Non guardare quel film

In un Paese in cui è legittimo il saluto fascista, viene vietato un film russo sulla guerra in Ucraina. Dopo l’annullamento della proiezione de “Il testimone” a Bologna e le polemiche a Torino, Genova e Catanzaro, la sala viene revocata anche a Viterbo.
Con Federico Roberti, in rappresentanza del Coordinamento Paradiso di Bologna, Costa Volpara, Vincenzo Lorusso di Donbass Italia, Clara Statello, Tatiana Santi e Stefano Orsi.

Come trasformare la società


Alcune regole alle quali ogni movimento rivoluzionario dovrebbe prestare molta attenzione.

Il seguente articolo costituisce una libera rielaborazione di alcuni contenuti del testo Rivoluzione antitecnologica. Perché e come, Ortica editrice, 2021 di Theodore John Kaczynski, meglio conosciuto come Unabomber.
Esso rappresenta il seguito ideale di Costanzo Preve a dieci anni dalla scomparsa.

La forza è arbitro finale, il vigoroso intervento nota dominante, e vince chi ha il coraggio e il rigore per vederci chiaro fino in fondo. Questa è la visione che caratterizza quei gruppi che cercano di catapultarsi dall’oscurità della storia quando, come potrebbe sembrare, tutte le forze della società sono schierate contro di loro.
Philip Selznick
(“The organizational weapon. A study of bolshevik strategy and tactis”, The Free Press of Glencoe, 1960, p. 113)

In qualsiasi situazione di conflitto in cui la vittoria è incerta, è essenziale concentrare sempre i propri sforzi sul raggiungimento del singolo obiettivo più critico. I professionisti e i teorici militari come Napoleone e Clausewitz hanno sempre riconosciuto l’importanza di concentrare le proprie forze su un punto decisivo e Lenin ha osservato che questo principio si applica in politica come in guerra. E’ persino una questione di buon senso: quando si affronta una battaglia impegnativa e non ci sono risorse da sprecare, è meglio concentrare la forza disponibile dove questa potrà dare il suo meglio, cioè sull’obiettivo più importante.
Un movimento senza un obiettivo chiaro e concreto è pesantemente svantaggiato. Più forte è l’opposizione che un movimento deve affrontare, più è importante che il movimento sia unito e in grado di concentrare tutte le sue energie per raggiungere un unico obiettivo; e ciò richiede inevitabilmente una definizione chiara e univoca dello stesso.
Eppure, anche nella situazione in cui è importante avere un obiettivo chiaro e concreto, non si può affermare che gli obiettivi astratti siano inutili, in quanto essi svolgono spesso un ruolo essenziale nel motivare e giustificare l’obiettivo primario del movimento. Per fare un esempio grossolano, l’aspirazione ad una generica libertà può motivare i membri di un movimento che cerchi di rovesciare un governo dittatoriale.

La sola predicazione, ovvero la semplice difesa delle idee, non può portare a cambiamenti rilevanti e duraturi nel comportamento degli uomini, tranne che in una piccolissima minoranza. Forse un gruppo al di fuori della struttura del potere costituito potrebbe cambiare il comportamento umano attraverso la sola propaganda delle idee nel caso in cui avesse ricchezze e potere sufficienti per intraprendere una campagna mediatica massiccia e sofisticata. Comunque, anche quando il comportamento umano venisse modificato da propagandisti professionisti, è improbabile che tale cambiamento sia permanente; una volta cessata la propaganda o sostituita da un’altra che promuove idee opposte, si possono ribaltare facilmente i cambiamenti ottenuti in precedenza.
Siccome le idee da sole non trasformano la società, sviluppare e diffondere le idee deve essere parte di uno sforzo razionale per trasformare la società; senza una serie organizzata di idee a guidare la sua azione, un movimento agirà per nulla. Al tempo stesso, le persone che si organizzano per l’azione, applicando quelle idee, non devono necessariamente essere i teorici del movimento; la predicazione degli ideali rimane comunque la parte più semplice nel compito di trasformare la società, mentre l’organizzazione per l’azione pratica è molto più difficile. Organizzarsi per l’azione è più difficile non solo perché le nuove idee spesso non evocano una forte risposta ma anche a causa della docilità e della passività delle masse popolari, per cui nel mondo moderno la sfida fondamentale per tutti coloro i quali desiderano trasformare la società non è la diffusione delle idee ma l’organizzazione per l’azione pratica. Continua a leggere

La NATO culturale

Di Federico Roberti

Nel pieno della Guerra Fredda, il governo degli Stati Uniti destinò grandi risorse ad un programma segreto di propaganda culturale rivolto all’Europa occidentale, messo in atto con estrema riservatezza dalla CIA. L’atto fondamentale fu l’istituzione del Congress for Cultural Freedom (Congresso per la libertà della cultura), organizzato dall’agente Michael Josselson tra il 1950 ed il 1967. Al suo culmine, il Congresso aveva uffici in trentacinque Paesi (alcuni extraeuropei) ed a libro paga decine di intellettuali, pubblicava una ventina di prestigiose riviste, organizzava esposizioni artistiche, organizzava conferenze internazionali di alto livello e ricompensava musicisti ed altri artisti con premi e riconoscimenti vari. La sua missione consisteva nel distogliere gli intellettuali europei dall’abbraccio del marxismo, a favore di posizioni più compatibili con l’american way of life, facilitando il conseguimento degli interessi strategici della politica estera statunitense.

I libri di alcuni scrittori europei furono promossi nel mercato editoriale come parte di un esplicito programma anticomunista. Fra questi, in Italia, “Pane e Vino” di Ignazio Silone, il quale registrò così la prima di molte apparizioni sotto l’ala del governo statunitense. A dire il vero, durante il suo esilio svizzero in tempo di guerra, Silone era stato un contatto di Allen Dulles, allora capo dello spionaggio statunitense in Europa e nel dopoguerra ispiratore di Radio Free Europe, altra creazione CIA sotto la maschera del National Committee for a Free Europe; nell’ottobre 1944, Serafino Romualdi, un agente dell’OSS (Office of Strategic Services, il precursore della CIA), fu inviato sul confine franco-svizero con il compito di introdurre clandestinamente Silone in Italia.
Silone, insieme ad Altiero Spinelli e Guido Piovene, rappresentò l’Italia alla conferenza fondativa del Congresso tenutasi a Berlino nel 1950, per la quale Michael Josselson era riuscito ad ottenere un finanziamento di $ 50.000 dalle risorse del Piano Marshall. Essa fu sconfessata pubblicamente da Jean-Paul Sartre ed Albert Camus che, invitati, si rifiutarono di parteciparvi.

Inizialmente, fra i presidenti onorari del Congresso, tutti filosofi rappresentanti di un nascente pensiero euro-atlantico, accanto a Bertrand Russell troviamo Benedetto Croce. Egli, ad ottant’anni di età, era riverito in Italia come padre nobile dell’antifascismo avendo sfidato apertamente Mussolini. Sicuramente, all’epoca dello sbarco alleato in Sicilia, era stato un utile contatto per William Donovan, allora il massimo responsabile dell’intelligence statunitense.

La sezione italiana del Congresso, denominata Associazione italiana per la libertà della cultura, fu istituita da Ignazio Silone alla fine del 1951 e divenne il centro propulsivo, anche e soprattutto sotto il profilo logistico ed economico, di una federazione di circa cento gruppi culturali quali l’Unione goliardica nelle università, il Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli, i Centri di Azione democratica, il movimento Comunità di Adriano Olivetti e vari altri.
Essa pubblicò la prestigiosa rivista “Tempo Presente” diretta dallo stesso Silone e da Nicola Chiaromonte, ed altre non meno conosciute come “Il Mondo”, “Il Ponte”, “Il Mulino” e, più tardi, “Nuovi Argomenti”. Nel suo gruppo dirigente, accanto a laici come Adriano Olivetti e Mario Pannunzio, figurava anche Ferruccio Parri, il padre della sinistra indipendente. Poi, in posizione più defilata, uomini politici di estrazione azionista e liberaldemocratica come Ugo La Malfa.
Uno degli uffici del Congresso era stato aperto a Roma nel palazzo Pecci-Blunt, dove Mimì, la padrona di casa, animava uno dei salotti più esclusivi e meglio frequentati della capitale. A due passi dalla storica dimora di palazzo Caetani che, prima di divenire tragicamente celebre per avere visto, sotto le sue finestre, l’ultimo atto del rapimento Moro, vedeva regnare un’altra regina dei salotti, la mecenate statunitense legata agli ambienti del Congresso Marguerite Chapin Caetani. Ella, con la sua rivista “Botteghe oscure”, promosse non pochi grandi nomi della letteratura e poesia italiana del Novecento. Suo genero era, guarda caso, Sir Hubert Howard, ex ufficiale dei servizi segreti alleati specializzato nella guerra psicologica ed in rapporti di fraterna amicizia con il nipote del presidente Roosevelt, quel Kermit Roosevelt che dapprima nell’OSS e poi, reclutato dalla CIA, fu tra i più convinti fautori del programma di guerra psicologica.
Una delle più strette collaboratrici della Caetani era Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto, il cui marito Raimondo Craveri, agente dei servizi segreti partigiani, dopo la Liberazione indicava all’ambasciata statunitense i politici di cui fidarsi. Elena invece selezionava gli uomini di cultura con cui valeva la pena parlare. Nella loro casa si potevano intrecciare le relazioni più cosmopolite, incontrandovi Henry Kissinger così come il futuro presidente FIAT Gianni Agnelli, ma su tutti dominava il magnate della finanza laica italiana, fondatore di Mediobanca, (don) Raffaele Mattioli. Gli Americani si fidavano a tal punto del commendator Mattioli che nel 1944, a guerra evidentemente ancora in corso, avevano già discusso con lui i programmi per la ricostruzione. Oltre a finanziare abbondantemente la cultura, don Raffaele prestò le sue non disinteressate, pur se discrete, attenzioni anche al PCI, con il quale aveva canali aperti già durante il Ventennio.
Ecco, dunque, che in Italia, oltre alla P2 e Gladio, esisteva anche un anticomunismo altrettanto tenace ma illuminato, progressista e persino di sinistra. La rete del Congresso ne costituiva la facciata pubblica o, se si preferisce, presentabile.

Le risorse per la propaganda culturale euro-atlantica furono reperite in modo davvero geniale. Nei primi tempi del Piano Marshall, ciascun Paese beneficiario dei fondi doveva contribuire depositando nella propria banca centrale una somma equivalente al contributo americano. Poi un accordo bilaterale tra il Paese in questione e gli Stati Uniti permetteva che il 5% di tale somma diventasse proprietà statunitense: era proprio questa parte dei “fondi di contropartita” (circa 10 milioni di dollari all’anno su un totale di 200) che furono messi a disposizione della CIA per i suoi progetti speciali.
Così circa $ 200.000 di tali fondi, che già avevano giocato un ruolo cruciale nelle elezioni italiane del 1948, furono destinati a finanziare i costi amministrativi del Congresso nel 1951. La filiale italiana, ad esempio, riceveva mille dollari mensili che venivano versati sul conto di Tristano Codignola, dirigente della casa editrice La Nuova Italia.

La libertà culturale non venne a buon mercato. Nei diciassette anni successivi alla fondazione, la CIA avrebbe pompato nel Congresso ed in progetti collegati ben dieci milioni di dollari. Una caratteristica della strategia di propaganda culturale fu la sistematica organizzazione di una rete di gruppi privati “amici” in un consorzio ufficioso: si trattava di una coalizione di fondazioni filantropiche, imprese e privati che lavorava in stretto collegamento con la CIA per dare a quest’ultima copertura e canali finanziari al fine di sviluppare i suoi programmi segreti in territorio europeo. Nello stesso tempo, l’impressione era che questi “amici” agissero unicamente di propria iniziativa. Mantenendo il loro status di privati, essi apportavano il capitale di rischio per la Guerra Fredda, un po’ quello che fanno da un certo tempo a questa parte le ONG sostenute dall’Occidente in giro per il mondo.

L’ispiratore di questo consorzio fu Allen Dulles, che già nel maggio 1949 aveva diretto appunto la formazione del National Committee for a Free Europe, apparentemente iniziativa di un gruppo di privati cittadini americani, in realtà uno dei più ambiziosi progetti della CIA. “Il Dipartimento di Stato è molto lieto di assistere alla formazione di questo gruppo” annunciò il segretario di Stato Dean Acheson. Questa pubblica benedizione serviva ad occultare le vere origini del Comitato e che operasse sotto il controllo assoluto della CIA, che lo finanziava al 90%. Ironia della sorte, lo scopo specifico per il quale era stato creato, cioè fare propaganda politica, era categoricamente escluso da una clausola dell’atto costitutivo.
Dulles era ben cosciente che il successo del Comitato sarebbe dipeso dalla sua capacità “di apparire come indipendente dal governo e rappresentativo delle spontanee convinzioni di cittadini amanti della libertà”.

Il National Committee poteva vantare un insieme di iscritti di grandissimo rilievo pubblico, uomini d’affari ed avvocati, diplomatici ed amministratori del Piano Marshall, magnati della stampa e registi: da Henry Ford II, presidente della General Motors, alla signora Culp Hobby, direttrice del Moma; da C.D. Jackson della direzione di “Time-Life” a John Hughes, ambasciatore presso la NATO; da Cecil De Mille a Dwight Eisenhower. Tutti costoro erano “al corrente”, ossia appartenevano consapevolmente al club. Il suo organico, già al primo anno, contava più di 400 addetti, il suo bilancio ammontava a quasi due milioni di dollari.
Un bilancio separato di 10 milioni fu riservato alla sola Radio Free Europe, che nel giro di pochi anni avrebbe avuto 29 stazioni di radiodiffusione e trasmesso in 16 lingue diverse, fungendo anche da canale per l’invio di ordini alla rete di informatori presente al di là della Cortina di Ferro.

Il nome della sezione incaricata di reperire fondi per il National Committee era Crusade for Freedom e ne era portavoce un giovane attore di nome Ronald Reagan…

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine. Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali.
Si riteneva che le fondazioni prestigiose, quali Ford, Rockfeller e Carnegie, assicurassero “la migliore e più credibile forma di finanziamento occulto. Questa tecnica risultava particolarmente opportuna per le organizzazioni gestite in modo democratico, dato che devono poter rassicurare i propri membri e collaboratori ignari, come pure i critici ostili, di essere in grado di contare su forme di finanziamento privato, autentico e rispettabile – sottolineava uno studio interno della stessa CIA risalente al 1966.
Addirittura, all’interno della Fondazione Ford venne istituita un’unità amministrativa specificamente addetta a curare i rapporti con la CIA, che avrebbe dovuto essere consultata ogni volta che l’agenzia avesse voluto usare la fondazione come copertura o canale finanziario per qualche operazione. Essa era formata da due funzionari e dal presidente della fondazione stessa, John McCloy il quale era già stato segretario alla Difesa e presidente, nell’ordine, della Banca Mondiale, della Chase Manhattan Bank di proprietà della famiglia Rockfeller e del Council on Foreign Relations, nonché legale di fiducia delle Sette Sorelle. Un bel curriculum, non c’è che dire.

Uno dei primi dirigenti della CIA ad appoggiare il Congresso per la libertà della cultura fu Frank Lindsay, veterano dell’OSS che nel 1947 aveva scritto uno dei primi rapporti interni in cui si raccomandava agli Stati Uniti di creare una forza segreta per la Guerra Fredda. Negli anni fra il 1949 ed il 1951, come vicedirettore dell’Office of Policy Coordination (OPC), dipartimento speciale creato all’interno della CIA per le operazioni segrete, Lindsay divenne responsabile dell’allestimento dei gruppi Stay Behind in Europa, meglio conosciuti in Italia come Gladio. Nel 1953 passò alla Fondazione Ford, senza per ciò perdere i suoi stretti contatti con gli ex colleghi dell’intelligence.

Quando, nel 1953, Cecil DeMille accettò di diventare consigliere speciale del governo statunitense per il cinema al Motion Picture Service (MPS), si recò all’ufficio di C.D. Douglas, il quale avrebbe poi scritto di lui: “ E’ completamente dalla nostra parte ed (…) è ben consapevole del potere che i film americani hanno all’estero. Ha una teoria, che condivido pienamente, secondo cui l’uso più efficace dei film americani si ottiene non con il progetto di un’intera pellicola che affronti un determinato problema, ma piuttosto con l’introduzione in un’opera “normale” di un certo dialogo appropriato, di una battuta, un’inflessione della voce, un movimento degli occhi. Mi ha detto che ogni volta che gli darò un tema semplice per un certo Paese o una certa regione, troverà il modo di trattarlo e di introdurlo in un film”.
Il Motion Picture Service, sommerso dai finanziamenti governativi tanto da diventare una vera e propria impresa di produzione cinematografica, dava lavoro a registi-produttori che venivano preventivamente esaminati ed assegnati al lavoro su film che promuovevano gli obiettivi degli Stati Uniti e che avrebbero dovuto raggiungere un pubblico sul quale bisognava agire attraverso il cinema. L’MPS forniva consulenze ad organismi segreti sulle pellicole appropriate per una distribuzione sul mercato internazionale; si occupava, inoltre, della partecipazione statunitense ai vari festival che si svolgevano all’estero e lavorava alacremente per escludere i produttori statunitensi ed i film che non sostenevano la politica estera del Paese.

Il principale gruppo di pressione per sostenere l’idea di un’Europa unita strettamente alleata agli Stati Uniti era il Movimento Europeo, cui facevano capo molte organizzazioni, e che copriva una serie di attività dirette all’integrazione politica, militare, economica e culturale. Guidato da Winston Churchill in Gran Bretagna, Paul Henri Spaak in Belgio ed Altiero Spinelli in Italia, il movimento era attentamente sorvegliato dall’intelligence statunitense e finanziato quasi interamente dalla CIA attraverso una copertura che si chiamava American Committee on United Europe. Braccio culturale del Movimento Europeo era il Centre Européen de la Culture, diretto dallo scrittore Denis de Rougemont. Fu attuato un vasto programma di borse di studio ad associazioni studentesche e giovanili, tra cui la European Youth Campaign, punta di diamante di una propaganda pensata per neutralizzare i movimenti politici di sinistra.
Per quanto poi riguarda quei liberali internazionalisti fautori di un’Europa unita intorno ai propri principi interni, e non conforme agli interessi strategici statunitensi, a Washington essi non erano considerati migliori dei neutralisti, anzi portatori di un’eresia da distruggere.

Nel 1962, la notorietà del Congresso per la libertà della cultura calamitò anche attenzioni tutt’altro che desiderate dai suoi ispiratori.
Durante un programma televisivo della “BBC”, That Was The Week That Was, il Congresso fu oggetto di una penetrante e brillante parodia ideata da Kenneth Tynan. Essa iniziava con la battuta: “E’ ora, le novità della Guerra Fredda nella cultura”. Poi continuava mostrando una mappa rappresentante il blocco culturale sovietico, dove ogni cerchietto indicava una postazione culturale strategica: basi teatrali, centri di produzione cinematografica, compagnie di danza per la produzione di missili “ballettistici” intercontinentali, case editrici che lanciano enormi tirature di classici a milioni di lettori schiavizzati, insomma dovunque si guardasse un massiccio indottrinamento nel suo pieno sviluppo. E si chiedeva: noi, qua in Occidente, abbiamo un’effettiva capacità di risposta?
Sì, era la risposta, c’è il buon vecchio Congresso per la libertà della cultura sostenuto dal denaro americano che ha allestito un certo numero di basi avanzate, in Europa e nel mondo, funzionanti come teste di ponte per rappresaglie culturali. Basi mascherate con nomi in codice, come “Encounter” – la più conosciuta delle riviste patrocinate dal Congresso – che è l’abbreviazione, si ironizzava, di Encounterforce Strategy.
Entrava allora in scena un portavoce del Congresso, con un mazzo di riviste che rappresentavano a suo dire una sorta di NATO culturale, il cui obiettivo era il contenimento culturale, cioè mettere un recinto intorno ai rossi. Con missione storica quella di raggiungere la leadership mondiale dei lettori, succeda quel che succeda, “noi del Congresso sentiamo come nostro dovere tenere le nostre basi in allarme rosso, ventiquattro ore su ventiquattro”.
Una satira mordace ed impeccabilmente documentata, che provocò notti insonni a Michael Josselson, organizzatore del Congresso.

Durante l’estate del 1964, sorse una questione assai preoccupante.
Nel corso di un’inchiesta parlamentare sulle esenzioni fiscali alle fondazioni private, diretta da Wright Patman, si verificò una fuga di notizie che identificava otto di queste come coperture della CIA. Esse sarebbero state nient’altro che buche per lettere cui corrispondeva solo un indirizzo, approntate dalla CIA per ricevere denaro dalla stessa, in modo apparentemente legale. Una volta che i soldi arrivavano, le fondazioni facevano una donazione ad un’altra fondazione largamente conosciuta per le sue legittime attività. Contributi, questi ultimi, che venivano debitamente registrati secondo la normativa fiscale vigente nel settore no profit, sui moduli denominati 990-A. L’operazione si concludeva infine con il versamento del denaro all’organizzazione che la CIA aveva previsto dovesse riceverlo.
Le notizie filtrate dalla commissione Patman aprirono, seppure solo per un breve momento, uno squarcio sulla sala macchine dei finanziamenti segreti. Alcuni giornalisti particolarmente curiosi, ad esempio quelli del settimanale “The Nation”, riuscirono a mettere insieme i pezzi del puzzle, chiedendosi se fosse legittimo che la CIA finanziasse, con questi metodi indiretti, vari congressi e conferenze dedicate alla “libertà culturale” o che qualche importante organo di stampa, sostenuto dall’agenzia, offrisse lauti compensi a scrittori dissidenti dell’Europa orientale.
Sorprendentemente (sorprendentemente?), non un solo giornalista pensò di indagare ulteriormente. La CIA eseguì una severa revisione delle sue tecniche di finanziamento, ma non ritenne opportuno riconsiderare l’uso delle fondazioni private come veicoli per il finanziamento delle operazioni clandestine. Anzi, secondo l’agenzia, la vera lezione da apprendere in seguito allo scandalo suscitato dalla commissione Patman era che la copertura delle fondazioni per erogare i finanziamenti doveva essere usata in maniera più estesa e professionale, innanzitutto sborsando fondi anche per i progetti realizzati sul suolo degli Stati Uniti.
Michael Josselson, dalla fine di quel anno, tentò di proteggere la sua creatura dalle rivelazioni, considerando pure di mutarne il nome, e cercò persino di recidere i legami economici con la CIA sostituendoli in toto con un finanziamento della Fondazione Ford.
Tutto ciò non valse a nulla se non a posticipare un esito ormai segnato. Il 13 maggio 1967 si tenne a Parigi l’assemblea generale del Congresso per la libertà della cultura che ne sancì la sostanziale fine, pur se le attività si trascinarono, stancamente ed in tono assai minore, fino alla fine degli anni settanta.

Era infatti successo che la rivista californiana “Ramparts”, nell’aprile 1967, aveva pubblicato un’inchiesta sulle operazioni segrete della CIA, nonostante una campagna di diffamazione lanciata a suo danno nel momento in cui l’agenzia era venuta a conoscenza del fatto che la rivista era sulle tracce delle sue organizzazioni di copertura. Le scoperte di “Ramparts” furono prontamente rilanciate dalla stampa nazionale e seguite da un’ondata di rivelazioni, facendo emergere le coperture anche al di fuori degli Stati Uniti, a cominciare dal Congresso e le sue riviste.
Già prima delle denunce di “Ramparts”, il senatore Mansfield aveva chiesto un’indagine parlamentare sui finanziamenti clandestini della CIA, alla quale il presidente Lyndon Johnson rispose istituendo una commissione di soli tre membri. La commissione Katzenbach, nella sua relazione conclusiva emessa il 29 marzo 1967, sanzionava ogni agenzia federale che avesse segretamente fornito assistenza o finanziamenti, in modo diretto od indiretto, a qualsiasi organizzazione culturale statale o privata, senza fini di lucro. Il rapporto fissava la data del 31 dicembre 1967 come limite per la conclusione di tutte le operazioni di finanziamento segreto della CIA, dandole così l’opportunità di concedere un certo numero di sostanziose assegnazioni finali (nel caso di Radio Free Europe, questo importo le avrebbe permesso di continuare a trasmettere per altri due anni).
In realtà, come si evince da una circolare interna poi emersa nel 1976, la CIA non vietava le operazioni segrete con organizzazioni commerciali statunitensi né i finanziamenti segreti di organizzazioni internazionali con sede in Paesi stranieri. Molte delle restrizioni adottate in risposta agli eventi del 1967, più che rappresentare un significativo ripensamento dei limiti alle attività segrete dell’intelligence, appaiono piuttosto misure di sicurezza volte ad impedire future rivelazioni pubbliche che potessero mettere a repentaglio delicate operazioni della stessa CIA.

Ne vogliamo riparlare?

N.B.: la fonte principale delle informazioni presentate in questo articolo è il libro “Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale” di Frances Stonor Saunders, pubblicato per la prima volta nel Regno Unito nel 1999 ed in traduzione italiana da Fazi Editore nel 2004 nella collana “Le terre” e nel 2007 in quella “Tascabili saggi”.

I giorni della disobbedienza

Mentre un numero crescente di esponenti delle grandi aziende e delle istituzioni sanitarie sovranazionali afferma che le misure di distanziamento sociale sono destinate a rimanere a tempo indeterminato, la maggioranza dell’opinione pubblica si mostra ancora soggiogata, ancora volta a dare fiducia alla narrazione della pandemia su cui i proprietari di media e social network esercitano un controllo pieno e volto a reprimere sempre più le opinioni divergenti.
Malgrado questo, forme di resistenza si manifestano un po’ ovunque e vengono annunciate iniziative di disobbedienza civile, come quella dei ristoratori. In questi giorni in cui ogni ipotesi di opposizione sociale sembra impossibile, si può ancora sperare in un’insorgenza fatta di disobbedienza e ribellione? E’ possibile connettere le forme di vita che oggi, in maniera spontanea e isolata, esprimono resistenza? E’ possibile combattere per tornare a essere padroni del proprio destino?
Ne abbiamo parlato con Riccardo Paccosi (attore e regista teatrale), Gennaro Scala (sociologo, autore da ultimo di Per un nuovo socialismo) e Giorgio Bianchi (fotoreporter e documentarista).
Introduzione e moderazione di Federico Roberti (Liberiamo l’Italia Emilia Romagna).
In collaborazione con Vox Italia circolo di Bologna e Riconquistare l’Italia Bologna.

Per la ridiscussione del riconoscimento dell’indipendenza dell’Autoproclamata Repubblica del Kosovo


Il Comitato Promotore della Petizione Popolare di Sensibilizzazione avente come oggetto la richiesta di ridiscussione in Parlamento del riconoscimento, da parte del Governo Italiano, dell’indipendenza dell’Autoproclamata Repubblica del Kosovo ha presentato nei giorni scorsi il testo della petizione, corredato da diverse migliaia di firme, al Governo e al Parlamento della Repubblica Italiana.
Dopo diversi anni di riflessioni su quanto accadde sia negli anni novanta (processo di dissoluzione della Jugoslavia e successiva crisi nella Provincia Autonoma di Kosovo e Metohia della Repubblica di Serbia), sia nel 2008 (proclamazione unilaterale di indipendenza da parte dei rappresentanti della comunità kosovaro-albanese della Provincia Autonoma di Kosovo e Metohia della Provincia di Serbia) una parte crescente dell’opinione pubblica italiana ha sentito il bisogno di sensibilizzare le istituzioni esecutive e legislative della Repubblica Italiana in ordine al carattere iniquo ed inappropriato del passo politico e diplomatico che Roma compì nel 2008, quando riconobbe l’esistenza di un nuovo Stato, sottratto in modo affrettato alla Serbia.
Il Comitato Promotore, argomentando le ragioni che motivano tale petizione, ha chiesto di valutare la ridiscussione parlamentare del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, anche per favorire una reale e duratura stabilizzazione della regione balcanica, basata sulla certezza del diritto e sulla cooperazione di tutte le parti in causa. Il Comitato Promotore (Stefano Pilotto, Stefano Vernole, Marilina Veca, Loreta Baggio, Federico Roberti, Andrea Turi, Alessandro Di Meo, Leandro Chiarelli, Stefano Pavesi, Stefano Bonilauri), composto da intellettuali, diplomatici, professionisti, scrittori e giornalisti, ritiene che il momento sia propizio per un riesame del problema, nella prospettiva di un rilancio efficace dell’integrazione europea e dell’allargamento delle istituzioni comunitarie alla regione balcanica in un contesto di pace e di cooperazione interetnica, che non pregiudichi il rispetto della sovranità degli Stati.

Libia oggi

Che il governo italiano in carica voglia ripristinare un rapporto di collaborazione strategica con la Libia, in qualche modo rifacendosi alla politica -peraltro bipartisan- applicata prima dell’aggressione NATO del 2011 e che era culminata nella firma del Trattato di Amicizia a Bengasi nel 2008, è cosa buona e giusta, non solo nell’intento di cercare una soluzione alla questione migratoria.
In questo senso, è comprensibile l’odierno viaggio del ministro dell’interno Matteo Salvini a Tripoli per incontrare le locali autorità, ma proprio qui sta il problema visto che il governo libico di Fayez Al-Sarraj sostenuto dall’ONU ha un controllo a dir poco parziale del territorio nazionale, e persino della stessa capitale, suddivisa fra le varie milizie.
In Cirenaica, frattanto, l’esercito nazionale libico del (mai defunto) generale Haftar è impegnato a sradicare le ultime resistenze islamiste nella città di Derna, dopo aver ripreso il controllo dei terminali petroliferi sulla costa. Ciò non senza l’aiuto, quantomeno diplomatico e finanziario, dell’alleato francese.
Molto probabilmente, quindi, le posizioni assunte dalla Francia del presidente Macron in queste ultime settimane sulla (asseritamente inesistente) crisi migratoria italiana vanno lette tenendo conto anche di questi fatti, e della competizione in corso per assicurarsi il controllo della situazione in Libia.
Con un terzo incomodo rappresentato dalle azioni USA/NATO, che dal 2016 hanno ripreso di buona lena l’attività dei velivoli senza pilota in partenza dalla base siciliana di Sigonella, indirizzata contro obiettivi terroristici in particolare nella città libica di Sirte, allora in mano a gruppi affiliati allo Stato Islamico.
Insomma, trattasi di una situazione altamente caotica che sarà difficile stabilizzare in breve tempo ma che merita di essere affrontata con decisa prontezza se l’Italia non vuole che il Mar Mediterraneo si trasformi in un pantano nel quale rischia seriamente di rimanere catturata.
Federico Roberti

Putin e le stelle

Questo 7 di maggio è stato caratterizzato dalla cerimonia di insediamento di Vladimir Putin al Cremlino, per il suo quarto mandato presidenziale dopo quelli ottenuti nel 2000, 2004 e 2012.
Caso vuole che questa cerimonia sia avvenuta il 7 maggio, come in occasione del primo insediamento nel 2000.
Per qualcuno, però, non si tratterebbe di un caso fortuito ma del segno che il Presidente russo riceva da un astrologo suggerimenti circa le decisioni cruciali da prendere e il momento in cui prenderle. E’ la tesi di Claudia Bailetti, astrologa specializzata nell’indagine di eventi legati alla politica internazionale, che nell’ultimo numero del mensile Astra ritiene “probabile che Putin venga sfidato sul piano della reputazione e del valore identitario di sé ma soprattutto della sua nazione, il che potrebbe portarlo allo scontro”.
“Un periodo caldo per Putin sarà l’autunno 2018 quando potrebbe essere interessato da disordini interni o riferiti alla questione con l’Ucraina, che potrebbero portarlo a scontrarsi con i leader occidentali o nell’area mediorientale con i postumi della guerra in Sira dove potrebbero emergere sorprendenti notizie su attività e uso di armi tossiche o nucleari, tali da offuscare la personalità di Putin.”
“A fine 2018 e inizio 2019 – prosegue la Bailetti – si intravede nel Cielo una possibile tregua negli scontri bellici, forse solo per pianificare strategie mirate a un probabile riaccendersi dei conflitti. Tra fine 2018 e tutto il 2019 Putin godrà del sostegno di Giove che lo porterà a raggiungere importanti obiettivi e una momentanea supremazia sugli Stati Uniti, che dovranno scendere a patti con la Russia.”
Per quanto si possa essere scettici in materia (e personalmente lo siamo), le odierne dichiarazioni del Presidente russo inducono comunque a riflettere.
“Le prossime decisioni che dovremo prendere sono, senza esagerazione, storiche e determineranno il destino della patria per i decenni a venire”, ha infatti affermato Putin durante il discorso seguito al giuramento da Presidente. “Abbiamo bisogno di innovazione in tutti i settori della vita – ha poi aggiunto – sono profondamente convinto che una tale svolta è possibile solo con una società libera, che accoglie il nuovo e rifiuta l’ingiustizia, l’inerzia e il conservatorismo”, assicurando infine che lo scopo della sua vita e del suo lavoro rimarrà “servire il popolo e la patria. Per me, questo viene prima di tutto”.
Federico Roberti

Parma alla guerra

Forse in provincia erano invidiosi del capoluogo regionale, che è primo in classifica, qualunque sia la nefandezza da commettere.
Fatto sta che all’Università di Parma hanno pensato bene che con la NATO vogliono limonare pure loro, e chi meglio del pomposo NATO Rapid Deployable Corps – Italy (NRDC-ITA), il cui comando ha sede a Solbiate Olona (Varese), per instaurare una bella liaison?
L’intesa prevede, tra le altre cose, “la partecipazione di studenti selezionati dell’Ateneo, sotto la supervisione accademica, alle attività di studio e approfondimento che l’NRDC-ITA conduce a scopo esercitativo, con particolare attenzione allo sviluppo e presentazione di analisi politiche, economiche, sociali, infrastrutturali e di informazione relative a scenari fittizi di esercizio; la partecipazione di personale militare del NRDC-ITA e dell’Università di Parma a conferenze, seminari, convegni su temi di interesse comune negli spazi dell’Ateneo o di NRDC-ITA; l’integrazione di studenti selezionati dell’Ateneo, sotto la supervisione accademica, nell’attività condotta da NRDC-ITA per una più appronfondita comprensione di situazioni politiche, economiche, sociali, infrastrutturali, informative e le cause della stabilità o dell’instabilità negli scenari di crisi del nostro tempo.
Il personale di NRDC-ITA fornirà orientamento, assistenza e consulenza, e avanzerà richieste specifiche di supporto per argomento e area geografica. Fornirà poi un feedback diretto, contribuirà all’analisi e individuerà le aree per indagini più approfondite, in modo che gli studenti possano apprezzare l’applicazione diretta dello studio accademico in situazioni pragmatiche e reali.”
Le attività oggetto dell’accordo si svolgeranno nell’anno accademico 2017-2018, a partire da ottobre 2017 e con una durata minima di un anno.
Come ti erudisco il pupo… a “missioni di pace” e guerre umanitarie.
Qualcosa da obiettare?
Federico Roberti

N.B.: occhio ai link! Per dare evidenza ai collegamenti inseriti, nell’occasione abbiamo messo in corsivo il relativo testo.

6 aprile 1917

Gli Stati Uniti d’America consegnavano alla Germania la dichiarazione di guerra, entrando ufficialmente nel primo conflitto mondiale.
Il grande Paese d’oltreoceano proclamava di abbandonare il suo tradizionale isolazionismo, per difendere le democrazie del Vecchio Continente dall’autocrazia degli Imperi Centrali.
Di fatto, cento anni fa iniziava una lunga marcia verso est che ha portato la (ex) superpotenza mondiale, intrisa di ambizioni messianiche, a ridurre l’Europa in stato di sudditanza.
Arrivare ai confini dell’attuale Russia, dipinta come minaccia all’ordine unipolare, è l’esito intenzionale di tale percorso.
Federico Roberti

“Il 9 novembre 1989 segnò la fine del ciclo storico socialdemocratico, il 9 novembre 2016 invece l’elezione di Trump a Presidente USA rappresenta la fine di quello neoliberale”

Intervista allo storico Paolo Borgognone (1981), autore di diversi saggi, tra cui presso Zambon editore una trilogia sulla disinformazione strategica, Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche, L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, Deplorevoli? L’America di Trump e i movimenti sovranisti in Europa, nonché di Generazione Erasmus. I cortigiani della società del capitale e la “guerra di classe” del XXI secolo in corso di pubblicazione presso Oaks Editrice.
A cura di Federico Roberti.

Il tuo ultimo libro, “Deplorevoli? L’America di Trump e i movimenti sovranisti in Europa”, prende le mosse con l’affermazione che il 9 novembre 2016 è caduto il muro invisibile caratterizzato, nel suo lato economico, dal neoliberalismo e, in quello culturale, dalla retorica dell’antifascismo in assenza di fascismo volta a fidelizzare alla sinistra politicamente corretta i ceti popolari. Possiamo quindi considerare questa data una sorta di 9 novembre 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino, al contrario?
Sì, perché il 9 novembre 1989 il Muro di Berlino fu abbattuto da una controrivoluzione di ceti medi cosmopoliti che desideravano recarsi all’Ovest per guadagnare di più, acquistare prodotti e merci capaci di assicurare loro maggior comfort e riconoscimento in termini simbolici e di status, ovvero accedere ai modelli di consumo e stili di vita europei e americani, entrare in possesso legalmente di valuta pregiata e gestire la propria esistenza secondo i ritmi scanditi dalla società di mercato. La retorica mainstream volta a celebrare la ritrovata libertà di opinione dei tedesco-orientali è poco meno che un orpello propagandistico utilizzato ad hoc per legittimare quello che l’Ottantanove esteuropeo in effetti fu, ossia il trionfo della pseudocultura della mobilità e delle velleità individuali al successo imprenditoriale di una parte rilevante delle società preconsumistiche dei Paesi fino a quel momento interni alle logiche del Patto di Varsavia, del Comecon e del socialismo concretizzato. Il 9 novembre 1989 segnò la fine del ciclo storico socialdemocratico. Il 9 novembre 2016 invece, Brexit e l’elezione di Trump a Presidente USA rappresentarono la fine del ciclo storico neoliberale, poiché questi fenomeni si verificarono all’intersezione tra la destra politico-culturale e la sinistra economica, ovvero ebbero come propria base di consenso un postproletariato nazionale sradicato dai processi di globalizzazione e ostile nei confronti della summenzionata, elitaria, sottocultura della mobilità. Ventisette anni prima il conflitto geopolitico e ideologico in corso tra USA e URSS fu vinto da attori sociali che avevano fatto propria l’articolazione concettuale e simbolica, nichilista, del capitalismo liberale, poiché la proposta politica che scaturì da quel ciclo storico di rivolte controrivoluzionarie si basava sull’egemonia di una cultura gauchiste e libertaria, tutta protesa alla retorica dei diritti cosmetici e sul predominio del neoliberismo in economia. Esattamente l’opposto accade oggi, per questo le citate élite del denaro che “non dorme mai” e della mobilità globale che avevano celebrato l’Ottantanove esteuropeo attivano tutto il potere di fuoco multimediale di cui dispongono per demonizzare, riproponendo l’ormai antistorica dicotomia novecentesca fascismo/antifascismo, l’ascesa degli eterogenei movimenti di insorgenza populista in Europa e Stati Uniti.

A tuo parere, sono fondati i timori che possa verificarsi una rivoluzione di velluto nei confronti del neoeletto Presidente USA? Oppure è più probabile che possa essere messo da parte attraverso un golpe che potremmo definire psichiatrico? Per non affrontare la complessa procedura congressuale prevista per il cosiddetto “impeachment”, infatti qualcuno potrebbe essere tentato di ricorrere al paragrafo 4 del 25° emendamento della Costituzione USA, che prevede la destituzione del Presidente nel caso non sia più in grado fisicamente o mentalmente di assolvere alle sue funzioni, le quali verrebbero assunte almeno temporaneamente dal Vice Presidente. Nella fattispecie, una diagnosi di psichiatri di chiara fama, sostenuti da un certo numero di membri dell’esecutivo, sarebbe sufficiente a rimuovere Trump.
Il ricorso alla psichiatria dovrebbe essere lo strumento di analisi con cui interpretare le idiosincrasie ideologiche di chi, e mi riferisco a Bernie Sanders e sodali, alle primarie del Partito Democratico ha fatto continuamente appello al richiamo populista e alla proposta economica socialdemocratica per sfidare le élite del capitalismo finanziario e l’establishment di Wall Street contigui a Hillary Clinton e poi, in sede elettorale, è rifluito sul sostegno alla paladina dello stato di cose presenti. Ora, non dico che Sanders avrebbe dovuto appoggiare Trump ma il sostegno che l’anziano esponente socialista democratico ha regalato incondizionatamente a Hillary Clinton è la riprova, ulteriore, della subalternità ideologica della sinistra al campo liberale. Una subalternità giustificata tramite il ritornello del “nemico principale” identificato nella destra populista e non nel capitalismo di libero mercato in quanto tale. Non dubito che i Millennials che alle primarie del Partito Democratico appoggiarono Sanders, oggi potrebbero fungere da massa di manovra controrivoluzionaria per un “golpe colorato” avente l’obiettivo di neutralizzare l’outsider Donald Trump. Le centrali ideologiche di questo golpe in itinere io le cercherei più nella Silicon Valley (culla degli apologisti dell’ideologia del progresso fondata sulle potenzialità taumaturgiche delle nuove tecnologie sulla strada della transizione al postumano) che non a Wall Street mentre le corporation dell’industria dello spettacolo hollywoodiana potrebbero offrire la sponda di copertura e legittimazione scenica di questa “rivoluzione colorata”. L’impeachment potrebbe essere una strada percorribile da parte degli oppositori di Trump, così come lo sono il sabotaggio parlamentare delle procedure di Brexit. Tuttavia, non credo che i cicli storici di cambiamento epocale dell’approccio pubblico alle questioni interne e internazionali possano essere fermati a colpi di decreto.

A seguito dell’elezione di Trump e degli eventi politici che hanno costellato il 2016 – citiamo, fra gli altri, la vittoria del “leave” al referendum sulla Brexit e la netta maggioranza con la quale in Italia è stato respinto il progetto di riforma costituzionale avanzato dal governo Renzi – quale è, se esiste, la strada tracciata dinanzi a quelli che tu chiami movimenti sovranisti in Europa, più frequentemente e spregiativamente denominati populisti?
Una strada che appare simile a un labirinto. I sovranisti sono attori politici con un’identità ideologica incerta, tra loro eterogenei e spesso incompatibili (la galassia politica sovranista si articola in un perimetro che va dal PVV olandese, liberal-liberista, atlantista, filoisraeliano e interno alla narrativa islamofoba fallaciana fino allo Jobbik ungherese, un partito eurasiatista e antisionista), frutto dei caratteri nazionali dei rispettivi contesti d’origine e piuttosto inclini alle logiche del partito imprenditore della rappresentanza dei ceti genericamente incazzati nei confronti di un’oligarchia i cui contorni politico-affaristici e i cui legami internazionali gli stessi sovranisti esitano a delineare con precisione. Detto questo, i sovranisti sono accomunati da alcune proposte programmatiche condivise, ad esempio il ripristino dei poteri pubblici statali sulle frontiere nazionali dei singoli Paesi, la contestualizzazione del conflitto di classe in corso su linee verticali (chi sta in alto vs chi sta in basso) e la narrativa anti-immigrazione. Quest’ultima sembrerebbe, per ovvi motivi di appeal in quanto l’immigrazione è un problema che tocca, nei Paesi della UE, la quotidianità delle persone assai più di altri sconvolgimenti frutto delle politiche neoliberali sistemiche, la direttrice propagandistica foriera di maggiori consensi pubblici ai partiti sovranisti. Certo, non sarebbe male se i sovranisti inquadrassero il fenomeno migratorio nel contesto del regime dei flussi imposto dal capitalismo finanziario e digitale globale, invece che ingannare l’opinione pubblica perseverando a sentenziare che, una volta giunti al governo dei rispettivi Paesi, avrebbero rispedito i migranti a casa propria con il proverbiale “calcio in culo” di leghista memoria. Nel momento in cui i partiti sovranisti della destra si convinceranno che il “calcio in culo” di cui sopra va assestato, più che agli immigrati, agli esponenti di quella upper class creativa di mode e stili di consumo, desiderio e capriccio forgiate ad hoc per dettare il tono della vita di tutti, potranno costituire un’alternativa di sistema ai partiti globalisti tuttora al governo nei principali Paesi della UE. Sull’altro versante, i partiti populisti di sinistra, qualora vi fossero forze politiche organizzate di questo tipo in Europa (e, francamente, a parte alcune eccezioni, come Unità Popolare in Grecia e spezzoni minoritari della Linke in Germania, non sono in grado di scorgerne), potranno risultare convincenti nel momento in cui si risolveranno a convenire sull’assunto concernente l’irriformabilità dall’interno della UE, abbandonando ogni velleità di “uscire” dalla crisi di sovranità in cui le politiche neoliberali dell’élite finanziaria globalista hanno precipitato popoli e nazioni rimanendo “dentro” le strutture di governance multilivello stabilite proprio dai ceti finanziari che, a parole, la sinistra ambisce contrastare.

In Francia, la pressione mediatica e giudiziaria sui candidati alle prossime elezioni presidenziali considerati filo-russi, François Fillon e Marine Len Pen, sta crescendo vertiginosamente. Con il paradossale esito che i consensi persi dal primo vadano a rafforzare ulteriormente la seconda…
E’ noto che un’eventuale vittoria elettorale di Marine Le Pen in Francia alle prossime presidenziali sconvolgerebbe definitivamente gli assetti neoliberali della UE e pertanto questa vittoria è, da parte di chi si ritrova nella prospettiva politica antiglobalista, auspicabile, al di là delle critiche che si possono muovere alla candidata del FN, come ad esempio l’essere piuttosto filoisraeliana in politica estera, il guidare un partito a direzione familiare o l’aver approntato un programma economico semi-liberista. C’è sempre qualche rivoluzionario più rivoluzionario di tutti pronto a giocare il gioco di un candidato come Macron prestando il fianco, da schizzinoso, agli strali anti-lepenisti della sinistra radicale.
In definitiva, se Marine Le Pen, che parla esplicitamente di fuoriuscita della Francia da UE, euro e strutture militari della NATO, nonché di dar vita a un’Europa di patrie, popoli e nazioni da Lisbona a Vladivostok, dunque alleata con la Russia in funzione anti-atlantista, è avversata dal 100 per cento dei media mainstream internazionali, significa che codesta candidata costituisce il male minore, ossia il bene maggiore, per il suo Paese. E le caste globaliste dei media aziendali faranno di tutto per gettare discredito su Marine Le Pen, rivolgendosi al discorso antifascista di autocelebrazione dello stato di cose presenti e costruendo pretesti scandalistici per incastrare la leader del FN. La strategia è infatti il “metodo Fillon”, utile per levare dai piedi a Macron un avversario potenzialmente urtante in termini di spartizione dei consensi dei ceti medi urbani pro-UE ma, rispetto al giovane banchiere dei Rothschild, percepito come “filo-russo” in politica estera (in passato infatti, Fillon, non si sa se per convinzione personale o per drenare alla propria causa politica, liberale di destra e dunque sistemica, voti appannaggio del FN, aveva denunciato l’«imperialismo americano» nel perimetro geopolitico ex sovietico e condannato le sanzioni imposta dall’amministrazione Obama contro la Russia). Tuttavia, credo che la Commissione Europea e la Merkel ripongano molta fiducia in Macron e abbiano mobilitato tutte le forze di cui dispongono per giungere, in Francia, a un ballottaggio presidenziale tra questi e Marine Le Pen, archiviando la prospettiva, inizialmente coltivata ma divenuta impraticabile nel dopo-Trump, di una presidenza Fillon più difficile da inquadrare nell’ottica di quel conflitto culturale e di classe che oppone flussi a luoghi e globalisti a sovranisti. Dopo Trump i ceti globalisti hanno deciso di serrare i ranghi, puntando tutto sullo showdown finale tra il loro candidato, Emmanuel Macron, banchiere internazionale fedelissimo alla linea liberale di centrosinistra, atlantista, filosionista e clintoniano ideologico, e Marine Le Pen. Le prossime elezioni francesi, il ballottaggio soprattutto, vedranno il concretizzarsi politico e mediatico del conflitto multilivello in corso tra i vincenti della globalizzazione e gli sradicati in cerca di sicurezza, identità e rappresentanza.

La serie di elezioni che sta per prendere il via in Europa rischia di ridisegnare la geografia politica del continente, seppellendo nelle urne l’eurozona e le istituzioni di Bruxelles. Quali potranno essere, a tuo parere, i nuovi possibili scenari di politica internazionale? Sarà possibile trovare una soluzione diplomatica ai conflitti in Siria e Ucraina, nonché avviarsi alla pacificazione del teatro libico? Diminuiranno le tensioni con la Russia oppure la NATO proseguirà nella sua strategia di accerchiamento-avvicinamento ai confini del gigante eurasiatico?
Accolgo con favore i patti di reciproca collaborazione firmati a Mosca tra Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, e alcuni soggetti politici a vario titolo considerati “populisti” dei Paesi della UE, come la Lega Nord e la FPӦ. Forse, e mi perdonerai se pecco di ottimismo, un comune sentire filo-russo da parte di questi partiti potrebbe smorzarne l’elemento sciovinistico interno, aiutandoli a convergere in direzione di una più spiccata sensibilità antiglobalista, rinunciando al nazionalismo e a una visione schematica e mistificatoria dell’Islam come sorta di unitario blocco terroristico antioccidentale. Penso che i populismi (reattivi e patrimoniali) europei odierni siano molto eterogenei tra loro e poco inclini alla prospettiva, propria di uno studioso come Dominique Venner, di uno Stato identitario europeo da contrapporre alla UE neoliberale e transatlantica. Tuttavia, i partiti populisti, esito finale della conversione ideologica della sinistra da partito delle classi lavoratrici autoctone a sponda politica privilegiata dei ceti medi creativi, cosmopoliti e affluenti, i cosiddetti figli della globalizzazione liberale, hanno il merito, pur nella loro inequivocabile eterogeneità ideologica di fondo, di contribuire a far emergere quelle contraddizioni interne al capitalismo globale che probabilmente contribuiranno a cortocircuitare questo regime della paranoia e del nichilismo istituzionalizzati. Per quanto riguarda la NATO, penso che continuerà a puntellare i pericolanti governi sciovinisti di destra dei Paesi baltici e dell’Ucraina in funzione anti-russa. Il tutto mentre il ceto politico-intellettuale pseudo-progressista europeo da un lato persevererà nel condannare colui che definisce il “dittatore” Putin e a sfilare, bandiera rossa (o meglio, arcobaleno) in pugno alle manifestazioni di memorialistica e folklore antifascisti del 25 aprile e, dall’altro, utilizzerà litri d’inchiostro per consolidare, nell’immaginario stereotipato dei lettori dei giornali liberal dove codesti intellettuali organici al politically correct ricoprono il ruolo di strapagati editorialisti, l’idea secondo cui la NATO, insieme ai “combattenti per la libertà” ucraini e baltici, costituirebbe un “baluardo democratico” per proteggere i “valori cosmopoliti europei” dall’“aggressione” russa. I media mainstream sono unanimi nella condanna di una invero inesistente “Internazionale Sovranista” coordinata, secondo tale vulgata, di volta in volta da Trump o Putin nonché finalizzata alla demolizione della UE transatlantica, liberista e cosmopolitica e, al contempo, si prodigano nell’apologia diretta e indiscutibile della, concreta e tangibile, “Internazionale Liberal” il cui scopo manifesto è annientare ogni traccia di etica comunitaria e identità collettiva caratteristiche dell’Europa come spazio geopolitico tradizionale propriamente inteso.

Don Rodrigo

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“Un Leone d’Oro lungo quattro ore. Venezia: vince a sorpresa, ma meritatamente, il dramma in bianco e nero del filippino Lav Diaz.”
Premesso che non sono propriamente quel che si suol dire un cinefilo, frequento le sale forse tre volte all’anno e leggo distrattamente le recensioni che mi passano sotto gli occhi, devo confessare che un titolo di tal fatta mi ha colpito.
Tanto più che arrivo al punto in cui il critico di turno specifica che il film è stato girato completamente con la cinepresa fissa, e nella competizione in laguna ha superato tutti i colossi di Hollywood… nonché il mio adorato Emir, ma uno che si è messo a dire certe cose potrà mai più vincere un qualche premio importante?
Apprendo quindi che il regista di The woman who left ha voluto dedicare la conquista del prestigioso cimelio “al popolo filippino, per la sua lotta e per la lotta di tutta l’umanità”.
Sempre memore della massima di Pierre-Joseph Proudhon – “Chi dice umanità cerca di ingannarti” – decido di indagare e cosa scopro?
Scopro che Lav Diaz mette al centro della vicenda una donna, Hortencia, che ha già scontato trent’anni per omicidio. Trent’anni durissimi, in cui però è diventata un punto di riferimento per le altre detenute e per i loro figli. Maestra elementare, insegna a leggere, dà lezioni di grammatica e scienze, organizza gruppi di lettura, è lei stessa autrice di racconti. Ha raggiunto un suo equilibrio, insomma. Finché una delle sue compagne, Petra, devastata dal rimorso, non confessa una verità terribile. È stata lei a commettere il delitto e l’ingiusta condanna di Hortencia è stata orchestrata dal suo amante di quegli anni, Rodrigo Trinidad, un personaggio “demoniaco” che ha sempre esercitato il suo potere e la sua influenza senza alcuno scrupolo.
Un momento… Rodrigo… ma il neo presidente delle Filippine, Paese di origine del regista, quello che ha mandato all’inferno Obama e chiede il ritiro dei soldati USA dalla regione meridionale di Mindanao, circa 500 militari dispiegati a partire dal 2002 “per fornire addestramento e intelligence alle truppe filippine impegnate a combattere le milizie islamiste della rete di Al Qaeda” ca va sans dire… non si chiama proprio Rodrigo (Duterte)?
“E in controluce, ovviamente, sembra di vedere il presente (a parte i rapimenti di Mindanao, il nome del “cattivo” può far pensare all’attuale presidente delle Filippine, il controverso Rodrigo Duterte?). La lucidità politica è intatta”, chiosa infatti il critico.
A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.
Federico Roberti

Italiani in cerca di guai

71feqh-vn1l“Le principali agenzie di stampa diffondono oggi la notizia (lanciata da un sito giornalistico che sembra avere come fonti servizi segreti e comandi militari) che i terroristi dell’ISIS starebbero preparando un attacco alla diga di Mosul dove per folle e illegale decisione del governo italiano sembra prosegua il dispiegamento di centinaia di soldati del nostro Paese.
Ignoriamo ovviamente quale sia il livello di attendibilità della notizia, e quali siano i fini di coloro che dall’interno delle forze armate e/o dei servizi segreti l’hanno diffusa ai mass-media con molti dettagli – veri o falsi che siano -.”
Così ci scrive il “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo, alla cui seconda domanda è davvero difficile replicare.
Proviamo quantomeno ad indagare l’attendibilità della notizia, non prima di ricapitolare i presupposti, e cioé l’aggiudicazione al Gruppo Trevi, fondato nel 1957 a Cesena, dei lavori di consolidamento della strategica diga di Mosul in Irak, avvenuta lo scorso febbraio, e la contestuale decisione governativa di stanziare un contingente militare a difesa e protezione dei civili ivi impegnati.
“Per la prima volta una missione militare italiana nasce per fronteggiare una potenziale crisi umanitaria che però sarà una ditta civile a risolvere.” Così precisava l’inviato de La Stampa a luglio, prevedendo che dopo due mesi ci sarebbe stata una città con casette prefabbricate per ospitare fino a millecinquecento persone, un quadrato grande come venti campi di calcio, circondato da un reticolato, una trincea, un muro di cemento alto tre metri. A soli venti chilometri di distanza dai luoghi dove Curdi irakeni e i militanti dello Stato Islamico si fronteggiano.
Dunque, fonte della notizia secondo cui sarebbe in preparazione un vero e proprio attacco all’infrastruttura, dove sono presenti solo i primi cento di un contingente da 500 Bersaglieri che terranno la posizione per i prossimi sei mesi, è la misconosciuta Wikilao. La quale, buffamente, sul proprio sito riporta la notizia pubblicando il lancio dell’ANSA di ieri 7 settembre.
Direttore di Wikilao risulta essere Lao Petrilli, il che lascerebbe intuire si tratti di una iniziativa di carattere personale. Non ci è risultato difficile individuare le credenziali del Petrilli, il cui stringato curriculum vitae è reperibile qui. A noi piace solamente evidenziare come egli sia autore di un testo che lascia pochi dubbi, e del quale potete ammirare la copertina. Opera che si avvale della prefazione scritta da Ronald Spogli, ambasciatore statunitense in Italia fino al 2009, alla cui azione dedicammo una breve nota che vale la pena rileggere.
Federico Roberti

Enrico Piovesana: Afghanistan 2001-2016

La verità autentica è sempre inverosimile.
Fëdor Dostoevskij

Il video della conferenza, svoltasi a Bologna lo scorso 16 aprile.

Alla ricerca dell’opposizione perduta

Federico Roberti intervista Paolo Borgognone, in relazione al suo ultimo libro L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale.

Alle origini del sub normale: Mike Bongiorno

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Caro Mike, è da tempo ormai che ti seguo alla “Voce dell’America”.
Grazie direttore ma… guardi che io mi chiamo Michael.
Mike! Suona meglio… no?
(Dialogo tra Mike Bongiorno e Vittorio Veltroni, l’allora responsabile del giornale radio RAI, 1953)

Nacque a New York da padre italo-americano, noto avvocato e presidente della potente Associazione Sons of Italy in America, e madre italiana il 26 maggio 1924. Il suo vero nome era Michael Nicholas Bongiorno ma era chiamato Mickey. Quando Mickey era giovanissimo, la madre, che si era separata dal marito, si trasferì in Italia a Torino, portandolo con lei. Qui egli frequentò le scuole fino al liceo, iniziando a lavorare per la pagina sportiva de La Stampa.
Dopo l’8 settembre 1943, si unì a gruppi della Resistenza, prodigandosi come staffetta tra i partigiani e gli Alleati di stanza in Svizzera.
Il 20 aprile del 1944, fu intercettato e arrestato e quindi condotto nel carcere di San Vittore a Milano dove ebbe modo di conoscere e fraternizzare con Indro Montanelli, detenuto nello stesso carcere.
Dopo questo periodo di reclusione, passò attraverso vari campi di concentramento, arrivando alla fine del 1944 a Spittal, in Germania, dove rimase sino al gennaio 1945, per poi essere protagonista di un poco usuale scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Germania. Lo ritroviamo a New York dove riprese l’attività giornalistica, collaborando a Voice of America, emittente radiofonica emanazione del Dipartimento di Stato.
Tornò in Italia solo nel 1952, realizzando alcuni documentari sulla ricostruzione del Paese. Successivamente il funzionario RAI Vittorio Veltroni, padre del più noto Walter, gli offrì un contratto di collaborazione per il Radiogiornale. Realizzò servizi e radiocronache sportive, entrando poi in pianta stabile nella neonata TV di Stato italiana e divenendo il primo presentatore della stessa.
Una lunghissima carriera, quella di Bongiorno, interrotta solo dalla morte avvenuta nel 2009, dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana e l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica, conferitagli nel 2004 dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Federico Roberti

Nuove bombe nucleari USA per la Germania

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A partire dalla seconda metà del 2015, l’aviazione statunitense si appresta a trasferire nuove testate nucleari B-61 presso la base militare di Buchel, secondo il canale televisivo tedesco ZDF.
La base, situata nella regione della Renania-Palatinato nella Germania occidentale, ospita i caccia multiruolo Panavia Tornado dell’aviazione tedesca capaci di trasportare le testate nuclari USA che vi sono conservate. A partire dal 2007, quando sono state rimosse le testate conservate nella base di Ramstein, quella di Buchel è rimasta l’unica base in territorio tedesco dove siano presenti testate nucleari statunitensi, 20 per la precisione.
Il nuovo modello di testata B-61, n. 12, sarà tecnologicamente più avanzato rispetto ai modelli n. 3 e n. 4 attualmente dislocati in Europa; oltre che in Germania, anche in Belgio, Olanda, Turchia ed Italia, che peraltro è l’unico Paese nel continente ad ospitare due basi nucleari (Aviano e Ghedi) e quello con il maggior numero di testate USA dislocate sul proprio territorio.
Il canale televisivo ZDF cita al proposito dei documenti di bilancio di provenienza statunitense che indicano un finanziamento per il futuro stoccaggio delle B-61 mod. 12 e l’ammodernamento dei caccia Tornado incaricati di trasportarle. La fonte ricorda che, nel 2010, il Parlamento tedesco aveva invitato il governo di Angela Merkel ad agire affinché le testate nucleari USA presenti in Germania fossero rimosse, una misura che avrebbe goduto e godrebbe tuttora di ampio sostegno popolare.
D’altro canto, nei piani del governo tedesco c’era anche l’intenzione di ritirare dal servizio la propria flotta di Tornado, senza pensare a sostituirli con altri velivoli in grado di trasportare le testate nucleari. Infatti, i costosi e contestati F-35 sono capaci di assolvere questo compito ma la Germania ha deciso di non acquistarli, scegliendo l’Eurofighter Typhoon quale successore dei Tornado. Nel 2012, altresì, il Berliner Zeitung aveva riferito che il governo tedesco avrebbe deciso senza clamori di mantenere operativi alcuni Tornado sino al 2024.
Le testate B-61 mod. 12 saranno più precise e meno distruttive rispetto alle precedenti, con il rischio che i responsabili militari e politici siano più tentati di utilizzarle, il che potrebbe avere serie ed imprevedibili conseguenze per la sicurezza globale, affermano gli analisti.
L’ex funzionario del ministero della Difesa tedesco Willy Wimmer ha detto che la decisione di ammodernare l’arsenale nucleare di stanza alla base di Buchel conferisce alla NATO “nuove opzioni di attacco contro la Russia” e costituisce “una consapevole provocazione dei nostri vicini russi”.
Dal canto suo, Mosca non ha cessato di tenere in considerazione la presenza di bombe nucleari USA in Europa quando lo scorso anno ha proceduto a riformulare la propria dottrina militare. La Russia rivolge le proprie critiche all’intero programma di condivisione nucleare tra Stati Uniti ed Europa, affermando che esso tradisce lo spirito del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare il quale proibisce il trasferimento di armamenti atomici agli Stati denuclearizzati, mentre Washington sostiene che il Trattato non vieta di mantenere testate in Europa a patto che esse rimangano sotto il controllo delle truppe statunitensi, inviate allo scopo. La preoccupazione russa deriva anche dal fatto che gli Stati Uniti addestrano altresì militari dei Paesi europei, inclusi quelli che non ospitano testate nucleari USA, ad impiegarle. Una situazione, quella dell’uso congiunto delle testate in ambito NATO, che sarebbe una violazione diretta dei primi due articoli del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare, configurando un’anormalità che dura da oltre quaranta anni e che per la Russia non sarebbe più accettabile. Tanto probabilmente da spingere Mosca a prendere adeguate contromisure per ripristinare l’equilibrio strategico in Europa, particolarmente attraverso il rafforzamento delle sue difese nell’enclave di Kaliningrad e in Crimea.
Non mancheranno certo gli argomenti di discussione nel faccia a faccia odierno tra Obama e Putin, previsto a New York.
Federico Roberti

Crescere tra quelle righe

“Crescere tre le righe” è il convegno organizzato dall’Osservatorio Permanente Giovani-Editori, quest’anno giunto alla sua nona edizione, che vede come protagonisti il mondo italiano ed internazionale dell’editoria, gli studenti e le Istituzioni.
Esso “rappresenta un’occasione unica, nel panorama della comunicazione nazionale, per riunire attorno allo stesso tavolo tutti i protagonisti dell’informazione sia scritta che parlata, oltre ad autorevoli esponenti delle Istituzioni e gli studenti, per fare il punto della situazione sul rapporto tra giovani e informazione e per confrontarsi sul ruolo che questa può esercitare quale strumento per la crescita, nelle giovani generazioni italiane, di quel solido spirito critico indispensabile per garantire la convivenza civile e democratica del nostro Paese”.
Così recita il sito dedicato.
L’Osservatorio Permanente Giovani-Editori è presieduto dall’infaticabile Andrea Ceccherini, che ne è stato anche co-fondatore insieme a Cesare Romiti (allora presidente di RCS-Corriere della Sera) e Andrea Riffeser Monti (vice presidente e amministratore delegato del Gruppo Poligrafici Editoriale) nel giugno 2000.
Nell’estate del 2002, il Ceccherini è stato quindi invitato dal Dipartimento di Stato USA a “compiere un viaggio di studi incentrato sulla costruzione di relazioni internazionali nei campi dell’editoria e della politica”, riferisce la nota biografica sul sito dell’Osservatorio.
Successivamente, egli ha avuto il privilegio di essere ricevuto da Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, S.S. Papa Benedetto XVI, Cardinal Tarcisio Bertone, Papa Francesco.
Un importante alleato dell’Osservatorio Permanente Giovani-Editori sono i Gruppi Editoriali: la squadra che affianca l’Osservatorio nelle sue iniziative è composta dal primo giornale di opinione italiano, il Corriere della Sera, dal più importante quotidiano economico, Il Sole 24 Ore, e da alcune delle principali testate locali, La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino, L’Unione Sarda, l’Adige, Il Tempo, L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi, La Stampa, la Gazzetta di Parma, Il Gazzettino. A questi si sono aggiunti più di recente La Gazzetta dello Sport, il più diffuso quotidiano sportivo, e l’Osservatore Romano, il quotidiano ufficiale della Santa Sede.
L’Osservatorio Permanente Giovani-Editori collabora da diversi anni anche con il sistema delle Fondazioni di origine bancaria italiana, ed è affiancato da grandi aziende come Enel, Eni, Telecom Italia e Rai nonché dai tre principali istituti bancari italiani: Intesa Sanpaolo, Unicredit e MPS.
Tralasciando gli esponenti dei media nazionali -i soliti Vespa e insetti similari dell’informazione atlanticamente corretta di casa nostra- non resta dunque che elencare i rappresentanti di alcuni fra “i maggiori gruppi editoriali internazionali” che saranno ospiti al Borgo La Bagnaia, alle porte di Siena, i prossimi 22 e 23 Maggio:
Gerard Baker, Direttore The Wall Street Journal;
Dean Baquet, Direttore The New York Times;
Martin Baron , Direttore The Washington Post;
Jeff Bewkes, Amministratore Delegato Time Warner;
Richard Gingras, Senior Director dei prodotti News e Social Google;
Davan Maharaj, Direttore Los Angeles Times;
Mark Thompson, Presidente e Amministratore Delegato The New York Times.
Dulcis in fundo, è assicurata la presenza di John R. Phillips, Ambasciatore USA in Italia.
I viaggi studio negli Stati Uniti, promossi dal Dipartimento di Stato, hanno colpito ancora!
Federico Roberti

[Si vedano:
Le ragioni di François
Sedurre gli intellettuali per ammaestrare il popolo
La NATO culturale]

Meredith Kercher è morta da sola

bananaLo ha deciso la Corte di Cassazione (italiana?!?).
Amanda Knox è stata comunque condannata a tre anni per calunnia.
Condanna troppo lieve per innescare una richiesta di estradizione rivolta oltreoceano, come dimostrato dal caso dei sequestratori di Abu Omar, 22 dei quali erano stati “graziati” in virtù di un decreto ministeriale del gennaio 2000 e alle conseguenti circolari in materia, che hanno consolidato la prassi di non richiedere l’estradizione dei soggetti condannati a pene inferiori ai quattro anni.
Mentre il 23°, Robert Seldon Lady, ex capo-stazione CIA a Milano condannato a sei anni in via definitiva, arrestato nell’estate 2013 a Panama, se la filò negli USA prima che l’allora ministro della giustizia Annamaria Cancellieri riuscisse a mettergli le mani addosso.
Non mancando, successivamente, di inoltrare una beffarda domanda di grazia rimasta inevasa.
Federico Roberti

L’Italia in guerra (il video)

Durante la serata di sabato 25 Ottobre molti temi sono stati toccati, molti altri inevitabilmente appena accennati.
Essa sarà comunque ricordata non solo per la qualità dei contributi proposti dai relatori ma anche, e soprattutto, per la numerosa e attenta partecipazione del pubblico.
Un fatto è certo: affinché la questione della sovranità torni al centro del dibattito politico, nazionale ed europeo, non può essere preda di esclusivismi e/o settarismi di sorta.
Grazie a tutti!

 

Due appuntamenti con Gianni Lannes

cover_italia_usa_e_getta_4582Due appuntamenti con Gianni Lannes (giornalista e fotografo freelance) per parlare dello stato di sudditanza politico-militare dell’Italia

Venerdì 24 Ottobre alle ore 20:30
presso Cooperativa Borgo Etico
Via Cavalcavia, 90
CESENA
Ingresso libero

presentazione di:
Italia, USA e Getta.
I nostri mari: discarica americana per ordigni nucleari

di Gianni Lannes

promuove l’Associazione Laboratorio di Ricerca e Conoscenza
per info: info@larico.org

***
Sabato 25 Ottobre alle ore 17:00
presso la Libreria Ubik Irnerio
Via Irnerio, 27
BOLOGNA
Ingresso libero

L’Italia in guerra. Al comando degli USA e della NATO

presentazione di:
Italia, USA e Getta.
I nostri mari: discarica americana per ordigni nucleari

globalizzazione natodi Gianni Lannes
e
La Globalizzazione della NATO.
Guerre imperialiste e globalizzazioni armate

di Mahdi Darius Nazemroaya

con Gianni Lannes (giornalista e fotografo freelance)
Alessandro Iacobellis (esperto di politica internazionale e traduttore de La Globalizzazione della NATO)
modera Federico Roberti, curatore di byebyeunclesam
introduce Eduardo Zarelli, Arianna editrice

per info: redazione@ariannaeditrice.it

Italiani a Gibuti

“La prima vera base logistica operativa permanente delle forze armate italiane fuori dai confini nazionali”

Così l’ha definita, con sprezzo del pericolo, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, capo di stato maggiore della Difesa.
Ma andiamo con ordine.
Nell’Aprile 2013, riferivamo della “Missione Addestrativa Italiana” a Gibuti (acronimo MIADIT), i cui 32 istruttori dell’Arma dei Carabinieri, impegnati nella formazione di 200 poliziotti somali, avevano appena ricevuto la visita dell’ammiraglio Binelli Mantelli.
La MIADIT – dicevamo allora – costituiva il ritorno di un contingente di Carabinieri nel continente africano, dopo la precedente “sfortunata” esperienza della missione IBIS a Mogadiscio.
Eravamo però solo all’antipasto.
Tempo sei mesi, lo stesso ammiraglio Binelli Mantelli tornava infatti a Gibuti per inaugurare la base di cui sopra, costruita in appena sessanta giorni dai genieri del 6° Reggimento Genio pionieri di Roma e dislocata su una superficie di 5 ettari in pieno deserto, a sette chilometri dal confine con la Somalia e a poca distanza dalla grande infrastruttura militare USA di Camp Lemonnier.
La base italiana, pienamente operativa dalla fine del 2013, ospita 300 militari, una sessantina dei quali sarebbero appartenenti ai cosiddetti “Nuclei militari di protezione” dei mercantili italiani dalla pirateria (come quello di cui facevano parte i fucilieri di Marina, Latorre e Girone, ora detenuti in India). Ne mancano all’appello oltre duecento, circa i quali è lecito fare alcune ipotesi.
Trattandosi, infatti, di “un’area di enorme importanza strategica destinata ad essere più importante e strategica di Suez e di Gibilterra” – ammiraglio dixit – la base di Gibuti sarà anche l’avamposto di forze speciali pronte per vari tipi di interventi, dall’anti-terrorismo alla liberazione di ostaggi. Tuttavia, c’è un “piccolo” problema: mentre l’Italia schiera alcune decine di istruttori e parà a Mogadiscio, nell’ambito della missione addestrativa europea a favore dell’esercito somalo (EUTM Somalia), non è mai stato ufficializzato un impegno militare in operazioni anti-terrorismo come quelle condotte dagli statunitensi in Somalia contro gli islamisti di al Shabaab.
E i soldi per costruire e mantenere tutta la baracca?
Qui sta la beffa.
Art. 33, comma 5, di un Decreto Legge dell’Ottobre 2012 denominato “Ulteriori misure per la crescita del Paese”. Il quale recita: “Al fine di assicurare la realizzazione, in uno o più degli Stati le cui acque territoriali confinano con gli spazi marittimi internazionali a rischio di pirateria… di apprestamenti e dispositivi info-operativi e di sicurezza idonei a garantire il supporto e la protezione del personale impiegato anche nelle attività internazionali di contrasto alla pirateria ed assicurare una maggior tutela della libertà di navigazione del naviglio commerciale nazionale” è stato previsto un finanziamento pari a 27,1 milioni di euro fino al 2020, al netto dei costi operativi e delle indennità dei soldati ivi stanziati, da rifinanziare annualmente con il rituale decreto per le “missioni di pace”.
Al peggio, però, non c’è mai fine.
Oltre ai militari impiegati per operazioni speciali, nella base di Gibuti sarebbe stato dislocato anche il personale a sostegno delle attività di due velivoli senza pilota Predator, appartenenti al 32° Stormo dell’Aeronautica Militare di stanza ad Amendola (Foggia), colà inviati all’inizio dell’estate.
A Gibuti i due velivoli opererebbero attualmente dallo scalo aereo di Chabelley, dove da Settembre 2013 opera pure l’intera flotta di droni USA impiegati per i bombardamenti in Yemen e Somalia, prima dislocati a Camp Lemonnier e trasferiti dopo le roventi polemiche suscitate dai numerosi incidenti di cui sono stati protagonisti, che hanno creato grossi rischi al traffico aereo civile e provocato i fondati timori della popolazione residente nei pressi della base statunitense.
“A differenza dei velivoli statunitensi quelli italiani continuano a operare disarmati dal momento che Washington non ha ancora autorizzato la cessione dei kit di armamento all’Aeronautica Militare”, scrive Analisi difesa. Dei Predator tricolori, uno sarebbe stato assegnato per raccogliere immagini e dati sulle imbarcazioni dei “pirati” diretti a intercettare e abbordare i mercantili in transito in acque somale. “Il secondo Predator viene mantenuto in riserva per rimpiazzare il drone gemello o forse per compiti diversi da quello antipirateria”.
In effetti, la nomina di un colonnello dell’Aeronautica Militare, Giuseppe Finocchiaro, a comandante di una base che avrebbe dovuto appoggiare i nuclei di protezione marittimi puzzava alquanto. Adesso che sono arrivati i Predator, tutto diventa più comprensibile.
Federico Roberti

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Debito pubblico: come uscirne senza strozzarci

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Il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, con sede a Vecchiano (PI), ha elaborato un importante documento sulla questione del debito pubblico che attanaglia l’Italia, con il contributo di Franco Sacchetti per le vignette, Francesco Gesualdi per i testi e Andrea Rosellini per la grafica.
Il nostro Paese si trova infatti nella trappola di un debito che si autoalimenta: ben il 75% di esso è dovuto agli interessi che dal 1980 al 2012 hanno totalizzato 2.230 miliardi di euro, dei quali 1.550 sono finiti a debito.
In tal modo, il debito funziona come un meccanismo di redistribuzione alla rovescia che allarga il divario esistente fra i più ricchi e i più poveri: la famiglie appartenenti al 10% più ricco possiedono da sole il 46% di tutta la ricchezza privata, mentre quelle del 50% più povero appena il 9,4% della stessa.
La conclusione è che la miseria in Italia oggi colpisce una persona su tre, mentre la ricetta imposta ai Paesi più traballanti, a partire dal nostro, è sempre la stessa: aumentare le tasse, ridurre le spese, privatizzare tutto il possibile. Non importa se il risultato finale è la chiusura dei servizi e la perdita dei beni comuni.
L’unico modo per arrestare il declino dell’Italia è decidere di non far pagare solo i cittadini, ma anche i creditori. Il popolo italiano ha l’obbligo di restituire solo quella parte di debito che è stata utilizzata per il bene comune. Tutto il resto -dovuto a tassi eccessivi, indebitamento per interessi, ruberie, sprechi, corruzione, etc.- può (e deve!) essere ripudiato perché illegittimo.
La prima cosa da fare è quindi aggredire gli interessi, che ci salassano e alimentano la crescita del debito. Tre le iniziative possibili: vietare qualsiasi forma di speculazione sui titoli del debito pubblico, l’autoriduzione dei tassi di interesse, la sospensione dei pagamenti delle quote impossibili da coprire.
Risolta finalmente l’emergenza, bisognerà poi mettere ordine nei conti pubblici per liberarci definitivamente del debito e non ricadere mai più nella sua mortifera spirale.
Rammentando che il debito pubblico italiano non avrebbe avuto un epilogo così drammatico se avessimo conservato la sovranità monetaria di cui godevamo prima del 1981, quando si verificò il cosiddetto “divorzio” fra la Banca d’Italia e il ministero del Tesoro.
Concludiamo con l’invito a far circolare il materiale elaborato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo in tutti i modi possibili.
Federico Roberti

E’ finalmente uscito “La globalizzazione della NATO”

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Mahdi Darius Nazemroaya è un sociologo canadese, scrittore pluripremiato e analista geopolitico di fama internazionale. Ha soggiornato per due mesi in Libia come corrispondente di Flashpoints nel corso dell’intervento NATO.
La sua opera è stata tradotta in più di venti lingue fra cui spagnolo, portoghese, arabo, russo, turco, farsi, tedesco e cinese.

Traduzione di Alessandro Iacobellis, revisione di Federico Roberti.

Arianna editrice, pagg. 384, € 18.

INDICE:

Ringraziamenti
Prefazione. “Le avvertenze di un consigliere del Segretario generale dell’ONU”, di Denis J. Halliday
1. Uno sguardo d’insieme sull’espansionismo della NATO: prometeismo?
2. L’UE, l’espansionismo della NATO e il Partenariato per la Pace
3. La Jugoslavia e la reinvenzione della NATO
4. La NATO in Afghanistan
5. Il Dialogo Mediterraneo (DM) della NATO
6. La NATO nel Golfo Persico. L’Iniziativa per la sicurezza nel Golfo
7. La penetrazione nello spazio postsovietico
8. La NATO e gli alti mari. Il controllo delle rotte marittime strategiche
9. Il progetto dello scudo missilistico globale
10. La NATO e l’Africa
11. La militarizzazione del Giappone e dell’Asia-Pacifico
12. L’avanzata nel cuore dell’Eurasia: l’accerchiamento di Russia, Cina e Iran
13. Le controalleanze eurasiatiche
14. La NATO e il Levante: Libano e Siria
15. L’America e la NATO rapportati con Roma e gli alleati peninsulari
16. Militarizzazione globale: alle porte della terza guerra mondiale?
Note
Appendice. La strada per Mosca passa da Kiev
Fonti delle illustrazioni
Immagini: grafici, diagrammi e tavole
Mappe

Ufficio parlamentare di bilancio, chi era costui?

5910170636_a4d41431c0L’Ufficio parlamentare di bilancio -volgarmente detto Autorità di Bilancio- è il controllore dei conti pubblici introdotto nell’assetto istituzionale italiano dal Fiscal Compact, secondo il quale esso deve certificare il DEF (Documento di Economia e Finanza, il principale atto di programmazione del governo), valutando l’osservanza del principio del pareggio di bilancio. Esso sarebbe dovuto entrare in funzione all’inizio di quest’anno, ma ha subìto vari colpi d’arresto in violazione del misconosciuto trattato che l’ha istituito (e della specifica legge nazionale che lo prevede, la n. 243 del 24 Dicembre 2012).
Fino a ieri, infatti, è rimasta incompleta la rosa dei dieci nomi dalla quale la premiata ditta Boldrini & Grasso, nella qualità di Presidenti rispettivamente di Camera e Senato, dovrà scegliere mediante apposito decreto i componenti della triade (Presidente e due componenti) che andrà a costituire l’organismo, rimanendo in carica per la durata di sei anni. Una nomina tutt’altro che popolare e sovrana di un’Autorità che si ostinano a definire “indipendente”.
Nell’elenco dei papabili a rivestire il ruolo di boia, preposti a infliggere una austerità di durata ventennale al popolo italiano, figurano almeno tre ex collaboratori del commissario per la revisione della spesa pubblica Carlo Cottarelli: si tratta di Marco Cangiano che arriva dal Dipartimento affari fiscali del FMI, diretto fino a poco tempo fa proprio da Cottarelli, di Alberto Zanardi a cui sempre Cottarelli ha chiesto di coordinare il gruppo di lavoro sul taglio della spesa degli Enti Locali, e di Chiara Goretti, incaricata dal commissario di dare colpi d’accetta alle società partecipate.
A essi si aggiungono Paolo Savona, ministro delle privatizzazioni nel governo di Carlo Azeglio Ciampi (1993-1994), l’ex FMI Giuseppe Pisauro, Luigi Paganetto (ora all’ISTAT), Pietro Garibaldi, consulente di Matteo Renzi per le politiche (di distruzione) del lavoro, e Angelo Fabio Marano.
E, notizia dell’ultima ora, Gianfranco Polillo, sottosegretario all’Economia ai tempi di Monti, nonché Fiorella Kostoris, “nota economista”.
Scommettiamo che la nomina della triade avverrà prima del 25 Maggio?
Ché minacciosa all’orizzonte si staglia la sagoma del “dittatore barbuto” Beppone Grillin
Federico Roberti

Roberta Pinotti e i costi della sovranità ceduta

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Il tira e molla sulla questione F-35 cui stiamo assistendo in questi ultimi giorni, a partire dalla sua apparizione nel salotto televisivo preferito dalla sinistra di governo, quello condotto dal conterraneo Fabio Fazio, ribadisce ciò che ai più avveduti era noto da tempo, e cioè l’improvvisazione che contraddistingue l’operato del neoministro della Difesa, la genovese Roberta Pinotti.
Il compianto Giancarlo Chetoni, in un suo articolo del Dicembre 2009 durante l’ultimo governo del Cavaliere di Arcore, parlando del generale Del Vecchio, sottolineava come la sua vasta esperienza militare nei ranghi della NATO gli avesse procurato l’elezione a senatore nelle file del PD, a scapito del collega Fabio Mini, voce eccessivamente critica nei confronti delle politiche militari degli esecutivi di centro-destra e centro-sinistra succedutisi nel corso degli anni.
E aggiungeva: “[Del Vecchio] Lavorerà in coppia con Roberta Pinotti, la parlamentare ligure responsabile del settore Difesa di Bersani, che durante il governo Prodi fu promossa per la sua totale e manifesta incompetenza a presidente della IV° Commissione della Camera nella XV° legislatura per lanciare un segnale di disponibilità e di collaborazione della maggioranza PD-Ulivo al PdL, dove si distinse per un rapporto di lavoro particolarmente intenso ed amichevole con il sulfureo presidente dell’ISTRID on. Giuseppe Cossiga di Forza Italia, figlio di Francesco, per poi passare nel corso della XVI° a fare altrettanto con La Russa, questa volta da rappresentante a Palazzo Madama. Sarà lo stesso Ministro della Difesa a dichiarare la sua riconoscenza alla Pinotti a Montecitorio ed a ribadirlo nel salotto di Bruno Vespa.
Ecco cosa ha scritto su ComedonChisciotte una sua ex collaboratrice: “La conobbi la prima volta nella sede della FLM di Largo della Zecca negli anni ’80 durante una riunione sindacale (io ero delegata della RSU dove lavoravo). Caspiterina! Da sostenitrice delle lavoratrici me la ritrovo guerrafondaia. Ripeto, se lo avessi saputo che ci saremmo ridotte così mi sarei iscritta ad un corso di cucina o di taglio e cucito.”
Il declino ormai inarrestabile, organizzativo, politico, etico del Partito Democratico nasce anche da queste prese d’atto.”
Non a caso.
Aprendo il nostro armadio, abbiamo ritrovato uno scheletro che vogliamo ora esporre ai lettori confidando nella comprensione postuma dell’amico Giancarlo, anch’egli ben consapevole che i veri costi che nessuno taglia (erano e) sono quelli della sovranità ceduta.
Poche settimane prima di scrivere quel pezzo, infatti, Chetoni aveva inviato una missiva all’attenzione della senatrice Pinotti, allora Responsabile nazionale Dipartimento Difesa del PD, in relazione a una notizia pubblicata sul sito di quest’ultima, opportunamente fatta scomparire.
Con la sua sagacia tutta labronica, e intitolando il proprio messaggio “ti serve un corso intensivo”, Chetoni le scriveva: “Mia cara e divertentissima Pinotti, dovevi continuare a fare l’insegnante invece che presiedere (si fa per dire) la Commissione Difesa della Camera, prima, ed occuparti, dopo, di difesa come ministra ombra del PD. Oltre che fare dichiarazioni francamente vergognose dimostri davvero sulla materia di non capirci una pippa. Ma chi te l’ha detto che con i Predator si riesce ad individuare gli ordigni esplosivi? La Russa, quello dell’auricchio “piccanto”? Roba da matti! Ti hanno scelto apposta perché serviva una “peones” ampiamente sprovveduta e facilmente lavorabile. Consiglio a te, Franceschini & soci del PD e del PdL l’uso, intensivo, di un bel cartone, pieno, di perette di glicerina, a settimana.”
La Pinotti, probabilmente per il tramite della propria segreteria personale, ebbe a rispondere con un laconico (e “imbarazzato”, notava Giancarlo nel girarci la corrispondenza) “Al mio simpaticissimo estimatore: il suggerimento non è di La Russa, infatti lui ci manda i Tornado”.
Da parte nostra, a quasi cinque anni di distanza e ora che ella riveste la massima carica ministeriale, non resta altro che rinnovare quell’invito.
Federico Roberti

Arseniy Yatsenyuk, collaboratore a progetto

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Mentre la Camera dei Rappresentanti USA approva una risoluzione di condanna per le azioni russe in Crimea e sollecita la Casa Bianca a boicottare il prossimo vertice G8 di Sochi, invitando altresì gli “alleati” della NATO a sospendere la cooperazione militare con Mosca ed a imporre sanzioni economiche e restrizioni sulla concessione dei visti, il presidente Obama dal canto suo cerca il modo di sostenere il boccheggiante governo golpista d’Ucraina con un prestito di un miliardo di dollari.
Qualcuno oltreoceano fa però notare che secondo il Foreign Assistance Act, legge del 1961 recentemente modificata in alcune sue parti, l’erogazione di aiuti all’estero è proibita nei confronti dei governi di quei Paesi i cui capi di Stato regolarmente eletti siano stati deposti tramite un golpe militare o per decreto, come appunto prevede il 22 US Code § 8422.
Provvedimento in base al quale il Congresso, a seguito della deposizione del presidente Morsi avvenuta la scorsa estate, decise di sospendere l’aiuto finanziario all’Egitto.
Il tema sarà sicuramente all’ordine del giorno dell’incontro odierno fra Obama e Arseniy Yatsenyuk, primo ministro ucraino ad interim, il quale -dopo la firma del contratto di collaborazione con i committenti euro-atlantici apposta la scorsa settimana a Bruxelles- ora vola a Washington per assicurarsi l’indispensabile integrazione salariale.
Federico Roberti

Intervista all’IRIB

paese libero

Stamane abbiamo rilasciato una breve intervista alla redazione italiana dell’IRIB, la radio-televisione di Stato iraniana, che può essere ascoltata presso questo collegamento e scaricata qui.
Diffondete e condividete!

MILioni di euro?

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Sarà forse per dare credibilità alla “ferma richiesta di un pronto ristabilimento della legalità in Libia”, giunta da Palazzo Chigi dopo il sequestro-lampo del primo ministro Ali Zeidan, che il Capo di Stato Maggiore della Difesa (CaSMD), ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, nei giorni scorsi ha incontrato il suo omologo libico, il neonominato generale Abdulsalam Jadallah Alsalhin Alobaidi.
Durante l’incontro i due hanno in particolare trattato l’intesa tecnica per l’addestramento del personale militare libico, nel processo di ricostruzione delle proprie capacità operative, nel quadro di un “comune interesse per un Mediterraneo sicuro e stabile”.
Nel corso della visita, l’ammiraglio Binelli Mantelli ha pure voluto salutare i militari italiani impegnati in quella che, già chiamata Operazione Cyrene -lanciata nel 2011 allo scopo di supportare il Consiglio Nazionale di Transizione nella ricostruzione delle Forze armate e di sicurezza libiche- da oggi assume la denominazione di “Missione militare Italiana in Libia” (MIL).
Essa si inserisce nel quadro della cooperazione militare tra i due Paesi sancita col memorandum d’intesa firmato a Roma il 28 Maggio 2012, con lo scopo di organizzare, condurre e coordinare le attività addestrative, di assistenza e consulenza nel settore della Difesa.
A questo punto, resta solo da sapere quanti saranno i milioni di euro dei contribuenti italiani impiegati per il mantenimento del regime fantoccio libico e del caos che caratterizza il Paese da due anni, a partire dall’eliminazione di Muammar Gheddafi.
Ciò, probabilmente, sarà definito nella prossima “legge di stabilità”, deputata anche a ridare ossigeno alle varie “missioni di pace” il cui finanziamento è scaduto lo scorso 30 Settembre.
Federico Roberti

Le ragioni di François

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Di fronte alle bellicose dichiarazioni di sostegno a una eventuale azione militare contro la Siria, capitanata dagli Stati Uniti, che il presidente francese François Hollande ha rilasciato nelle ultime settimane, viene da chiedersi cosa abbia mai fatto quest’uomo per ridursi in tali pietose condizioni di sudditanza pur continuando a definirsi un “socialista”.
Forse, una spiegazione quantomeno parziale può essere trovata nella partecipazione, datata 1996, a un programma di “scambio culturale” denominato Young Leaders, il principale fra quelli promossi dalla French-American Foundation nel suo intento di approfondire la reciproca comprensione tra Francia e Stati Uniti.
Il programma Young Leaders è rivolto a piccoli gruppi di leader emergenti dei due Paesi, attentamente selezionati nel mondo della politica, degli affari, della comunicazione, delle forze armate, della cultura e del settore no-profit, ai quali viene concessa l’opportunità di trascorrere cinque giorni insieme discutendo argomenti di comune interesse e, cosa più importante, avendo modo di conoscersi l’un l’altro.
Il programma è stato creato nel 1981 a seguito della presa di coscienza che il rapporto di collaborazione tra le classi dirigenti francese e statunitense, così stretto nel periodo successivo all’ultima guerra mondiale, andava declinando in quanto i nuovi leader crescevano avendo poca interazione con i loro interlocutori transatlantici.
Fra gli Young Leaders, dalla parte americana, si annoverano l’ex Presidente Bill Clinton, l’ex Segretario di Stato Hillary Clinton, i senatori Evan Bayh e Bill Bradley, il generale Wesley Clark, l’ex Presidente della Banca Mondiale Robert Zoellick, importanti dirigenti d’azienda quali Frank Herringer di Transamerica Corporation e John Thain di CIT Group, il regista vincitore di premio Oscar Charles Ferguson.
Dalla parte francese, sono stati Young Leaders ben sei membri dell’attuale governo presieduto da François Hollande, ed egli medesimo come dicevamo nel 1996.
Ovviamente, si tratta solamente di un piccolo esempio della cura che “l’alleato d’oltreoceano” mette da sempre nell’influenzare, attraverso l’azione di fondazioni e ong varie create allo scopo, la formazione delle elite europee, in modo che alle posizioni decisionali pervengano uomini e donne di inconfutabile fedeltà atlantica.
Argomenti che abbiano già avuto modo di affrontare in altre occasioni, alle quali rimandiamo, in riferimento all’opera dell’ambasciatrice Clare Boothe Luce in Italia nei primi anni Cinquanta e all’istituzione, da parte della CIA, del Congress for Cultural Freedom, attivo in trentacinque Paesi, prevalentemente europei, tra il 1950 e 1967.
Federico Roberti

Operazione Rottamazione

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Come risolvere il problema logistico costituito dai veicoli e dagli altri equipaggiamenti militari accumulati, in dodici anni di presenza in Afghanistan?
Nel momento in cui gli Stati Uniti si preparano a ritirarsi dal Paese centroasiatico, invece di donare tale materiale alle forze armate afghane che dovrebbero mantenere la sicurezza dopo la partenza dei soldati a stelle e strisce, o magari venderlo ad altre nazioni, essi stanno deliberatamente distruggendo sofisticate strumentazioni per il valore di miliardi di dollari, in uno sforzo così massiccio da non avere precedenti.
In totale, verranno distrutti oltre 7 miliardi di dollari di equipaggiamenti, corrispondenti a circa il 20% di quanto gli Stati Uniti detengono in Afghanistan, in quanto sarebbe troppo costoso organizzarne il rientro in patria.
Allo stato attuale, sono già stati demoliti più di 77.000 tonnellate di equipaggiamenti militari.
Le alternative considerate, quella di lasciarli alle forze afghane o venderli a qualche Paese alleato, sarebbero state abbandonate nel primo caso a causa dell’inesperienza dei soldati locali che finirebbero per spararsi addosso a vicenda, nel secondo caso per il timore che il Paese acquirente non sia poi in grado di ritirarli da quella che ancora viene considerata una zona di guerra.
L’unica possibilità rimane quindi quella di rottamare tutti i materiali considerati in eccesso, e successivamente provare a venderli a peso sul mercato afghano dei rottami.
Ciò non riesce comunque a tacitare i maligni, i quali suggeriscono che piuttosto che alla fine di un lungo periodo di conflitti sul terreno, si sia di fronte all’inizio di nuovi costosi acquisti di armamenti a favore delle industrie del complesso militare americano.
Secondo una diversa interpretazione, la rottamazione di tutti questi equipaggiamenti destinati alle operazioni di terra -fra cui ben 2.000 degli 11.000 veicoli blindati antimine che il Pentagono ha acquistato a partire dal 2007- potrebbe giustificarsi con l’ulteriore sviluppo delle “guerre dei droni”, che già rivestono una grande importanza nella strategia bellica statunitense in terra di Afghanistan (e Pakistan).
Ad ogni modo, nonostante da lunghi anni Karzai e soci siano a libro paga USA, non si può che concludere che i loro padrini non hanno mai imparato a fidarsene completamente.
Tanto che, in questo delicato frangente, preferiscono dare il via libera a uno spreco di risorse così ingente piuttosto che lasciarle nelle mani dei presunti alleati.
Episodi come quello accaduto ieri, con un commando talebano che per diverse ore ha tenuto in scacco i Palazzi del potere a Kabul, faranno loro mutare idea?
Federico Roberti