Non siate invidiosi!

Di Talebani, media e democrazia.

Questa mattina c’è da registrare lo sgomento dei media italiani e in genere dei politici occidentali per il fatto che nel neonato governo talebano non hanno trovato posto il cugino di Mastella, il consuocero di Letta e, sopra tutto al ministero delle politiche per la famiglia, lo zio di Zan. Addirittura ci sono ministri talebani che compaiono nelle liste di proscrizione dell’ONU e dell’FBI perché “terroristi”. I medesimi media e politici esprimono sdegno per il fatto che le manifestazioni non autorizzate anti-governative sono state disperse con lacrimogeni e spari in aria (i più dicono semplicemente che i talebani hanno sparato lasciando pensare che hanno sparato in faccia): mica come a Parigi che i lacrimogeni li profumano con la lavanda e gli spari avvengono ad altezza d’uomo (con modalità simili cose accadute a Berlino e a Roma…. Ma con piglio de-mo-cra-tico; vuoi mettere?). Sì, certo, a Parigi proiettili di gomma: deficienti quei manifestanti che hanno perso un occhio perché non hanno indossato occhiali di ghisa. In Parlamento il piagnisteo dei deputati: “Gli USA si ritirano, non ci difendono più! Non vogliono più fare il gendarme del mondo!” “Noi europei dovremo fare da soli, dobbiamo trovare l’unità e avere una voce sola!” In altre parole siamo orfani, mamma USA non ci accompagna più ai giardinetti a giocare sull’altalena. E poi, crimine imperdonabile, i talebani sono gli stessi di 20 anni fa, portano avanti i medesimi valori. Mica come da noi che, per esempio, abbiamo i 5 Stelle, ieri contrari ai vaccini, oggi favorevoli, ieri contrari alla TAV oggi favorevoli, ieri contrari all’alleanza con il PD oggi culo e camicia e via elencando. Minchia! Sono coerenti!!! Media e politici non si capacitano del disastro che hanno combinato in Afghanistan (dopo quello nei Balcani, in Iraq, Siria, Libia etc.) e snocciolano ricette dicendo chiaramente che la loro maggior paura è che una crisi umanitaria provocherà immigrazioni che vanno scongiurate. Ma sì, condiamo i cervelli del popolo con un po’ di paura per la pandemia, un pizzico di paura per i talebani che stanno a migliaia di chilometri da noi ma che, ça va sans dire, possono incubare il terrorismo (per l’Occidente non esistono ribelli: quelli che si oppongono ai valori dell’Occidente e ne propugnano altri e per questi valori si battono, sono solo terroristi). A questo punto qualcuno poco arguto si domanderà se sono pro-talebani afghani e magari per la sharia da importare in Italia. Dovrei rispondere ad una domanda tanto scema? Non è abbastanza chiaro che i “talebani” noi li abbiamo in casa, super operativi nelle redazioni dei giornali e in Parlamento? Che la mefistofelica “sharia occidentale” è da decenni operativa da noi? No, io credo che non abbiamo proprio bisogno di quei dilettanti di talebani afghani. Noi abbiamo eccellenti professionisti della talebaneria e i ciabattanti afghani armati di AK-47 ci spicciano casa tutte le mattine. Non siate invidiosi!

Maurizio Murelli

Sorrido

Brevi note sull’Afghanistan

Vent’anni fa, quando l’Occidente a traino USA andò a bombardare, occupare e devastare l’Afghanistan sulle pagine di “Orion” spiegavamo perché là non si doveva andare. Il 99% degli editorialisti/analisti dei media mainstream di allora plaudivano a scena aperta. Oggi gli stessi dicono che non si doveva andare e che è stato un errore. Sorrido.

Gli USA hanno addestrato le truppe del governo filo-occidentale a fare la guerra all’americana. Gli hanno insegnato che prima si mandano avanti i bombardieri e si fa tabula rasa con i missili, poi si fa avanzare la fanteria. Li hanno lasciati senza aviazione e copertura missilistica e si stupiscono che l’esercito privo di copertura aerea non ha tenuto botta neppure per 24 ore. Sorrido.

Fiumi di denaro per imbonire i “signori della guerra” e non un dollaro al popolo. Impoverito il Paese e regalatogli le immagini dell’opulenza occidentale, gli afghani hanno iniziato ad immigrare: i numeri erano significativi già da anni. Ma arrivati i Talebani i volponi occidentali hanno propagandato la notizia che collaboratori e quanti avevano paura del bau-bau talebano sarebbero stati trasvolati in Occidente. Una gara di numeri: “Ne prendo 20.000, dice il Canada; ne prendiamo 30.000 dicono gli USA; tutti quelli che vogliono venire, dicono dall’Europa, Sassoli e Gentiloni in testa (quando mai su questo terreno i “buonisti” italiani non devono primeggiare?)”. E si stupiscono che a migliaia si sono presentati in aeroporto per il volo gratis invece di continuare a pellegrinare per monti e deserti. Salvo dire che il macello all’aeroporto è colpa dei Talebani. Sorrido.

“Non riconosciamo il governo dei Talebani” urlacchiano gli Occidentali, Inglesi in testa. Qui prima di me a sorridere sono i Talebani che del riconoscimento occidentale se ne fregano altamente in considerazione del fatto, tra l’altro, che sono riconosciuti da Cina, Russia, Pakistan etc. Cioè da Stati orientali che sono gli Stati che stanno esattamente là dove sta l’Afghanistan e che saranno in grado di investire senza portare eserciti colonizzatori e massacratori. E comunque, con i Talebani, sorrido anch’io.

“Facciamo il G20, il G21, il Gtrallallero-trallalà” per veder come rassettare l’Afghanistan. Magari sponsorizziamo e inzighiamo con l’ISISI, quel che resta di Al Qaeda e già che ci siamo con il figlio di Massoud il “leone del Panjshir”. Del resto se il padre era un leone, il figlio è un gattino che si è fatto le unghiette nelle università inglesi e che non poteva trovar maggior sponsor che nell’idiota (in senso etimologico) di Parigi, l’ineffabile BHL. Sorrido.

Possiamo dire che la narrazione mainstream occidentale è quanto meno oscena? Possiamo dirlo. Come possiamo tranquillamente dire che questo malefico Occidente è ormai in via di disfacimento destinato ad affogare nel guano che ha prodotto. Non mi soffermo sui deliri dei nostri politici, cominciando da Salvini che vorrebbe bombardare l’Afghanistan con le copie del libro della Fallaci, o di Letta (sì, quella sorta di ectoplasma che ha fatto della banalità verbale la propria cifra espressiva) che blatera di democrazia e diritti umani, civili e quant’altro da “imporre” ai Talebani… altrimenti… altrimenti cosa? Una sua concione a reti televisive unificate in Afghanistan?

Sorrido… e vi mando tutti a quel paese a passo di carica. Imbecilli al cubo che non siete altro.

Maurizio Murelli

Fonte

Il servilismo non paga

“No, non mi piace proprio il facile tiro al bersaglio contro il presidente Joe Biden, ritenuto da tutti i commentatori internazionali e dagli uomini di governo dei Paesi NATO, l’unico (ir)responsabile della disfatta occidentale in Afghanistan. Mi sembra infatti che in ambito alleato, vertici militari in testa, abbiano trovato il capro espiatorio su cui focalizzare lo sconcerto generale per la ingloriosa fuga dal teatro afghano e la rioccupazione talebana. Un utile idiota (- sono “utili” alla narrazione comune le sue stesse idiote dichiarazioni pubbliche per giustificare la debacle USA – ) che consentono di occultare le altrettanto gravissime (ir)responsabilità dell’Alleanza Atlantica che esce del tutto sconfitta dalla ventennale disavventura in Medio Oriente ben più dell’amministrazione Biden.

Anche se pochi, molti pochi, lo vogliono ricordare, è la NATO che ha gestito in prima persona le missioni di “esportazione della democrazia” e “pacificazione” dell’Afghanistan. Sono stati gli alleati NATO ad assicurare il pieno sostegno al Pentagono in tutte le operazioni di guerra (anche con l’ausilio dei famigerati droni), mettendogli a disposizione le maggiori installazioni militari in Europa (Ramstein in Germania, Moròn e Rota in Spagna, Aviano e Sigonella in Italia), le stesse oggi utilizzate per l’”ospitalità transitoria” dei cittadini afghani evacuati dalle forze armate statunitensi con la neo-operazione Allies refugee, avviata senza alcun confronto con le organizzazioni internazionali preposte alla protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Ed è stato in abito NATO che è stata decisa unanimemente la disastrosa exit strategy dal conflitto afgano, oggi ipocritamente attribuita solo a Washington.”

Afghanistan. I fallimenti e le bugie della NATO (e dell’Italia), di Antonio Mazzeo continua qui.

Afghanistan 2017

Kabul, da 16 anni il nulla con i miliardi intorno

Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno, un milione e trecentomila euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afgana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001.
In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati.
In sedici anni la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28mila dollari per ogni cittadino afgano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno).
In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140mila Afgani tra combattenti (oltre 100mila, un terzo governativi e due terzi talebani) e civili (35mila, in aumento negli ultimi anni, quelle registrate dall’ONU: dato molto sottostimato che non tiene conto delle tante vittime civili non riportate). Senza considerare i civili afgani morti a causa dell’emergenza umanitaria provocata dal conflitto: 360mila secondo i ricercatori americani della Brown University.
Chi sostiene la necessità di portare avanti questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni internazionali e Ong, non certo alla NATO), l’Afghanistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite).
Politicamente, il regime integralista islamico afgano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra della minoranza tagica) è tra i più inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma. Per non parlare del problema del narcotraffico (si veda qui).
La cartina al tornasole dei progressi portati dalla presenza occidentale è il crescente numero di Afgani che cerca rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli Afgani sono i più numerosi dopo i Siriani.
Anche dal punto di vista militare i risultati sono deludenti. Dopo sedici anni di guerra, i talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà Paese. Una situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al fronte, e la NATO a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di bisogno.
Sul fronte occidentale sotto comando italiano dove, per fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati (un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello USA: alpini della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le offensive dei soldati afgani.
Gli esperti militari dubitano del successo di questa strategia: perché mai poche migliaia di truppe che combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150mila soldati occidentali armati fino ai denti? Secondo esperti e diplomatici, l’unica via d’uscita è il dialogo con i talebani e la loro inclusione in un governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe USA e NATO e la riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e cooperazione.
È opportuno ricordare che i talebani, fortemente sostenuti dalla maggioranza pashtun degli Afgani, non rappresentano una minaccia per l’Occidente poiché la loro agenda è la liberazione nazionale, non la jihad internazionale: combattono i jihadisti stranieri dell’ISIS–Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai organizzato attentati in Occidente (né hanno avuto alcun ruolo negli attacchi dell’11 settembre, che avevano apertamente condannato).
L’alternativa è il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per formazioni terroristiche transnazionali come ISIS-Khorasan.
Una prospettiva pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico, poiché uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse (Russia, Cina, Iran, Pakistan) desiderose di estendere la loro influenza strategica, stroncare il narcotraffico afgano che le colpisce e, non ultimo, mettere le mani sulle ricchezze minerarie afgane (in particolare le ‘terre rare’ indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i mille e i tremila miliardi di dollari.
Enrico Piovesana

Fonte

Afghanistan, il mercato fiorente di oppio ed eroina

COVER_afghanistan“Perché ci riguarda ciò che accade così lontano in una terra da decenni martoriata da guerre come quella afgana? Leggi, ascolti, ti indigni, va bene, ma tutto ciò ha una ricaduta concreta su di noi: il ritorno dell’eroina”. Parto dalle parole conclusive di Enrico Piovesana, giornalista e autore di “Afghanistan 2001-2016: la nuova guerra dell’oppio” pubblicato da Arianna Editrice, per introdurre l’incontro/confronto ospitato al CostArena di Bologna.
Tra il 2014 e il 2015, il consumo di eroina nel Vecchio continente è raddoppiato, soprattutto tra gli adolescenti. Secondo i più recenti dati resi pubblici dal CNR, l’Italia è seconda soltanto alla Gran Bretagna, in Europa, in termini di consumo. Un dato che, da solo, dovrebbe spingerci a ritroso nella via che porta la droga in Europa, attraverso quella rotta balcanica che fino a qualche anno fa era abbandonata, e ancora indietro attraverso i Paesi mediorientali per approdare in Afghanistan.
Enrico Piovesana ha iniziato a frequentare la regione di Helmand nel 2003 e ci è tornato regolarmente fino al 2013, in teoria doveva occuparsi prevalentemente di temi umanitari per Emergency, tuttavia qualcosa si è evoluto in corso d’opera: “Quando ti trovi a lavorare nella zona capitale mondiale dell’oppio, tutti ne hanno a che fare ed è vissuta come una cosa normale“.
La gente della zona ha ripreso a coltivare l’oppio dopo la guerra del 2001 (precedentemente un editto del Mullah Omar ne aveva vietato la coltivazione) e oggi si susseguono operazioni NATO, presente nell’area con contingenti prevalentemente statunitensi, britannici e canadesi, che vanno a sequestrare ampie quantità di oppio da contadini. ”Vengono colpiti soprattutto – spiega Piovesana – quelli che non hanno pagato la ‘decima’ al Governo. Ciò accade, solitamente, per due ragioni: c’è chi non ha soldi per pagarla e chi si trova a vivere in zone controllate dai Talebani e quindi è a loro che va la tassa“. Il risultato è un clima di guerriglia costante per il controllo economico della produzione dell’area.
In questa battaglia per il potere politico-economico sono molti gli attori in gioco: il governo, l’ex presidente Karzai, i potenti locali, i vari contingenti internazionali, i clan con le loro milizie private, i Talebani, la DEA e le altre agenzie anti-droga. “Il punto assurdo – commenta Piovesana – è che almeno i trafficanti andrebbero colpiti, invece si lascia tutto com’è e chi perde è la povera gente. Un esempio su tutti: il fratello dell’ex presidente Karzai è legato al mondo del narcotraffico, tutti lo sanno, ma è troppo potente per essere colpito. Un’inchiesta del 2009 del New York Times ha denunciato il fatto che Karzai, come altri narcotrafficanti legati al mondo afgano, era a libro paga della CIA.”
Non si tratta poi di un caso isolato, anche i documenti resi pubblici da Wikileaks raccontano una storia simile: in Afghanistan, il mercato dell’oppio e dell’eroina è rinato, fiorente, in questi 15 anni di presenza militare internazionale e proprio le autorità occidentali non hanno agito, se non in casi isolati, per contrastare queste attività criminose.
La priorità è, ancora oggi, quella di assicurare la sicurezza interna al Paese. Un obiettivo cui vengono sacrificati molti altri fattori fondamentali per uno state building efficace: stato sociale, lotta a criminalità e corruzione, diritti umani sono scesi nell’agenda politica lasciando un grande vuoto in cima dove logiche da realpolitik la fanno da padrone. Enrico Piovesana si spinge oltre ipotizzando che la connivenza tra le forze USA e il business di oppio ed eroina non sia determinato da un semplice laissez-faire, ma sia ormai frutto di una vera e propria strategia consapevole orchestrata dalla CIA. ”Anche nei mercati dove andavo per incontrare contadini e mercanti, ricorda il giornalista, nessuno si stupiva della presenza di un bianco. Erano assolutamente abituati. Anzi, mi raccontavano di come grossi quantitativi venivano portati nelle basi NATO“. Da lì alla Turchia, al Kosovo grazie alla mafia macedone e poi nei mercati europei: questa è la nuova/vecchia via dell’eroina.
Per il giornalista la chiave per comprendere il conflitto e il coinvolgimento dei vari attori è quella storica: “Mi sono documentato e mi sono accorto che siamo di fronte ad un sistema che si ripete dall’Ottocento e la guerra dell’oppio, sistematicamente dal 1947. I casi sono molti, dalla Sicilia a Marsiglia, poi l’Indocina, l’America Centrale. L’Afghanistan è solo l’ultimo caso in cui ci si appoggia a narcotrafficanti per opportunità politica passando dal chiudere un occhio al prendere parte alla gestione del sistema.”
Un sistema oliato ed esportabile, tant’è che le autorità antidroga russe e britanniche hanno già denunciato che l’ISIS ha messo le mani sulla tratta balcanica dell’eroina, un commercio più “sicuro” rispetto a quello del petrolio e una consistente fonte di finanziamento. “L’indignazione non basta, conclude Piovesana, tutto ciò ci tocca da vicino. Alcune statistiche parlano di 100.000 morti all’anno in Europa. Non è un prezzo troppo alto da pagare?”.
Angela Caporale

Fonte

Afghanistan 2001-2016

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Un viaggio-inchiesta che ci conduce alla scoperta del lato più oscuro e meno dibattuto della guerra in Afghanistan: quello della connivenza delle forze d’occupazione americane e alleate con il business dell’oppio e dell’eroina in nome di una cinica scelta di realpolitik.
Una spregiudicata strategia, orchestrata dalla CIA secondo una pratica operativa attuata dall’agenzia fin dalla sua nascita, che ha provocato il boom della produzione di oppio afgano e del traffico internazionale di eroina, con il coinvolgimento degli stessi militari alleati, italiani compresi.
La conseguenza è una nuova epidemia globale di tossicodipendenza che miete silenziosamente centomila vittime ogni anno, soprattutto in Europa e in Russia.
Chi ha tratto vantaggio da tutto questo? Sicuramente alcune grandi banche, sopravvissute alla crisi solo grazie ai capitali frutto del riciclaggio di narcodollari. Non ultimo l’ISIS, che sta facendo del traffico di eroina afgana uno dei suoi principali canali di finanziamento nel contesto di una terza guerra mondiale non dichiarata, combattuta asimmetricamente con ogni mezzo criminale.

Afghanistan 2001-2016.
La nuova guerra dell’oppio
di Enrico Piovesana,
Arianna editrice, 2016, € 8,90

L’autore:
ha lavorato per anni in Afghanistan come inviato di PeaceReporter (testata giornalistica dell’Ong Emergency), realizzando reportage di guerra e inchieste sull’oppio.
È stato inviato anche in Pakistan, Cecenia, Nord Ossezia, Bosnia, Georgia, Sri Lanka, Birmania e Filippine. I suoi reportage sono stati pubblicati anche su L’Espresso, Il Corriere della Sera, La Stampa, Il Manifesto, Famiglia Cristiana, Diario, Il Venerdì di Repubblica, Left e Oggi. Attualmente collabora con Il FattoQuotidiano scrivendo di politica internazionale, difesa, spese militari e commercio d’armi.

“Dopo 14 anni di occupazione da parte della nazione più ricca al mondo, l’Afghanistan resta in condizioni disperate”

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Forze esterne non possono dettare come il sistema di governo di un Paese debba configurarsi, ma questo è ciò che sta accadendo in Afghanistan, Medea Benjamin, co-fondatrice della ong progressista Code Pink ha detto a RT.
Lunedì [scorso, 21 dicembre – ndr] due attacchi sono avvenuti in Afghanistan. Tre razzi hanno colpito la zona diplomatica di Kabul poco distante dal centro della città. Ciò è successo dopo che un attentatore suicida in moto aveva effettuato un attacco alla base aerea di Bagram uccidendo sei soldati americani.
Nel frattempo, i Talebani stanno aggressivamente facendo ritorno nella provincia di Helmand. I militanti sarebbero vicini ad espugnare la città chiave di Sangin.
Il Segretario di Stato USA John Kerry ha descritto gli sviluppi in Afghanistan come positivi. Tuttavia, l’attivista politica americana Medea Benjamin non è d’accordo definendola una dichiarazione ridicola.
“Gli Stati Uniti hanno speso probabilmente un trilione di dollari in Afghanistan ed esso rimane uno dei Paesi più poveri al mondo; uno dei posti peggiori per le donne per avere figli; con uno dei peggiori tassi di analfabetismo tra le donne”, ha detto a RT.
Gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan nel 2001 dopo gli attacchi dell’11 Settembre effettuati sul suolo americano, e secondo la Benjamin, «non è certo un Paese che dopo 14 anni di occupazione da parte della nazione più ricca al mondo ha molto da parlare a suo favore in termini di sviluppo.”
Lo Stato Islamico (già ISIS/ISIL) sta ora combattendo i Talebani, fatto che potrebbe rendere le cose ancora peggiori per il popolo afghano.
L’attivista sostiene quanto è terribile che, dopo tutti questi anni e i miliardi di dollari spesi dagli Stati Uniti nella formazione delle forze afghane locali esse non sono ancora in grado di controllare il proprio Paese.
“Penso che sia un riflesso del fatto che le forze provenienti dall’esterno non possono dettare come il sistema di governo di un Paese debba configurarsi”, ha affermato la Benjamin.
Ella suggerisce che c’è sempre stata la necessità di una soluzione politica ai problemi in Afghanistan e gli Stati Uniti dovrebbero investire i propri soldi nello sviluppo del Paese al posto dei militari.
Ragionando sulle possibili soluzioni, l’attivista ha dichiarato che ci sono stati continui tentativi di parlare con i Talebani. Tuttavia, lei crede che in merito hanno bisogno di fare sul serio.
“John Kerry dovrebbe impiegare alcune delle sue energie diplomatiche per trovare una soluzione politica che purtroppo dovrà includere i Talebani come parte di una transizione. I Talebani sono gente del posto e non possono essere cacciati via “, ha detto la Benjamin a RT.
“Ma penso che i restanti 10.000 soldati statunitensi non saranno sufficienti per dettare al governo afghano quale politica dovrebbe adottare”, ella ha continuato.
La Benjamin ha affermato che deve esserci una soluzione politica e tutta l’energia e le risorse dovrebbero essere impiegate per questo obiettivo.

‘L’Amministrazione Obama vuole nascondere sotto il tappeto gli abusi dei SEAL in Afghanistan’
Nel frattempo, un rapporto del New York Times ha accusato la US Navy di coprire l’abuso di detenuti afghani che ebbe luogo nel maggio 2012.
Il Naval Criminal Investigative Service aveva avviato un’indagine su un caso in cui la tortura provocò la morte di un uomo arrestato dai US Navy SEALS. Nonostante testimonianze oculari contro i militari statunitensi, l’indagine della Marina ha respinto le accuse, sostenendo che le prove non hanno dimostrato la presunta cattiva condotta.
L’avvocato penalista ed ex ufficiale della CIA Jack Rice parlando di abusi sui detenuti ha detto che in un caso come questo non si sarebbe dovuta svolgere un’indagine minimale.
“Questa avrebbe dovuto essere una indagine penale in piena regola, che è molto più grave sul piano militare”, ha dichiarato a RT.
Ha aggiunto che se volevano portare ciò all’estremo, avrebbero potuto portare l’addebito alla Corte Federale, che è un tribunale civile negli Stati Uniti.
“Sulla base del fatto che ci fu una morte in questo caso non c’è stata una indagine come si dovrebbe”, ha detto Rice.
Rice sostiene che l’indagine potrebbe essere riaperta “in base alla gravità del caso e al fatto che essenzialmente è stato respinto.”
“E ‘inquietante che sembrano prendere una decisione di trattarlo in maniera tanto illogica quanto lo hanno realmente basato sulla morte di uno dei detenuti”, ha continuato.
Il comandante dei SEAL ha detto che le prove fornite nel rapporto sono inconsistenti.
Rice ha replicato che è possibile che ci siano incongruenze nel rapporto. “Ma ciò in sé non significa che non si deve andare avanti con un’indagine”, ha aggiunto.
Secondo Rice, egli ha a che fare regolarmente con resoconti che mostrano contraddizioni al loro interno.
«Ciò non ferma l’inchiesta, non ferma l’accusa; solo perché alcune cose non tornano completamente non significa che non si deve continuare a scavare; ciò non significa che non si dovrebbe potenzialmente anche indagare qualcuno per reati gravi “, ha aggiunto.
L’ex funzionario della CIA ritiene che il governo degli Stati Uniti stia cercando di seppellire l’indagine stessa.
“Il fatto che quello che hanno compiuto è stato deviare il caso a un’indagine minimale ed al tipo di inchiesta e processo per eventi insignificanti, piuttosto che qualcosa di molto più serio davvero mi dice che sono in procinto di spingerlo via, per cercare di metterlo sotto il tappeto “.
Nel 2009 il presidente Obama disse che riteneva di non dover diffondere 2000 immagini fotografiche di tortura perché questo avrebbe messo a repentaglio le truppe USA all’estero. Rice sostiene che il presidente Obama abbia deciso che non era il caso di diffondere le foto di Abu Ghraib.
“Quando era in corsa per il ruolo promise che voleva la trasparenza e che il popolo americano e il mondo vedessero le foto stesse”, ha detto a RT.
In conclusione, ha affermato che “la probabilità di successo nella riapertura del caso non è molto certa, a questo punto.”
“La mia aspettativa è che esso non sarà riaperto”, prevede Rice.

[Fonte – traduzione di F. Roberti]

La redenzione della Task Force 45

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“Acquisizione di uno stato di libertà fisica o morale attraverso la liberazione da colpe e motivi d’infelicità.”
Passa attraverso la sguardo fascinoso dell’ormai brizzolato Raoul Bova, già spesosi in Nassiriya – Per non dimenticare, e la pretty face di Megan Montaner, che interpreta la giovane afghana con la quale scatterà la scintilla dell’amore.
I due sono i protagonisti di Task Force 45 – fuoco amico, miniserie televisiva di cui sono attualmente in corso le riprese e che dovrebbe andare in onda a gennaio 2016.
E’ utile a ripulire la coscienza di un Paese e dei suoi vertici politico-militari, dall’operato di quella “unità antiterrorismo” impiegata in Afghanistan circa la quale l’amico Giancarlo Chetoni scrisse diffusamente su questo blog (Una guerra sporca, senza onore; Complicità politiche ed istituzionali per la Task Force 45; Omicidi mirati per la Task Force 45).
Chi la spedì in Afghanistan – notava Chetoni – ne conosceva l’addestramento e l’aggressività, e sapeva di poter contare su una struttura di comando di assoluta fedeltà atlantica, una censura militare a prova di bomba e una informazione fatta di marchette.
Federico Roberti

Come si misura la sofferenza in Afghanistan?

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“Non esiste un dolorometro. La combinazione di macelleria-inferno – creata dalla NATO e dai talebani nel penultimo paese meno sviluppato del mondo, per la lotta tra i signori della guerra occidentali e quelli locali, l’inettitudine di un regime criminale formato da famiglie mafiose e protetto dalla NATO – ha strappato la vita a decine di migliaia di civili e costretto a fuggire dalle loro case milioni di loro.
Nell’Ospedale dei Bambini Indira Gandhi di Kabul il numero di bambini ricoverati per denutrizione severa si è quadruplicato dal 2012. Sono apparsi bimbi-vecchi, con la pelle che cade dal viso piena di rughe, a causa del marasma (Decadimento progressivo delle funzioni dell’organismo provocato da vecchiaia o da gravi malattie, n.d.t.), risultato di un forte deficit calorico.
Alle società occidentali che vivono dell’affare della guerra non importa neppure della morte di circa 3.400 soldati della NATO o lo sconvolgente dato che una media di 18 veterani delle guerre in Iraq e Afganistan si tolgano ogni giorno la vita. Alcuni, forse, per aver partecipato alla mattanza “per errore” di 16-23.000 afgani.
Il Nobel per la Pace Obama sostiene di essere l’artefice della “prima transizione democratica” afgana, una farsa dove la gente non potrà neppure scegliere tra un signore della guerra e l’altro; dalle urne uscirà quello deciso dallo Studio Ovale.”

Da Obama ha mentito: la NATO non se ne andrà dall’Afganistan, di Nazanín Armanian, politologa ispano-iraniana.

“Le mega-aziende USA dovrebbero pagare per la distruzione dell’Afghanistan”

I risarcimenti dovrebbero essere pagati da Halliburton, General Electric e da tutti i “contractor” militari che già hanno ricavato molti soldi dalla distruzione dell’Afghanistan e di altri Paesi, racconta l’analista di politica internazionale Caleb Maupin a RT.

RT: Un bambino di quattro anni è stato ucciso la settimana scorsa e adesso quest’ultimo incidente (sette bambini e una donna uccisa in un raid statunitente). Perché le truppe internazionali continuano a colpire zone residenziali se Karzai ha chiesto loro di non farlo?
Caleb Maupin: Le truppe non sono in Afghanistan per proteggere gli Afgani o per obbedire al governo locale. Sono lì per proteggere gli interessi delle banche e delle mega-aziende occidentali. L’intera storia dell’Afghanistan è una storia di un Paese saccheggiato. L’Afghanistan un tempo aveva la grande risorsa del legno, vaste aree forestali che furono tagliate dai britannici. E anche gli storici di destra ammetterebbero che il miglior periodo nella storia dell’Afghanistan è stato quello successivo alla rivoluzione del 1979, quando la popolazione dell’Afghanistan si ribellò e mandò via gli stranieri e cominciò uno sviluppo economico indipendente. E quella fu la storia gloriosa dell’Afghanistan. Furono poi gli Stati Uniti che finanziarono forze come quelle adesso di Al-Qaeda, per intervenire e fare a pezzi il governo rivoluzionario e democratico.
L’Afghanistan appartiene agli Afgani. Non è un Paese povero, ci sono tutti i generi di risorse minerarie e tutti i generi di ricchezza, ma le persone sono povere perché il controllo di queste risorse è nelle mani delle banche e delle mega-aziende occidentali. E questo il crimine che è successo. Questo genere di massacri sono davvero causati da interventi stranieri, puoi accorgertene ovunque essi accadano, nel Medio Oriente, in Africa, in Asia, ovunque.

RT: Le truppe statunitensi dovrebbero lasciare il Paese nel 2014, ma gli Stati Uniti vogliono un accordo di sicurezza che garantisca loro l’immunità dalle leggi locali. Alla luce di queste ultime uccisioni di civili, cosa dovrebbe accadere perché Karzai approvi tutto ciò?
CM: Il presidente Karzai, se rappresenta il popolo afgano, dovrebbe chiedere che vengano pagati al popolo afgano i risarcimenti per i così tanti crimini che lì sono stati commessi, per tutte le persone uccise, per tutte le vite perse, per tutta la povertà e la miseria create dall’intervento statunitense. E questi risarcimenti non dovrebbero provenire dai lavoratori americani, bensì dalla Halliburton, dalla General Electric e da tutti i “contractor” militari che già hanno ricavato molti soldi dalla distruzione dell’Afghanistan e di altri Paesi. C’è la necessità che i risarcimenti siano pagati al popolo afgano così che crimini del genere non restino impuniti.

RT: Se non ci sarà un accordo e le truppe statunitensi vanno via, non sarà poi più facile per gli insorgenti compiere attacchi terroristici e potenzialmente ucidere molti più civili?
CM: Questa è l’argomentazione che viene sempre avanzata dalle potenze straniere. Fanno sempre apparire che loro stanno invadendo il Paese solo perché si curano delle persone che si trovano sotto attacco. Ma in tutto il mondo si possono vedere i frutti degli interventi esteri degli Stati Uniti. Guardiamo alla Libia oggi – stanno meglio dopo che la NATO e gli Stati Uniti hanno deposto Gheddafi? L’Iraq sta meglio? O sta meglio il popolo dell’ex Jugoslavia?
Dovunque gli Stati Uniti vanno, dovunque le potenze straniere vanno e depongono un governo si crea povertà, miseria e sofferenza. Non rendono mai migliori le condizioni di vita della gente, e i popoli hanno il diritto di governare il proprio Paese. L’autodeterminazione è un diritto umano basilare e le truppe straniere dovrebbero lasciare l’Afghanistan.

RT: Ex ufficiali britannici di alto livello hanno espresso preoccupazione in merito alla possibilità di una presa del potere da parte dei Talebani se le truppe internazionali si ritirassero. Karzai vuole che accada questo?
CM: Non so cosa passi per la testa di Karzai, non ho questo genere di conoscenza. Tutto ciò che posso dire è che per gli ultimi 50 o 100 anni abbiamo visto quelli che sono i frutti dell’intervento occidentale. In nessun luogo essi hanno creato pace o lavoro o democrazia o eguaglianza o qualsiasi altra cosa avessero promesso. Dovunque essi sono intervenuti hanno reso la situazione peggiore. Hanno creato sofferenze di massa e vediamo questi massacri in atto e le vite che sono andate perdute. E’ un diritto basilare quello di governare il proprio Paese, quello di non avere truppe straniere di occupazione lì. Il popolo afgano ha quel diritto assolutamente. E i soldi che vengono spesi per l’occupazione dell’Afghanistan e opprimere il suo popolo dovrebbero essere spesi in lavoro, scuole, educazione per la fatiscente società qui negli Stati Uniti. Le scuole e gli ospedali stanno chiudendo, perché le nostre tasse pagate qui negli Stati Uniti vengono utilizzate per finanziare una guerra in un altro Paese? Nessuno ne beneficia. Lasciamo stare la popolazione degli Stati Uniti.

[Traduzione di M. Janigro]

“Il traguardo delle 20mila ore di volo”

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Di cui 12.000 da parte dei droni Predator e 8.000 con i cacciabombardieri AMX.
Ecco i clamorosi risultati della “missione di pace” in Afghanistan.
E intanto il presidente del Senato Pietro Grasso millanta: “Meno militari e più cooperazione”.

Sesso, droga e Afghanistan

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La droga afghana uccise Melania Rea. Un libro choc riapre il caso Parolisi,
di Alberto Berlini

Carmela Melania Rea il 18 aprile 2011 era uscita gioiosa con figlioletta e marito per una gita sul pianoro di Colle San Marco, una collina alta 600 metri che sovrasta Ascoli Piceno. Il suo cadavere, straziato, viene ritrovato 48 ore dopo sul lato opposto del pianoro. Per la morte della giovane donna, il 26 ottobre del 2012 viene condannato all’ergastolo il marito, il caporal maggiore capo degli Alpini, Salvatore Parolisi. Ma sul caso restano dubbi e teorie che raccontano un’altra verità.
Se il Parolisi è personaggio che, come ampiamente dimostrato, è stato traditore dell’amore coniugale, questo non vuol dire che sia automaticamente l’assassino della moglie. Nella fase iniziale delle indagini sono state sondate numerose piste, da quella sessuale dei festini organizzati con le allieve della caserma Clementi, alla pista camorristica e delle infiltrazioni nelle nostre strutture militari, fino a quella dei traffici di droga che vedrebbero coinvolti, a causa del problema “ambientale endemico” dell’eroina afgana raccontato nelle pagine del libro di Alessandro De Pascale e Antonio Parisi “Il caso Parolisi, sesso droga e Afghanistan” in uscita per Imprimatur editore.
È ormai un fatto assodato, ad esempio, il massiccio uso di droga e psicofarmaci da parte delle truppe impegnate in Afghanistan, un Paese che produce oltre il 90 per cento di tutto l’oppio e l’eroina mondiali. E dove si è registrato un vertiginoso aumento negli ultimi due anni proprio nelle province sotto il controllo italiano, nelle quali aveva operato lo stesso Parolisi.
Un sottile filo rosso che lega Parolisi ai campi di papavero afgani: non ci sono prove definitive, ma Melania Rea potrebbe essere stata uccisa non perché il marito vistosi negare da lei un rapporto sessuale, l’abbia massacrata a coltellate, ma perché qualcuno o qualche organizzazione criminale ha voluto vendicarsi o punire più o meno gravi “leggerezze” del marito. Se così fosse rimane da chiedersi quali siano le motivazioni del silenzio di Parolisi e perché preferisca beccarsi una condanna così pesante. Apparentemente, questa, può sembrare una scelta folle, senza senso. Ma nel caso quei segni sul corpo della povera Melania, la siringa nel petto e il laccio emostatico, siano un messaggio destinato alle altre persone a conoscenza di questi inconfessabili segreti, questo sarebbe immediatamente stato compreso da chi doveva capire.
Alle ore nove del 25 settembre, presso la Corte d’appello de L’Aquila si aprirà il processo di secondo grado per la morte di Melania. Parolisi, ormai dietro le sbarre da due anni, ha già fatto sapere, tramite il suo avvocato, che sarà presente in aula e che stavolta vuole un processo vero, le cui porte dovranno essere aperte anche alla stampa.
La polvere del deserto afgano finiranno forse per invadere le aule dei tribunali. A Kabul c’è chi gioca sporco. Ne sono convinti i due autori del libro che contiene una inchiesta giornalistica che conduce dritto dritto in Asia e nel pantano della missione ISAF-NATO. C’è poi la criminalità organizzata italiana, segnatamente la camorra, come sempre insuperabile quando si tratta di fiutare e intuire ogni possibilità di lucro, che si sarebbe già bellamente installata nel Paese asiatico, mettendosi persino a raffinare eroina sul posto. L’anarchia data da questi 12 anni e mezzo di guerra ha portato l’Afghanistan a produrre nel 2006 un terzo in più di tutto l’oppio usato nel mondo, le narcomafie a trasformare la Russia putiniana nel primo consumatore mondiale di eroina, i signori della droga a fare affari d’oro, anche grazie agli stessi militari.

[I collegamenti inseriti sono nostri – ndr]

La nuova “missione di pace” in Afghanistan

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E hanno già coniato il nome…

Come aveva anticipato Analisi Difesa le truppe italiane destinate a restare in Afghanistan dopo il 2014 nell’ambito della missione NATO Resolute Support non saranno poche decine (come aveva sostenuto giorni fa il ministro della Difesa, Mario Mauro) ma tra 500 e 700. Effettivi numericamente simili ai 6/800 tedeschi che manterranno la presenza nel nord afghano. Ne hanno discusso il 20 giugno a Herat i ministri della Difesa di Italia, Germania ed Afghanistan.
Sara’ il Parlamento – ha premesso il ministro Mario Mauro – a valutare e poi votare sulla nostra nuova missione. Io sono qui par raccogliere informazioni e dico che non possiamo far mancare il nostro sostegno a questo Paese, se non vogliamo che torni l’atroce dittatura del passato. Resolute Support sarà una missione no combat, con l’obiettivo di proseguire l’assistenza e l’addestramento alle forze di sicurezza afgane. Non sono più previsti compiti di contrasto all’insorgenza o al narcotraffico. Gli italiani rimarranno nella zona di Herat anche dopo il 2014, con un numero di addestratori compreso tra 500 e 700.
Ma, come ha sottolineato il ministro tedesco Thomas De Maiziere, “serve prima un accordo fra NATO e l’Afghanistan su quello che i militari della coalizione potranno o non potranno fare”. In sostanza, si sta discutendo che lo status giuridico di quelle che saranno le forze di Resolute Support, con l’obiettivo di evitare che siano sottoposte alle leggi di Kabul [sic – ndr].
Da parte sua il ministro afgano Dismillah Mohammadi, ha ostentato ottimismo. Tutto il territorio nazionale – ha assicurato – è sotto il pieno controllo delle forze di sicurezza afgane, tranne quattro distretti in cui è ancora forte l’influenza degli insorgenti. Ma una visita ad Herat, che pure è una delle province “tranquille”, racconta una realtà differente. Per il breve tragitto tra la base di Herat e la villa di rappresentanza del governatore dove c’è stata la colazione fra i tre ministri, sono stati impiegati elicotteri Chinook e tutte le delegazione hanno dovuto indossare giubbotto antiproiettile e casco protettivo. Il luogo, una piccola collinetta sulla città, era presidiato da un numero consistente di forze armate. La strada per la sicurezza dell’Afghanistan è ancora lunga.

Fonte
[Il collegamento inserito è nostro]

Operazione Rottamazione

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Come risolvere il problema logistico costituito dai veicoli e dagli altri equipaggiamenti militari accumulati, in dodici anni di presenza in Afghanistan?
Nel momento in cui gli Stati Uniti si preparano a ritirarsi dal Paese centroasiatico, invece di donare tale materiale alle forze armate afghane che dovrebbero mantenere la sicurezza dopo la partenza dei soldati a stelle e strisce, o magari venderlo ad altre nazioni, essi stanno deliberatamente distruggendo sofisticate strumentazioni per il valore di miliardi di dollari, in uno sforzo così massiccio da non avere precedenti.
In totale, verranno distrutti oltre 7 miliardi di dollari di equipaggiamenti, corrispondenti a circa il 20% di quanto gli Stati Uniti detengono in Afghanistan, in quanto sarebbe troppo costoso organizzarne il rientro in patria.
Allo stato attuale, sono già stati demoliti più di 77.000 tonnellate di equipaggiamenti militari.
Le alternative considerate, quella di lasciarli alle forze afghane o venderli a qualche Paese alleato, sarebbero state abbandonate nel primo caso a causa dell’inesperienza dei soldati locali che finirebbero per spararsi addosso a vicenda, nel secondo caso per il timore che il Paese acquirente non sia poi in grado di ritirarli da quella che ancora viene considerata una zona di guerra.
L’unica possibilità rimane quindi quella di rottamare tutti i materiali considerati in eccesso, e successivamente provare a venderli a peso sul mercato afghano dei rottami.
Ciò non riesce comunque a tacitare i maligni, i quali suggeriscono che piuttosto che alla fine di un lungo periodo di conflitti sul terreno, si sia di fronte all’inizio di nuovi costosi acquisti di armamenti a favore delle industrie del complesso militare americano.
Secondo una diversa interpretazione, la rottamazione di tutti questi equipaggiamenti destinati alle operazioni di terra -fra cui ben 2.000 degli 11.000 veicoli blindati antimine che il Pentagono ha acquistato a partire dal 2007- potrebbe giustificarsi con l’ulteriore sviluppo delle “guerre dei droni”, che già rivestono una grande importanza nella strategia bellica statunitense in terra di Afghanistan (e Pakistan).
Ad ogni modo, nonostante da lunghi anni Karzai e soci siano a libro paga USA, non si può che concludere che i loro padrini non hanno mai imparato a fidarsene completamente.
Tanto che, in questo delicato frangente, preferiscono dare il via libera a uno spreco di risorse così ingente piuttosto che lasciarle nelle mani dei presunti alleati.
Episodi come quello accaduto ieri, con un commando talebano che per diverse ore ha tenuto in scacco i Palazzi del potere a Kabul, faranno loro mutare idea?
Federico Roberti

Gli affari vanno a gonfie vele

Visit to NATO by President Hamid Karzai of the Islamic Republic of Afghanistan

Karzai (Presidente Afghanistan): “Gli affari vanno a gonfie vele, eh amico?”
Rasmussen (Segretario generale NATO): “Sì, non ci lamentiamo”.

La notizia
I precedenti

I soldati USA proteggono le coltivazioni di oppio afghano

Qui tante foto…

[Per chi vuole approfondire:
Gli esperti del narcotraffico e la questione afghana
L’oppio afghano invade la Russia]

In Afghanistan fino al 2024

Dieci anni di “guerra infinita” non finiscono certamente qui.
Secondo gli accordi in discussione tra Washington e Kabul, le truppe USA resteranno in Afghanistan fino al 2024.
Intese bilaterali come questa potrebbero coinvolgere anche Paesi europei, Italia compresa.

Lacrime di coccodrillo e slogan di circostanza

Gaetano Tuccillo, 29 anni, caporalmaggiore, originario di Nola, in provincia di Napoli, è il 39° militare del Bel Paese che torna in una bara dall’Afghanistan e per la 25° volta è andato in scena lo spettacolo ormai logoro, frustrante, riservato a Santa Maria degli Angeli agli “eroi della pace”.
Nei funerali di Stato, riservati a tutti i morti ammazzati nel Paese delle Montagne nella basilica romana, ci sono stati solo due vistosissimi “buchi”. Uno per il sergente Marracino del 185° Folgore, morto in Iraq, e uno per il tenente colonnello Cristiano Congiu, ucciso il 4 Giugno scorso nella Valle del Panshir in circostanze rimaste avvolte nel più fitto mistero al di là della versione “ufficiale” accreditata dal Ministro della Difesa.
Una versione che peraltro diverge totalmente da quanto dichiarato all’agenzia Pajhwok dal governatore della provincia della regione Karamuddin Karim. Per Congiu non c’è stata nessuna celebrazione nella Capitale, solo una frettolosa cerimonia di addio a Pontecorvo.
Nessun servizio televisivo sull’arrivo della salma a Ciampino, nè dal paese del Frusinate dove risiedeva con la moglie, nessuna foto a giro delle esequie, nessuna dichiarazione dei familiari. Niente di niente.
I maggiori quotidiani del Bel Paese ne hanno parlato a profusione fin quando lo si dava per ucciso per un “incidente” presuntamente occorsogli durante un viaggio insieme a una donna americana e un ex compagno di università. Poi è stato il vuoto.
Solo l’Adnkronos ha impostato una riga (!) per riportare, senza citarne il nome, la dichiarazione del sindaco. “Quì lo ricordano – avrebbe detto – come persona disponibile e inflessibile sul lavoro”. Stop. Difficilissimo vedere di eguale anche nei flash di agenzia.
Il colonnello Congiu era un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri distaccato all’ambasciata italiana a Kabul dove operava dal 2007 come capo della DCSA, il Dipartimento di Sicurezza che si occupa di traffici illeciti di sostanze stupefacenti. Una faccenda che meriterà, a tempo debito, una attenta rivisitazione.
La differenza nella contabilità 39-25 tra caduti in Afghanistan e funerali di Stato dipende dalla gravità delle perdite subite volta per volta sul terreno dai militari “tricolori” del contingente ISAF. Si torna “rigidi” sia da soli che in “compagnia”.
In un solo attentato a Kabul, nel Settembre 2009, la Folgore ha perso 6 parà. Un impegno “internazionale”, quello del Bel Paese, che ha preso avvio nel 2003 a Kost con la presenza di 320 militari nella base “Salerno”, per arrivare ai 5.352 attuali tra militari e funzionari civili in carico sia a Palazzo Baracchini che alla Farnesina, escluso il personale che opera nella protezione ravvicinata, insomma fa da guardaspalle, ai vip dell’ONU a Kabul. Continua a leggere

Afagnistan, Agfanistan, Afganistan

«Adesso nessuno potrà dirmi che la guerra è giusta, nessuno potrà raccontarmela, nessuno potrà dirmi di stare zitto perché io ci sono stato, ho visto e vissuto i suoi effetti… pochi (“solo” 6 mesi) rispetto a chi ci convive ogni giorno, troppi rispetto a chi la decide come a Risiko, solo per guadagnare una cazzo di carta…».
Lo so, c’è una parolaccia, ma si dice proprio così: “guerra”. Anche quando è “missione di pace”, gli effetti sulla popolazione civile sono gli stessi. E Andrea “Floppy” Filippini lo ha visto coi suoi occhi. Bolognese doc («sono nato in maternità, dentro porta, e ora vivo fuori perché non ne ho»), quarantenne, attore e regista del Teatro dei Mignoli, responsabile formatore degli Angeli delle Fermate, infermiere che si è licenziato perché non accetta il concetto di Ospedale come Azienda. In Afghanistan per sei mesi, manda email agli amici come pagine di diario. Tornato in Italia, diventano un libro: “Afagnistan Agfanistan Afganistan”.
Un titolo simpatico, ma è una critica: «nasce da un’inchiesta delle Iene – spiega lunedì al Parco della Montagnola, tra gli alberi accanto al Ravintola Bar, mentre in piazza festeggiano le vittorie elettorali – Un parlamentare non riusciva neanche a pronunciare il nome del paese, non sapeva dove fosse, ma non aveva avuto problemi a votare la partecipazione alla “missione di pace”, ai bombardamenti».
Tornare non è stato facile. «Difficile reinserirsi dopo un’esperienza che ti cambia e ti rovina. Dieci giorni dopo il mio ritorno c’è stato uno speciale su canale 5, “Terra!”: parlavano di un paese dove ero appena stato, ma era un’altra cosa. Parlavano di “missione di pace”, io avevo visto la “guerra”. Litigavo con tutti. Dicevo: “non mi capiscono”, alla fine ho capito che ero io che non andavo bene. È che sono un integralista… perché la guerra è integralista, e va affrontata con le stesse armi».
L’Afghanistan, quello bello, Andrea non l’ha visto. «Me lo hanno raccontato come un posto stupendo, negli anni ’70, con donne addirittura in minigonna. Gli hippies sulla via dell’India ci si fermavano mesi. Ancora oggi però ci vive un popolo che dopo 30 anni di drammi ha voglia di vivere, lavorare, esprimersi, con grande dignità, e che continua a ridere!»
Eppure accadono cose lontane dal riso: «ero là con una Ong, ma ho cambiato nome nel libro per evitare pubblicità, come ho cambiato i nomi alle persone, ma le cose che dico e descrivo sono tutte vere: un sacco di bambini muoiono, non ci sono buoni o cattivi, ma innocenti che pagano scelte che nulla hanno a che fare con la pace. Là si sperimentano nuove bombe, e si decide “chi” curare, non “come”. E per dire tutto senza censure sono diventato editore, ho pubblicato il mio libro, lo distribuisco fuori dai grandi circuiti, solo nelle librerie indipendenti, dai “librai”, e andrò a parlarne ovunque mi chiameranno. Anche questa è una scelta politica di agire e informare: spero si arrabbino in tanti».
Era pronto anche un documentario, anzi due, ma non usciranno. «Ne ho fatto uno sulla guerra, con le sue immagini di persone maciullate. Non è piaciuto alla Ong: “troppo forte”. Ne ho fatto un secondo, di 5 minuti, versione disney. Neanche quello. Li mostrerò ai convegni, o a chi me li chiederà».
Nel libro, però, accanto alle «istantanee di viaggio», tra pensieri, racconti, emozioni, rabbia, c’è anche spazio per il campionato di Fantacalcio. «Ci gioco da anni, ogni sabato mandavo la mia squadra agli amici e il lunedì guardavo i risultati. Erano i momenti in cui staccavo e tornavo al mio mondo reale. Li ho lasciati nel libro perché anche questo ero io, là».

[Fonte: repubblica.it]

Il Mullah morto sei volte

Lunedì tutte le televisioni del mondo, dalla CNN alla Tv di Stato iraniana alle nostre, hanno dato come notizia di testa la morte del Mullah Omar avvenuta in uno scontro coi servizi segreti pakistani. Poichè ho pubblicato un mese fa un libro sul Mullah delle televisioni e delle radio (private, io non ho accesso alla Tv pubblica, sono un cittadino di serie Bwin) mi hanno chiesto un parere. Mi sono messo a ridere. È esattamente la sesta volta che si dà il Mullah Omar per morto, catturato, arrestato, ucciso, accoppato, ferito, in fin di vita. Anche la notizia di lunedì era una bufala. Non era necessario essere degli esperti per capirlo.
(…)
Se fosse morto sarebbe stato un duro colpo. Per l’occidente. E per gli Stati Uniti in particolare. Nell’insurrezione afgana contro gli occupanti, il nucleo dei Talebani ‘duri e puri’ delle origini è ridotto all’osso. Molti sono morti in battaglia, alcuni sono stati fatti prigionieri. Alla guerriglia si sono aggiunti (oltre ai ‘giovani leoni’, ragazzi dai venti ai trent’anni che, a differenza di Omar e dei suoi compagni della prima ora, non hanno fatto l’esperienza della jihad contro i sovietici), i gruppi più svariati che più che un obbiettivo ideologico ne hanno uno molto pratico: cacciare lo straniero. Solo una personalità fortissima col prestigio di cui gode Omar può tenere insieme questa variegata galassia. Ma questo vuol dire anche che il Mullah Omar è l’unico interlocutore possibile per quella ‘exit strategy’ cui gli Stati Uniti pensano e lavorano da un paio di anni senza cavare un ragno dal buco proprio perchè, finora, si sono rifiutati di trattare col capo dei Talebani su cui hanno messo una taglia di 25 milioni di dollari senza trovare nessuno che fosse disposto a tradirlo. Ma se Omar non ci fosse, se morisse, qualsiasi accordo non potrebbe essere che parziale, con frammenti della guerriglia, mentre gli altri continuerebbero a combattere e si sarebbe punto e a capo.
Ma anche il Mullah Omar, oggi, ha interesse a trattare. Si è ripreso il 75 per cento del territorio ma più in là non può andare. Le grandi città, Kabul, Herat, Mazar-i Sharif, restano fuori dalla portata della guerriglia per l’enorme disparità degli armamenti. Tanto è vero che quest’anno i Talebani hanno rinunciato alla consueta ‘offensiva di primavera’ limitandosi a consolidare le proprie posizioni e a liberare, con un colpo magistrale, 500 loro militanti rinchiusi nella prigione di Kandahar.
La situazione è quindi di stallo. Per gli uni e per gli altri. Ma non può andare avanti all’infinito. Gli afgani hanno il tempo dalla loro, come sempre, gli Stati Uniti no, perchè per quella “guerra che non si può vincere” spendono, in un momento di crisi economica, 40 miliardi di dollari l’anno e immobilizzano 130 mila soldati (più i 40 mila degli alleati) mentre i bubboni del terrorismo, con tutta evidenza, sono altrove.
Trattare con il Mullah Omar? È possibile. Purchè ci si convinca che non è, e non è mai stato, un terrorista, che non è un criminale, nè un pazzo, nè un cretino e, a parte certa sua cocciutaggine, un uomo con cui si può ragionare. Ma se si continua a considerarlo un sodale di Bin Laden, quale non è mai stato tanto che quando nel 1998 il presidente Clinton gli propose di ucciderlo era d’accordo, se lo si bolla, come ha fatto la disinformatissima Tv di Stato Italiana, come ‘genero di Bin Laden’ (che ne abbia sposato una figlia è una, non innocente, fandonia occidentale), allora non si va da nessuna parte. E saranno gli afgani col tempo, con pazienza, come han fatto con gli inglesi nell’800 e con i sovietici trent’anni fa, a cacciare anche gli arroganti occidentali, senza nessuna ‘exit strategy’ ma con una fuga a rotta di collo tipo Vietnam.

Da Bufale sul Mullah Omar, di Massimo Fini.
[grassetto nostro]

Photoshop colpisce ancora

La prima foto del cadavere di Osama mostrata da tutte le televisioni del mondo e ripresa dai principali siti di informazione (…)  è un falso clamoroso. Si tratta di una immagine evidentemente elaborata con un programma di editing di immagini, ripresa dal sito “unconfirmedsources”. Il nome del file, peraltro, 20060923-torturedosama.jpg dovrebbe bastare a chiarire l’equivoco: si tratta di una foto del 23 settembre 2006 il cui nome è “osama torturato”.

Fonte: peacereporter

[Una delle puntate precedenti]

Pupi da erudire

Gli scatoloni sono arrivati e l’ordine è tassativo: distribuire un calendario ad ogni bambino, dalla prima elementare alla quinta, e poi anche alle medie. Una bella iniziativa nelle nostre scuole. Tutte le scuole del Trentino. Peccato che il calendario sia quello della NATO, con un bel blindato armato di mitragliatrice che sfreccia nel deserto sabbioso dell’Afghanistan. E a corredo della foto di copertina, la scritta (solo in inglese) «ISAF – Regional Command West – Afghanistan».
«Non potevo credere ai miei occhi – ci dice una maestra trentina indignata – quando è entrato il bidello con uno scatolone ed ha cominciato a mettere sui banchi questo materiale. Ho chiesto cosa fosse, e la generica risposta è stata che bisognava distribuirne uno a testa».
La maestra ha voluto vederci chiaro: «È materiale di propaganda di guerra. Qualcuno la chiama operazione di pace, qualcuno la definisce missione, per me è guerra e i numerosi soldati italiani morti in missione in Afghanistan secondo me lo dimostrano chiaramente. Se persino i nostri ministri dicono che sarebbe ora di riportare i nostri soldati a casa, di chi è la decisione di distribuire questa propaganda bellica ai bambini, magari di sei o sette anni?». La maestra è naturalmente preoccupata: «All’interno ci sono fotografie scattate in Afghanistan di nostri soldati insieme a bambini del posto. Ai miei alunni il calendario è piaciuto, presenta soldati con il mitra e la mimetica da combattimento in mezzo a bambini della loro età. In un clima idilliaco, ci sono blindati e giocattoli, mitragliatori e medici caritatevoli, ma nessuno viene a spiegare ai nostri alunni che cosa sia la guerra e che cosa ci stiamo a fare in quei Paesi, da anni, con mezzi di combattimento, aerei e elicotteri da attacco».

Fonte: l’Adige.it

E la chiamano “missione di pace”

Kabul, 9 marzo – Con 2.800 morti, il 2010 è l’anno in cui sono morti più civili in Afghanistan dall’inizio dell’offensiva contro i talebani nel 2001. Lo rivela il rapporto annuale dell’Unama, la missione ONU di assistenza all’Afghanistan, e della commissione indipendente afghana per i diritti umani. In particolare, lo scorso anno il bilancio delle vittime è cresciuto del 15% rispetto al 2009 e nel complesso nell’ultimo quadriennio le vittime civili sono state 8.832, in aumento anno dopo anno.
(ANSA)

“E’ veramente un calvario”

Milano, 28 febbraio – La missione in Afghanistan ”è veramente un calvario”. La definizione è del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che si è espresso così commentando la notizia del tenente deceduto e di quattro soldati feriti in Afghanistan.
”Tutte le volte – ha aggiunto il premier durante la presentazione dell’iniziativa ‘Al servizio degli italiani’ – ci si domanda se sia un sacrificio e se siano sforzi che andranno in porto”.
(ASCA)

PD falsa opposizione

Roma, 15 febbraio – L’Aula della Camera ha respinto la mozione dell’IdV per la definizione di un piano per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan. Il testo, votato per parti separate su richiesta del PD, che ha votato contro la richiesta di elaborare a breve termine un piano di rientro del nostro contingente militare dall’Afghanistan astenendosi sul resto della mozione dei dipietristi. Approvata, invece, la mozione di maggioranza che impegna il governo a far proseguire la presenza militare italiana.
(ANSA)

Un po’ di Italia a Bagram

DRS Technologies, azienda con sede negli Stati Uniti d’America interamente controllata dalla holding italiana Finmeccanica, si è aggiudicata un contratto del valore di 23 milioni e mezzo di dollari per la fornitura dei servizi di supporto informatico della base aerea di Bagram, la principale infrastruttura delle forze armate USA nel nord Afghanistan. “Il nostro personale assisterà il personale della base nel conseguimento della piena operatività dei sistemi di Comando, Controllo, Comunicazioni e Computer Information (C4I) utilizzati dalle forze USA e della coalizione alleata, dentro e fuori il campo di battaglia”, spiegano in un comunicato i manager di DRS Technologies. “I C4I esistenti saranno forniti di un programma di supporto delle reti di comunicazione e informatiche per la pianificazione, gestione ed integrazione delle operazioni congiunte nell’area afgana. Con questo nuovo contratto, DRS continuerà a fornire la tecnologia d’intelligence indispensabile per le operazioni delle forze armate statunitensi nell’Asia sud-occidentale. Un lavoro svolto da anni per il Joint NETOPS Control Center in Iraq e che adesso si trasferisce senza soluzione di continuità al Joint NETOPS Control Center afgano”. Per i non addetti ai lavori, il Joint NETOPS Control Center è il network di comando e controllo dove viene definito ed elaborato il “quadro delle operazioni” e dove il comandante dell’US Strategic Command, congiuntamente al Dipartimento della difesa e alle altre strutture militari USA “è impegnato a gestire e difendere la Rete Globale d’Intelligence che assicura la superiorità informativa degli Stati Uniti”. Un elemento strategico di primo livello, dunque, per la proliferazione delle guerre globali e permanenti del XXI secolo.
Bagram, ad una decina di chilometri dalla città di Charikar (provincia di Parwan), è oggi un’inesauribile macchina da guerra e, secondo alcuni congressisti USA, è la candidata più autorevole per essere trasformata nella maggiore delle basi operative che le forze armate degli Stati Uniti insedieranno in Afghanistan prima del loro parziale “ritiro” dal Paese.
(…)
A seguito dell’occupazione alleata dell’Afghanistan, a Bagram sono state realizzate multimilionarie infrastrutture: decine di caserme per il personale militare, numerosi edifici per uffici e centri di comando, tre enormi hangar per il ricovero dei mezzi, depositi munizioni, due piste aeree lunghe oltre 3.000 metri, rampe e aree di parcheggio per oltre 130.000 mq, un ospedale con 50 posti letto, centri ricreativi, campi sportivi e gli immancabili ristoranti e fast food. Il budget 2010 delle forze armate USA ha destinato più di 200 milioni di dollari per realizzare nella base strade, fognature, un megaimpianto di potabilizzazione e nuovi alloggi per i militari. Altri 43 milioni di dollari sono stati stanziati dal Congresso con il bilancio 2011: entro due anni saranno realizzati una facility per supportare le operazioni di lancio dei paracadutisti, un hangar per la manutenzione dei caccia F-15 ed A-10, una rampa per l’evacuazione dei velivoli dei reparti sanitari e una nuova stazione anti-incendio.
Bagram viene indicata come una delle infrastrutture militari “più sicure” in Afghanistan, ma la lista degli attentati di cui è stata oggetto è lunga e sanguinosa. Nel 2007, proprio mentre era in corso la visita alla base dell’allora vicepresidente Dick Cheney, un attacco suicida ad uno dei cancelli d’ingresso causò la morte di 23 persone (un militare e un contractor USA, un soldato sud-coreano e 20 operai afgani). Il 4 marzo 2009 fu invece fatta esplodere un’autobomba fuori del perimetro dell’aeroporto che causò la morte di altri tre lavoratori afgani. Quattordici mesi dopo una dozzina di insorgenti filo-Talibani sferrò un attacco armato contro la base, causando la morte di un contractor e il ferimento di 9 militari statunitensi. Non è tuttavia agli attentati che Bagram deve la sua fama sinistra a livello internazionale. La base è infatti nota come la “Guantanamo afgana” perchè sede del maggiore centro di detenzione USA di “combattenti” o semplici cittadini afgani sospettati di “terrorismo”. Secondo i dati forniti dal Pentagono a Bagram si troverebbero “all’incirca 565” detenuti. Quasi nulla si conosce della loro identità, delle circostanze del loro arresto e delle condizioni di detenzione. Nessuno dei prigionieri ha però avuto accesso all’assistenza legale o a un giudice. Oltre al personale d’intelligence statunitense, solo i rappresentanti della Croce Rosa Internazionale hanno diritto di accesso al centro di detenzione ogni 15 giorni. Nel maggio dello scorso anno, la Croce Rossa ha tuttavia rivelato di essere venuta a conoscenza dell’esistenza di una “seconda prigione dove i detenuti sono tenuti in isolamento e non hanno mai potuto incontrare il nostro personale che invece attende periodicamente gli altri detenuti”.
La Bagram Theater Internment Facility è stata al centro d’innumerevoli denunce per gravi violazioni dei diritti umani, trattamenti disumani e abusi sui prigionieri.
(…)
È dunque in questo inferno afgano che fornirà propri servizi e proprio personale la società leader di Finmeccanica nel settore dei “prodotti elettronici integrati per la difesa e il supporto alle forze militari”. DRS Technologies, con sede a Parsippany (New Jersey), 10.000 dipendenti e un fatturato nel 2007 di 2.821 milioni di dollari, è una delle principali fornitrici del Pentagono. Quasi l’85% delle sue commesse provengono dalle forze armate USA;
(…)
L’acquisizione dell’azienda da parte della holding italiana risale al maggio 2008. Si è trattato di una spericolata operazione per il valore di circa 5,2 miliardi di dollari, che come ricorda Finmeccanica, “ha compreso l’assunzione di 1,2 miliardi di dollari di indebitamento netto con il sistema bancario, che verrà successivamente rimborsato con una combinazione di aumento di capitale, emissione di obbligazioni a lungo termine e cessione di attività (Ansaldo Energia)”. A finanziare l’acquisizione dell’intero pacchetto azionario di DRS Technologies, sono scesi in campo tre grandi istituti di credito italiani, Mediobanca, Intesa Sanpaolo e UniCredit, più l’americana Goldman Sachs International. Ogni singola azione è stata rastrellata a 81 dollari, quando alla vigilia dell’assalto di Finmeccanica ne valeva sul mercato appena 63. “La straordinaria crescita di DRS nel corso degli ultimi cinque anni e il premio ottenuto dall’operazione costituiscono un ottimo risultato per i nostri azionisti”, si legge nel comunicato emesso il 13 maggio 2008 dagli amministratori di Finmeccanica e DRS Technologies. Sì, proprio un grande affare, per speculatori, banche e signori delle armi e delle guerre.

Da A DRS-Finmeccanica i centri informatici della Guantanamo afgana, di Antonio Mazzeo.