Numer(ett)i e fatt(acc)i dell’Italia in Afghanistan

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A febbraio 2008, PdL e PD hanno dato il via libera a Camera e Senato al rifinanziamento della missione militare in Afghanistan. Le uscite ufficiali sono state di 365 milioni di euro, quelle reali – con tranches aggiuntive del Ministero degli Esteri – superano i 513, di cui 57 destinati al… riordino dei Tribunali e delle strutture centrali e periferiche del Ministero della Giustizia afghano.
CESVI ed INTERSOS, piene zeppe di volontari di occhio buono e lingua lunga, se ne accappareranno una fetta più che consistente. Ai nuclei CIMIC non resteranno che le briciole e la sfiga di dover fare da bersaglio per le prodezze dei 180 italianissimi Rambo della Task Force 45 – Sarissa.
I 4 Tornado IDS, insieme ad un team previsto di 170 militari tra piloti, motoristi, specialisti elettronici e di armi ed un aliquota di “avieri dell’aria” per la sicurezza, richiederanno uscite per altri 51 milioni di euro nell’esercizio 2009-2010 e 6 se ne andranno per l’approntamento degli shelter corazzati già in costruzione per la protezione passiva contro razzi e colpi di mortaio sull’aeroporto di Herat. Una città squassata in un solo giorno, lo scorso 20 novembre, da tre gigantesche esplosioni a meno di cinquecento metri dalla base italiana di Camp Vianini.
Una guerra, quella organizzata a partire dal 2001 dagli USA in Afghanistan e successivamente corroborata dalla NATO, che è costata ad oggi, ai contribuenti della Repubblica delle Banane, tra morti, feriti, sequestrati con riscatti per entità non precisate, per retribuzioni, diarie di indennità al personale, trasporto, “aiuti” a Ong, uso di blindati, elicotteri, aerei, logistica, impiego, sostituzione e perdite di materiali, la sommetta di 3,2 miliardi di euro.
La campagna contro l’Afghanistan, cominciata sotto grandinate di bombe da 250-500 kg sganciate a caduta libera, e quindi con larga imprecisione, sugli “obiettivi sensibili” da B52 e B1 statunitensi, è tutt’ora in corso e durerà – si sostiene al Pentagono – ancora una ventina di anni.
Gli esportatori di pace e democrazia USA/NATO sono arrivati in Afghanistan, con la complicità dell’ONU, a fare di tutto e di ben peggio del peacekeeping con tanto di promessi e faraonici (e mai mantenuti) piani di ricostruzione. Nel corso di sette anni di guerra hanno inoltre usato i C130 per annaffiare di bombe, oltre che i presunti rifugi dell’inafferrabile Bin Laden, anche il più modesto concentramento di guerriglieri pashtun, ponti, percorsi obbligati, abitazioni isolate e villaggi di montagna. Ad oggi sono almeno 250 le FAE, meglio conosciute come “tagliamargherite”, da 6 tonnellate dotate di paracadute frenante, lanciate dai portelloni posteriori di questi quadriturbina da trasporto oltre a 32 GBU 43B a guida laser da 7 tonnellate ciascuna, arrivate a bersaglio sul terreno.
Le FAE sono enormi contenitori di acciaio che contengono nitrato di ammonio, alluminio in polvere e polistirene che distruggono qualsiasi forma di vita nel raggio di cinquecento metri e sviluppano a terra una pressione di 500 kg ogni 24,5 millimetri quadrati.
Poi Enduring Freedom e ISAF hanno spazzato via dalla carta geografica dell’Afghanistan, quello che era rimasto in piedi delle infrastrutture di appoggio logistico del “nemico”, spesso posizionate in prossimità di centri abitati, con il bombardamento “chirurgico” di cacciabombardieri F117, F16, F18, Mirage 2000, Harrier, Tornado IDS e UAV Predator armati di razzi Hellfire.
Il 2007 si è chiuso con un bilancio ufficiale del governo Karzai, quindi largamente sottostimato, di 7.463 morti ammazzati. Per Human Rights Watch, i decessi registrati tra la popolazione afghana sono stati nello stesso periodo 748.
Nei primi otto mesi del 2008, i “costi collaterali” sono saliti a 1.552, con un incremento che supera di ben oltre il 50% le perdite di vite umane registrate nell’anno precedente. I dati questa volta sono arrivati dall’inviata sudafricana dell’ONU Navi Pillay, durante una conferenza stampa a Kabul nel mese di ottobre.

Dall’estate del 2006, durante il governo Prodi, è già operativa nell’ovest dell’Afghanistan – nelle province di Farah e di Herat – la forza di reazione rapida dei Bersaglieri e della Task Force 45 – Sarissa, composta da Comsubin di Varignano, Paracadutisti Carabinieri Tuscania e 185° Regt. Folgore che parteciperà a ripetute azioni di guerra contro i Taliban nel distretto di Gulistan.
Nel corso dei combattimenti la Task Force 45, appoggiata da 5 elicotteri d’attacco A129 Mangusta e blindati Dardo con cannoni a tiro rapido da 25 mm, si renderà responsabile insieme a Rangers USA e SAS britanniche dell’uccisione di decine di guerriglieri afghani e di un numero imprecisato di feriti.
Il primo impiego di militari italiani, inquadrati in ISAF, contro formazioni combattenti Taliban risale al 18 Settembre 2006. Seguiranno ulteriori “missioni di annientamento” l’1 Ottobre ed il 10 Dicembre dello stesso anno.
Il 2007 vedrà Alpini Paracadutisti, Bersaglieri e Truppe Speciali di ISAF ed Enduring Freedom, impegnati in azioni di rastrellamento e di fuoco da terra e dall’aria contro nuclei di Taliban il 21 Febbraio, 11 Marzo-10 Aprile, il 27 Aprile, il 10 ed il 22 Agosto, il 19 Settembre, il 5 Ottobre ed a chiusura dell’anno dall’1 al 21 Novembre. Sarà l’ultima grande e protratta operazione “attacca e distruggi” prima della pausa invernale.
Al vertice NATO di aprile a Bucarest, presente Frattini, gli Stati Uniti chiederanno perentoriamente all’Italia di ampliare il suo intervento militare in Afghanistan corredandolo di “ulteriori ed indispensabili mezzi di difesa per riallineare sul terreno lo sforzo comune di USA ed Alleati della NATO nella lotta contro il terrorismo”. L’azzimatissimo Ministro degli Esteri assicurerà in quella occasione a Jaap de Hoop Scheffer il ritiro dei caveat che limitavano l’impiego sul campo del personale militare italiano nelle province di Herat e Farah, dichiarate zone di guerra da Enduring Freedom.
Frattini confermerà inoltre al Segretario Generale della NATO che il rapporto di collaborazione dell’Italia con gli Stati Uniti sarà nel tempo ancora più stringente e politicamente affidabile rispetto al passato. Ed ecco che dopo le parole giungono i fatti: i Tornado Panavia IDS dell’Aeronautica Militare Italiana del generale Camporini arrivano a Mazar-e Sharif…
Ne riparleremo. Ne vale la pena.

[Versione rivista e corretta di “La guerra segreta dell’Italietta in Afghanistan”, di Giancarlo Chetoni.
Per gentile concessione dell’autore]

Più USA a Sigonella

L’Italia ha candidato ufficialmente la base siciliana di Sigonella per ospitare il primo sistema integrato NATO per la sorveglianza del territorio dei 26 Stati membri (AGS), che si avvarrà di radar e velivoli, sia con che senza piloti (droni). Lo ha fatto ieri durante la ministeriale Difesa dell’Alleanza a Bruxelles. Il ministro La Russa ha detto di avere sollecitato il sostegno degli americani nel corso di un incontro con il segretario USA alla Difesa Robert Gates. Questi, da parte sua, ha ringraziato l’Italia per la decisione di rivedere i caveat che limitano l’uso delle truppe in Afghanistan, definendola «un grande passo». Per ospitare il quartiere generale delle attività di AGS sono in lizza anche Germania, Spagna, Turchia e Polonia, ma la scelta finale dovrebbe essere tra Sigonella e una località tedesca. «Abbiamo sottolineato che, rispetto ad altre candidature, Sigonella si presta sia come luogo, sia come efficienza, sia come costi ridotti», ha affermato La Russa.
(IL MANIFESTO)

Attenti a quei due

In un articolo apparso su La Repubblica lo scorso 27 maggio, il generale Fabio Mini commenta le novità che i neoministri degli Esteri Frattini e della Difesa La Russa vorrebbero introdurre sull’impiego del contingente italiano in Afghanistan.

Entrambi (…) invocano la flessibilità cercando di dimostrare che essa non comporta né cambiamenti, né maggiori rischi. Sbagliato. Tradotta in termini militari la flessibilità a cui fanno riferimento comporta invece più rischi, una gamma di operazioni più ampia, forze più mobili, più versatili e più integrabili in contesti multinazionali. In soldoni, più carri armati, missili, elicotteri, aerei, intelligence, più combattenti e barelle.
Il ministro La Russa ritiene di poter ottenere maggiore flessibilità incidendo sul fattore tempo. Secondo lui essere più flessibili significa non avere 76 ore di tempo per rispondere alle richieste Nato ma soltanto sei. Operativamente sei ore sono una eternità identica alle 76. In realtà non servono più di sei minuti per dare una risposta politica ad una richiesta militare della Nato. E se l’intervento è necessario e urgente, il caveat non si applica. Dal punto di vista operativo, il caveat temporale (massimo e non minimo) serve perciò da alibi per l’indecisione. Dal punto di vista politico serviva invece ad un governo diviso e traballante a prevenire e vagliare le richieste, a decantarle e a frenare le pulsioni omicide o le frustrazioni di gente che non faceva differenza nell’ammazzare dei civili o dei terroristi.
Quel tempo era una prova di profonda sfiducia nelle regole, nella politica e nella strategia dei maggiori alleati che, mescolando la missione di assistenza con la guerra di Enduring Freedom, le avevano rese inefficaci e inutilmente vessatorie nei riguardi del popolo afgano. Nulla è cambiato nell’atteggiamento, nelle strategie o nei risultati dei nostri alleati perché questa sfiducia possa essere rimossa. Semmai, proprio perché tira un vento di allineamento acritico, il tempo di decantazione e riflessione è più necessario che mai.
Il ministro Frattini insiste sull’aspetto geografico della flessibilità: bisogna rimuovere i limiti ai nostri interventi in aree diverse da quelle assegnate. Anche questo è un caveat teorico che non ha mai impedito ai nostri di fare il loro dovere e più del loro dovere. È un caveat che tutte le nazioni hanno e che i cosiddetti alleati maggiori impongono in maniera feroce. Cattiveria, miopia? No, è una questione di autonomia di comando e controllo. La flessibilità geografica e l’allineamento di Frattini possono includere operazioni che destabilizzano gli equilibri locali che altri hanno faticosamente costruito, e comunque comportano l’impiego delle nostre truppe in settori distanti, diversi, sotto comando altrui, in situazioni provocate o subite da altri. Significa dare uomini per operazioni non chiare e per scopi diversi dalla lotta al terrorismo o dalla ricostruzione. La flessibilità geografica comporta quindi una preparazione diversa, mezzi diversi, regole d’ingaggio diverse, responsabilità e rischi diversi. Significa fare quello che vogliono gli altri alle dirette dipendenze degli altri.
Non è esattamente una evoluzione. È vero che la guerra è guerra, ma allora bisogna ribattezzare la missione e prendere atto che la rimozione dei caveat non ci consegna più libertà, efficienza e conoscenza, ma solo più subalternità e maggiore corresponsabilità negli errori o nelle velleità altrui
”.

Tutto ciò avviene mentre sul terreno è in atto un tentativo di resuscitare la filosofia del cosiddetto gruppo “Sei più Due” – i sei Paesi confinanti con l’Afghanistan: Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Cina e Pakistan più Russia e Stati Uniti – che nel 1997 aveva provato, inutilmente, di far dialogare l’Alleanza del Nord con i Talebani.
Suscitando reazioni gelide da parte di Washington, russi e cinesi hanno attivato i loro referenti dell’ex Alleanza del Nord – oggi nota come Fronte Nazionale Unito, partito di opposizione al sempre più debole governo Karzai – i quali negli ultimi mesi si sono ripetutamente incontrati con esponenti talebani di alto livello al fine di avviare negoziati per una riconciliazione nazionale.