I caccia della NATO sganciarono ordigni inesplosi

“Undici zone di rilascio al largo delle coste pugliesi. La mappa diffusa dalla Capitaneria di Porto di Molfetta durante il conflitto in Kosovo, parla chiaro: i caccia della NATO sganciarono ordigni inesplosi – probabilmente caricati con uranio impoverito – nel basso Adriatico in undici aree, due delle quali a 12 miglia dalla costa.
Questa mappa si infranse, qualche mese dopo la fine della guerra, nel disconoscimento dell’unità di crisi italiana che si occupava della vicenda bombe. «Circa la mappa del basso Adriatico indicante 11 siti di “probabile rilascio”… i rappresentanti del Comando Generale delle Capitanerie di Porto e del Ministero della Difesa non ne hanno riconosciuto l’attendibilità». Ma è difficile credere che allora la mappa non sia stata sconfessata proprio per prevenire possibili rivendicazioni. Quella mappa, redatta sulla base delle indicazioni fornite dalle Autorità militari, avrebbe legittimato la richiesta di una bonifica del basso Adriatico. Disconoscerla ha significato “legittimare” una bonifica mai avvenuta. Le operazioni di sminamento condotte dalla Marina militare e dalla NATO, si sono fermate al di là del Gargano, escludendo la costa pugliese a sud di Manfredonia. Il fermo bellico disposto dal governo nel ’99 fu imposto anche ai pescatori pugliesi, ma accertato che la bonifica del basso Adriatico non è mai stata realizzata, ci chiediamo perché all’epoca del conflitto sia stato ordinato anche a quelle marinerie la sospensione delle attività: un intervento indispensabile, si diceva allora, per il recupero degli ordigni. In Puglia il fermo bellico ha garantito, peraltro con un anno di ritardo, solo gli indennizzi agli operatori. Un tardivo rimborso spese, insomma: il contentino fatto apposta per tacitare gli animi. Di misure di sicurezza e prevenzione degli incidenti sul lavoro, neanche a parlarne. “Continueremo comunque a pescare bombe” – ci disse all’epoca un pescatore, profeta suo malgrado.
Di contro alla rassegnazione dei pescatori, le autorità militari ostentavano sin d’allora il successo delle prime operazioni di bonifica. Ancora, dai documenti ufficiali si apprendeva che le aree designate per il rilascio del carico bellico fossero sei in tutto l’Adriatico (mentre la sola mappa redatta a Molfetta, ne segnalava undici) e che le zone dove erano stati “effettivamente affondati gli ordigni” fossero state “tutte indagate” con le prime operazioni di bonifica. Ma i dati ufficiali sembrano smentiti dalla realtà: molti i ritrovamenti accidentali di bombe finite nelle reti dei pescatori anche dopo la bonifica, mentre sempre l’Icram dichiarava già nel ’99 (verbale della riunione del 30 agosto 1999 dell’Unità di crisi per gli ordigni NATO affondati in Adriatico) l’eventualità che, a operazioni concluse, fosse “rimasto sui fondali adriatici un numero rilevante, probabilmente dell’ordine delle migliaia, di ordigni dispersi” rappresentati soprattutto da piccole bomblets, dell’ordine di grandezza di una ventina di centimetri, provenienti dall’apertura delle bombe a grappolo. La portata di queste dichiarazioni fu tale da indurre il governo ad avviare una nuova fase di bonifica qualche mese più tardi (gennaio 2000). Ma sull’attendibilità della mappa con le zone di rilascio nei mari di Puglia pendeva ancora l’invalicabile veto della NATO, e così le autorità decisero che, di nuovo, il Basso Adriatico potesse attendere.
Nessuna bonifica neppure per gli ordigni a caricamento speciale (iprite e composti contenenti arsenico), affondati nel basso adriatico nel corso della seconda guerra mondiale.
A seguito di specifiche campagne di indagine, l’allora Icram, oggi Ispra, ha accertato la presenza sui fondali del Basso Adriatico di almeno ventimila ordigni con caricamento chimico…”.

Da Armi chimiche: un’eredità ancora pericolosa. Mappatura, monitoraggio e bonifica dei siti inquinati dagli ordigni della seconda guerra mondiale, a cura di Legambiente e Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche, pp. 12-13.

Oggi, sul Portale Ambientale della Regione Puglia, alla voce Disinquinamento del Basso Adriatico, si legge:
“La verifica della presenza degli ordigni bellici nelle aree individuate (già effettuata nel Porto di Molfetta) sarà effettuata dall’ISPRA con il concorso del Centro di Ricerca della NATO “NURC” (NATO Underwater Research Centre). Il piano prevede che la bonifica degli ordigni bellici sia attuata dallo SDAI – Corpo Speciale dello Stato Maggiore della Marina Militare.
Il nucleo SDAI, una volta rinvenuti gli ordigni a caricamento speciale, si avvale del supporto del Centro Tecnico Logistico Interforze Nucleare Biologico e Chimico (CETLI NBC) di Civitavecchia e dell’11° Reggimento Genio Guastatori di Foggia. Obiettivo complementare del Piano è quello di definire lo stato di qualità dei fondali delle aree in esame (prioritarie e non, per un totale di 19) e accertare eventuali successivi interventi di messa in sicurezza e bonifica, a tal fine l’ARPA Puglia, di concerto con il CETLI NBC, effettuerà le apposite determinazioni analitiche dei fondali marini.
L’ARPA Puglia, di concerto con la Direzione Marittima di Bari, sta curando l’organizzazione di corsi di informazione e formazione rivolti agli operatori della pesca circa le migliori pratiche da adottare nel caso di salpamento a bordo di residuati bellici o altri rifiuti pericolosi.”

Ma il sito web specifico per il programma risulta inattivo.

[Il Pentagono, ovverossia Il peggior inquinatore del Pianeta]

La Difesa in crisi di identità

10177532_862656523762149_3331050011974390149_nSul risultato non ci sarà poi molto da discutere. Che l’ambiente alla fine risulti pulito, che i migranti trovino interpreti al loro approdo e si sentano bene accolti in terra straniera, che la Difesa finisca per corrispondere maggiormente ai desideri della popolazione, piuttosto che a un fine superiore basato su una visione strategica, insomma, tutto questo alla fine ci farà sentire felici cittadini di un paese democratico.
Tuttavia qualche pulcetta viene da farla. Soprattutto quando la perplessità di fronte a certe scelte davvero non si può nascondere.
È il caso dell’ennesimo esempio di utilizzo dell’Esercito per fare le pulizie, della individuazione di mediatori culturali militari da mettere sulle spiagge di Lampedusa, dell’invito a esprimere il proprio parere online in merito alle direttive che la Difesa dovrà intraprendere, e che pubblicherà poi sul suo Libro Bianco.
Giusto per fare riferimento agli ultimi casi di cronaca, intendiamoci. E non si tratta di interventi di pubblica calamità, tutt’al più di una certa pubblica e limitata utilità, se proprio vogliamo essere speculativi. Continua a leggere

Nave Elettra: Italia complice dei golpisti di Kiev

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La nave Elettra nel Mar Nero per spiare i Russi

L’intelligence italiana torna nel Mar Nero per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda per spiare le forze di Mosca e soprattutto le milizie secessioniste filo russe attive nel Donbass e nel sud est dell’Ucraina. La missione della nave spia Elettra doveva restare segreta ma è stata resa nota martedì dall’agenzia RIA Novosti che citando una fonte militare-diplomatica ha riferito che l’Elettra, con a bordo un equipaggio di un centinaio di persone tra marinai e personale dell’intelligence, entrerà nel Mar Nero il 15 giugno. Mosca considera la missione della nave italiana (che l’agenzia russa definisce “da ricognizione” e la Marina Militare di “supporto polivalente”) come continuità delle capacità della NATO di intercettare le comunicazioni ed effettuare spionaggio elettronico rilevando come la nave spia francese Dupuy de Lome abbia lasciato il Mar Nero il 29 maggio. In realtà le operazioni d’intelligence, incluse quelle di spionaggio elettronico “hanno sempre un carattere nazionale pur nel quadro dell’iniziativa della Nato nella crisi ucraina” come riferiscono ad Analisi Difesa fonti ben informate.
Ciò significa che la missione dell’Elettra è stata voluta e decisa da Roma anche se parte delle informazioni raccolte verranno condivise con gli alleati. Le stesse fonti riferiscono che la missione consentirà di cooperare con le marine alleate e di testare i sofisticati equipaggiamenti imbarcati per l’intercettazione di comunicazioni ed emissioni elettroniche (una trentina di sistemi). L’obiettivo sembra essere quello di raccogliere dati e informazioni sulle forze messe in campo da Mosca e sulla struttura dei movimenti secessionisti ucraini. Le operazioni di intelligence elettronico (Signal Intelligence –Sigint) potrebbero inoltre rivelare informazioni utili a cogliere i segnali di un eventuale intervento militare russo in Ucraina. Benché le fonti sentite sottolineino che l’Elettra si manterrà a distanza dalle coste russe e la sua missione non intende irritare Mosca è evidente che la presenza della nave-spia italiana nelle acque di casa non è gradita al Cremlino.
Lo dimostra anche l’iniziativa mediatica di rendere noto il prossimo arrivo dell’Elettra attraverso l’agenzia di stampa RIA Novosti che rischia di mettere in forte imbarazzo il governo italiano che non ha informato l’opinione pubblica e il Parlamento della missione della nave spia e probabilmente neppure il Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica (Copasir) che tiene i rapporti con le agenzie d’intelligence.
Oggi il deputato della Lega Nord Gianluca Pini ha presentato un’interrogazione al ministro degli Esteri Federica Mogherini, chiedendo “conferme” o “smentite” ufficiali alla notizia della missione dell’Elettra. “Si tratterebbe di un atto politicamente sensibile – contesta il parlamentare del Carroccio – di cui non è stata data alcuna informativa ufficiale e che sconvolge la linea di equilibrio fino ad oggi tenuta dalla Farnesina (tanto che l’OSCE ha riconosciuto all’Italia un ruolo di mediazione nella questione russa). Gravissimo sarebbe avere solo ora conferma di una notizia potenzialmente esplosiva sotto il profilo geopolitico e, di riflesso, economico”. Nulla di nuovo a dire il vero dal momento che i governi italiani di tutti i colori politici hanno sempre cercato di tacere impieghi bellici o “delicati” delle nostre forze militari senza riuscire però mi a risparmiarsi figuracce quando le notizie c he avevano cercato goffamente di nascondere sono state rese note. L’ultimo episodio in ordine cronologico riguardò l’invio in segreto del cacciatorpediniere lanciamissili Doria nelle acque libanesi da parte del governo di Enrico Letta in occasione della crisi siriana che nel sewttembre scorso sembrava dover precipitare in un intervento militare internazionale contro Damasco.
La missione dell’Elettra evidenzia inoltre la scarsa coesione del governo Renzi caratterizzata da un Ministero della Difesa che sembra appiattito sulle posizioni filo-Kiev di Washington e una Farnesina che lamenta il mancato ruolo dell’Europa nel dialogo con Mosca. Ma come hanno fatto i russi a sapere della missione della nave spia italiana che prenderà il via tra dieci giorni? Probabilmente il Cremlino non ha dovuto scomodare i suoi 007 e l’informazione è stata dornita direttamente dalla Turchia, cui vanno segnalate tutte le navi in transito negli stretti di Dardanelli e Bosforo dirette nel Mar Nero e che ne informa gli Stati rivieraschi.
La presenza in quelle acque di unità appartenenti a Paesi che non si affacciano su quel bacino è infatti regolamentata dalla Convenzione di Montreux che limita a 21 giorni la permanenza di navi di stati non rivieraschi. Facile quindi ipotizzare che la richiesta di transito presentata alle autorità turche dalla Marina Militare non è sfuggita alle “orecchie” di Mosca sul Bosforo. Facile anche prevedere che la missione dell’Elettra si prolungherà fino alla prima settimana di luglio anche se Mosca ha accusato la NATO di aver mantenuto nel Mar Nero il cacciatorpediniere statunitense Taylor per ben 32 giorni tra il febbraio e il marzo scorso, in occasione della secessione della Crimea dall’Ucraina e della sua successiva annessione alla Federazione Russa. Attualmente, oltre alle flotte turca, rumena e bulgara che sono parte dell’Alleanza atlantica, nel Mar Nero sono presenti la fregata francese Surcouf e l’incrociatore americano Vella Gulf la cui presenza è considerata da Mosca una forma indebita di pressione militare ai suoi confini.
Gianandrea Gaiani

Fonte

Frattini e La Russa ministri-servi

Di Quirinale, Terzo polo e poteri forti.
Con “Bunga Bunga” a fare da spettatore ricattato.

Non c’è attacco aereo di Unified Protector che non necessiti per una missione di bombardamento sulla Jamahiryia di almeno due rifornimenti in volo da aerei cisterna, uno durante la fase di avvicinamento al “target“, il secondo dopo lo “strike“ nel ritorno alle basi di decollo in Sicilia: Trapani Birgi e Sigonella.
Nell’intero mese di Luglio, nell’arco delle 24 ore, le missioni di appoggio aereo della NATO si sono attestate su una media di 150, i bombardamenti dall’aria hanno raggiunto i 47.
Il numero dei morti e dei feriti tra i residenti della Tripolitania e della Cirenaica è aggiornato, via internet, da Libyan Free Press – Jamahiriya News.
Cosa costi ogni ora di volo un bi-quadrireattore Boeing Kc 767 A o Kc 135 che faccia da mucca per rifornire per due-tre volte un singolo velivolo della NATO che attraversi il Mediterraneo Centrale ve lo lasciamo immaginare.
Si tenga di conto che un Eurofighter Typhoon dell’Aeronautica Militare Italiana compreso l’addestramento del pilota, escluso l’armamento, ha un costo, per le sfiatatissime casse dell’Erario pubblico, di 80.000 euro per ora di volo. Un solo missile Storm Shadow o Scalp Ec, con una testasta bellica di 247 kg, lanciato da un cacciabombardiere tricolore arriva a superare abbondantemente il milione di euro.
Quanti gingilli come questi siano andati a bersaglio a cura dell’Aeronautica Militare Italiana in territorio libico è coperto da “segreto militare“.
Gli unici jets d’attacco che possono sottrarsi a questa dispendiosissima routine di rifornimento in volo sono quelli in dotazione alle portaerei-portaereomobili che operano in prossimità, interna ed esterna, della linea immaginaria che unisce Tripoli a Bengasi, l’enorme area d’acqua del Golfo della Sirte.
Dopo 90 giorni di permanenza in mare, il 7 Luglio scorso la “Garibaldi“ è stata ritirata dalla zona di operazioni, e il 10 Agosto è toccato alla “De Gaulle” abbandonare la missione per rientrare nel porto di Tolone. Il dispositivo d’attacco di Unified Protector ha perso (momentaneamente?) 40 tra aerei ed elicotteri.
Il 2 Agosto la Norvegia, strage di Utoya o no, ha ritirato, come programmato, i suoi quattro F-16.
Il Ministro della Difesa di Londra, Liam Fox, ha coperto l’abbandono di Oslo con l’invio con altrettanti Tornado Idv.
Per Longuet, la portaerei francese è stata ritirata dal Mediterraneo Centrale per manutenzione al ponte di volo da cui decollano e atterrano Rafale e Super Etendard e alle catapulte di lancio.
L’Italia, per bocca di La Russa, ha motivato l’abbandono della “Garibaldi” dal teatro operativo per limitare le gigantesche uscite finanziarie che ne comporta l’utilizzo prolungato in navigazione.
Il Bel Paese, per non fare cosa sgradita agli alleati, ha però provveduto a sostituire l’ammiraglia della M.M. con l’unità da assalto anfibio “S. Giusto”, che ospita il comando navale di Unified Protector e imbarca in permanenza il battaglione di fanteria marina S. Marco (350 militari), 210 tra ufficiali, sottoufficiali e marinai, armi, logistica e blindati da sbarco, oltre a tre elicotteri medi per impiego antisommergibile, antinave e controcosta SH 3D.
Una volontà di limitare i costi o un cambio di strategia in corso d’opera?
Una strategia che preveda il passaggio dai bombardamenti aerei effettuati da 4-6 jets Harrier a decollo verticale impiegati dalla “Garibaldi“ per battere i target sulla Litoranea a un attacco alle coste della Jamahiriya con incursori e fanteria di marina della “S. Giusto“? Continua a leggere

Armi ai “ribelli” libici? Segreto di Stato

La vicenda, già affrontata da Giancarlo Chetoni e oggetto di un’interrogazione parlamentare dei senatori Lannutti e Pedica, finisce sui banchi del Consiglio regionale della Sardegna.

Cagliari, 19 luglio – Giallo sulla scomparsa di 400 missili, razzi anticarro e katiuscia custoditi nella base della Maddalena, in Sardegna. Ora sulla vicenda c’è il segreto di Stato imposto dalla presidenza del Consiglio e l’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Tempio-Pausania, per capire che fine abbia fatto quell’arsenale sequestrato alla Jadran Express nel 1994.
La vicenda ha inizio nel maggio scorso, quando il quotidiano sardo ‘La Nuova Sardegna’ scopre che ”un ingente carico di materiale bellico, già oggetto di inchieste della magistratura sul traffico internazionale di armi, è stato trasferito da depositi sotterranei nell’Isola di Santo Stefano utilizzando navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, dalla Sardegna a Civitavecchia”. Un carico di armi custodito per 17 anni nei sotterranei della marina militare e, sembra, trasportato su navi di linea dalla Sardegna a Civitavecchia.
”L’enorme carico di armi – scrivono in un’interrogazione i consiglieri regionali della Sardegna del gruppo Sel-Comunistas-Indipendentistas, Claudia Zuncheddu, Luciano Uras, Raduan Ben Amara, Giorgio Cugusi e Carlo Sechi -, fu sequestrato nel 1994 nel Mediterraneo, perché destinato a rifornire il traffico clandestino di materiale bellico, e conta 30mila fucili d’assalto Ak-47, 150.000 caricatori, 32 milioni di proiettili in calibro 7,62×33, 5 mila Bm 21 da 122 mm, 50 lanciatori e 400 razzi anticarro Rpg”.
(…)
Sembrerebbe che il 17 maggio scorso l’arsenale sarebbe stato trasferito in quattro container del Genio, poi caricato su un traghetto Saremar, e da Palau, ”sotto scorta di militari a bordo di automezzi targati Marina militare, il viaggio del convoglio sia proseguito verso Olbia. Dove, all’Isola Bianca, i container sarebbero stati fatti salire insieme con gli ultimi mezzi, alla fine delle operazioni di carico di tutti i veicoli, su una nave Tirrenia con 700 passeggeri”.
(Adnkronos)

Verità nascoste e menzogne di Stato

La tanker Savina Kaylin e il cargo Rosaria D’Amato sotto sequestro nel Puntland

Dismesso l’uso dei dizionari (Zanichelli, Garzanti, Dardano, ect), alla voce “Repubblica delle Banane” Wikipedia riporta: “Attualmente il termine è entrato nel vocabolario di tutti i giorni per indicare un regime dittatoriale, stabile nell’instabilità, dove le consultazioni elettorali sono pilotate e la corruzione ampiamente diffusa così come una forte influenza straniera che può essere politica o economica o ambedue le cose, sia diretta che pilotata attraverso il governo interno.”
Per estensione, il termine è usato per definire esecutivi dove un leader concede vantaggi ad amici e sostenitori, senza grande considerazione delle leggi (in Italia se ne fa partecipe l'”opposizione” che si alterna con la “maggioranza”), mettendo alla porta il giudizio espresso degli elettori.
Alla voce caratteristiche si indica la collusione tra Stato e interessi monopolistici dove i profitti sono privatizzati e le perdite socializzate.
Chiudiamo qui la tiritera ritenendoci ampiamente autorizzati, a buon titolo, a definire l’Italia delle istituzioni, della politica e dei Poteri Forti un sistema-Paese ampiamente cleptocratico, caraibico.
Detto questo, passiamo a un po’ di “attualità” che ne metta in mostra qualche aspetto di “politica estera” da barzelletta, partendo da un comunicato dell’ANSA dello scorso 5 luglio.
Secondo l’agenzia di stampa, la Tanzania è pronta a mettere in campo la sua intelligence per aiutare l’Italia ad ottenere quanto prima il rilascio degli 11 (5 italiani) marittimi della petroliera Savina Kaylin, 105.000 tonnellate, 226 mt di lunghezza, tanker, e dei 22 (6 italiani) della Rosaria D’Amato, cargo, di 112.000 tonnellate, 225 mt di lunghezza di proprietà ambedue di armatori italiani. I dati sono nostri.
La prima sequestrata da “pirati somali” con modalità pagliaccesce, come abbiamo già avuto modo di descrivere, affidandoci alla lettura di una corrispondenza di un inviato de La Repubblica: il famosissimo “rapito” in Afghanistan Daniele Mastrogiacomo, passato dal Paese delle Montagne alla “cronaca” da una località imprecisata nel Corno d’Africa. La seconda di cui si è parlato solo per registrare il “furto” in pieno Oceano Indiano e chiuderla lì, senza clamore, visto l’imbarazzante precedente della Savina Kaylin.
La Kaylin è “fuori controllo” dal 24 Gennaio e la D’Amato dal 21 Aprile. Ambedue sono state scortate a “destinazione” con l’assistenza, perchè così è stato, delle fregate Zefiro ed Espero della Marina Militare che operano, e hanno operato, tra lo Stretto di Bab el Mandeb e il Golfo di Aden, con l’operazione Atalanta dell’UE e Ocean Shield della NATO.
Dove? Continua a leggere

Difesa Servizi s.p.a.

Le forze armate italiane smettono di essere gestite dallo Stato e diventano una società per azioni. Uno scherzo? Un golpe? No: è una legge, che diventerà esecutiva nel giro di poche settimane. La rivoluzione è nascosta tra i cavilli della Finanziaria, che marcia veloce a colpi di fiducia soffocando qualunque dibattito parlamentare. Così, in un assordante silenzio, tutte le spese della Difesa diventeranno un affare privato, nelle mani di un consiglio d’amministrazione e di dirigenti scelti soltanto dal ministro in carica, senza controllo del Parlamento, senza trasparenza. La privatizzazione di un intero ministero passa inosservata mentre introduce un principio senza precedenti. Che pochi parlamentari dell’opposizione leggono chiaramente come la prova generale di un disegno molto più ampio: lo smantellamento dello Stato. “Ora si comincia dalla Difesa, poi si potranno applicare le stesse regole alla Sanità, all’Istruzione, alla Giustizia: non saranno più amministrazione pubblica, ma società d’affari”, chiosa il senatore PD Gianpiero Scanu.
Stiamo parlando di Difesa Servizi Spa, una creatura fortissimamente voluta da Ignazio La Russa e dal sottosegretario Guido Crosetto: una società per azioni, con le quote interamente in mano al ministero e otto consiglieri d’amministrazione scelti dal ministro, che avrà anche l’ultima parola sulla nomina dei dirigenti. Questa holding potrà spendere ogni anno tra i 3 e i 5 miliardi di euro senza rispondere al Parlamento o ad organismi neutrali. In più si metterà nel portafogli un patrimonio di immobili ‘da valorizzare’ pari a 4 miliardi. Sono cifre imponenti, un fatturato da multinazionale che passa di colpo dalle regole della pubblica amministrazione a quelle del mondo privato. Ma questa Spa avrà altre prerogative abbastanza singolari. Ed elettrizzanti. Potrà costruire centrali energetiche d’ogni tipo sfuggendo alle autorizzazioni degli enti locali: dal nucleare ai termovalorizzatori, nelle basi e nelle caserme privatizzate sarà possibile piazzare di tutto. Bruciare spazzatura o installare reattori atomici? Signorsì! Segreto militare e interesse economico si sposeranno, cancellando ogni parere delle comunità e ogni ruolo degli enti locali. Comuni, province e regioni resteranno fuori dai reticolati con la scritta ‘zona militare’, utilizzati in futuro per difendere ricchi business. Infine, la Spa si occuperà di ‘sponsorizzazioni’. Altro termine vago. Si useranno caccia, incrociatori e carri armati per fare pubblicità? Qualunque ditta è pronta a investire per comparire sulle ali delle Frecce Tricolori, che finora hanno solo propagandato l’immagine della Nazione. Ma ci saranno consigli per gli acquisti sulle fiancate della nuova portaerei Cavour o sugli stendardi dei reparti che sfilano il 2 giugno in diretta tv?
Lo scippo. Quali saranno i reali poteri della Spa non è chiaro: le regole verranno stabilite da un decreto di La Russa. Perché dopo oltre un anno di dibattiti, il parto è avvenuto con un raid notturno che ha inserito cinque articoletti nella Finanziaria.
(…)
Non si capisce nemmeno quanti soldi verranno manovrati dalla holding. Difesa Servizi gestirà tutte le forniture tranne gli armamenti, che rimarranno nelle competenze degli Stati maggiori. Ma cosa si intende per armamenti? Di sicuro cannoni, missili, caccia e incrociatori. E gli elicotteri? E i camion? E i radar e i sistemi elettronici? Quest’ultima voce ormai rappresenta la fetta più consistente dei bilanci, perché anche il singolo paracadutista si porta addosso una serie di congegni costosissimi.
(…)
Gli immobili. Questa Finanziaria in realtà realizza un altro dei sogni rivoluzionari: l’assalto alle caserme. È una corsa agli immobili della Difesa per fare cassa, sotto la protezione di una cortina fumogena. La vera battaglia è quella per espugnare un patrimonio sterminato: edifici che valgono oro nel centro di Roma, Milano, Bologna, Firenze, Torino, Venezia. Un’altra catena di fortezze, poligoni, torri e isole in località di grande fascino che va dalle Alpi alla Sicilia. Da dieci anni si cerca di trovare acquirenti, con scarsi risultati: dei 345 beni ex militari messi all’asta dal governo Prodi, il Demanio è riuscito a piazzarne solo otto. Adesso, dopo un lungo braccio di ferro tra La Russa e Tremonti, si sta per scatenare l’attacco finale. Con una sola certezza: i militari verranno sconfitti, mentre sono molti a pensare che a vincere sarà solo la speculazione.
(…)
Intanto però gli appetiti si stanno scatenando. E fette della torta finiscono in pasto alle amministrazioni amiche. Con giochi di finanza creativa. A Gianni Alemanno per Roma Capitale sono state concesse caserme per oltre mezzo miliardo di euro. O meglio, il loro valore cash: il Tesoro anticiperà i quattrini, da recuperare con la vendita degli scrigni di viale Angelico, Castro Pretorio, via Guido Reni e di un paio di fortezze ottocentesche ormai inglobate dalla metropoli. Qualcosa di simile potrebbe essere regalato a Letizia Moratti, per lenire il vuoto nelle casse dell’Expo: un bel pacco dono di camerate e magazzini con vista sul Duomo. “Così le logiche diventano altre: non c’è più tutela del bene pubblico ma l’esternalizzare fondi e beni pubblici attraverso norme privatistiche”, dichiara Rosa Calipari Villecco, sottolineando l’assenza di magistrati della Corte dei conti o altre figure di garanzia nella nuova spa. Un anno fa i militari avevano manifestato insofferenza per questa disfatta edizilia. Il capo di Stato maggiore Vincenzo Camporini aveva fatto presente che era stato ceduto un tesoro da un miliardo e mezzo di euro senza “adeguato contraccambio”. Oggi, come spiega l’onorevole Calipari, “non si sa nemmeno tra quanti anni le forze armate riceveranno i profitti delle vendite”. Eppure i generali tacciono. Una volta ai soldati veniva insegnato ‘Credere, obbedire, combattere’; adesso il motto della Difesa privatizzata è ‘economicità, efficienza, produttività’. La regola dell’obbedienza è rimasta però salda. E con i tagli al bilancio imposti da Tremonti – in un trennio oltre 2,5 miliardi in meno – anche gli spiccioli della nuova holding diventano vitali per tirare avanti e garantire l’efficienza di missioni ad alto rischio, Afghanistan in testa.
Business con logo. Di sicuro, Difesa Servizi Spa sfrutterà le royalties sui marchi delle forze armate. Un business ghiotto. Il brand di maggiore successo è quello dell’Aeronautica. Felpe, t-shirt, giubbotti e persino caschi con il simbolo delle Frecce Tricolori spopolano con un mercato che non conosce distinzioni d’età e di orientamento politico. Anche l’Esercito si è mosso sulla scia: sono stati aperti persino negozi monomarca, con zaini e tute che sfoggiano i simboli dei corpi d’élite. Finora gli Stati maggiori barattavano l’uso degli stemmi con compensazioni in servizi: restauri di caserme, costruzione di palestre. D’ora in poi, invece, i loghi saranno venduti a vantaggio della Spa. Questo è l’unico punto chiaro della legge, che introduce sanzioni per le mimetiche senza licenza commerciale: anche 5 mila euro di multa. “La questione delle sponsorizzazioni è una foglia di fico per coprire altre vergogne. Tanto più che alla difesa vanno solo briciole”, taglia corto il senatore Scanu. E trasformare il prestigio delle bandiere in denaro, però, non richiedeva la privatizzazione. La Marina ha appena pubblicato sui giornali un bando per mettere all’asta lo sfruttamento della sua insegna: si parte da 150 mila euro l’anno. Con molta trasparenza e senza foraggiare il cda scelto dal ministro di turno.

Da Forze armate e privatizzate, di Gianluca Di Feo.
[grassetto nostro]