Bishkek preferisce Mosca

manas-addio

Durante la visita in Russia per svolgere colloqui bilaterali, il presidente del Kirghizistan Kurmanbek Bakiev ha dichiarato ieri che il suo governo ha deciso di porre fine all’utilizzo della base aerea di Manas da parte dell’esercito USA. Nella conferenza stampa seguita all’incontro con il presidente russo Dmitry Medvedev,
Bakiev ha fatto riferimento al rifiuto statunitense di accettare un (ulteriore) aumento del canone di affitto, attualmente fissato a 150 milioni di dollari annui, ed ai numerosi problemi di ordine pubblico creati dalla presenza delle truppe americane.
Per il Kirghizistan, afflitto da povertà endemica e che quest’anno si trova ad affrontare anche una bolletta energetica quasi doppia rispetto al passato (con il gas uzbeko passato da 145 a 240 dollari ogni mille mc), una bella boccata di ossigeno è rappresentata dagli aiuti che la Russia ha concesso: lo sconto di 180 milioni di debito pregresso, altri 150 milioni di aiuti a fondo perduto ed un prestito agevolato di 2 miliardi di dollari per la costruzione di varie infrastrutture, fra cui la centrale idroelettrica da 1.900 MW di Kambaratinsk.
In totale, si tratta dell’equivalente di circa due volte il bilancio annuo del Kirghizistan e la metà del suo prodotto interno lordo.
Riguardo l’insediamento statunitense a Manas, Bakiev ha commentato: “Inizialmente si trattava di una questione di uno o due anni. Ne sono passati otto. Abbiamo ripetutamente sollevato la questione di una compensazione economica con la controparte, ma non siamo stati compresi”. Leonid Gusev, analista politico, sostiene che Bakiev “è preoccupato che, nel caso di un conflitto con l’Iran, la base sia usata come crocevia dei militari, causando così altre turbative sociali”.
Sia quel che sia, certamente non una bella notizia per l’amministrazione Obama, chiaramente intenzionata ad incrementare il proprio sforzo bellico in Afghanistan. L’ambasciatore USA a Bishkek ha annunciato che in giornata verrà rilasciata da Washington una dichiarazione ufficiale.
Rimaniamo in attesa degli sviluppi, quindi.

6/2/2009
Il provvedimento di chiusura della base sarà sottoposto alla voto del Parlamento kirghizo la settimana prossima, previa discussione.
Il portavoce del Pentagono Bryan Whitman, ieri, ha detto che il governo USA continua a discutere con le autorità del Kirghizistan, specificando che “siamo ancora molto impegnati sulla questione”. “Certamente non ha alcun senso per la Russia o per qualsiasi altro Paese della regione cercare di minare lo sforzo internazionale per portare stabilità in Asia Centrale”, ha aggiunto Whitman. Il portavoce ha però negato di accusare indirettamente la Russia: “(I russi) sono stati molti netti nelle loro dichiarazioni pubbliche in passato sul sostegno allo sforzo internazionale per portare stabilità in Afghanistan così come nella regione”.
Un funzionario anonimo del Dipartimento di Stato ha invece fatto notare come l’annuncio di Bakiev circa la chiusura della base USA sia arrivato dopo un vertice col presidente russo Dmitry Medvedev. “In termini di negoziati, nulla è mai dato per certo in Asia Centrale. Certamente la vicenda non è finita. Continuiamo a discutere col Kirghizistan”, ha detto il funzionario.
Il governo del Paese centrasiatico, attraverso un suo portavoce,  oggi ribatte affermando che la decisione è “definitiva” e che i colloqui in corso sono unicamente indirizzati a stabilire un calendario per la chiusura della base.

9/2/2009
Oggi in Kirghizistan comincia il dibattito parlamentare sulla chiusura della base di Manas. La discussione si svolgerà inizialmente nei comitati interessati, a partire da quello per la difesa, per poi passare in Parlamento per la votazione finale.
Dal momento in cui il Kirghizistan e gli USA si saranno scambiati la documentazione inerente (note diplomatiche), il personale statunitense avrà 180 giorni di tempo per lasciare la base.

11/2/2009
I tempi si allungano: a causa dell’impossibilità di partecipare alla discussione da parte del Ministro degli Esteri Kadyrbek Sarbayev, il dibattito fra i tre partiti politici presenti nel parlamento kirghizo subisce uno slittamento.
Fino ad ora, la questione è passata al vaglio soltanto della commissione Difesa, unica fra i comitati parlamentari interessati che abbia approvato la chiusura di Manas.
Qui alcuni approfondimenti utili ad inquadrare meglio tutta la vicenda.

17/2/2009
Il governo kirghizo ha sottoposto ieri al Parlamento il testo del provvedimento che sancisce la fine dell’utilizzo della base di Manas da parte dell’esercito statunitense (e di altri 11 Paesi: Australia, Canada, Corea del Sud, Danimarca, Francia, Italia, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Spagna e Turchia).
La discussione è stata inserita nell’ordine del giorno di giovedì 19, avendo il provvedimento ottenuto oggi il via libera dei comitati parlamentari interessati.
Intanto gli Stati Uniti cercano un’alternativa.

19/2/2009
Il Parlamento del Kirghizistan ha approvato la decisione del governo di chiudere la base di Manas. L’assemblea ha votato a favore della chiusura con una maggioranza schiacciante, 78 voti su un totale di 81 deputati presenti ed un solo voto contrario.

20/2/2009
Il presidente Bakiev ha firmato il provvedimento, dalla cui notifica – già effettuata oggi presso la locale ambasciata USA – decorre il termine di 6 mesi entro i quali dovranno togliere il disturbo.
Bye Bye Uncle Sam.

Tra “little Americas” e “lily pads”

“Nella sua «Revisione della posizione globale», il Pentagono suddivide ora le proprie installazioni militari in tre categorie. La prima è quella delle basi operative principali (Main Operating Bases o MOB), dove si trovano forze combattenti permanenti, vaste infrastrutture (caserme, piste aeroportuali, hangar, strutture portuali, depositi di munizioni), sedi di comando e controllo e strutture di accoglienza per le famiglie (case, scuole, ospedali e strutture ricreative). In questa categoria rientrano la base aerea di Ramstein, in Germania (con un «valore di sostituzione dell’impianto», o PRV, stimato nel 2005 a 3,4 miliardi di dollari e 10.744 addetti residenti in loco, tra militari e dipendenti civili del dipartimento della Difesa); la base aerea di Kadena, sull’isola di Okinawa, in Giappone (con un PRV di 4,7 miliardi di dollari e 9.693 addetti); la base aerea di Aviano, in Italia (con un PRV di 807,5 milioni di dollari e 4.786 addetti); e il presidio di Yongsan, a Seoul, in Corea del Sud (con un PRV di 1,3 miliardi di dollari e 12.178 addetti), che verrà presto sostituito da Camp Humphreys (con un PRV di 954,3 milioni di dollari e 5.622 addetti), situato all’estremo sud della penisola, fuori dalla portata dei missili nordcoreani.
Queste basi sono confidenzialmente ribattezzate little Americas, ma la cultura che esse riproducono non è quella mediamente prevalente negli Stati Uniti, bensì quella più particolare di posti come il South Dakota, la costa del Mississippi e Las Vegas. Per esempio, sebbene nelle nostre basi militari all’estero vivano più di centomila donne – contando quelle in servizio militare, le mogli e le parenti dei soldati – e benché l’aborto sia un diritto garantito dalla costituzione americana, nei nostri ospedali militari è vietato l’aborto. Ogni anno si registrano nelle forze armate quattordicimila casi, o tentativi, di violenza sessuale, e le donne che rimangono incinte all’estero e vogliono abortire non possono far altro che ricorrere ai servizi sanitari locali, cosa che in certe zone del nostro odierno impero non è né semplice né piacevole. Altrimenti devono tornare in patria a proprie spese.
Un’altra differenza tra le basi in patria e quelle all’estero sta nella presenza, in queste ultime, di slot machine di proprietà delle forze armate sparse nei circoli degli ufficiali e nei centri dedicati alle attività ricreative. Le forze armate incassano più di 120 milioni di dollari all’anno dalle slot machine, che creano un giro d’affari complessivo di circa 2 miliardi di dollari. Secondo Diana B. Henriques del «New York Times», «le slot machine sono state una costante della vita militare per diversi decenni. Furono bandite dalle basi militari in patria dopo una serie di scandali. Furono eliminate dalle basi dell’esercito e dell’aeronautica nel 1972, dopo che più di una dozzina di persone erano state condannate da una corte marziale per aver svaligiato delle slot machine nel Sud-Est asiatico durante la guerra del Vietnam […]. Oggi ci sono circa 4.150 moderne slot machine dotate di video in basi militari distribuite in nove paesi». Il circolo della base aerea di Ramstein, ad esempio, è strapieno di slot machine. La conseguenza è un notevole aumento, tra i militari all’estero, dei casi di compulsione al gioco d’azzardo e di famiglie rovinate.
Il secondo tipo di basi all’estero è quello dei siti operativi avanzati (Forward Operation Sites o FOS). Si tratta di installazioni militari di un certo rilievo, di cui il Pentagono cerca in tutti i modi di minimizzare l’importanza. Ben sapendo che molti stranieri vedono le strutture americane sul loro territorio come enclave imperialiste permanenti, Rumsfeld ha detto: «Stiamo cercando la formula linguistica più adatta. Sappiamo che la parola “base” non è quella giusta per definire la nostra presenza». In sostanza, i FOS sono dei MOB un po’ più in piccolo, se non fosse che nei FOS non sono ammessi i familiari degli addetti, e le truppe dovrebbero ruotare con scadenze semestrali e non triennali, come invece avviene nelle altre installazioni.
Tra gli insediamenti di questo tipo figurano, ad esempio, le strutture portuali di Sembawang, a Singapore, dove attraccano le nostre portaerei in visita (PRV di 115,9 milioni di dollari, 173 addetti) e la base aerea di Soto Cano in Honduras, che non figura nel Base Structure Report del 2005, ma è uno dei principali centri operativi a disposizione del Comando sud statunitense per esercitare la propria egemonia sull’America Latina. Altri esempi sono la base aeronavale di proprietà britannica dell’isola di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, che ospita i bombardieri B-2 (PRV di 2,3 miliardi di dollari, 521 addetti); la base aerea di Manas, nei pressi di Biskek, capitale del Kirghizistan, che ha un’estensione di 15 ettari, ospita 3.000 soldati e possiede una pista d’atterraggio lunga più di 4.000 metri, costruita in origine per i bombardieri sovietici; e l’ex base della Legione straniera francese a Gibuti, all’ingresso del Mar Rosso, nota anche come Camp Lemonier, che ospita 1.800 militari, perlopiù delle Forze speciali. (Visitai Gibuti nel 1962, quando era ancora una base della Legione straniera. Era un inferno e, stando a quel che ne dicono i soldati americani, lo è tuttora. Oggi accoglie una «Sensitized Compartmentalized information Facility», che è, in altre parole, un centro civile-militare da un miliardo di dollari per l’intercettazione e la raccolta di informazioni.) In passato, le basi di questo genere si sono solitamente trasformate in enclave permanenti degli Stati Uniti, indipendentemente dal nome usato dal dipartimento della Difesa per denotarle.
Il terzo tipo di basi è il più piccolo e il più sobrio. Il Pentagono ha scelto per queste installazioni il nome di Cooperative Security Locations (CSL), anche se non ha specificato in che senso siano «cooperative» o di chi sia la «sicurezza» a cui contribuiscono. Nel gergo del dipartimento della Difesa vengono chiamate lily pads, cioè «foglie di ninfea», e sono queste le basi che stiamo cercando di creare su tutto l’«arco di instabilità» globale, che si dice congiunga la regione andina, il Nordafrica, il Medio Oriente, le Filippine e l’Indonesia. In un rapporto del maggio 2005, la Commissione per le basi all’estero affermava che nei luoghi toccati da questo arco «le tensioni etniche, il fanatismo ideologico e religioso, il malgoverno e, soprattutto, l’odio nei confronti dell’Occidente in generale e degli Stati Uniti in particolare toccano un livello di molto superiore alla media». Perché questo arco di regioni debba essere il luogo ideale per l’espansione della nostra presenza militare, se non per il fatto che vi si trovano molti dei principali paesi produttori di petrolio del pianeta, non è stato chiarito.
Queste basi «a foglia di ninfea» contengono armi e munizioni preinstallate (che potrebbero anche essere trafugate o espropriate ad altri fini) e sono accessibili ai militari americani a precise condizioni negoziate in anticipo, sebbene destinate ad accogliere truppe americane solo in situazioni d’emergenza. Si tratta di luoghi che i nostri soldati possono raggiungere con un balzo, come tante rane bene armate, dal territorio americano o dalle più importanti tra le nostre basi all’estero. Una struttura di questo tipo sorge, ad esempio, a Dakar, in Senegal, dove l’aeronautica ha negoziato il diritto di atterraggio d’emergenza per i propri velivoli, accordi logistici e forniture di carburante. Nel 2003 fu utilizzata per i preparativi di un nostro limitato intervento nella guerra civile in Liberia.
Altre «foglie di ninfea» si trovano in Ghana, Gabon, Ciad, Niger, Guinea Equatoriale, nelle isole di Sào Tomé e Principe nel Golfo di Guinea ricco di petrolio, in Mauritania, in Mali e all’aeroporto internazionale di Entebbe, in Uganda, oltre che sulle isole di Aruba e Curnao, nelle Antille Olandesi, non lontano dal Venezuela. Altre sono in costruzione in Pakistan (dove già disponiamo di quattro basi più grandi), India, Thailandia, Filippine e Australia, ma anche in Nordafrica, in particolare in Marocco, Tunisia e Algeria (teatro del massacro di centinaia di migliaia di civili, dopo che nel 1992 i militari vi presero il potere, sostenuti dagli Stati Uniti e dalla Francia, annullando l’esito di un’elezione democratica vinta dal Fronte islamico di salvezza). Altre sei sono in via di realizzazione in Polonia.
Il modello di tutte queste installazioni, secondo il Pentagono, sarebbe la serie di basi che abbiamo costruito negli ultimi due decenni nel Golfo Persico, in paesi retti da autocrazie antidemocratiche come Bahrein, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, anche se le basi lì insediate sono in genere troppo vaste per poterle considerare «foglie di ninfea». Mark Sappenfield, del «Christian Science Monitor», ha osservato: «L’obiettivo […] è quello di stringere il maggior numero possibile di accordi in tutto il mondo, cosicché, quand’anche un paese dovesse cambiare idea e negare l’accesso agli Stati Uniti, il Pentagono avrà a portata di mano altre opzioni. Questo nuovo corso, però, costringerà i capi del Pentagono a dimostrarsi statisti oltre che strateghi militari».”

Estratto da Nemesi, di Chalmers Johnson, Garzanti, 2008, pp. 192-196.
Al riguardo si vedano anche La versione americana della colonia è la base militare e Soldati americani in giro per il mondo.

Le ultime dal Kirghizistan

All’inizio di agosto, alcune fonti locali hanno riferito circa il ritrovamento di ventisette cadaveri privi degli organi interni nelle vicinanze della base USA di Manas, in Kirghizistan.
Questo probabile atto di disinformazione – la notizia non è stata infatti confermata dalle principali agenzie di stampa – ha offerto la sponda per speculazioni e confronti con la notizia degli espianti forzati operati dai kosovari sui prigionieri serbi dopo il 1999, all’ombra della bandiera della NATO. Di apparizione sempre più regolare, rapporti sul probabile utilizzo della base di Manas – il cui personale gode dell’immunità diplomatica – per il movimento di narcotici fra l’Afghanistan e Camp Bondsteel, l’enorme insediamento statunitense in Kosovo.
Il tutto alla vigilia del vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai – che si svolge da oggi a Dushanbe, capitale del Tagikistan – in occasione del quale Mosca e Pechino dovrebbero incrementare la pressione sui Paesi centrasiatici al fine di porre dei limiti stringenti all’azione degli Stati Uniti nella regione.
Dall’autunno del 2001, gli USA utilizzano – sotto copertura NATO e col pretesto delle operazioni in Afghanistan – una parte dell’aeroporto della capitale kirghiza, Manas appunto, quale base militare. Al di là del fatto di per sé singolare dell’associazione di strutture civili con mezzi militari, che rende il principale aeroporto del Paese un possibile oggetto di ritorsioni belliche, la base si sta rivelando sempre più un fattore di irritazione pubblica. Gli aerei che vi fanno scalo hanno in più occasioni riversato carichi di kerosene sulle campagne circostanti, ed in almeno due occasioni sono stati sul punto di causare seri incidenti con gli apparecchi civili, evitati per miracolo.
Sullo sfondo dell’indigenza circostante (il Kirghizistan è uno dei Paesi più poveri nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica), i militari statunitensi si muovono alla pari di cowboy ed infiammano le autorità tradizionali di una società in via di reislamizzazione. A fine 2006, un G.I. ha freddato, senza apparenti motivi, un civile del personale locale. Un fatto che, non essendo la situazione a tutt’oggi risolta sul piano legale, ha accentuato il risentimento di massa verso i militari di Washington. Questo si è ulteriormente inasprito negli ultimi mesi in seguito ad alcuni incidenti stradali e risse provocate dal personale militare statunitense, circostanze ben note a tutti coloro i quali si trovino a vivere nei pressi di un loro insediamento (ne parleremo prossimamente per quanto riguarda il caso di Aviano).
La presenza della base costituisce, infine, un serio fattore di disturbo delle relazioni fra la fragile repubblica kirghiza ed i vicini cinesi ed uzbeki, oltre che con la Russia. Gli impegni militari assunti con quest’ultima proibirebbero, in teoria, la presenza di militari stranieri, da cui l’escamotage dell’immunità diplomatica loro concessa. Senza scordare che dalle rimesse provenienti dai kirghizi ivi immigrati dipende la sussistenza di buona parte della popolazione rimasta in patria.

I dotti e le basi

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In Asia centrale, nelle repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti erano riusciti ad insediarsi militarmente in virtù della “Guerra al Terrore” scatenata dopo l’11 settembre 2001, in prima istanza contro l’Afghanistan talebano.
Da allora, molte cose sono cambiate in quell’area geografica ed agli statunitensi rimane oggi a disposizione soltanto la base di Manas in Kirghizistan – intitolata a Ganci, il comandante dei vigili del fuoco di New York morto al World Trade Center – il cui utilizzo è stato concesso sulla base di accordi bilaterali che risalgono al dicembre 2001 e che stabilivano un canone d’affitto di solo 2,6 milioni di dollari annui, meno di un’elemosina. Antefatto: il presidente kirghizo è Kurmanbek Bakiev, salito al potere nel 2005 grazie alla cosiddetta “Rivoluzione dei Tulipani” sponsorizzata da Washington ” con il contributo operativo determinante della fondazione Freedom House, coordinata dall’ex giornalista Mike Stone al quale erano state affidate la gestione dei 50 milioni di dollari stanziati per incoraggiare i gruppi dell’opposizione e la veste di editore-tipografo delle sei testate giornalistiche antigovernative.
Ebbene, proprio Bakiev – rapidamente tornato nell’orbita di Mosca, generosa nelle promesse di investimenti e di sostegno politico in caso di un’eventuale altra rivoluzione colorata, ed appoggiato anche da Pechino, poco entusiasta nel sapere l’USAF parcheggiata a due passi dalle sue rampe di missili nucleari nello Xinjiang – nella primavera del 2006 ha lanciato un ultimatum agli statunitensi chiedendo loro un aumento del canone di affitto di Manas che lo portasse a livelli più consoni all’importanza ed alle dimensioni della base. Ed essi, pur di non perdere la vitale installazione – dopo che già avevano perso la base di Karsh i-Khanabad in Uzbekistan – si sono decisi ad accettare il nuovo canone che è pari a ben 150 milioni di dollari. D’altro canto, rinunciare anche a quest’ultima infrastruttura li avrebbe costretti a ridispiegamenti strategici veramente complessi, col rischio di veder fallire completamente la strategia di espansione in Asia centrale.
Dove la posta in palio è rappresentata dai giacimenti di idrocarburi e dagli oleodotti e gasdotti esistenti, in costruzione ed in progettazione. Tanto è vero che da qualche mese, al dipartimento di Stato, hanno iniziato a circolare voci sempre più insistenti sul desiderio statunitense di allargare la NATO anche ai Paesi dell’area. Senza citare direttamente la Russia, Evan Feigenbaum, sottosegretario di Stato aggiunto, ha affermato che un monopolio dei trasporti delle risorse energetiche potrebbe rappresentare una minaccia per l’indipendenza politica ed economica di quei Paesi.
E’ evidente, Loro pensano sempre al bene altrui.