Una questione essenzialmente politica

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“Ora, è vero che qualcosa è realmente cambiato nelle imprese e attorno a esse dai tempi dell’ingegner Adriano; però si tratta di qualcosa che le obiezioni citate, e altre cento consimili, non sfiorano nemmeno. Ciò che è cambiato è la concezione stessa dell’impresa, le ragioni sociali della sua esistenza. Senza dimenticare che per un’impresa capitalistica la finalità ultima è la valorizzazione del capitale, va riconosciuto che per buona parte del Novecento, e per almeno trent’anni dopo la Seconda guerra mondiale, non mancarono le imprese che tra i loro scopi principali collocavano la produzione di beni e servizi innovativi; l’aumento del fatturato e del numero dei dipendenti; l’offerta di buoni salari e condizioni di lavoro, insieme con il mantenimento di relazioni industriali soddisfacenti per le due parti. E mentre agivano in tal modo, conseguivano pure elevati profitti. Negli anni Ottanta tale concezione dell’impresa venne rimpiazzata da un’altra, che vedeva nella massimizzazione del valore per gli azionisti l’unico scopo che un’impresa aveva il dovere di perseguire a scapito di ogni altro. È famosa al riguardo la battuta di Milton Friedman, il piú noto degli economisti neoliberali dell’epoca: «L’unico compito di un’impresa è quello di fare buoni affari».
L’irresistibile ascesa della nuova concezione fu sospinta da diversi fattori. Ma uno fu determinante; la crescita del patrimonio gestito in complesso dai cosiddetti «investitori istituzionali»: fondi comuni di investimento, fondi pensione, compagnie di assicurazione e altri tipi di fondi, gran parte del quale è costituito da azioni e obbligazioni emesse da imprese medie e grandi (tra parentesi: definire «investitori» tali attori economici è del tutto scorretto. Un investitore è uno che anticipa capitali al fine di creare un’attività che senza tale anticipazione non vedrebbe la luce. I movimenti di capitale dei suddetti fondi ecc. non perseguono alcun fine del genere: mirano quasi soltanto a realizzare plusvalenze speculative). Nel 1990 il patrimonio di tali cosiddetti investitori toccava i 10 trilioni di dollari; nel 2000 era triplicato; dieci anni dopo superava il Pil del mondo: oltre 60 trilioni di dollari.
Quali gestori di tale colossale patrimonio finanziario, gli investitori istituzionali perseguono, come s’è detto, un unico scopo: far rendere al massimo i capitali loro affidati da chi acquista le loro quote, a prescindere dalle modalità mediante le quali il rendimento viene conseguito. A tale scopo acquistano in genere una quota limitata – di rado superiore al 4-5 per cento – del pacchetto azionario di gran numero di differenti imprese, e da ciascuna pretendono un rendimento pari o superiore al 15 per cento annuo. Un cda di un’impresa può ignorare le pressioni in tal senso di uno o due investitori in possesso delle relative quote; tuttavia se essi cominciano a essere quattro o cinque, accade che o esso si adopera al più presto per soddisfarle, oppure il suo destino, se non anzi quello dell’intera impresa, è segnato.
Le conseguenze sul governo delle imprese sono state micidiali, non solo a causa delle pressioni esercitate dai «proprietari globali» – come sono stati chiamati gli investitori istituzionali, visto che posseggono la metà del capitale azionario complessivo del mondo – ma ancor più dell’urgenza a esse sottesa. Se un’impresa consegue profitti del 10 per cento, e gli investitori pretendono che essi salgano al 15 per cento a breve termine – cioè entro pochi mesi al più tardi – non esistono mezzi strutturali per soddisfare la richiesta, quali sarebbero aumentare l’investimento in ricerca e sviluppo, accrescere le vendite con nuove strategie commerciali, tentare di espandersi in nuovi Paesi, e simili. I mezzi atti a conseguire con rapidità notevoli aumenti del capitale azionario sono altri. Consistono nel riacquisto di azioni proprie, il che fa salire di colpo il loro prezzo o valore in quanto le rende più scarse sul mercato; in qualche sorta di fusione o acquisizione con altre società, eventualmente effettuata con un massiccio ricorso al debito, un’operazione che spinge gli analisti a mirabolanti previsioni sull’aumento del valore borsistico della nuova società, anche se in genere ciò si realizza solo per breve tempo dopo l’operazione; nel brusco licenziamento di alcune centinaia o meglio ancora migliaia di dipendenti, il che fa salire immediatamente il valore del titolo. Non da ultimo, consistono nella compressione sistematica e prolungata dei salari e delle condizioni di lavoro dei dipendenti, che include ogni mezzo possibile per ridurre il peso dei sindacati.
Un altro effetto perverso di simile «finanziarizzazione» del governo dell’impresa è stato sia l’astronomico aumento delle retribuzioni complessive degli alti dirigenti, sia la scomparsa del criterio della competenza e dell’esperienza nel reclutamento dei medesimi. Una volta stabilito che nel governo di un’impresa la priorità massima deve essere assegnata all’aumento del suo valore azionario in borsa, ne segue che per scegliere un manager il requisito primo deve essere la sua capacità di far crescere tale valore, non già la sua competenza nel produrre un determinato complesso di beni o servizi. Con il volenteroso aiuto dei manager, sempre ben disposti a votare nei comitati aziendali istituiti per stabilire il compenso degli alti dirigenti l’aumento del medesimo a favore di qualche collega, con il sottinteso di ricevere al momento giusto lo stesso favore, i relativi compensi sono schizzati alle stelle.
(…)
Senza tuttavia che venisse quasi mai meno l’impegno del dirigente in parola a comprimere diritti dei lavoratori e condizioni di lavoro, a emarginare i sindacati, a delocalizzare produzioni all’estero al fine, più ancora che di conseguire economie di produzione, di disciplinare i lavoratori ancora occupati in patria – nessuno sa fino a quando. Numerosi saggi pubblicati dal 2008 a oggi documentano con innumeri dati l’irresistibile marcia parallela della massimizzazione del valore per gli azionisti e la minimizzazione delle condizioni di lavoro dei dipendenti.
Per tornare alla Olivetti di Ivrea negli anni Cinquanta. La sua responsabilità sociale si esprimeva in salari elevati, un’organizzazione del lavoro rispettosa della persona sulle linee di produzione e montaggio, significative riduzioni d’orario (la Olivetti fu la prima impresa italiana a introdurre, nel 1957, il sabato interamente festivo), massima libertà di espressione e movimento per i sindacati (anche se l’ingegner Adriano non amava la Cgil, che lo considerava un padrone come gli altri), e un’assoluta stabilità dell’occupazione, anche durante la mezza crisi del 1952-53. A ciò si aggiungevano prestazioni da stato sociale scandinavo: scuole interne di formazione per i giovani, case per i dipendenti, ambulatori, asili e colonie per i loro figli, assistenza sociale in caso di bisogno, biblioteche. Che cosa dunque impedisce a un’impresa del presente di riprodurre almeno in parte quella situazione così socialmente responsabile?
(…)
Molto bene, direbbe a questo punto un raro ad convinto a metà dagli argomenti di cui sopra: resta il fatto che il passaggio a un governo dell’impresa orientato a una maggior responsabilità sociale sarebbe comunque ostacolato dal fatto di avere sempre addosso la pressione della proprietà, in specie degli investitori istituzionali. È un’osservazione di peso. Tuttavia anche in questo caso la storia della «fabbrica» di Adriano Olivetti suggerisce forse qualcosa su cui riflettere. Se la proprietà ha il diritto di appropriarsi totalmente del valore aggiunto dell’impresa, compreso quello fittizio derivante da un aumento del valore delle azioni artificiosamente provocato, e nel contempo di disinteressarsi non meno totalmente di quello che succede ai dipendenti, ciò non è dovuto a qualche ferrea legge dell’economia. Avviene perché sta scritto in varie forme nella legge sulle società in vigore. Per introdurre un minimo di uguaglianza tra le due parti sarebbe necessario che la legge sulle società prevedesse esplicitamente che una quota del valore aggiunto prodotto in qualsiasi modo dall’impresa compete di diritto anche ai lavoratori, e che comunque sui modi di produrre quella quota, industriali o finanziari che siano, essi hanno diritto di parola e di decisione.
È vero: una simile legge non esisteva nella Olivetti di Adriano. Ma era «come se» esistesse. E non perché l’ingegner Adriano fosse un imprenditore cosiddetto illuminato. Avveniva perché tutto ciò che faceva al fine di rendere la sua fabbrica un luogo dove la dignità del lavoratore venisse al primo posto rientrava in un disegno politico. Quel disegno che ha esposto in opere quali nessun altro imprenditore si è mai sognato di scrivere (e nemmeno di leggere, temo): ricorderò, ad esempio, L’ordine politico delle comunità. La sorte gli ha impedito di sviluppare il suo disegno affinché la legge che aveva concepito e informalmente applicato per quindici anni all’azienda di Ivrea prendesse una appropriata forma giuridica. Ma la sua lezione rimane, caso mai qualcuno volesse accoglierla: la superiorità di coloro che tutto dispongono e mantengono la loro posizione qualunque cosa accada, e l’inferiorità di coloro che al minimo fremito dell’economia sono buttati nel fosso, per decisione dei primi e con l’aiuto comprensivo del governo, non ha niente a che fare con l’economia. Nel fondo si tratta di una questione essenzialmente politica. Entro la quale va collocata pure l’intera questione della responsabilità sociale dell’impresa.”

Dalla Prefazione dell’autore a L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, di Luciano Gallino.

La battaglia è appena iniziata

paese libero“Per quanto riguarda la popolazione italiana, le recenti elezioni hanno dimostrato che l’ondata sovranista ha toccato poco la nostra nazione. Non sopravvalutiamo il «successo» del PD, sostanzialmente ha funzionato l’operazione di unire al PD, il centro moderato che alla precedenti elezioni politiche aveva votato Monti (10% circa), non sono neanche da escludere consistenti brogli (di cui ha parlato apertamente Grillo), tuttavia, è chiaro anche da questi risultati che ancora non si intravvede in Italia il formarsi di una volontà collettiva che vada in direzione di un movimento sovranista. C’è da tenere nel debito conto questa importante differenza: la Francia ha solo da correggere una deviazione da un percorso di quella che resta una nazione sovrana, mentre in Italia il contesto è piuttosto diverso, in quanto nazione che, come la Germania e a differenza della Francia, ha un gran numero di basi militari statunitensi, a che partire da Tangentopoli, per concludere con il colpo finale che ha visto la definitiva sottomissione, a furia di attacchi scandalistici internazionali e di statuette in faccia che raggiungevano con facilità la faccia dell’allora nostro Presidente del Consiglio, l’incauto pagliaccio Berlusconi, provocando le sue dimissioni dal governo e la collaborazione forzata con i successivi governi, da Monti in poi. Da allora abbiamo perso anche del tutto la «sovranità limitata» di cui abbiamo goduto dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, già seriamente compromessa con Tangentopoli (sovranità limitata che gli aveva fornito quella libertà di manovra, soprattutto in medio-oriente, necessaria al suo sviluppo). Per questi motivi, si tratta obiettivamente di una lotta molto più difficile. Inoltre, l’Italia ha completato la sua modernizzazione, il suo passaggio da paese prevalentemente agricolo a paese industriale sotto l’egemonia statunitense (un passaggio che era iniziato in realtà ben prima, dall’inizio del secolo, e che probabilmente ci sarebbe stato lo stesso anche se non fosse stata sotto la sfera d’influenza statunitense). Si fa fatica ad accettare che gli USA hanno da tempo concluso la fase egemonica, che lasciava un certo spazio di manovra agli «alleati» (subordinati) europei, e che senza una riconquista della sovranità nazionale, subordinandoci del tutto agli USA, non conserveremo nemmeno parte dell’attuale tenore di vita, già fortemente compromesso, mentre la nuova generazione è già senza prospettive. Finora non si vede una volontà collettiva intenzionata ad incamminarsi su di un percorso di recupero della sovranità. Se non si tratta di un opportunistico attendere l’evoluzione degli eventi, tipico della mentalità italiana, ma di un’incapacità permanente di reazione della nostra collettività, vedremo il declino dell’Italia come nazione significativa e il suo ritorno allo status di nazione povera.
10155523_705267379532435_6400827348388679339_nNon si possono considerare il Movimento 5 Stelle o la Lega di Salvini espressione di una volontà sovranista. Non bastano certo le recriminazioni sull’euro a fare del primo un movimento sovranista, anzi il voto favorevole all’abolizione del reato di immigrazione clandestina lo pone decisamente dalla parte dei movimenti non sovranisti. Detto per inciso, il controllo dell’immigrazione di per sé non ha nessuna connotazione razzista, in quanto una popolazione che risiede stabilmente su di un territorio ha tutto il diritto di stabilire chi, come e quanti individui provenienti da altre nazioni accettare sul proprio territorio. Questo diritto è uno degli attributi fondamentali della sovranità.
Per quanto riguarda la Lega, seppure essa ha una connotazione identitaria-comunitaria, un elemento essenziale della sovranità, il fatto che si manifesti in termini localistici, dimostra come ancora una volta in Italia il fattore identitario finisce per acquisire delle connotazioni patologiche (per usare un concetto previano che definiva nazionalismo e razzismo «patologie del comunitarismo», e tra queste, a mio parere, si può annoverare anche il localismo).
La non perdita di consensi del PD, nonostante il disastro economico e sociale, è preoccupante, perché tale partito è il principale nemico della sovranità nazionale e tra i principali responsabili del disastro economico in cui versa l’Italia (svendita delle aziende italiane pubbliche e private, intossicazione della vita politica ed economica attraverso un utilizzo distorto della magistratura, favoreggiamento di un’immigrazione finalizzata all’abbassamento del costo del lavoro). Cerchiamo di ricostruire per sommi capi questa degenerazione del principale partito della sinistra: il PCI non è nato come un partito anti-nazionale, Gramsci ne aveva fatto una questione centrale e in merito aveva avanzato analisi importanti e innovative, anche rispetto al dibattito di allora nei partiti comunisti; la lotta dei partigiani comunisti voleva essere anche una lotta di liberazione nazionale, anche se poi alla fine si trattò di scegliere tra due eserciti invasori; il PCI del dopoguerra nel suo simbolo aveva la bandiera italiana insieme alla bandiera rossa. Al crollo del comunismo, la seconda generazione cresciuta nell’insano recinto della «sovranità limitata», una generazione diversa da quella eroica della guerra e della lotta partigiana, invece che con una seria discussione sulla storia del comunismo ottocentesco, reagì con il puro e semplice rinnegamento della propria storia e passò armi e bagagli sul carro statunitense, passaggio che aveva già una sua storia quando Berlinguer guardava con favore all’«ombrello della NATO» e quando l’attuale presidente della repubblica faceva il suo viaggio «culturale» nel 1976 negli USA, guadagnandosi già da allora il titolo, non conferito ufficialmente, di referente della politica statunitense in Italia. Costoro come rinnegati si sono dimostrati disposti a svendere non solo la storia del loro partito, ma l’intera Italia.
(…)
L’evoluzione del contesto politico globale oggi pone al centro la riconquista della sovranità e bisogna attrezzarsi con le categorie adatte, nonché, ovviamente, con gli altrettanto necessari strumenti politici e militari
La battaglia è appena iniziata, ma il quadro politico acquisisce una maggiore chiarezza, si intravvedono le questioni dirimenti degli anni futuri e tra queste, lo possiamo dire con certezza, vi sarà la difesa della sovranità. Chiunque ritiene questo un obiettivo da perseguire è nostro amico, chi è contro è nostro nemico.
L’irrompere sulla scena della lotta per la difesa della sovranità deriva dalla nuova fase dello scontro in direzione di un mondo multipolare che vede una più netta contrapposizione tra Stati Uniti e Russia e relative manovre dei primi per subordinare i paesi europei alla proprio politica di aggressione alla Russia, una politica contraria agli interessi europei, basti considerare la sola questione energetica. Tali manovre hanno visto la perdita a partire dal governo Monti della residua sovranità limitata dell’Italia. Subordinazione che comporta la deindustrializzazione dell’Italia e la sua integrazione subordinata all’interno della sfera politica statunitense. Le conseguenze della deindustrializzazione vengono patite principalmente dalle classi inferiori e dai ceti medi produttivi.
Per principio, la difesa della sovranità non può essere né di «destra» né di «sinistra», se vogliamo rappresentare con queste categorie fuorvianti, sempre alla moda, le differenze ideologiche, in quanto senza sovranità qualunque sia l’indirizzo politico, economico e sociali delle forze politiche al governo esse dovranno sottostare alle imposizioni di chi detiene la sovranità effettiva. Quindi, chi antepone le differenze ideologiche alla difesa della sovranità è nostro nemico, qualunque sia il suo orientamento ideologico.
La difesa della sovranità è antecedente alle questioni ideologiche, agli indirizzi politici e sociali, ma può avere diverse declinazioni, di «destra» e di «sinistra», ad es. associate alla questione sociale, all’equità sociale (che non coincide con l’eguaglianza) e alla possibilità di un futuro dignitoso per ogni cittadino italiano. (E qui ad un eventuale lettore di «sinistra», scatterà subito una molla: «non ad ogni cittadino italiano, ma ad ogni essere umano». Ed è qui che sta l’errore, siccome la lotta avviene in un contesto determinato, noi lotteremo insieme a coloro che vivono in questo contesto, quello dello Stato dove si stabiliscono le leggi che regolano i rapporti tra i gruppi sociali, chi vive in altri contesti porterà invece avanti le sue lotte per migliorare la società in cui vive).
Non siamo che agli inizi di una era, se la Russia proseguirà nello scontro contro il sistema occidentale dovrà affrontare i problemi interni proponendo nuove soluzioni rispetto a quelle liberal-capitalistiche, perché soltanto con il coinvolgimento popolare potrà affrontare tale scontro (il consenso e l’appoggio popolare è l’unico autentico fattore di superiorità rispetto alla sola superiorità tecnica su cui punta l’Occidente), e tale coinvolgimento lo si realizza percorrendo una via opposta alle economie occidentali che vedono l’esclusione di fasce sempre più ampie di popolazione. Soltanto ridando una patria agli uomini, un contesto in cui la loro vita, il loro agire e patire, abbia un senso e una continuità questi sono disposti a compiere dei sacrifici, fino al massimo sacrificio della vita.”

Da La difesa della sovranità nelle lotte future, di Gennaro Scala.

Chi ha tradito l’economia europea?

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Incontro con il prof. Antonino Galloni a Ferrara, domenica 17 Novembre alle ore 17:00, presso la Sala Estense in Piazza Municipio.
L’obiettivo dell’iniziativa è quello di raccontare la storia economica e politica dell’Italia negli ultimi 40 anni ripercorrendo le scelte che, da un lato, stanno portando alla miseria la maggior parte dei cittadini italiani e, dall’altro, potere e ricchezza ad un nucleo molto ristretto di persone italiane e non. Questo attraverso l’evidenza che esistono teorie economiche che sono vantaggiose per i super-ricchi e che vengono passate per vere, e teorie economiche che sono vantaggiose per il 99% della popolazione e che vengono etichettate come false.
Qui il volantino promozionale.

La biografia di Antonino Galloni.
Nato a Roma il 17 marzo 1953, si laurea in Giurisprudenza nel 1975 e diventa ricercatore presso l’Università di Berkeley (California) nel 1979. Collabora con il Prof. Federico Caffè della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Roma tra il 1981 e il 1986. Frutto di questa collaborazione sono state pubblicazioni sulle politiche monetarie e numerosi articoli di macroeconomia e strategia industriale. In seguito, insegna all’Università Cattolica di Milano, all’Università di Modena, alla L.U.I.S.S. e all’Università degli Studi di Roma fino al 1999. Dopo diversi ruoli all’interno dei Ministeri del Bilancio e delle Partecipazioni Statali, diviene Direttore Generale al Ministero del Lavoro, Tra le altre mansioni, ha rivestito il ruolo di Board Director della FINTEX Corporation (Houston USA), di Consigliere di Amministrazione dell’Agip Coal e Nuova SATIN; infine ha svolto 4 missioni nella Repubblica Dem. Del Congo per promuovere l’utilizzo di una moneta complementare.

[Nino Galloni: “Come ci hanno deindustrializzato”]

La Divisione elettronica dell’Olivetti

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A seguire uno stralcio significativo dell’Introduzione a “Informatica: un’occasione perduta”, opera dell’allora redattore economico de “l’Espresso” Lorenzo Soria, pubblicata da Einaudi.
Provate a leggerlo e giudicate voi se vi sembra scritto nel 1979…

“Nell’ottobre del ’62 a Bascapé, un paesino distante pochi chilometri da Milano, l’aereo su cui viaggia Enrico Mattei, l’uomo che si era permesso di mettere in discussione il monopolio delle sette sorelle del petrolio, si schianta misteriosamente al suolo. Un anno dopo a saltare è Felice Ippolito, anche lui reo di aver ricercato una politica energetica alternativa per l’Italia. Passano ancora alcuni mesi, siamo nell’estate del ’64, e l’Olivetti cede, anzi regala, alla General Electric la sua Divisione elettronica.
Tre episodi slegati, senza alcuna relazione diretta tra loro. Un filo sottile ma neanche tanto che li unisce, che li accomuna, però c’è. E’ la risposta brutale e secca che hanno avuto quegli uomini e quelle forze che avevano tentato in quegli anni di dare un assetto diverso alle fragili strutture su cui poggiava l’economia italiana. E di farla finita con la formula su cui il paese aveva costruito il cosiddetto «boom»: costo del lavoro bassissimo più produzione di beni a tecnologia matura. Una formula che aveva fatto credere agli italiani che tassi di crescita annui nell’ordine del 5-7% fossero non solo normali, ma anche destinati a durare all’infinito; che aveva aperto, con la nascita del centrosinistra, un periodo di relativa stabilità politica; che aveva infine creato un clima di fideismo ottimistico sui destini del paese. Che dentro di sé, però, racchiudeva già tutti i germi di quella malattia che, alla metà degli anni ’70, ha portato l’economia italiana all’incapacità di inventare vie nuove per andare avanti, alla paralisi.
Perché a partire dal ’69 i lavoratori dicono «basta». Continua a leggere

Sovranità in Sardegna

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L’uso e l’abuso del territorio sardo per esercitazioni militari e sperimentazioni di vario genere, per oltre 50 anni, senza alcun controllo ambientale e sanitario da parte delle istituzioni preposte, ha creato seri danni ambientali e sanitari, difficilmente quantificabili e sanabili, e impedito lo sviluppo economico e sociale di ampie zone di territorio.
L’autore affronta il tema generale delle servitù militari, proponendone il loro superamento in una logica sovranista, e sviluppa un’analisi approfondita del Poligono Interforze del Salto di Quirra (PISQ), a partire dal problema noto come “sindrome di Quirra”. Nella seconda parte del libro, l’autore svolge un’analisi critica del modello della grande industria ormai in crisi e non più sostenibile e affronta alcuni temi politici della Sardegna, come la questione dell’energia, sulla quale, nell’Isola, si scontrano opinioni diversificate e divergenti. L’ultima parte del libro è dedicata alle prospettive di sviluppo nel contesto europeo, con particolare attenzione al tema della sovranità.

Servitù militari modello di sviluppo e sovranità in Sardegna,
di Fernando Codonesu
Cuec, 2013, € 15

Fernando Codonesu è nato a Villaputzu nel 1951. A Milano, ha conseguito la laurea in Fisica presso l’Università degli Studi e la laurea in Ingegneria Elettronica presso il Politecnico.
Si occupa di ambiente, energia rinnovabile e sviluppo sostenibile. Già componente della Commissione Tecnico Mista di Esperti per l’attività di caratterizzazione del PISQ promossa dal Ministero della Difesa nel periodo 2008-2011, è stato consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sull’uranio impoverito fino all’elezione a Sindaco del Comune di Villaputzu, con una giunta civica di centro sinistra, nel mese di giugno 2012.

La NATO e la salute dei popoli

natojoinus“La chiusura dell’ILVA è stata collegata alla volontà della NATO di installare un suo porto a Taranto. E’ un fattore credibile. Anche la TAV, la cui costruzione è sostenuta dai politici con l’irremovibilità di Don Abbondio – e riceve un sostegno dalla magistratura mentre questa fa chiudere l’ILVA – è di interesse NATO. La NATO si occupa di guerra, e in genere non aumenta la longevità, la salute, il benessere e la serenità delle popolazioni. La NATO si occupa anche di affari, dei quali è il braccio militare, e quello medico è un affare di prim’ordine. Sul piano economico la medicina attuale è una prosecuzione dell’economia di guerra. Più in particolare, “Si possono fare molti soldi dicendo alle persone sane che sono malate”. Così comincia un celebre articolo del British Medical Journal. La NATO, e i poteri economici che serve, questo lo sanno; con la chiusura dell’ILVA per inquinamento, come è tipico di un certo genere di operazioni si prendono più piccioni con una fava.
I poteri atlantici possono ordinare ai loro zelanti referenti della politica e delle istituzioni italiane uno sconvolgimento come questo, e fargli avere ampia visibilità. Allo stesso tempo, ottengono dai loro servi locali di far togliere di mezzo le voci libere. I corpi di polizia che negli Anni di piombo servivano l’alleanza atlantica pilotando terrorismo rosso, nero e mafia e utilizzandoli per eliminare italiani che ostacolavano i disegni dei poteri sovranazionali, oggi la servono con metodi sofisticati e apparentemente incruenti, ma animati dallo stesso spirito omicida, avvalendosi stavolta di disgraziati di altra specie. Dove abito, a Brescia, una città con legami atlantici, anche riguardanti la medicina, lo Stato si occupa di screditare e zittire con metodi criminali chi guasterebbe, se fosse ascoltato, la rappresentazione che si vuole dare della medicina; come quella che viene promossa in questa operazione su Taranto.
Un corollario della massima di Debord sul vero come momento del falso è che, nella società dello spettacolo, la giustizia può essere un momento della frode. L’intervento della magistratura in sé è fondato. Ma la magistratura non ha supplito alla classe politica, come ha detto Giancarlo Caselli: si è accorta dei “mulini satanici” quando i tempi storici, ai quali appare sensibile più che al tempo della vita delle persone, lo richiedevano. La magistratura, come chi grida “al fuoco” al cinema, ritiene che il clamore suscitato e i suoi effetti sulla popolazione non la riguardino. Una magistratura che è determinante nel costruire la nuova realtà, nel modificare lo Zeitgeist, senza doverne rispondere. Una magistratura amica del grande business, che vede solo quello che le fa comodo, più che rispettosa della NATO e sottomessa alla legge della NATO prima che alla Costituzione. La stessa magistratura che col suo sguardo altamente selettivo, con una combinazione di interventi forti e di omissioni voraginose, mentre a Taranto combatte l’inquinamento fa propaganda su tutto il territorio nazionale a frodi mediche come le staminali; che partecipa a varie campagne di disinformazione e propaganda del business medico; e offre l’indispensabile sostegno e la copertura giudiziaria a operazioni di eliminazione di chi si oppone a questi crimini.
A Brescia la magistratura applica a grandi imprese inquinanti come A2A e ai grandi affari della medicina la dottrina Pizzillo, per la quale se non si vuole danneggiare l’economia bisogna permettere ai grandi interessi di spadroneggiare, e di soffocare il dissenso con metodi non meno gravi di quelli per i quali la Procura a Taranto ha contestato all’ILVA e a rappresentanti delle istituzioni la commissione di reati, e ha ordinato arresti eccellenti. Credo che sia ampiamente sottovalutato il ruolo della magistratura, a fianco a quello della politica, nella sottomissione del Paese a volontà sovranazionali, giocato alternando iniziative encomiabili, “atti dovuti”, occhi ben serrati e complicità attiva; dai tempi di Portella, passando per gli Anni di piombo, fino all’attuale corso storico.”

Da ILVA. Dal cancro nascosto al cancro inventato, di Francesco Pansera, al quale rimandiamo per gli opportuni riferimenti in nota (il collegamento inserito è nostro).
E dove troverete altresì importanti riflessioni sulle campagne propagandistiche affidate al divo di Stato di turno, nonché sulle inquientanti condotte dal capitalismo cosiddetto cognitivo che, mentre chiude l’industria pesante –in un processo di deindustrializzazione dell’Italia imposto dall’esterno, a detta di alcuni ben informati– accanto alle Grandi Opere, o al loro posto, erige Grandi Frodi.

Nino Galloni: “Come ci hanno deindustrializzato”

Claudio Messora intervista Nino Galloni, economista ed ex direttore del Ministero del Lavoro.
Un viaggio nella storia d’Italia che passa per Enrico Mattei e Aldo Moro, lungo un progetto di deindustrializzazione che ha portato il nostro Paese da settima potenza mondiale a membro dei “Pigs”.
Si tratta di un lungo intervento ma sappiate che la vostra pazienza sarà adeguatamente ricompensata…