come rivelato da un lungo reportage del New York Times (11 agosto 2011), per l’addestramento delle unità africane in lotta contro gli Shebab, il Dipartimento di Stato e la CIA si sarebbero pure affidati ai mercenari di origine sudafricana, francese e scandinava contrattati dalla Bancroft Global Development, una società di sicurezza privata statunitense con uffici alla periferia di Mogadiscio. Secondo il quotidiano USA, Bancroft Global Development verrebbe utilizzata ufficialmente in ambito Unione Africana dalle forze armate di Uganda e Burundi, successivamente rimborsate per le loro spese da Washington. Dal 2010, la compagnia privata avrebbe conseguito in Somalia utili per circa 7 milioni di dollari.
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Da Crociata “umanitaria” USA in Corno d’Africa, di Antonio Mazzeo.

Frattini e i delfini della baia di Tokyo

L’aggressione militare alla Libia e il cinismo della “politica” italiana

Il Pentagono nel Quadriennial Defence Review Report del Dicembre del 2001 adottò un termine per definire uno scenario in cui un’entità (organizzazione nemica) pianifica e porta a realizzazione nel tempo una serie di azioni militari non ortodosse contro una grande potenza che abbia occupato con l’uso della forza un Paese del Vicino Oriente.
Un report arrivato a 30 giorni di distanza dal via libera dell’amministrazione Bush all’US Air Force per colpire con bombardamenti a tappeto l’Afghanistan.
Mancheranno meno di 2 anni all’aggressione aerea e terrestre all’Iraq di Saddam Hussein.
Lo smantellamento delle sue strutture militari e civili, la sottrazione alle precedenti autorità statuali anche dalla gestione delle risorse economiche ed energetiche da affidare a un governo fantoccio avrebbero finito, a giudizio degli esperti militari del Dipartimento della Difesa, nell’approntamento del DFRR, per creare “momentanee“ condizioni di instabilità economica e sociale e di precaria sicurezza pubblica capaci di concorrere allo sviluppo di una guerra a bassa intensità.
Le definizioni più usate dagli analisti sono: guerra non convenzionale, guerra asimmetrica, guerra di guerriglia.
Chi scrive ne adotta un’altra più semplice, evocativa: guerriglia.
Il perché è semplicissimo: mi fa sentire più vicino a qualsiasi “ribelle“ che abbia impugnato o impugni le armi per liberare il suo Paese dall’egemonia di USA, NATO e “Israele“.
La guerriglia mi rimanda a metodi di combattimento capaci di logorare e di vincere, a tempi lunghi, la prepotenza e le aggressioni armate dell’Occidente, di generare miti, comandanti, volontà di lotta, la forza necessaria ad annientare modelli politici estranei messi in piedi con l’esportazione della “democrazia“ e far tornare alla luce le straordinarie energie che i popoli conservano. Continua a leggere

Crimini di guerra mediatico-giudiziaria

A distanza di un mese e passa dal primo attacco di elicotteri Apache finalizzato alla distruzione di centri comunicazione e radar in prossimità di Marsa el Brega, in Libia la situazione sul terreno è rimasta pressoché immutata.
Le forze di Gheddafi in Cirenaica continuano a mantenere sia il controllo di questo terminal energetico, di importanza strategica, posizionato a 800 km da Tripoli, che di ampie zone del territorio circostante fin sotto Ajdabiya.
L’ultima strage dall’aria, quindici morti tra i residenti, è arrivata a ridosso del porto della Cirenaica, nel centro città, nelle stesse ore in cui è uscita allo scoperto un’altra clamorosa balla sulle travolgenti avanzate dei ribelli del CNT lanciate alla conquista del compound di Bab al Azizia per consegnare Gheddafi, come hanno solennemente promesso, alla CPI dell’Aja.
L’ha raccontata il 27 Giugno alla Reuters, tramite telefono cellulare (!), il solito testimone creato dal nulla che questa volta ha assunto il nome di Juma Ibraim.
Il “suo“ racconto è arrivato dalla periferia sud di… Bir el Ghanam.
La “notizia“ è rimbalzata nel Bel Paese con l’Ansa. La diffusione della flagrante patacca su giornali e tv è stata tanto capillare da trovare spazio anche su quotidiani come Il Sole 24 ore e Milano Finanza.
Ci siamo presi la briga di andare a vedere su Google Earth dove si trovasse questo nuovo caposaldo dato nelle mani dei “sostenitori“ di Re Idris.
E’ un villaggio abbandonato di qualche decina di abitazioni, posizionato ad ovest di un tracciato in ambiente desertico a 87 km da Tripoli, difficilissimo da raggiungere, a ridosso com’è di una invalicabile catena collinare di sabbia.
Il 29 Giugno, Le Figarò darà notizia di altre armi paracadutate dalla Francia di Sarkozy a “formazioni di irregolari“ a Misurata, Nalut, Tiji, al Javash, Shakshuk e Yafran, precisando la natura dei “vettovagliamenti“ dall’aria: denaro, logistica, lanciarazzi, fucili d’assalto, mitragliatrici e missili anticarro Milan.
In realtà, al momento, di ribelli lanciati alla conquista di Tripoli non se ne vedono da un pezzo. Rimangono sulla difensiva in Cirenaica solo esigue formazioni “fluide“ di tagliagole, attestate ai margini della Litoranea, oltre i 30‘ nord e i 20‘ sud, pronte a innestare le marce avanti dei pick-up per qualche centinaio di metri nelle ore immediatamente successive ai bombardamenti della NATO e a ingranare le retromarce nei momenti di pausa tra uno strike e l’altro.
Una sorta di claque, vestita di un pagliaccesco criminale, usata fin dalla prima settimana di Marzo per dare credibilità a una rivolta popolare “repressa nel sangue dalle forze di Gheddafi“, capace di giustificare un “intervento umanitario“ dall’esterno e di portare a maturazione il progetto di Stati Uniti ed Europa di destabilizzare, con l’esplicito appoggio di Ban Ki Moon, uno Stato sovrano. Continua a leggere

Guerre e guerricciole tricolori al traino del padrone USA

A Giugno andranno rifinanziate le 31 missioni militari all’estero in 29 Paesi geograficamente appartenenti alle aree dei Balcani, del Medio Oriente, del Golfo Persico, dell’Africa e dell’Asia. Il personale delle Forze Armate italiane al 30 Aprile 2011 impiegato dal Ministero della Difesa fuori dal territorio nazionale assomma ufficialmente a 7.114 unità. In realtà, supera abbondantemente le 8.800 presenze continuative dall’1 Gennaio 2011 ad oggi. Facciamo un esempio. In Iraq la presenza di “istruttori” per consulenza, formazione ed addestramento dell’esercito e della polizia del Governo di Al Maliki è fissata, nelle tabelle ufficiali, fluttuante, da 73 a 78 tra ufficiali e sottoufficiali per lo più appartenenti all’Arma dei Carabinieri. Si, siamo ancora a combattere da quelle parti. In realtà sono oltre 100. Il Ministero degli Esteri, per la sicurezza dell’ambasciata italiana a Baghdad, ha a disposizione un nucleo di 30 Carabinieri che non risultano in organico a Via XX Settembre. La Direzione Generale della Difesa approssima costantemente per difetto il numero dei militari in missione all’estero, per non allarmare l’opinione pubblica che è e rimane fortemente contraria ad aumenti di scarponi che si portano dietro un bel po’ di funerali di Stato nella Basilica di S. Maria degli Angeli a Roma. E’ altresì evidente che un conto è la presenza di “osservatori” nella città di Hebron (Cisgiordania Occupata) etichettata dal signor La Russa come territorio appartenente ad “Israele” ed altro sono le operazioni di peace-keeping o peace-enforcing modello Afghanistan, che prevedono azioni di guerra sul campo e/o mitragliamenti e bombardamenti dall’aria.
Per arrivare al 31 Dicembre 2011, questa volta non basteranno le centinaia di milioni di euro tolti dalle tasche degli italiani nell’ultimo semestrale di spesa approvato da maggioranza ed “opposizione” a Camera e Senato, che scade il prossimo 30 Giugno.
Ci vorranno maggiori mezzi finanziari anche tagliando 200-250 militari con il casco blu dal contingente italiano in Libano, azzerando quello in Bosnia (8) e riducendo di 100 unità i 610 della KFOR in Kosovo. Ammesso che lo si voglia davvero fare.
La nuova guerra di Libia porterà inevitabilmente a far lievitare, e di molto, un conto già salatissimo. Ban Ki Moon è un amicone anche se ci riempie di clandestini e di profughi di guerra da Medio Oriente, Africa ed Asia e ci porta via, per quota parte, il 4.999% del contributo totale versato da 192 Paesi, per un totale parziale di 369.233.723 dollari all’anno per le 15 “operazioni di peacekeeping” dell’ONU a giro per il mondo (16 ce le finanziamo da soli). Un apparato sempre più gigantesco, una colossale sanguisuga, quello presieduto dall’ex Ministro degli Esteri della Corea del Sud, meglio conosciuto nell’ intera Asia come “il serpente”, che sottrae all’Italia altri 68.170.000 dollari per la “UN Logistic Base” di Brindisi come “punto di proiezione” verso Albania, Macedonia, Montenegro, Kosovo e Bosnia. Un altro 5.518 % va a copertura delle spese per il Tribunale Internazionale dell’Aja che ha per presidente un “signorino” come Antonio Cassese, con uscite tricolori per complessivi 6.879.514 dollari ed il 4.999% per 105.708.890 finalizzato alla “ristrutturazione del Palazzo di Vetro di New York”. Un affitto, mascherato, un po’ caruccio. Non trovate? C’è solo da sperare che sia una “voce di spesa” temporanea.
Un apparato, quello dell’ONU, che ingrassa con la frantumazione, programmata, in concorso con gli USA, degli Stati nazionali. In più, la Repubblica delle Banane elargisce ogni 365 giorni attraverso il Ministero degli Esteri al Palazzo di Vetro “donazioni” per altre centinaia di milioni di dollari (versamenti annuali o biennali) in sinergia con la cosiddetta “comunità internazionale”. Quanti? L’entità dei fondi canalizzati verso l’ONU rimangono top secret anche se qualche notizia riesce ufficiosamente a filtrare dai summit.
In passato, fino al 2010 ne abbiamo dato conto, un po’ alla volta, su questo blog. Per il sostegno economico al solo esecutivo Karzai, l’Italietta ha fatto transitare dalle casse del Tesoro a quelle di Kabul una gigantesca, inimmaginabile, montagna di euro. Siamo per importanza di fondi versati all’ONU il 6° Paese contributore a livello planetario. Poi ci sono le “uscite” in nero, difficilmente quantificabili, per blandire, sarebbe meglio dire finanziare, pirati ed autonomisti del Puntland (una gran brutta storia ancora tutta da raccontare), il sedicente Governo Provvisorio della Somalia, con base in Kenia, l’Uganda, il Burundi, l’Etiopia, il nuovo Darfur…
E altro di altrettanto opaco, di sporco. Non ci credete?
Basta domandare a giro a qualche ufficiale di coperta di mercantili italiani in navigazione tra il Golfo di Oman, l’Oceano Indiano e lo stretto di Bab El Mendeb.
Addestrare con “consiglieri” le forze militari su base etnica di presidenti con tonalità dal cacao al caffellatte e sostenere capi di Stato fantoccio servi dell’Occidente con “programmi di sviluppo” e forniture di armi e logistica, è ormai pratica costante per i “governi” italiani da Siad Barre in poi. E’ la parte emersa dell’iceberg.
Se si vuole dare inizio alle danze si potrebbe partire, così a caso, da El Maan e da Johwar magari per qualche imponente fornitura di mitragliatrici e di fuoristrada targati DGCS. L'”avventura” in Libia di fatto ha aperto per il Bel Paese un altro gigantesco capitolo di spesa. Quanto finirà per costarci la “naturale estensione” delle risoluzioni 1970 e 1973 voluta da governo, Quirinale e Consiglio Supremo di Difesa?
Perché l’Italia ha aderito con sospetto entusiasmo alla “Coalizione dei Volenterosi” sapendo perfettamente quello che sarebbe successo a Lampedusa e la Germania ne è restata fuori?
Quanto durerà la guerra della NATO contro la Libia? Continua a leggere

La NATO in Africa

Nella primavera del 2005, l’Unione Africana (UA) – tramite il proprio rappresentante, Alpha Oumar Konarè – chiese assistenza alla NATO per espandere la missione di peacekeeping in corso nel Darfur, regione occidentale del Sudan in preda a continue violenze.
E così, a partire dal successivo 1 luglio, la NATO (insieme all’Unione Europea) si è fatta carico, in primo luogo, del trasporto aereo dei soldati e dei poliziotti africani appartenenti al contingente di pace approntato dall’UA, ed in secondo luogo della formazione necessaria a far funzionare il Comando di una forza militare multinazionale ed a gestire le operazioni di intelligence.
Epicentro di tali attività il Quartier Generale dell’Unione Africana installato ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, dove è stato creato un apposito organismo per il coordinamento dei movimenti delle truppe sul terreno e dove, principalmente, sono stati svolti i corsi di formazione rivolti a 250 ufficiali degli eserciti membri del contingente di pace.
Il sostegno della NATO alla missione AMIS (African Union Mission in Sudan) è terminato lo scorso 31 dicembre 2007, quando la responsabilità delle operazioni è stata trasferita alle Nazioni Unite/African Union Mission in Darfur (UNAMID), pur se la NATO ha espresso disponibilità ad offrire la propria collaborazione anche alla nuova missione di pace congiunta ONU-UA.
Sin dall’inizio delle operazioni nel luglio 2005, la NATO ha coordinato il trasporto aereo di circa 31.500 fra militari, poliziotti ed osservatori civili per e da il Darfur.
Il sostegno alla missione AMIS è stata la prima operazione condotta dalla NATO in Africa durante la sua ormai sessantennale esistenza. Certamente non l’ultima, in quanto recentemente – lo scorso febbraio – il Consiglio Nord Atlantico ha deciso di rispondere positivamente alla domanda dell’UA di un ulteriore sostegno ad un’altra missione di pace che si sta svolgendo in Somalia. Del resto, era stato lo stesso ambasciatore Said Djinnit, Commissario per la Pace e la Sicurezza dell’UA, durante la sua visita al Quartier Generale della NATO a Bruxelles, nel marzo 2007, ad affermare che – essendo state ormai provate in Sudan le capacita della NATO di offrire aiuto all’UA – le due istituzioni “stanno esplorando le possibilità per allargare la cooperazione in altre aeree, facendo del sostegno della NATO una cooperazione a lungo termine”.