Perché Lampedusa?


Di Agostino Spataro*

Il 9 aprile 2011 apparve su La Repubblica un mio articolo dal titolo “Perché i migranti sbarcano (quasi) tutti a Lampedusa?” (consultabile qui). Sono trascorsi 12 anni e all’interrogativo non è stata data una risposta appropriata. Nel frattempo, la situazione si è aggravata: i flussi sono divenuti più incessanti e copiosi, nel 2023 si potrebbe giungere a 100.000 immigrati quasi tutti sbarcati a Lampedusa. Perciò lo ripropongo, sperando che qualcuno dia una risposta convincente. A ben guardare le mappe del Mediterraneo, è facile accorgersi che l’approdo a Lampedusa non è il più indicato essendo il più lontano rispetto ai luoghi della partenza, in gran parte, concentrati nel sud-est della Tunisia. Queste mappe ci dicono che per coprire la distanza fra Sfax e Lampedusa un barcone deve navigare, in condizioni spesso proibitive (quanti morti su tale rotta!), per circa 300 km, mentre i migranti per arrivare a Porto Empedocle devono sottoporsi a una traversata di altri 256 km. In totale: Sfax – Porto Empedocle sono 556 km di mare. Se, invece, il barcone o il barchino partisse da Kelibia (Tunisia centrale) impiegherebbe 75 km fino a Pantelleria e 116 km da Pantelleria a Marsala. Totale del percorso 191 km di mare. Insomma, l’opzione per Lampedusa comporta per l’immigrato un surplus di sofferenza, un di più di percorso equivalente a 385 km di mare. Per altro c’è da notare che le due isole italiane sono più vicine alla Tunisia che all’Italia; infatti insistono oltre la linea divisoria della piattaforma continentale, concordata nel 1971 e ratificata nel 1981, fra i due Paesi. Ed ecco che la domanda ritorna: perché Lampedusa? Perché questa opzione rivelatasi illogica, pericolosa quanto inspiegabile? Personalmente non so darmi una risposta logica, convincente. Tranne che non esistano intese tacite fra trafficanti e “autorità invisibili” mirate a orientare il traffico di esseri umani su Lampedusa, per evitare Pantelleria che è sede di una importante realtà militare italiana e della NATO. Sarà questa la risposta all’interrogativo o c’è dell’altro? Come più volte proposto per mettere fine ai viaggi pericolosi e ai traffici immorali di esseri umani, auspico la stipula di seri accordi intergovernativi, bilaterali e multilaterali, sull’immigrazione in base ai quali i migranti, non più clandestini ma regolari, potrebbero giungere in Italia in poche ore, in aereo, con grande risparmio di vite umane e di denaro, evitando la terribile esperienza del viaggio nei deserti, il concentramento in luoghi inospitali, le sevizie dei guardiani e la pericolosa traversata del Mediterraneo. Per essere accolti nel migliore dei modi, secondo il principio di “uguali diritti, uguali doveri” che dovrebbe valere per tutti i lavoratori del mondo.

*Già parlamentare del P.C.I., membro delle Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera dei Deputati.

Forze ed operazioni militari USA in Africa – una rassegna

Di Benjamin Cote in esclusiva per SouthFront

L’importanza delle Forze Militari in Africa
Il 4 ottobre 2017, forze nigerine e Berretti Verdi americani sono stati attaccati da militanti islamici durante una missione di raccolta di intelligence lungo il confine con il Mali. Cinquanta combattenti di una affiliata africana dello Stato Islamico hanno attaccato con armi di piccolo calibro, armi montate su veicoli, granate lanciate con razzi e mortai. Dopo circa un’ora nello scontro a fuoco, le forze americane hanno fatto richiesta di assistenza. I jet Mirage francesi hanno fornito uno stretto supporto aereo e i militanti si sono disimpegnati. Gli elicotteri sono arrivati per riportare indietro le vittime per l’assistenza medica.
Quando la battaglia finì quattro Berretti Verdi sono risultati uccisi nei combattimenti e altri due furono feriti. I sergenti maggiori Bryan Black, Jeremiah Johnson, Dustin Wright e il più pubblicizzato di tutte le vittime il sergente La David Johnson sono stati uccisi in missione. Il presidente Trump si è impegnato in uno scontro politicizzato con la vedova di Johnson e la deputata della Florida Federica Wilson in merito alle parole da lui usate in una telefonata consolante.
La battaglia politica sui commenti del Presidente Trump ha avuto l’effetto non intenzionale di spostare l’attenzione della nazione sulle attività americane in Africa. In precedenza il pubblico americano, e buona parte dell’establishment politico, mostrava scarso interesse o conoscenza delle missioni condotte dai dipartimenti di Stato e della Difesa all’interno delle nazioni africane in via di sviluppo. Il 5 maggio, un Navy SEAL era stato ucciso vicino a Mogadiscio mentre assisteva le forze somale nel combattere al-Shabaab. Questa morte è arrivata un mese dopo che l’amministrazione Trump aveva revocato le restrizioni sulle operazioni di antiterrorismo nelle regioni della Somalia.
Certamente l’evento non ha registrato la stessa attenzione del mainstream come la polemica circa il sergente Johnson; tuttavia, tutto rivela come l’Africa stia lentamente diventando un’area di interesse nazionale cruciale per gli Stati Uniti. Le questioni concernenti le nazioni africane riguardanti le minacce terroristiche sia esterne sia interne, così come i loro problemi economici, servono a garantire che i responsabili politici degli Stati Uniti si concentrino sul continente. Iniziative globali come la Combined Joint Task Force for Operation Inherent Resolve coinvolgono diverse nazioni africane fondamentali per combattere l’ascesa dell’estremismo islamico radicale. L’ascesa di gruppi estremisti coesi insieme all’espansione degli investimenti economici nell’Africa post-coloniale ha comportato un aumento dei dispiegamenti militari stranieri e americani nella regione. Continua a leggere

Oltre il canale

La Sicilia, le basi straniere e le guerre nel mondo islamico

Quello che abbiamo temuto, e denunciato, è avvenuto: la Sicilia è stata trasformata in una formidabile piattaforma militare, convenzionale e nucleare, in mano straniere, al servizio di progetti avventuristici e di dominio verso il mondo arabo e il Mediterraneo che nulla hanno a che fare con gli interessi veri dei Siciliani, anzi li danneggiano seriamente.
Storicamente, verso questo “mondo” la Sicilia, i suoi regnanti più illuminati, hanno tenuto un comportamento ispirato ai buoni rapporti, alla pace. Con risultati importanti per il bene dell’Isola e dell’Europa. Oggi, ci hanno arruolato in guerre, in pericolosi atti d’ingerenza in contrasto con il diritto internazionale vigente ed estranei alla nostra tradizione di Isola amante della pace e della cooperazione con i popoli del Mediterraneo e del mondo arabo. Tradizione rinverdita negli 70-80 del secolo trascorso, durante i quali abbiamo realizzato grandiosi progetti di cooperazione con il mondo arabo fra i quali ricordo: il metanodotto transmediterraneo Algeria, Tunisia, Sicilia, Italia (se volete vi spiego perché ho citato la Sicilia come un po’ a se stante) a quello con la Libia di Gheddafi, entrambi approdati sulle coste sud dell’Isola.
A proposito del “transmed” ricordo che, a un certo punto, a causa di pretese eccessive da parte tunisina, il progetto del metanodotto fu annullato. In quel caso, l’Italia non dichiarò guerra alla Tunisia che rifiutava il passaggio del “pipeline” sul suo territorio; non aprì le ostilità ma aprì una lunga e proficua trattativa (alla quale mi onoro di aver dato una mano, con alcuni deputati siciliani*) che portò a un accordo soddisfacente.
Oggi, la Siria è sotto attacco anche perché rifiuta di far passare, a certe condizioni, sul suo territorio alcuni oleodotti sauditi e degli emirati del Golfo Persico.
Questione di civiltà! Noi facemmo la trattativa, questi qui fanno la guerra!
Tutto ciò, conferma come la Sicilia, l’Italia con questi popoli desiderano convivere, lavorare, cooperare per far rinascere, in forme nuove e possibili, lo spirito della “civiltà mediterranea” (dai Greci ai Romani, dai Fenici agli Arabi, agli Egizi, ecc) che, per secoli, ha illuminato, illumina la “civiltà occidentale”.
Tale, forzato coinvolgimento, infatti, non solo contrasta col sentimento pacifista dei Siciliani, ma stride con una certa tradizione storica della Sicilia che, fin dall’antichità, quasi mai ha visto di buon occhio le guerre espansionistiche dell’Occidente contro i territori dell’Oriente islamico e ha fatto di tutto per evitare di parteciparvi.
Celebre è rimasto il comportamento, esemplare per saggezza e lungimiranza, di Federico II, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero, il quale, inviato, suo malgrado, in Terra Santa (nel 1228) a capo della IX Crociata, “conquistò” Gerusalemme senza colpo ferire, sulla base di un accordo, lungamente e piacevolmente negoziato, con Malik al Kamil, sultano musulmano.
Addirittura, Qirtay Al-Izzi nel suo “Gotha” (manoscritto arabo del 1655) rileva che: “Quando l’imperatore, principe dei Franchi, aveva lasciato la Terra Santa e si era congedato da Al-Malik Al-Kamil ad Ascalona, i due monarchi si erano abbracciati promettendosi mutua amicizia, assistenza e fraternità”.
Prima di questo evento memorabile, accadde a Palermo un altro episodio di uguale valenza che vide protagonista un illustre avo del grande Federico, Ruggero I, il normanno, il quale riuscì a preservare la Sicilia dal coinvolgimento diretto nella prima Crociata, anche per non inimicarsi i vari regni del nord-Africa con i quali i Normanni intrattenevano ottime relazioni politiche ed economiche.
L’episodio è riportato nella cronaca musulmana della prima Crociata, dallo storico arabo Ibn Al-Athir che, nel suo “Kamil” (Edizione Torneberg), scrive, fra l’altro: “Nel 484/1091, i Franchi portarono a termine la conquista della Sicilia… Nel 490/1097, essi invasero la Siria ed eccone i motivi: il loro re Baldovino era imparentato con Ruggero il Franco (il normanno n.d.r.) che aveva conquistato la Sicilia, e gli mandò a dire che, avendo riunito un grande esercito, sarebbe venuto nel suo Paese e da là sarebbe poi passato in Africa (in Tunisia) per conquistarla…
Ruggero convocò i suoi fedeli e chiese loro consiglio in merito a questo problema…
“Per il Vangelo – risposero – ecco un’occasione eccellente per loro come per noi, l’Africa sarà terra cristiana…”
“Allora – annota lo storico arabo con disarmante naturalezza – Ruggero sollevò l’anca, fece un gran peto (sic!) e disse: Affè mia, questa è buona. Come? Se essi verranno dalle mie parti, andrò incontro a spese enormi per equipaggiare le navi…”
Quindi convocò l’ambasciatore di Baldovino per notificargli la sua contrarietà acché l’esercito crociato attraversasse la Sicilia per raggiungere l’Africa e gli disse le testuali parole: “Per quanto concerne l’Africa, tra me ed i suoi abitanti ci sono impegni di fiducia e trattati.”
Oggi, purtroppo non c’è un nuovo Ruggero!
Agostino Spataro

*Su tale trattativa esistono ampi resoconti di stampa, documenti parlamentari e politici.

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I miliziani di Misurata che l’Italia va a curare sono criminali di guerra

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Libia. L’operazione italiana Ippocrate aprirà un ospedale militare per curare i feriti delle Brigate di Misurata, responsabili di abusi e violenze fin dal 2011

Chissà cosa pensano dell’«operazione Ippocrate» i libici di Tawergha. Cinque anni fa, i 40mila cittadini di pelle nera che popolavano questa città furono oggetto di pulizia etnica: parecchi uccisi e imprigionati, tutti gli altri deportati in massa proprio dalle milizie dichiaratamente razziste di Misurata che l’Italia va a soccorrere. In effetti dei molti gruppi armati libici ai quali l’operazione NATO «Unified Protector» nel 2011 fece da forza aerea, le Misrata Brigates – decine di migliaia di combattenti, già parte essenziale della compagine islamista Fajhr sostenuta dal Qatar – sono forse il peggio. Altro che gli «eroi in ciabatte», prima protagonisti della «rivoluzione» libica nel 2011, poi della «lotta contro DAESH a Sirte» nel 2016.
Dall’agosto 2011 Tawergha, in fondo un simbolo della «nuova Libia», è una città fantasma e semidistrutta. Gli abitanti fuggirono in massa mentre i «ribelli» vittoriosi uccidevano molti di loro, ne imprigionavano altri – accusandoli di stupri senza prove e chiamandoli mercenari – e davano fuoco alle case, con il pubblico consenso dell’appena insediato primo ministro libico Mahmoud Jibril, capo del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT). I fuggiaschi si rifugiarono nel sud della Libia e in campi profughi sparsi in diverse città oppure si spostarono in Tunisia ed Egitto. Da allora hanno condotto una vita grama.
Il 31 agosto scorso il rappresentante dell’ONU per la Libia Martin Kobler ha propiziato a Tunisi un accordo di riconciliazione fra Misurata e Tawergha che prevede fra l’altro il ritorno in condizioni di sicurezza degli sfollati, il ripristino a cura del governo libico di un minimo di servizi sociali – compresa la rimozione delle mine-, risarcimenti per gli uccisi e le proprietà danneggiate.
Non sarà facile rendere operativo ed equo un patto che risulta leonino fin dall’esordio: richiama infatti la dichiarazione del 23 febbraio 2012 con la quale «i leader delle tribù di Tawergha porgevano le scuse a Misurata per qualunque azione compiuta da qualunque residente di Tawergha». Nessuna scusa, invece, da parte degli autori della pulizia etnica.
Nel mirino dei misuratini, autori anche della cacciata di molte famiglie dall’area di Tamina, sono finiti poi un numero importante di cittadini non libici, africani subsahariani linciati o imprigionati senza processo né prove. La caccia al nero non è storia solo del 2011. L’inviato del New Statesman pochi mesi fa si è sentito rispondere dal guardiano dell’obitorio di Misurata che i corpi nella stanza erano di africani uccisi, magari per un telefonino.
Gli armati di Misurata hanno compiuto stragi di civili e attacchi indiscriminati anche durante l’assedio, nel 2012, alla città di Bani Walid accusata di ospitare sostenitori del passato regime. E al tempo dell’assedio di Sirte, con Misurata sempre in prima linea, fu impedito l’accesso alla Croce Rossa nella città. Nell’agosto 2014 fioccarono invano altre accuse di crimini: le milizie Fajr guidate da Misurata, nel prendere il controllo di Tripoli e delle aree circostanti avevano costretto alla fuga migliaia di civili distruggendone le proprietà.
Impunità assoluta per i «ribelli» di Misurata anche rispetto ai crimini compiuti nelle loro carceri autogestite, con maltrattamenti e torture all’ordine del giorno e nessuna garanzia di equo processo a carico di detenuti qualificabili come politici. E mentre l’UE chiudeva gli occhi per anni al traffico di armi verso le coalizioni jihadiste di Fajhr Libia, la città di Misurata rimane un hot spot, con ovvie complicità, in un altro traffico: quello di esseri umani.
Marinella Correggia

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Lettera aperta ai ciarlatani della rivoluzione siriana

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Nel momento preciso in cui un dirigente storico della resistenza araba libanese, in Siria, è appena spirato sotto i colpi dell’esercito sionista [qui l’autore si riferisce alla morte di Mustafa Badreddine, avvenuta per mano delle milizie antigovernative, inizialmente attribuita ad una incursione aerea israeliana – ndr], indirizzo questa lettera aperta agli intellettuali e militanti di “sinistra” che hanno preso partito per la ribellione siriana e credono allo stesso tempo di difendere la causa palestinese, mentre sognano tutti presi la caduta di Damasco.
Ci dicevate nella primavera del 2011, che le rivoluzioni arabe rappresentavano una speranza senza precedenti per popoli che subivano il giogo di despoti sanguinari. In un eccesso di ottimismo, noi vi abbiamo ascoltato, sensibili ai vostri argomenti su questa democrazia che nasceva miracolosamente e a tutti i vostri proclami sui diritti umani. Siete riusciti quasi a persuaderci che questa protesta popolare che si è portata via i dittatori di Tunisia ed Egitto avrebbe spazzato via la tirannia ovunque e in ogni altra parte del mondo arabo, sia in Libia che in Siria, nello Yemen come nel Bahrain, e chi sa dove altro ancora.
Ma questo bello svolazzo lirico ha lasciato apparire rapidamente qualche falla. La prima, tanto grande da rimanere a bocca aperta, è apparsa riguardo la Libia. Quando, adottata dal Consiglio di Sicurezza per soccorrere le popolazioni civili minacciate, una risoluzione ONU si trasformò in un assegno in bianco per la destituzione manu militari di un capo di Stato divenuto ingombrante per i suoi partner occidentali. Degna dei peggiori momenti dell’era neo-conservatrice, questa operazione di “regime change” compiuta per conto degli USA da due potenze europee con mire di affermazione neo-imperiale è sfociata in un disastro di cui la sfortunata Libia continua oggi a pagare il caro prezzo. Infatti il collasso di questo giovane Stato unitario portò il Paese alla mercé delle ambizioni sfrenate delle sue tribù, sapientemente incoraggiate alle ostilità dalle bramosie petroliere dei carognoni occidentali.
C’erano anche anime belle comunque, tra di voi, tanto per accordare delle circostanze attenuanti a questa operazione, così come ce n’erano, inoltre, in primo piano per esigere che un trattamento analogo fosse inflitto al regime di Damasco. Questo perché il vento della rivolta che soffiava allora in Siria sembrava convalidare la vostra interpretazione degli eventi e sembrava dare una giustificazione a posteriori al bellicismo umanitario già scatenato contro il potentato di Tripoli. Eppure, lontano dai media di “mainstream”, alcuni analisti ci fecero osservare che il popolo siriano era lontano dall’essere unanime nella protesta e che le manifestazioni anti-governative avevano luogo soprattutto in alcune città, bastioni tradizionali dell’opposizione islamista, e che quel febbricitante ambito sociale, composto dalle classi impoverite dalla crisi, non avrebbe mai portato masse di persone alla causa per contribuire alla caduta del governo siriano.
Questi ammonimenti nostri sull’utilizzare il buon senso nella comprensione, voi li avete ignorati, così come i fatti che non corrispondevano alla vostra narrazione, voi li avete filtrati come vi è sembrato meglio. Li dove degli osservatori imparziali vedevano una divisione in poli della società siriana, voi avete voluto vedere un tiranno sanguinario che assassinava il suo popolo. Li dove uno sguardo spassionato permetteva di discernere le debolezze, ma anche i punti di forza dello Stato siriano, voi avete abusato di una retorica moralizzante per istruire a carico di un governo, che era molto distante dall’essere l’unico responsabile delle violenze, un processo sommario.
Voi avete visto le numerose manifestazioni contro Bashar Al Assad, ma non avete mai guardato i giganteschi raduni di sostegno al governo e alle riforme, che riempirono le vie di Damasco, di Aleppo e Tartous. Voi avete stilato la contabilità macabra delle vittime del governo, ma avete dimenticato quella delle vittime dell’opposizione armata. Ai vostri occhi c’erano vittime buone e vittime cattive, alcune che si meritavano di essere menzionate ed altre di cui non si vuole sentire neanche parlare. Deliberatamente voi avete visto le prime, bendandovi gli occhi per rendervi ciechi di fronte alle seconde.
E allo stesso tempo, questo governo francese, del quale criticate volentieri la politica interna per mantenere l’illusione della vostra indipendenza intellettuale, vi ha dato ragione su tutta la linea. Curiosamente, la narrazione del dramma siriano che era la vostra, coincideva con la politica estera del signor Laurent Fabius, un capolavoro di servilismo che mescolava l’appoggio incondizionato alla guerra israeliana contro i Palestinesi, l’allineamento pavloviano con la leadership americana e la solita minestra riscaldata di ostilità nei confronti della resistenza araba. Ma il vostro apparente matrimonio con la Quai d’Orsay non è mai sembrato darvi troppo fastidio. Voi difendevate i Palestinesi nel cortile mentre cenavate con i loro assassini in giardino. Vi capitava anche di accompagnare i dirigenti francesi in visita di Stato a Israele. Eccovi quindi intruppati e complici, assistere allo spettacolo di un presidente che dichiara pubblicamente che a lui “piaceranno sempre i dirigenti israeliani”. Ma ci voleva molto di più per scandalizzarvi e quindi vi siete imbarcati una nuova volta con il Presidente, come tutti d’altronde.
Avete a giusto titolo condannato l’intervento militare americano in Iraq nel 2003. La virtù rigenerante dei bombardamenti per la democrazia non vi scalfiva, e dubitavate delle virtù pedagogiche delle operazioni belliche chirurgiche. Ma la vostra indignazione nei confronti di questa politica della cannoniera in versione “high tech” si dimostrò stranamente selettiva. Poiché reclamavate a tutti i costi contro Damasco, nel 2013, ciò che giudicavate intollerabile dieci anni prima contro Baghdad.
Un solo decennio è bastato per rendervi così malleabili, tanto da vedere ormai la salvezza del popolo siriano in una pioggia incrociata di missili su questo Paese che non vi ha fatto nulla di male. Rinnegando le vostre convinzioni anti-imperialiste, voi avete sposato con entusiasmo l’agenda di Washington. Mentre senza vergogna non soltanto applaudivate in anticipo i B 52, ma riprendevate la propaganda più becera e grottesca degli Stati Uniti, da cui il precedente iracheno e le sue menzogne memorabili dell’era Bush avrebbero dovuto immunizzarvi.
Mentre inondavate la stampa esagonale delle vostre assurdità, fu proprio un giornalista americano d’investigazione d’eccezione, che sbriciolò la patetica “false flag” destinata a rendere Bashar Al Assad il responsabile di un attacco chimico di cui nessun organismo internazionale l’ha accusato, ma che gli esperti del Massachusetts Institute of Technology e l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, tuttavia, hanno attribuito alla parte avversa. Ignorando i fatti, travestendovi da qualcos’altro alla bisogna, voi avete recitato in questa occasione la vostra parte miserabile in questo melodramma cacofonico di menzogne. E quello che è ancora peggio, è che continuate a farlo. Anche quando lo stesso Obama lascia intendere che lui stesso non ci ha creduto, voi vi ostinate a reiterare queste stupidaggini, come dei cani da guardia che continuano ad abbaiare anche dopo il dileguarsi dell’intruso. E per quale motivo? Per giustificare il bombardamento, da parte del vostro governo, di un piccolo Stato sovrano, il cui torto maggiore è il suo rifiutare di sottostare all’ordine imperiale. E per cosa? Per venire in aiuto di una ribellione siriana di cui voi avete sapientemente mascherato il vero volto, accreditando il mito di un’opposizione democratica e laica che esiste soltanto nelle halls dei Grand Hotel di Doha, di Parigi o di Ankara.
Questa “rivoluzione siriana”, l’avete dunque esaltata, ma avete pudicamente voltato lo sguardo altrove quando si trattava invece di notare le sue pratiche mafiose, la sua ideologia settaria e i suoi finanziamenti dubbi e carichi di problematiche da porsi. Voi avete accuratamente occultato l’odio interconfessionale che la ispira, questa avversione morbida per gli altri credo direttamente ispirata al wahhabismo che ne è il pilastro ideologico. Voi sapevate bene che il regime baathista, in quanto laico e non settario in senso confessionale, costituiva un’assicurazione a vita per le minoranze religiose, ma non ve ne siete dati pena, arrivando addirittura a classificare come “cretini”, coloro che prendevano la difesa dei cristiani perseguitati. Ma non è tutto purtroppo. Arrivati alla resa dei conti, vi resterà appiccicata addosso anche questa ultima ignominia: voi avete fatto da garanti alla politica di un Laurent Fabius per il quale Al Nusra, ramo siriano di Al Qaida, “ fa un buon lavoro in Siria”. E chi se ne frega! Tanto peggio per i passanti sbrindellati nelle vie di Homs o per gli alauiti di Zahra assassinati dai ribelli, tanto, per i vostri occhi questi sono le ultime ruote del carro.
Tra il 2011 e il 2016 le maschere sono cadute. Fate appello al diritto internazionale mentre applaudite alla violazione dello stesso contro uno Stato sovrano. Pretendete di promuovere la democrazia per i Siriani diventando gli araldi del terrorismo che subiscono. Dite di difendere i Palestinesi, ma siete dalla stessa parte della barricata di Israele. Allora state tranquilli, perché quando un missile israeliano si abbatte sulla Siria non sarà mai che colpirà i vostri beniamini. Perché grazie a Israele e alla CIA, ma anche grazie a voi miei cari, questi coraggiosi ribelli continueranno a predisporre il futuro radioso della Siria sotto l’egida del takfirismo. Perché quel missile sionista, che si abbatterà sulla Siria, ucciderà sicuramente e solo uno dei leader di questa resistenza araba di cui cianciate, ma che voi avete tradito.
Bruno Guigue

Fonte

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Il coinvolgimento degli Stati Uniti nella “primavera araba”

arabesque$“Gli imponenti rivolgimenti che i benpensanti occidentali hanno precipitosamente ed erroneamente battezzato “primavera” hanno provocato solo caos, morte, odio, esilio e desolazione in molti Paesi arabi. Bisognerebbe forse chiedere ai cittadini dei Paesi arabi “primaverizzati” se la disastrosa situazione in cui si trovano attualmente possa definirsi primavera.
In proposito, i numeri sono eloquenti. Uno studio recente ha dimostrato che questa funesta stagione ha provocato, in soli cinque anni, più di 1,4 milioni di vittime (morti e feriti), cui occorre aggiungere più di 14 milioni di rifugiati. La “primavera” è costata ai Paesi arabi più di 833 miliardi di dollari, di cui 461 in perdite di infrastrutture distrutte e siti storici devastati. D’altra parte la regione MENA (Middle East and North Africa – Medio Oriente e Africa del Nord) ha perso più di 103 milioni di turisti, una vera calamità per l’economia.
Nella prima edizione del mio libro “Arabesque américaine” (aprile 2011), ho denunciato l’ingerenza straniera in queste rivolte, e anche il carattere non spontaneo di questi movimenti. Certamente, prima di questi avvenimenti, i Paesi arabi erano in una vera situazione di decrepitezza: assenza di alternanza politica, forte disoccupazione, democrazia embrionaria, bassi livelli di vita, diritti fondamentali violati, assenza di libertà di espressione, corruzione a tutti i livelli, favoritismi, fuga dei cervelli, ecc. Tutto ciò rappresenta un “terreno fertile” per la destabilizzazione. Nonostante, però, l’assoluta fondatezza delle rivendicazioni della piazza araba, ricerche approfondite hanno dimostrato che i giovani manifestanti e i cyber-attivisti arabi erano stati formati e finanziati da organizzazioni statunitensi specializzate nella “esportazione” della democrazia, come USAID, NED, Freedom House o l’Open Society del miliardario George Soros. E tutto ciò, già molti anni prima che Mohamed Bouazizi si immolasse col fuoco.
(…)
E’ evidente che questa “primavera” non ha niente a che vedere con gli slogan coraggiosamente scanditi dai giovani cyber-attivisti nella piazze arabe e che la democrazia è solo uno specchio per le allodole. Infatti, come ci si può non porre delle serie domande su questa “primavera”, quando si veda che gli unici Paesi arabi che hanno subito questa stagione sono delle repubbliche? E’ un caso che nessuna monarchia araba sia stata toccata da questo tsunami “primaverile”, come se questi Paesi fossero dei santuari della democrazia, della libertà e dei diritti dell’uomo? L’unico tentativo di sollevazione anti-monarchica, quello del Bahrein, è stato represso con violenza, con la collaborazione militare del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), il silenzio complice dei media mainstream e la connivenza dei politici, al contrario tanto loquaci quando simili vicende hanno riguardato repubbliche arabe.
Questa “primavera” ha di mira la destabilizzazione di alcuni Paesi arabi ben individuati in un quadro geopolitico ben più vasto, certamente quello del “Grande Medio Oriente”. Questa dottrina prevede il rimodellamento delle frontiere di una regione geografica che ospita Paesi arabi ed altri Paesi vicini, cancellando quelle ereditate dagli accordi di Sykes-Picot. Benché lanciato sotto la guida del presidente G. W. Bush e dei suoi falchi neoconservatori, questa teoria si ispira ad un progetto del 1982 di Odeon Yinon, un alto funzionario del ministero degli affari esteri israeliano. Il “Piano Yinon”, come lo si chiama, aveva in origine come obiettivo la “dissoluzione di tutti gli Stati arabi esistenti e il rimodellamento della regione in piccole entità fragili, più malleabili e non in grado di scontrarsi con gli Israeliani”.
E lo smembramento purtroppo è in corso.”

Da La fregatura delle “primavere arabe”, intervista di Nordine Azzouz a Ahmed Bensaada.

(I collegamenti inseriti sono nostri – ndc)

Intervista a una donna libica

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A cura di Leonor Massanet Arbona.

Marian Al Fatah (56 anni) è nata e cresciuta nella capitale libica. Appartiene alla tribù Warfalla e Gadafa. Quando avvenne l’invasione della Libia, lavorava in Europa, dove attualmente vive. Alcuni membri della sua famiglia sono morti difendendo le loro città e le loro case dai gruppi armati.

Leonor: Potrebbe farci un veloce riassunto della situazione attuale nel suo Paese, la Libia?
Al Fatah: In questi momenti a Tripoli, la situazione va dal caos alla disintegrazione del Paese. Se non si arriva rapidamente a un accordo, la Libia scomparirà. Parlo di Tripoli, che è ciò che conosco.

Leonor: In che modo pensa abbia influito e stia influendo il cambiamento della Russia per neutralizzare il cosiddetto ISIS, in Libia?
Al Fatah: Fino ad ora a quanto pare non ha avuto influenza. La maggior parte dell’ISIS sta fuggendo dalla Siria e molti si rifugiano in Libia. La Russia sta facendo qualcosa di molto buono.

Leonor: Come è stato il tentativo delle Nazioni Unite attraverso B. León di imporre un governo dei cosiddetti Fratelli Musulmani in Libia?
Al Fatah: Io lo chiamo “Re Leone”, sostiene i Fratelli Musulmani. Pretende, non capisce, e mai capirà che noi Libici siamo molto testardi e possiamo aspettare il tempo necessario per raggiungere ciò che pensiamo sia giusto.
Se vuole convincere noi libici a fare quello che vuole lui può aspettare seduto.
B. León, Ban Ki Noon, UE, ecc… ci dicono che, se non formiamo il governo che vogliono loro, ci sanzioneranno. La mia risposta è: ma se abbiamo sanzioni dal 2011, embargo da tanti anni, quali altre sanzioni possono imporci? Noi Libici siamo testardi.
Adesso le Nazioni Unite cambieranno il Re Leone con un tedesco [Martin Kobler – ndr].

Leonor: Come sono, in questo momento, le relazioni con i vostri vicini, Tunisia ed Egitto?
Al Fatah: Normali, entrambi cercano di proteggersi dai terroristi che sono in Libia ed entrambi cercano di aiutarci. Hanno catturato molti terroristi e ci aiutano alle frontiere.

Leonor: Qual è il ruolo attuale delle tribù libiche nella ripresa del Paese?.
Al Fatah: Da quanto so sulla tribù Warfalla alla quale appartengo, è quella che più si sta impegnando per il Paese, ma in realtà non ne so abbastanza. Conosco soprattutto quello che fa la mia tribù. Ѐ la tribù più grande della Libia.

Leonor: In che modo pensa che stia aiutando il Movimento Nazionale Popolare Libico?
Al Fatah: Ognuno mette il suo mattone nella costruzione. Tutte [le tribù] lavorano per la pace della Libia. Ѐ molto difficile per i Libici “perdonare” e per questo molte famiglie stanno passando momenti molto difficili. Sappiamo che perdonare e andare avanti è l’unico modo. Lo so ancor di più perché mia madre ha vissuto una guerra civile e quindi capisco quanto sia difficile il perdono, nella sua famiglia c’è ancora odio dopo 30 anni.

Leonor: Che pensa di Fatima Alhamroush?
Al Fatah: Non la conosco…

Leonor: Ha partecipato al governo di transizione creato dal Consiglio Nazionale di Transizione nel 2011.
Al Fatah: …(annuisce con la testa e sorride) Fatima fu portata in Libia da un parente e dall’M16. Col denaro che ha speso nel suo ministero nei primi due anni avrebbero potuto costruire il miglior ospedale del mondo ed i Libici non sarebbero dovuti andare fuori per curarsi.
Ѐ una straniera che non amava la Libia. Ha la doppia cittadinanza ed è illegale che una persona con doppia cittadinanza abbia un incarico nel governo libico.
Se fosse stata libica la sua priorità come ministro della salute avrebbe dovuto essere quella di costruire e riparare gli ospedali affinché la sua gente non morisse.
Il Metropolitan Hospital di Atene nel 2011 era in bancarotta ed ora è uno dei migliori della Grecia perché la gente di Misurata (Alba Libica) era trasferita con aerei privati in questo ospedale.
Tutto ciò che dice questa donna è pura menzogna.
Dal 2011 la maggior parte dei Libici sono stati obbligati ad andare fuori dal Paese per avere cure mediche. Lei non ha fatto niente per risolvere questa situazione.
Questa donna ha totalmente rovinato il Ministero libico della Sanità. La Libia aveva il migliore ospedale di medicina estetica e ricostruttiva nel 2010 e aveva ottimi chirurghi. Fu lei o la gente che aveva intorno a rovinare la sanità libica e i soldi li hanno portati all’estero.
Era gente che non amava il suo Paese.
Prima della guerra le strade di Tripoli non erano buone e io mi lamentavo sempre, dicevo che il sindaco di Tripoli era corrotto, noi libici ci lamentavamo delle cose che non funzionavano, ma non davamo a Gheddafi la colpa di tutto ciò che accadeva. Dal 2011 tutti sono corrotti.
I figli del generale Hafter hanno rapinato le banche di Tripoli nel 2013.
BilHuj fu catturato all’aeroporto di Tripoli con una valigetta con un miliardo, inviato da Jalil in Siria per formare l’“opposizione”.
Se Fatima fosse stata onesta, avrebbe potuto ad esempio dimettersi, visto quanto stava accadendo.
Questa donna è stata portata in Libia dall’M16 e hanno cercato gente in tutto il mondo che stesse dalla loro parte. Come può aiutare un Paese che non conosce, dal momento che sono 20 anni che vive all’estero? Non ha nessuna idea di come la gente pensa.
Il Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) era formato da CIA, M16, Mossad… , e questa gente l’hanno portata da fuori.
Durante il governo di Gheddafi, in 43 anni, ci sono stati 200.000 esuli libici, ma ora sono più di 3.000.000.
Dal 1969 al 1978 Gheddafi non cambiò niente in Libia
Nel 1979 la mia famiglia aveva una catena di librerie, gioiellerie, giocattoli, vestiti e… , abbiamo guadagnato un sacco di soldi; poi, il governo libico decise di nazionalizzare tutto. Così molti libici lasciarono il Paese, soprattutto le famiglie ricche.
Nel 1980 potremmo dire che ci furono agitazioni in Libia. Quando tutto fu risolto, ci si rese conto che socializzare era stato un errore, così si tornò a privatizzare tutto e a risarcire tutti. La mia famiglia ha ricevuto il giusto indennizzo per quello che aveva perduto.
Durante l’embargo non c’erano problemi nel Paese, e i conflitti che si verificavano erano delegati alle tribù.
Dopo l’embargo la Libia ha avuto una crescita esplosiva. Ogni giorno c’erano cose nuove, le leggi cambiavano sempre per il meglio.
Una persona vissuta all’estero così a lungo, anche se parla arabo, non capisce la cultura, lo stile di vita, pretende di imporre in poco tempo i costumi stranieri e guarda i Libici come “arretrati”.
Gheddafi ha detto che non gli piaceva che le donne libiche si coprissero troppo e così molte donne si scoprirono, però altre si fanatizzarono.
Prima, solo le anziane si coprivano il volto, però dopo le parole di Gheddafi alcune donne hanno cominciato a coprirsi.
Noi Libici non ci rendevamo conto che poco a poco gli imam andavano cambiando ed erano Fratelli Musulmani. Immaginate quello che questa gente andava facendo piano piano e senza che nessuno se ne accorgesse.
Le preghiere in Libia non erano così rigide, cinque volte al giorno, ma dopo i cambiamenti dei Fratelli Musulmani stavano diventando più rigide.
Fatima è stata così a lungo fuori dalla Libia che non può essere un riferimento in Libia, con i Libici.
Io sono nata in Libia, ci sono vissuta fino all’età di quattro anni, sono vissuta all’estero per anni e tornavo in Libia per le vacanze. Poi sono ritornata a vivere in Libia alcuni anni fino a che sono dovuta partire nel 1980 per lavorare fino al 1997. Sono stata fuori per anni per cui a quell’epoca non potevo disporre di informazioni tanto vicine come i miei genitori o i miei zii. Ho iniziato ad essere vicina al mio Paese a partire dal 1997.
Fatima ha un passaporto irlandese: tutti quelli del CNT avevano doppia nazionalità sebbene in Libia la doppia nazionalità fosse proibita fino al 2003.
Nel 2003 la doppia nazionalità è stata permessa perché c’erano molti matrimoni misti e i bambini avevano il passaporto di tutti e due i Paesi.
La maggior parte dei “ratti” sono corrotti fino al midollo, e nemmeno uno di loro ha fatto il bene della Libia e dei libici. Per esempio Jalil ora ha una villa in Egitto e un appartamento in Turchia.
Jibril ha miliardi all’estero.
Bilhuj è oggi uno dei libici più ricchi del Paese.
Trovatemi uno solo di quei ratti che pensi a qualcosa di diverso da se stesso.
Bilhuj è vissuto tutta la sua vita fuori dal Paese, non è libico e c’è qualcosa che l’Occidente non capisce, ed è che gli arabi vogliono un’altra forma di governo. Noi abbiamo il capotribù che tutti rispettiamo e non lo abbiamo eletto. Non ci interessa la parola “democrazia” e durante gli ultimi 43 anni Gheddafi ha fatto il meglio per il suo Paese. Ha fatto degli errori, ma li ha corretti e la gente lo ama.
Fatima Alhamroush non sarebbe mai dovuta tornare in Libia, ma l’M16 voleva avere al suo fianco gente come lei.

Fonte – traduzione di M. Guidoni

Arabesque$

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“In politica, nulla accade per caso”, disse Franklin Roosevelt, il presidente degli Stati Uniti. Eppure, i media hanno presentato le rivolte arabe come movimenti del tutto spontanei. Sì, i popoli arabi avevano tutte le ragioni per essere arrabbiati. Ma il ricercatore Ahmed Bensaada oggi rivela il coinvolgimento del governo statunitense che ha lavorato nell’ombra affinché il cambiamento politico fosse a vantaggio degli Stati Uniti.
Attingendo a molte fonti e con un’attenta analisi dei cablogrammi di Wikileaks, Bensaada dimostra che, in ogni Paese, gli attivisti promettenti sono stati discretamente finanziati e inquadrati dalle agenzie statunitensi di “esportazione” della democrazia, e agevolati dai giganti della Rete Facebook, Google, YouTube e Twitter.
Come nelle rivoluzioni colorate in Europa orientale e nel Caucaso, questi attivisti sono stati formati sulla base delle teorie del politologo Gene Sharp, e ben prima che gli eventi si manifestassero.

Arabesque$.
Enquête sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes

di Ahmed Bensaada
con una prefazione di Michel Collon
Investig’Action, pp. 280, € 15

Per acquisti: michelcollon.info

Il frutto avvelenato della “rivoluzione dei gelsomini”

tunisia

Nonostante le ripetute smentite delle autorità locali e dell’ambasciata a stelle e strisce, sono sempre più numerose le fonti che riferiscono circa la decisione del governo islamista di Ennahda al potere in Tunisia di consentire ad AFRICOM, il comando delle forze armate USA per l’Africa, di insediare la sua prima base militare nel Maghreb, dopo che i precedenti tentativi statunitensi di insediarsi nella regione si erano scontrati con i rifiuti di Ben Ali, Gheddafi, Bouteflika e Mubarak.
Il sito scelto sarebbe Remada, località nel sud del Paese a pochi chilometri dal confine con la Libia “liberata”.
Il pretesto quello solito della lotta al terrorismo e al connesso traffico di armi.

Alla conquista della Libia

libia

Giunge di buon mattino, all’inizio della settimana di Ferragosto, la notizia che Salini Impregilo, leader con una quota del 58% di un consorzio di imprese italiane che comprende anche La Società Italiana per Condotte d’Acqua, Impresa Pizzarotti & C. e Cooperativa Muratori & Cementisti (CMC), realizzerà il primo lotto della nuova autostrada costiera libica per un valore complessivo di circa 963 milioni, interamente a carico del governo italiano.
La nuova autostrada attraverserà il territorio della Libia per 1.700 chilometri dal confine con la Tunisia al confine con l’Egitto e la sua realizzazione è parte integrante degli accordi sottoscritti tra il governo Italiano e il governo della Libia, a Bengasi, con la firma del trattato di Amicizia e Cooperazione il 30 Agosto 2008.
Giova ricordare, allora, che trattasi di quegli accordi stipulati col “feroce dittatore” Muammar Gheddafi dall’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il quale nella primavera del 2011 non si fece scrupolo di ridurli a carta straccia -nonostante le iniziali rassicurazioni- per agevolare i piani USA/NATO di disintegrazione della Libia, concedendo agli “alleati” statunitensi, e non solo, l’uso delle basi militari sul suolo italiano quale punto di partenza delle incursioni aeree contro il Paese africano.
A distanza di oltre due anni da quei fatti, ora quegli accordi tornano di attualità per giustificare l’approdo in terra libica di alcuni pezzi da novanta dell’industria nazionale delle costruzioni.
Ma non è certo un caso che ad accompagnare l’immarcescibile Impregilo (già controllata dal gruppo Fiat, ora da Salini), siano la Pizzarotti di Parma e la CMC di Ravenna.
Due fra le principali aziende fiduciarie del dispositivo militare atlantico, per quanto riguarda le opere di manutenzione di strutture esistenti e costruzione di nuove, come si può ben leggere negli articoli linkati.
Alla fine, tutto torna.
Federico Roberti

Gratta la “Primavera araba”

Stavolta ci sarebbero le prove. Documenti ufficiali, raccolti nel libro “Rivoluzioni S.p.A.” del giornalista Alfredo Macchi (in uscita mercoledì [28 Marzo – ndr] per Alpine Studio Editore e in anteprima su Dagospia), dimostrerebbero per la prima volta come, dietro alle rivolte che hanno caratterizzato la cosiddetta “Primavera Araba”, ci sia lo zampino degli Stati Uniti, interessati a rovesciare i regimi ostili al libero mercato per imporre la propria influenza economica e mantenere il controllo su una zona ricca di risorse energetiche.
Un ruolo fondamentale sarebbe stato giocato dall’Alliance of Youth Movements, organizzazione creata nel 2008, circa due anni prima della vera e propria esplosione della Primavera Araba, dal Dipartimento di Stato di Washington e sponsorizzata dalle maggiori aziende americane.
A quella che da lì a pochi mesi sarebbe diventata la “Movements.org”, partecipano diversi gruppi di giovani attivisti provenienti da tutto il mondo (fra gli altri: Colombia, ex Birmania, Venezuela), compresi quelli del “Movimento 6 Aprile”, protagonista della rivolta in Egitto. Movements.org, che si prefigge di “aiutare gli attivisti per ottenere un più rilevante impatto sulla scena mondiale”, tramite il suo sito internet offre suggerimenti su come aggirare la censura informatica dei regimi, organizza incontri con esperti di software e corsi per usare al meglio i social network. Apparentemente, tutto questo in nome della democrazia e della libertà di pensiero.
Nella pratica, gli americani hanno capito quale potente strumento possa essere la comunicazione 2.0, e quindi in primis i social network come Twitter, Facebook e YouTube. Strumenti in grado di mobilitare i giovani e, se necessario, di rovesciare un regime. Proprio quello che serviva agli Stati Uniti nel caso della Tunisia, dell’Egitto, della Libia, dello Yemen, della Siria. Come scrive Macchi, sulla base delle analisi dei centri di ricerca strategica della Casa Bianca, “sacrificare vecchi amici come Ben Alì, Mubarak, Saleh e tradizionali nemici, come Gheddafi e Assad, in nome del libero mercato, è una scelta obbligata per Washington.
Un cambio di rotta, per gli Stati Uniti, nei confronti dei loro tradizionali alleati, non privo di rischi, ma che doveva essere affrontato prima che lo facessero frange estremiste più ostili”.
Nelle rivolte nei vari paesi, diversi attivisti dell’opposizione sarebbero stati addestrati negli Stati Uniti e in una scuola di Belgrado in particolare alla disobbedienza civile e alle tattiche di azione non violenta, molto simili alle tecniche di guerriglia non armata studiate dalla CIA.
Nei giorni delle proteste vennero diffusi, da Anonymous e da altre ignote fonti, alcuni manuali che spiegavano nel dettaglio ai manifestanti come organizzarsi, cosa indossare, cosa scrivere sui muri, quali bandiere portare. Parallelamente alcuni sceicchi arabi hanno finanziato movimenti e loro uomini tra gli insorti. Nei più difficili scenari sarebbero stati inviati sul posto alcuni esperti combattenti per affiancare i ribelli. Macchi racconta di personaggi che hanno combattuto con i ribelli in Libia ricomparsi dopo alcuni mesi in Siria.
Gli Stati Uniti starebbero in pratica sostenendo i moti di rivolta in alcuni paesi del Medio Oriente per evitare che l’area d’influenza cada nelle mani sbagliate. Una partita tra le grandi Potenze per le risorse strategiche che si gioca sulla testa della popolazione civile che, oppressa, combatte per la propria libertà, mentre in gioco c’è soprattutto la competizione tra Stati Uniti, Russia e Cina.
Americani che, pur di raggiungere il loro scopo, si stanno esponendo al rischio di appoggiare movimenti come quello dei Fratelli Musulmani, che hanno comunque importanti (e ingombranti) radici integraliste e che non hanno mai nascosto la loro aspirazione al “trionfo dell’egemonia islamica nel mondo”. Lo stesso rischio che si assunsero nell’armare Osama Bin Laden.

Fonte: dagospia.com

Esplosioni controllate e pronostici

Per capire che cosa sta accadendo a Tripoli bisogna considerare innanzitutto il quadro strategico. Non siamo di fronte a rivolte spontanee, ma indotte che mirano a replicare nel nord Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione Sovietica. Anche allora la rivolta partì da un piccolo Paese, la Lituania, e all’inizio nessuno immaginava che l’incendio potesse propagarsi ai Paesi vicini e non era nemmeno ipotizzabile che l’URSS potesse implodere. Il Maghreb non è l’Unione Sovietica e non esistono sovrastrutture da far saltare, ma per il resto le analogie sono evidenti. La Tunisia è il più piccolo dei Paesi della regione ed è servito da detonatore per la altre volte. A ruota è caduto il regime di Mubarak, la Libia è in subbuglio, domani forse Teheran e, magari sull’onda, Algeria, Marocco, Siria. Che cos’avevano in comune i regimi tunisini, egiziano e libico? Il fatto di essere retti da leader autoritari, ormai vecchi, screditati, che pensavano di passare il potere a figli o fedelissimi inetti.
Non è un mistero: le rivolte sono state ampiamente incoraggiate – e per molti versi preparate – dal governo americano, come dimostrato qui e qui. Da qualche tempo Washington riteneva inevitabile l’esplosione del malcontento popolare e temendo che a guidare la rivolta potessero essere estremisti islamici o gruppi oltranzisti, ha proceduto a quella che appare come un’esplosione controllata, perlomeno in Egitto e in Tunisia. Perché controllata? Perché prima di mettere in difficoltà Ben Ali e Mubarak, l’Amministrazione Obama ha cementato il già solidissimo rapporto con gli eserciti, i quali infatti non hanno mai perso il controllo della situazione e sono stati gli artefici della rivoluzione. Non scordiamocelo: oggi al Cairo e a Tunisi comandano i generali, che anche in futuro eserciteranno un’influenza decisiva. Washington ha vinto due volte: si è assicurata per molti anni a venire la fedeltà di questi due Paesi e ha messo a segno una straordinaria operazione di immagine, dimostrando al mondo intero che l’America è dalla parte del popolo e della democrazia anche in regimi fino a ieri amici.
(…)

Da Libia e Gheddafi: cosa c’è (davvero) dietro la rivolta, di Marcello Foa.
[grassetto nostro]

E Fidel prevede che…:
L’Avana, 22 febbraio – “Quello che è assolutamente evidente è che il governo degli Stati Uniti non si interessa minimamente della pace in Libia, e non esiterà ad ordinare alla NATO di invadere questo Paese ricco”. Così Fidel Castro fa sentire la sua opinione su quanto sta succedendo in Libia, affermando che una mossa in questo senso potrebbe essere “un questione di ore o di pochi giorni”.
“Una persona onesta sarà sempre contro qualsiasi ingiustizia che si commetta in qualsiasi Paese del mondo”, ha scritto l’ex lider maximo cubano in una delle sua famose “Reflexiones” denunciando “il crimine che la NATO si prepara a commettere contro il popolo libico”.
(Adnkronos/Dpa)

Meglio prevenire che curare.


“Un’ampia gamma di opzioni”
New York, 23 febbraio – La repressione in Libia ‘viola le leggi internazionali’ ed è contraria ai diritti umani, che non sono negoziabili, e i responsabili dovranno risponderne. Lo ha detto il presidente USA chiedendo di porre fine al mostruoso ed inaccettabile bagno di sangue. Obama ha poi annunciato che gli Stati Uniti stanno esaminando ‘un’ampia gamma di opzioni’ per azioni contro il Paese nordafricano e che il suo governo ha predisposto piani di evacuazione per gli americani.
(ANSA)

C’è qualcosa che non torna
C’è qualcosa che non torna nel racconto delle vicende libiche: le stragi, gli aerei, i cecchini, i mercenari, le notizie che si susseguono ci dicono che la crisi del regime è profonda quanto mai era stata in quarantuno anni di potere di Gheddafi. Ma quel che non si capisce è quale sia la percentuale di informazione “drogata” che punti a favorire una soluzione vincente della crisi secondo le aspettative dei ribelli e dei loro potenti sostenitori esterni. C’è infatti uno scarto non indifferente fra le unità di notizia e i video da una parte, e le cifre sparate con titoli cubitali dalla stampa e dai telegiornali di mezzo mondo. Tutti i video mostrano in genere non più di alcune decine di persone nelle strade: perché non c’è nemmeno una foto di cellulare con almeno una ventina-trentina cadaveri a terra, delle centinaia di ammazzati dal regime? Testimoni riferiscono, scrive la BBC, di aerei che bombardano i civili, e di mercenari che fanno strage di manifestanti: sono uomini di Gheddafi o sono terzi soggetti che alimentano la guerra civile secondo il modello delle proteste elettorali in Iran di due estati fa?
E poi ancora: alcune finestre in fiamme, senza che si veda l’edificio nella sua interezza non si sa dove e quando sono state riprese. Il filmato con alcuni orribili cadaveri carbonizzati è curioso, di nuovo un capannello di persone e poi i resti delle vittime come trasportati ed esposti su teloni militari. Su Al Jazira, un altro post che sembra un filmato, ma in realtà è una foto con nel sottofondo un anonimo libico di Tripoli che dice che Gheddafi e i suoi sono “mostri”. Ancora, foto di feriti in ospedale ma non si sa quale ospedale e feriti quando. E video di mercenari africani che non dicono nulla, pochi fotogrammi forse girati addirittura su un aereo.
Leggete poi i giornali: i titoli sparano bombardoni, gli articoli parlano in genere di “testimoni” (che) “riferiscono”, e sono infiorati da condizionali e da forse: vedi la fuga di Gheddafi in Venezuela. Vedi i prima due poi quattro piloti disertori e atterrati a Malta,che nessuno ha ancora intervistato; vedi i tre ministri che si sarebbero dimessi. La cautela dunque sembrerebbe d’obbligo, come del resto si deduce dall’intervista dell’ambasciatore libico all’ONU di Ginevra che, abbandonato il regime di Gheddafi, ha dichiarato a Rai News ieri mattina che “la situazione è estremamente critica”, che si è di fronte all’ “estrema crisi del regime”, che “Gheddafi non ha più nulla in mano”, senza fornire però una sola cifra delle vittime vere o presunte. Un lavoro “sporco” da affidare all’anonimato mediatico in rete, nelle tv e sulla stampa, non da compiersi da parte di un alto diplomatico con aspirazioni probabili a diventare ministro nell’era post-gheddafiana.
Si è di fronte dunque ad uno scarto notevole fra i dati di fatto certi e quella che potrebbe essere chiamata una sovraesposizione mediatica, onde per cui ponderare la profondità della crisi del regime libico è molto difficile. Attenzione però, è la stessa enfatizzazione mediatica a far crescere le difficoltà di Gheddafi: è un lavorio intelligente, che va a combinarsi con il pressing antiGheddafi dell’Europa e soprattutto – a fronte di un Obama silenzioso negli ultimi giorni – di Hillary Clinton, ministro degli esteri di quella stessa potenza che per iniziativa di Obama ha avallato o contribuito alla defenestrazione del presidente-dittatore del vicino Egitto. Ecco dunque i segnali concreti di sgretolamento del regime ai suoi vertici, i tre ministri e il diplomatico di cui sopra e probabilmente alcuni ufficiali e soldati dell’esercito. La partita è ancora aperta fra voci di diserzioni o di ammutinamenti diffuse in Occidente senza veri riscontri fattuali, e la possibilità che tutto precipiti con un colpo di mano o un attentato mirato. L’incognita non è solo l’esercito, ma gli equilibri fra i diversi apparati politico-militari, ad esempio i Comitati rivoluzionari costruiti nella fase più radicale della “rivoluzione” gheddafista.
(…)

Da Libia, il leone ferito: ma non è detta l’ultima parola…, di Claudio Moffa.

Do you remember Kosovo 1999?
Bruxelles, 24 febbraio – Tra le opzioni che l’Unione Europea sta considerando nella preparazione dei piani sulla Libia c’è anche l’ipotesi di un intervento militare a carattere umanitario. Lo hanno rivelato fonti UE, secondo cui “questa è una possibilità su cui stiamo lavorando”. Si tratta di “una questione difficile e complessa”, hanno sottolineato le fonti, ricordando che “qualsiasi tipo di intervento militare richiede ovviamente una cornice legale”.
(Adnkronos)

Proprio come avevamo appena finito di ipotizzare nella pagina dei commenti

“Al momento non ne abbiamo mai parlato”
Roma, 24 febbraio – “Al momento non ne abbiamo mai parlato. Finora nessuno ha mai preso in considerazione l’ipotesi di una missione internazionale in Libia come quella che c’è in Kosovo”. Lo afferma il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, rispondendo ai giornalisti che a Montecitorio gli chiedono se si può ipotizzare l’avvio di una missione internazionale in Libia.
(AGI)

Casini, bordelli e Tonini: “l’opposizione” non delude mai
Roma, 24 febbraio – “Il signor Gheddafi è un criminale che va processato alla Corte penale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità, perchè quello che sta capitando in queste ore, con bombardieri mandati contro i cittadini libici, con motovedette a cui viene chiesto di bombardare dal mare Tripoli e Bengasi, tutte queste testimonianze sono più che sufficienti per dire che chi guida la Libia è un criminale”. Lo dice Pier Ferdinando Casini, ospite di ’28 minuti’, trasmissione di Barbara Palombelli su Radio Due.
(Adnkronos)

Roma, 24 febbraio – ”Mi auguro che il presidente Dini sia in grado di smentire le affermazioni contenute nell’intervista pubblicata sulla Repubblica di oggi. Si tratta infatti – secondo il capogruppo del PD in Commissione Esteri a palazzo Madama Giorgio Tonini – di affermazioni sconcertanti e gravissime”.
”Stando a quanto affermato dal presidente della Commissione Esteri del Senato – prosegue Tonini – l’Italia non auspica la fine di Gheddafi, perchè è un leader che oggi intrattiene buoni rapporti con la comunità internazionale. C’è da chiedersi cosa intenda il presidente Dini per ‘comunità internazionale’: non solo l’Europa e gli Stati Uniti, ma anche il segretario generale e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e perfino la Lega Araba hanno condannato con fermezza il regime libico, che con la feroce repressione che ha messo in atto contro le proteste del suo stesso popolo, si è posto da solo fuori e contro la comunità internazionale”.
”Nelle parole che il ministro Frattini ha pronunciato ieri alla Camera e al Senato – osserva ancora Tonini – abbiamo registrato con sollievo una significativa correzione di rotta del Governo, che evidentemente si è reso conto che con la linea del sostegno acritico a Gheddafi stava portando l’Italia, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, sulla soglia dell’isolamento internazionale. E stava perfino compromettendo il futuro delle relazioni con il popolo libico, che è preciso interesse nazionale dell’Italia che restino amichevoli. Forse il presidente Dini non è stato tempestivamente informato”.
(ASCA)

Piazze silenziose
Roma, 24 febbraio – ”In Libia è in corso una autentica carneficina. Migliaia di morti, bombardamenti su minareti, uccisioni di massa e cadaveri esposti nelle strade, stupri casa per casa, fosse comuni. Se si fa eccezione per le dichiarazioni di Obama e di qualche leader europeo, per il resto è silenzio. Fino alle misere contorsioni del governo Berlusconi. E ci dobbiamo dire anche che sono silenziose le piazze. Le stesse che si riempirono con milioni di persone contro la guerra in Iraq oggi tacciono di fronte al martirio di un popolo che aspira a libertà e diritti”. Lo scrive Walter Veltroni su Facebook.
(ASCA)

Tutti sono d’accordo
Washington, 25 febbraio – Il mondo si interroga su come fermare le stragi in Libia. Il presidente americano ha analizzato le possibili misure contro il regime in una serie di colloqui telefonici con Berlusconi, Cameron e Sarkozy.
Si stanno analizzando una serie di opzioni, prima tra tutti una no-fly zone sulla Libia, ma anche il divieto di volo e il congelamento dei beni per la famiglia Gheddafi. Tutti sono d’accordo sulla necessità di fermare la repressione brutale e sanguinosa, sulla necessità di mandare segnali chiari alla leadesrhip libica e sulla necessità di coordinare le eventuali misure multilaterali. Tra le azioni, un’iniziativa anche nel Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu. E oggi si riunirà di nuovo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
(AGI)

Il “coordinatore”
Godollo (Ungheria), 25 febbraio – Il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen ha chiesto una riunione urgente dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica per affrontare la convulsa situazione in Libia; e ha aggiunto di essere pronto a fare da “coordinatore” qualora gli alleati decidessero un’azione.
Rasmussen ha mandato un messaggio su Twitter, mentre si apre a a Godollo, vicino Budapest, la riunione informale dei ministri della Difesa dell’Unione Europea che affronta la situazione libica e la possibile evacuazione dei migliaia di cittadini [stranieri – ndr] che ancora rimangono nel Paese arabo.
(AGI)

Non vedono l’ora di mettere le loro sporche mani sulle ingenti risorse di petrolio, gas e le immense riserve di acqua potabile recentemente scoperte in Libia…

(Im)prevedibile propaganda
Washington, 25 febbraio – Nella “situazione di caos” in Libia gli Stati Uniti sono preoccupati per l’arsenale chimico del Paese, e soprattutto temono la possibilità che Moammar Gheddafi possa usare armi chimiche contro il proprio popolo. Lo riporta la CNN, citando un funzionario americano che ricorda come, per quanto finora non vi siano segnali della possibilità che il leader libico abbia dato un ordine di questo tipo, Gheddafi sia imprevedibile.
(Adnkronos)

“Stiamo finalmente riscoprendo l’intelligenza superiore di Bush”
Roma, 25 febbraio – ”E’ la classica situazione nella quale bisognerebbe richiedere l’intervento della NATO. Forse anche quello della Nazioni Unite. Quello che sta accadendo in Libia è una tragedia umana. E non possiamo restare troppo a lungo a guardare”. Lo dice l’ex ministro della Difesa, Antonio Martino, in un’intervista a ‘il Tempo’, in cui spiega che l’Alleanza Atlantica dovrebbe intervenire ”sulle stesse identiche basi sulle quali intervenne in Kosovo nel 1999.
Era in corso – ricorda l’esponente del PdL – un’operazione militare dell’allora governo contro i kossovari. Si venne a creare una pericolosa situazione di emergenza, con un esodo di massa’. ”La NATO – rimarca Martino – intervenne bombardando la zona per fermare quello che stava assumendo le dimensioni del genocidio. Il centrodestra allora fu a favore dell’intervento deciso dal governo D’Alema”. Oggi in Libia, sottolinea l’ex titolare della Difesa, ”ci sono migliaia di morti ogni giorno, le fosse comuni. E’ terribile. Bisogna fermare subito quello che sta accadendo. Subito. Se fossi ministro avrei già chiamato Rasmussen, il segretario della NATO”. ”Qui non c’è tempo da perdere – ribadisce – Gheddafi sta facendo bombardare il suo popolo, ha assoldato mercenari che vanno a sparare ai civili nelle case”.
Quanto al ruolo degli USA nella vicenda della crisi libica, per Martino la posizione americana ”è imbarazzante. Mi sembra che in politica estera l’attuale amministrazione sia inadeguata. Stiamo finalmente riscoprendo l’intelligenza superiore di Bush”.
(Adnkronos)

Standing ovation.

Processi di demonizzazione: Gheddafi come Milosevic, la Libia come la Serbia
Roma, 25 febbraio – “Quello che sta accadendo in Libia configura un vero e proprio genocidio e per le sue responsabilità Gheddafi può essere paragonato a Slobodan Milosevic. La nostra posizione deve essere di massima vicinanza al popolo libico nel momento in cui, pur tra lutti e sofferenze, sta trovando la strada verso la democrazia”. Lo dice il senatore del PdL, Giuseppe Esposito, vicepresidente Copasir e membro della Commissione Difesa del Senato della Repubblica.
“La natura laica della rivolta lascia presupporre sviluppi di tolleranza e apertura democratica, così come sembra accadere in Egitto – prosegue Esposito – Dal punto di vista politico è necessario sostenere la proposta di sanzioni da parte dei Paesi dell’UE insieme con quella dell’apertura di un’inchiesta da parte del Tribunale Internazionale per crimini contro l’umanità, continuando a sostenere la transizione senza abbassare la guardia sui rischi, che pure esistono, di derive integraliste. Al contempo ci si deve preparare, in maniera unitaria e secondo principi umanitari, ad accogliere la possibile ondata di arrivi”.
(DIRE)

“Il risultato poi non è stato quello che speravamo”: parola di finanziere…
Milano, 25 febbraio – “Il vento della libertà è sempre positivo, basta che non diventi un disastro caotico e disorganizzato. Tutti eravamo per la rivoluzione iraniana quando fu cacciato lo Scià. Il risultato poi non è stato quello che speravamo. L’Europa deve aiutare, altrimenti non ce la facciamo da soli”.
Così il finanziere franco-tunisino Tarak Ben Ammar commenta le rivolte in Libia, che seguono quelle in Tunisia e in Egitto.
(Adnkronos)

”Non si può assicurare la pace mondiale infliggendo sanzioni”
Istanbul, 26 febbraio – La Turchia condanna la repressione del regime libico nei confronti dei manifestanti, accusa la comunità internazionale, con particolare riguardo per i Paesi occidentali, per aver concentrato l’attenzione sui problemi legati al procacciamento delle risorse energetiche piuttosto che sul dramma umanitario e dice no alle sanzioni dell’ONU.
Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, in un discorso televisivo, si è appellato alla ”comunità internazionale” perché si occupi della Libia ”non preoccupandosi del petrolio” ma ”con coscienza”, guardando ”ai valori umani e di giustizia”. Erdogan, parlando delle sanzioni ONU, ha poi detto che ”ogni intervento renderà il processo più difficoltoso” e ”colpirà non l’amministrazione ma il popolo libico” perché ”non si può assicurare la pace mondiale infliggendo sanzioni per ogni incidente”. Il primo ministro turco ha chiesto alla comunità internazionale ”di fermare i calcoli” sugli interessi economici che riguardano la Libia e di ”lavorare per un rimedio per fermare la sofferenza del popolo libico”.
(ASCA-AFP)

“Pronti ad aiutare”…
New York, 27 febbraio – Gli USA sono ‘pronti ad aiutare’ gli oppositori del colonnello Muammar Gheddafi in Libia: lo ha indicato il segretario di Stato USA Hillary Clinton.
Parlando in viaggio alla volta di Ginevra, la Clinton ha detto: ‘Siamo pronti ad offrire qualsiasi forma di aiuto’ auspicata da parte degli Stati Uniti. Il segretario di Stato, che domani parteciperà ad una ministeriale ONU sui Diritti Umani, ha ribadito che Gheddafi deve andarsene: ‘Dobbiamo innanzi tutto vedere la fine del suo regime’.
(ANSA)

… con la no fly zone…
Roma, 28 febbraio – L’utilità di una ‘no fly zone’ in Libia è “indubbia” ma “bisogna essere consapevoli che è una misura che poi va fatta rispettare”: ad affermarlo è stato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, in un’intervista al Messaggero. Una misura di questo genere, ha precisato il titolare della Farnesina, esige una “riflessione approfondita”, anche perché “servono caccia da guerra ed elicotteri che la facciano rispettare, occorrono precise regole d’ingaggio” .
(AGI)

… ed il “coinvolgimento della NATO”.
Parigi, 28 febbraio – Proibire il sorvolo del territorio libico per impedire il massacro di civili da parte del Colonnello Gheddafi implica una ”riflessione” e un ”coinvolgimento della NATO”.
Così, il primo ministro francese Francois Fillon ai microfoni di RTL, precisando che occorre studiare ”tutte le soluzioni” per indurre Muammar Gheddafi a lasciare il Paese. Intanto non è stata ancora presa alcuna decisione sulla possibilità di imporre una no-fly zone sulla Libia per evitare ulteriori massacri di civili da parte di Muammar Gheddafi.
(ASCA-AFP)

Parole dure e chiare
Ginevra, 28 febbraio – Sostenere le transizioni politiche nel mondo arabo non è una questione di ideali ma un imperativo strategico. Lo ha dichiarato il segretario di Stato USA Hillary Clinton al termine del Consiglio ONU per i diritti umani a Ginevra.
(ASCA-AFP)

Brava Hillary, facciamola finita con l’ipocrisia…

Stanno progettando… Kosovo 2°
Londra, 1 marzo – La Gran Bretagna e gli alleati della NATO stanno progettando di inviare aerei da guerra in Libia e armi ai ribelli per abbattere il regime del Colonnello Muammar Gheddafi. E’ quanto rivela il britannico The Times. Il governo di David Cameron è in prima fila per estromettere il leader libico ed impedire un disastro umanitario.
(AGI)

La fortuna di Berlusconi
Gianni De Michelis, il dioscuro rampante che con Martelli, negli anni della rifondazione socialista del Garofano si assunse il compito di svellere le radici del socialismo e farne un moderna arma per una politica corsara al servizio di Ghino di Tacco in guerra continua con l’alleato dc ed il nemico pci, ieri parlava della fortuna che sarebbe toccata a Berlusconi che, come a suo tempo D’Alema, si trova nella condizione di arrecare servizi preziosi agli USA. D’Alema ebbe la opportunità di offrire basi militari ed aerei per bombardare Belgrado e quindi essere iscritto nell’albo degli amici della Casa Bianca. Berlusconi ha le stesse opportunità riferite alla Libia, nel caso che Gheddafi non accettasse l’esilio impostogli da Obama e decidesse di resistere e magari di farsi uccidere nella difesa della Libia.
(…)
Il pavido governo italiano è costretto a fare finta di niente. La sua meschina opposizione lo incalza per la cancellazione del trattato italo-libico. Berlusconi dovrà stare in riga e fornire il supporto militare se si deciderà di bombardare Tripoli al fine di spaccare in due od in tre la Libia oppure di mettere al potere la tribù fedele all’Occidente dell’ex re Idriss. Il benessere della Libia sarà un ricordo del passato come quello dell’Iraq di Sadam Hussein che era diventato lo Stato più moderno industrializzato e colto tra i paesi arabi. Gli USA non sopportano la crescita di civiltà diverse da quella del suo capitalismo. Anche l’Iran dovrà essere schiacciata e riportata all’età della pietra. Tutta la polemica contro l’Islam ed il fondamentalismo islamico, contro il terrorismo, non è altro che il manifesto ideologico di un Impero che non accetta di convivere con entità autonome e culture diverse dalla sua. In lista di attesa per essere omologata con le buone o le cattive sta la Russia. Farebbe bene Berlusconi, prima che Obama decida di tirargli il collo e di ordinare ai suoi “fedeli” in Italia di rivedere tutto, a rivedere, se può, le sue posizioni verso Putin.
Intanto dalla Libia giunge un pesante silenzio.
(…)
Che cosa sta accadendo?
Sta accadendo che le orde monarchiche manovrate da Obama e dalla Clinton hanno avuto l’ordine di congelare la “rivoluzione” in attesa dei negoziati con Gheddafi e la sua famiglia. Se questi accetterà di andarsene dal paese dove è nato e dove ha governato per quaranta anni non ci sarà bisogno dell’assalto finale al Palazzo d’Inverno. Se Gheddafi resisterà la Libia farà la fine dell’Irak e dell’Afghanistan: sarà invasa da truppe che qualcuno nella sinistra fariseica italiana chiama “umanitarie”. Vedremo in diretta lo spettacolo pirotecnico delle bombe al fosforo che illuminano il cielo di Tripoli. Lo stesso spettacolo che abbiamo visto sul cielo di Bagdad.

Da L’invidia di De Michelis, di Pietro Ancona.

2 Marzo
Il generale James Mattis, responsabile del Comando Centrale USA (CENTCOM), parlando davanti al Senato statunitense circa un’eventuale no-fly zone sulla Libia, ha detto che da un punto di vista militare “sarebbe difficile”.
“Si dovrebbe eliminare la capacità libica di difesa aerea, per stabilire una no-fly zone. Non facciamoci illusioni. Sarebbe un’operazione militare, non basterebbe dire ai libici che non possono volare”.
Mentre al ministro Maroni che si interroga su quale “autorità” sia in grado di revocare il Trattato di Amicizia fra Italia e Libia, fate leggere questo.

“Chiediamo attacchi mirati”
Bengasi, 2 marzo – Il Consiglio nazionale libico costituito dai ribelli nella Libia orientale ha chiesto attacchi aerei delle Nazioni Unite contro i mercenari stranieri impiegati dal leader Muammar Gheddafi per reprimere la rivolta. Lo ha annunciato oggi un portavoce del Consiglio.
Nel corso di una conferenza stampa Hafiz Ghoga, portavoce dell’organismo che ha sede a Bengasi, ha detto che Bengasi [lapsus freudiano… – ndr] sta usando “mercenari africani in città libiche”, il che rappresenta un’invasione del paese nordafricano produttore di petrolio.
“Chiediamo attacchi mirati sulle roccaforti di questi mercenari”, ha detto Ghoga, aggiungendo però che: “Ci si oppone con forza alla presenza di eventuali forze straniere sul suolo libico. C’è una grande differenza tra questo e attacchi aerei strategici”.
Il portavoce ha aggiunto che l’esercito a est è pronto a muoversi verso ovest se Gheddafi rifiuta di farsi da parte.
(Reuters)

La Russa non dice “né di sì né di no”
Roma, 2 marzo – Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, condivide la posizione USA, espressa da Robert Gates, su una possibile ‘no fly zone’ sui cieli della Libia che, da parte statunitense, si reputa poco praticabile perché presupporrebbe un’azione militare contro il regime di Gheddafi.
”Fare una ‘no fly zone’ – ha detto La Russa ai giornalisti che gli chiedevano un commento alle parole di Gates – significa impedire agli aerei libici di volare e, se lo fanno, prevedere un intervento. Ma – si é chiesto – se contro i nostri aerei che intervengono risponde la loro contraerea cosa fai? Devi ovviamente bombardare”. Da qui, ha spiegato La Russa, la posizione italiana che definisce l’ipotesi della ‘no fly zone’ una questione ”molto fluida e ipotetica. Non dico né di sì né di no ma certo Gates ha ragione perché creare una ‘no fly zone’ è, di fatto, un’operazione militare e, quindi, se occorre coercitiva altrimenti si chiamerebbe embargo o sanzione”.
”Per questo – ha concluso il ministro La Russa – abbiamo gettato acqua sul fuoco ma siamo assolutamente pronti a rispettare qualsiasi decisione assunta in sede internazionale”.
(ASCA)

Ogni promessa è debito
Roma, 3 marzo – ”Abbiamo deciso due importanti missioni umanitarie. La prima, su richiesta dell’Egitto e della Tunisia, prevede l’aiuto a circa 60mila egiziani che lavoravano in Libia ed ora sono fuggiti in Tunisia. Ci è stato chiesto di assisterli e di fare in modo che possano rientrare in patria sani e salvi. La seconda missione umanitaria si dirigerà in Cirenaica portando cibo e medicinali a una popolazione stremata”. E’ quanto spiega il ministro degli Esteri, Franco Frattini in una intervista ad Avvenire tratteggiando il quadro dell’impegno del governo italiano nella crisi della Libia.
Respingendo ogni ipotesi di ‘imbarazzo’ da parte dell’esecutivo guidato da Berlusconi nel condannare oggi Gheddafi dopo averlo considerato un partner privilegiato (”E’ lo stesso imbarazzo che dovrebbero provare tanti leader del mondo. Dai britannici che hanno riconsegnato a Tripoli il terrorista della strage di Lockerbie, al presidente francese che ha ospitato Gheddafi per cinque giorni a Parigi, a tutti coloro che avevano votato a favore della Libia come membro della Commissione Onu per i diritti umani”), sulle ipotesi di un’eventuale intervento militare dall’esterno precisa: ”E’ un’ipotesi che ha già sollevato le perplessità della Lega Araba. Escludo categoricamente che l’Italia possa partecipare ad un’azione militare in Libia, per ovvi motivi legati al nostro passato coloniale. Al massimo, potremmo dare la disponibilità logistica delle nostre basi, ma anche in questo caso occorre un chiaro mandato internazionale dell’ONU. E, comunque, qualsiasi tipo d’azione deve tener presente il delicato contesto politico e culturale del mondo arabo”.
(ASCA)

Sì, le “nostre” basi

La NATO “ha preso nota” e “prudentemente” (?!?) si prepara
Bruxelles, 3 marzo – La NATO non ha in programma un intervento in Libia ma si tiene pronta per ogni eventualità. Il segretario generale dell’Alleanza, Anders Fogh Rasmussen, ha dichiarato di aver “preso nota” della dichiarazione con cui il Consiglio nazionale di Bengasi ha chiesto “attacchi strategici contro i mercenari”. “Vorrei sottolineare”, ha affermato Rasmussen, “che la NATO non ha alcuna intenzione di intervenire, ma, prudentemente, ci prepariamo a tutte le eventualità”.
(AGI)

“Abbiamo fatto bene nel Kosovo”
Roma, 4 marzo – ”Occorrono atti da parte dei governi e dell’Unione Europea. Di fronte alla persistente azione repressiva che sta reiteratamente producendo Gheddafi occorre un’azione di ingerenza umanitaria, bisogna mettere mano ad un’azione militare con un fine positivo assolutamente urgente, quello di fermare il massacro”.
Lo ha detto a Radio Radicale il vicepresidente del Parlamento Europeo, Gianni Pittella (PD). ”Gheddafi è un pazzo scatenato che sta uccidendo migliaia di persone – ha detto Pittella – non possiamo assistere inermi a questo massacro. Abbiamo fatto bene in Libano, abbiamo fatto bene nel Kosovo. Ed è gravissimo che prevalga una logica di convenienza rispetto al massacro delle vite umane, non ci dovrebbe essere proprio il dubbio su cosa fare. Ora in Libia stanno morendo delle persone, e io rispetto a questo dico che chiunque faccia calcoli di convenienza è un cinico che non merita di governare il Paese”.
(ASCA)

Cinico a chi?!?

Il modello delle monarchie del Golfo…
Londra, 4 marzo – Un’eventuale caduta del regime del colonnello Muammar Gheddafi avrebbe effetti positivi sull’economia della Libia, trasformando il Paese in un hub finanziario sul modello delle monarchie del Golfo. Ne è convinto il leader della comunità ebraica di Londra, il libico Raphael Luzon, che in un’intervista con AKI-ADNKRONOS INTERNATIONAL, disegna gli scenari futuri per lo Stato nordafricano. “Qualsiasi cambiamento dalla dittatura alla democrazia è di per sè positivo”, afferma Luzon.
(Adnkronos/Aki)

“Sosterremo qualunque sforzo” dice il megafono della NATO in Italia
Ginevra, 4 marzo – C’è ‘un atteggiamento di aperta sfida del colonnello Gheddafi alla comunità internazionale, una provocazione nei confronti dei protagonisti della vita internazionale che hanno detto basta con i bombardamenti, basta con la repressione’. Lo ha detto il presidente Giorgio Napolitano a Ginevra dopo l’intervento al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.
‘Gheddafi deve fermare ogni azione militare diretta contro il suo popolo’ perchè ‘la violenza contro i libici è inaccettabile’, ha affermato il Capo dello Stato, aggiungendo: ‘Sosterremo qualunque sforzo’ perchè la Libia rispetti i diritti umani’.
(ANSA)

“La nostra lealtà euro-atlantica”
Roma, 7 marzo – “E’ assai difficile pensare ad aerei militari italiani coinvolti sul terreno libico, ma evidentemente la nostra lealtà euro-atlantica ci fa dire che le nostre basi militari e il supporto logistico non potremmo negarli”. E’ quanto ha detto il ministro degli Esteri, Franco Frattini, rispondendo, intervistato a Uno Mattina, ad una domanda relativa all’ipotesi dell’istituzione di una no fly zone sulla Libia, dicendosi d’accordo con quanto dichiarato dal ministro francese Alan Juppè.
(Adnkronos)

Dopo aver invitato l’alleato d’oltreoceano a darsi una calmata, oggi il ministro degli Interni Roberto Maroni fa partire una diffida nei confronti dei “guerrafondai”.
Una volta tanto, più che giustificata…

Milano, 7 marzo – Un intervento militare in Libia ”sarebbe un errore molto grave”. Questa l’opinione del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che, entrando nella sede della Lega Nord di via Bellerio per partecipare al consiglio federale del Carroccio, ha sottolineato: ”Prima di decidere di bombardare, prima che i guerrafondai prendano il sopravvento, occorre sviluppare una politica di aiuti”. Per Maroni, ciò significa mettere a punto ”il piano Marshall prima di andare a bombardare e rischiare di trasformare la Libia in un nuovo Afghanistan”.
(ASCA)

Perle ai porci
Roma, 8 marzo – ”E’ un dovere dell’Unione Europea farsi carico nel suo complesso del problema libico. Infatti, quella frontiera sul Mediterraneo non rappresenta solo il confine con l’Italia, ma con tutto il mondo occidentale. Bisogna aiutare i profughi e i disperati e fermare e punire il despota, quel personaggio che, pur di rimanere al potere, sta attuando un vero e proprio genocidio”. E’ quanto afferma il presidente dell’IdV, Antonio Di Pietro, a margine del convegno ‘L’autotrasporto in Italia tra assistenzialismo e prospettive di sviluppo’, organizzato da Folder, centrostudi per l’economia del partito
(ASCA)

Proviamo ad immaginare questa semplice ipotesi:

Immaginiamo, per assurdo, che una qualunque barca a remi della flotta militare libica – in concomitanza con le infuriate e distruttive rivolte delle diseredate popolazioni afro-americane delle città di Atlanta, Denver, Las Vegas, Los Angeles, San Francisco, New York, etc., negli anni ‘60, ’70, ’80 o ‘90, in ogni occasione, largamente represse nel sangue dalla Polizia, dalla Guardia Nazionale e dall’Esercito degli Stati Uniti – avesse deciso, magari soltanto per curiosare o proporsi di distribuire qualche pacco dono ai necessitanti, di tentare di avvicinarsi alle coste del Massachusetts, della Pensilvania, della Florida o della Luisiana, come avrebbe reagito il Governo di Washington? E come avrebbero reagito, dal canto loro, i Governi di Londra e di Parigi, se la medesima barca a remi di cui sopra – in simultaneità e tempismo con le violente e pericolose sommosse, negli anni ’80, delle popolazioni di colore di alcune “outskirts” (periferie) delle città britanniche o con quelle molto più rabbiose e radicali delle “banlieues” francesi degli anni ‘90 e 2000 – avesse deciso di avvicinarsi alle coste dei suddetti Paesi?
Tutti scandalizzati ed oltraggiati, invece, in Occidente, dalle aggressive dichiarazioni del Leader libico (…“se mi attaccate, ci sarà un bagno di sangue”!), quando – a seguito dei disordini e degli scontri fratricidi che si stanno svolgendo in Libia dal 17 Febbraio scorso – la portaerei statunitense Uss Enterprise, la portaelicotteri Uss Kearsarge (con a bordo all’incirca 800 marines), la Uss Ponce (strapiena di munizioni e di mezzi da sbarco) e la Uss Andrid (con nella stiva numerosi blindati), la portaelicotteri francese Mistral e le fregate britanniche HMS Westminster (imbarcante alcuni elicotteri MK 8 Lynx e diversi lancia-missili) e HMS York (idem come sopra), decidono arbitrariamente di posizionarsi di fronte alle coste libiche, eventualmente… per imporre manu militari un’eventuale “no fly-zone” (divieto di decollo e/o di sorvolo) su territorio di quello Stato e/o per portare soccorso “umanitario” o, al limite, manforte militare agli insorti anti-Gheddafi.
Qualcuno potrebbe ribattermi: cosa ci sarebbe di anormale, nel comportamento dei suddetti Paesi occidentali? E soprattutto degli Stati Uniti d’America che, come tutti sanno – da provetti, ultra-sperimentati e permanenti “liberatori” del mondo – non potrebbero fare altro, per ragioni “umanitarie” (sic!), che intromettersi negli affari interni della Libia che, come sappiamo, non solo non rispetta né ha mai rispettato i “Diritti dell’Uomo” ma, si permette addirittura il lusso di far sparare addosso ai suoi propri cittadini in rivolta!
Questo genere di argomenti – anche se il lettore, molto probabilmente, lo avrà senz’altro dimenticato o, verosimilmente, non lo avrà nemmeno mai saputo – est simplement du déjà vu…
Io personalmente, ad esempio (per ricordare solamente le ingerenze militari USA più flagranti e conosciute, negli ultimi 30 anni), li ho già visti utilizzare dai “buoni” di Washington, in innumerevoli e differenziate occasioni. In modo particolare: a Grenada, il 25 Ottobre 1983, contro l’allora Governo legittimo di quell’Isola caraibica; in Nicaragua, tra il 1984 ed il 1990 – via la CIA ed i Contras o Milicias Populares Anti-Sandinistas (MIPLAS) o Fuerza Democrática Nicaragüense (FDN) – contro l’allora regolarmente eletto Governo sandinista del Paese; a Panama, il 23 Dicembre 1989, contro il loro ex-agente segreto Manuel Noriega, il suo governo ed il suo esercito; in Iraq, tra il 2 Agosto 1990 (l’invasione irachena del Kuwait) e l’Operazione Tempesta nel deserto (17 Gennaio – 28 Febbraio 1991) contro l’allora regime di Saddam Hussein; in Somalia, nel 1992, con la Missione USA/NATO, “restore hope”; in Serbia, nel 1999 – via l’aviazione US-Air-Force e NATO (quella italiana compresa) ed i separatisti albanesi dell’UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës) e dell’ “Esercito di liberazione del Kosovo” (KLA) – contro l’allora Governo del Presidente Milosevic/Milošević; in Afghanistan – a partire dall’11 Settembre 2001 (il “provvidenziale”?… e, fino ad oggi, mai chiarito attacco aereo al Pentagono ed alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York) – contro il Governo dei Talebani, alleato di al-Qaeda; situazione che, a sua volta, provocò, il 7 Ottobre 2001, l’invasione USA e NATO di quel Paese, che ancora perdura…; in Iraq, di nuovo, a partire dal 20 Marzo 2003, con l’invasione e l’occupazione militare USA/Britannica & C. di quel Paese, che è tuttora sempre in corso.
Insomma, come in un ripetitivo, monotono e soporifero copione teatrale – ed anche se nessuno sembra stranamente accorgersene o notarlo – i Paesi occidentali, come al solito, sono sempre i “buoni”, ed i “cattivi”, sempre e comunque gli “altri”!

Da Crisi libica o attacco all’Italia?, di Alberto B. Mariantoni.

In 42 per l’opzione diplomatica
Roma, 9 marzo – ”Quanto accade in questi giorni in Libia appare connotato da non facile decifrabilità. Nonostante la confusione, il Governo italiano ha mostrato, finora da solo nel quadro europeo, concretezza nell’intervento umanitario, sia sul territorio nazionale, sia al confine con la Tunisia sia, ancora a Bengasi: con questo si è preso carico, nei fatti e non a parole, della dignità di tanti esseri umani. L’oggettiva complessità della situazione è acuita dalle notizie – che fanno alternare conferme e smentite – di trattative in corso fra le parti in conflitto. Alla vigilia di importanti appuntamenti europei e internazionali, siamo convinti che tutto ciò che realisticamente rafforza l’opzione diplomatica è da sostenere con decisione, anche nell’interesse dell’Italia. Sostenere con decisione significa battere il più possibile la strada della soluzione ragionevole, invece che quella militare”.
E’ quanto sottoscrivono 42 parlamentari del PdL. Di seguito i loro nomi: On. Alfredo Mantovano, On. Edmondo Cirielli, On. Barbara Saltamartini, Sen. Francesco Paolo Bevilacqua, On. Francesco Biava, On. Mario Landolfi, On. Andrea Augello, Sen. Bruno Alicata, Sen. Laura Allegrini, Sen. Franco Asciutti, Sen. Paolo Barelli, Sen. Antonio Battaglia, Sen. Domenico Benedetti Valentini, On. Isabella Bertolini, Sen. Laura Bianconi, On. Maurizio Bianconi, On. Marco Botta, Sen. Battista Caligiuri, Sen. Valerio Carrara, On. Carla Castellani, Sen. Maurizio Castro, Sen. Gennaro Coronella, Sen. Cristiano De Eccher, Sen. Mariano Delogu, On. Marcello Di Caterina, On. Giovanni Dima, Sen. Raffaele Fantetti, sen. Vincenzo Fasano, On. Paola Frassinetti, Sen. Giuseppe Menardi, On. Bruno Murgia, Sen. Pasquale Nessa, On. Alessandro Pagano, Sen. Antonio Paravia, On. Vincenzo Piso, Sen. Filippo Saltamartini, On. Souad Sbai, Sen. Cosimo Sibilia, On. Gabriele Toccafondi, Sen. Oreste Tofani, On. Raffaello Vignali, Sen. Tomaso Zanoletti.
(ASCA)

Grazie a Dio, non tutti hanno smarrito l’intelligenza.

Se lo dice lui…
Washington, 12 marzo – Il ministro della Difesa USA, Robert Gates, è il più strenuo oppositore dell’adozione di una ‘no-fly zone’ sulla Libia. Per il capo del Pentagono è qualcosa che gli USA e i loro alleati possono fare se vogliono ma non è certo che si tratti di una mossa “saggia” .
(AGI)

Vergognose esitazioni
Tripoli, 16 marzo – ”Credo che sia una vergogna la posizione da codardi assunta dal mondo occidentale, soprattutto gli Stati Uniti, che si propongono come difensori della democrazia e dei diritti umani”. E’ il duro commento di Ali Tarhouni, esponente degli insorti libici e membro della commissione Economia e petrolio del Consiglio provinciale costituito nell’est della Libia.
Affermando che il popolo libico si ricorderà di chi si è dimostrato amico, in un’intervista a ‘Voice of America’ Tarhouni ha precisato: ”Non chiediamo molto, solo la creazione di una no-fly zone”. L’atteggiamento del presidente USA Barack Obama, a suo giudizio, è in ”netto contrasto” con quanto affermò nel 2009, in uno storico discorso ai musulmani pronunciato al Cairo. ”Obama fece un appello per la democrazia e la libertà e ora il minimo che possa fare è appoggiare la no-fly zone – ha detto – Il sangue del popolo libico non è a poco prezzo, a noi costa caro versarlo”.
(Adnkronos/Aki)

Mubarak il sarcofago ambulante e “Israele”

Dal Canale d’Otranto a Gibilterra lungo le coste dell’intero Mediterraneo, dallo stretto di Bab el-Mendeb al Golfo Persico, ad est, e più in là, dall’Oceano Indiano al Pacifico, il vento impetuoso della storia sta arricciando a uragano l’orizzonte.
Da dove vogliamo cominciare?
Dal narcocriminale dell’Albania Sali Berisha, che appare in televisione con la bandiera USA alle spalle oltre che a quella della NATO e della UE, che non lo annovera ancora (!) tra i suoi membri, quando la sua “guardia repubblicana” spara per uccidere sulla folla che manifesta, o dal “re” torturatore ed assassino, alleato di Obama e Barroso, che occupa con la forza militare la Terra del Fronte Polisario, Mohammad VI° del Marocco?
Questa volta partiremo dal Canale di Suez, perché tra il Sinai, ad est, ed il porto di Alessandria, ad ovest, è lì che si gioca la partita più importante e decisiva dei primi cinquanta anni del XXI° secolo per gli equilibri geopolitici, economici e militari dell’intera area del Vicino Oriente.
Lo sconquasso del sistema di condizionamento euro-atlantico partito dalla Tunisia, che ha coinvolto, con diversa intensità, le regioni del Maghreb e del Mashreq fino allo Yemen, e sta investendo con una forza devastante in questi giorni l’Egitto, va analizzato con grande attenzione.
Anche se l’effetto che potrà produrre è lontano dal poter essere, oggi, adeguatamente inquadrato, dopo il terremoto manifestatosi con la fuga del despota Ben Alì in Arabia Saudita, quello che sta uscendo allo scoperto è il logoramento ormai traumatico, terminale, del potere di un altro “amicissimo” a tutto campo di USA ed Europa: quello del “rais” Mubarak che, dal 24 Ottobre 1981, ha imposto al popolo egiziano, oltre che un brutale e sanguinoso pugno di ferro, anche la fame ed una corruzione dilagante dopo aver sbriciolato il sistema educativo e sanitario messo in piedi da Gamal Nasser.
Regalini che il “rais” si sta apprestando a lasciare al suo Paese a 30 anni dall’insediamento alla presidenza, dopo la convalescenza causatagli da tre proiettili dell’AK-47 di Kalid al-Islambuli che lo attinsero mentre affiancava Anwar el Sadat in una tribuna allestita durante una sfilata militare al Cairo. Mettiamo insieme un po’ di dati.
I soli detenuti, politici, sulle sponde del Nilo sono al momento oltre 42.000, di cui 18.000 in “detenzione amministrativa” (cioé, senza che sia stato formulato nei loro confronti alcun capo d’imputazione).
Il 45% della ricchezza nazionale è concentrato nelle mani delle oligarchie copte che dissanguano il Paese – il magnate Naguib Sawiris delle telecomunicazioni è la testa del serpente – , i tre/quinti degli egiziani sopravvive con un reddito di 2 dollari al giorno, i senza lavoro compresi nella fascia d’eta dai 18 ai 45 anni sono quantificabili in oltre 21 milioni.
Il consumo pro-capite di pane è il più alto in assoluto a livello planetario.
In Egitto si usano semolati di granaglie per l’approntamento del 75% dei pasti alimentari. Il consumo di  pollame, carne ovina, bovina o proveniente dalla macellazione di cammelli, è considerato un bene usufruibile nelle sole occasioni delle festività dal 60% della popolazione.
File interminabili, dal primo mattino al tramonto, per acquistare pane sono ormai da anni “normalità” in Egitto. La prime sollevazioni popolari per la farina macinata arrivarono nel 1977. Sadat la definì con ributtante cinismo  la “rivolta dei ladri”.
Dal 1975 ad oggi la popolazione è aumentata da 45 a 80 milioni. I delitti commessi con armi bianche o da sparo dai fornai egiziani contro “rapinatori di pane”  sono in costante aumento.
L’aumento vertiginoso del prezzo della farina, passato da 3 a 15 piastre nel corso del 2010, è stata la scintilla che ha fatto esplodere l’Egitto. Il pane cotto è lievitato nel costo d’acquisto da 5 a 20 piastre.
Dal 1977 ad oggi, si contano a migliaia i morti per “fame” liquidati dalle forze di repressione di Mubarak ed a decine e decine di migliaia gli egiziani passati per un lungo soggiorno nelle galere del “rais”, per spezzare le rivolte generate dalla miseria e dalla totale mancanza di qualsiasi libertà politica. Continua a leggere

Revolution.com di Manon Loizeau

Tunisia, Egitto, Albania…
Può tornare utile riguardare il documentario di Manon Loizeau, dedicato alle cosiddette “rivoluzioni colorate” patrocinate dagli Stati Uniti d’America nei Paesi nati a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Il documentario è stato trasmesso durante la puntata di Report andata in onda il 3 Giugno 2007.
La trascrizione integrale è qui.

[Si veda anche il John Laughland di La tecnica del “colpo di stato colorato”]

Il popolo tunisino ”ha il diritto di scegliere i propri leader”

Washington, 14 gennaio – Il popolo tunisino ”ha il diritto di scegliere i propri leader”. E’ questa la posizione della Casa Bianca dopo gli ultimi sviluppi della crisi del Paese magrebino.
(ASCA-AFP)

Il viaggio africano del ministro Frattini

Dopo le minacce di un nuovo intervento USA in Yemen e Somalia uscite dalla bocca di Barack Obama a West Point, il ministro degli Esteri Frattini, nel suo ultimo tour, questa volta nell’Africa Sahariana, accompagnato da un codazzo di alti funzionari della Farnesina, ha rilasciato durante le tappe della maxi-missione di rappresentanza in Mauritania, Mali, Etiopia, Kenya, Uganda, Egitto e Tunisia una serie di dichiarazioni che definire semplicemente vergognose è poco.
La trasferta della comitiva su uno dei A-319 CJ in allestimento VIP a disposizione dal 2000 della Presidenza del Consiglio – l’ordine di acquisto all’Airbus di Tolone fù firmato dal Baffo di Gallipoli – è cominciata a Nouakcott l’11 Gennaio e finita a Tunisi il giorno 19 (!) dopo l’incontro con il Presidente Ben Alì.
La prima tappa della combriccola tricolore ha fatto sosta nella capitale della Mauritania, uno dei Paesi che hanno rotto le relazioni diplomatiche con Israele nel gennaio 2009 come risposta al bombardamento dell’IDF su Gaza. Le difficoltà di Frattini sono apparse fin all’inizio evidenti con un percorso in salita.
Il Presidente Oul Abdallahi lo ha platealmente snobbato, lasciando l’onere dei contatti con il Ministro degli Esteri ad una semplice rappresentanza di parlamentari di maggioranza e di opposizione.
La richiesta avanzata dal titolare della Farnesina di un interessamento del governo di Nouakcott per la ricerca e la liberazione di due ostaggi italiani, Sergio Cicàla e sua moglie Filomen Kabouree – sequestro attribuito ufficialmente dalla Farnesina ad un nucleo di guerriglieri di Al Qaeda del Maghreb operante in Mauritania, sulla sola scorta di “informazioni“ sospette di fonte USA – ha finito per peggiorare le relazioni bilaterali.
L’iniziativa di Frattini è stata interpretata, e non poteva essere diversamente, come suscettibile di dare credito internazionale o ad uno scarso controllo della Mauritania sul suo territorio o, peggio, ad avvalorare il sospetto che Nouakcott ospiti e protegga formazioni armate legate all’internazionale del “Terrore“ del fantasmagorico e inossidabile Osama bin Laden nell’Africa Sahariana.
Un’ulteriore richiesta di informazioni avanzata da Frattini alla Repubblica del Mali dalla Mauritania (!) per un altro ostaggio, questa volta di nazionalità francese, Pierre Kemat, ha finito per convincere il Presidente Abdallahi di un’azione concordata tra Italia e Francia per danneggiare l’immagine del suo Paese.
Un Paese che dal 2008 ha dato concreti segnali di volersi sganciare dalla residua dipendenza coloniale, economica e culturale, di matrice occidentale per avvicinarsi a quel multilateralismo che si sta mangiando a fette USA ed Europa in Asia, Africa ed America Indio-Latina. Continua a leggere

Sigonella, 11 ottobre 1985

pennisi

“Ecco… l’aeroporto militare.
Notò immediatamente una situazione particolare. La presenza di mezzi militari dei carabinieri e della aeronautica militare in numero rilevante, militari in assetto di guerra, tiratori scelti, una eccitazione evidente nei visi, nelle parole, negli atteggiamenti, nei movimenti delle persone.
La gran parte delle persone sconosciute.
Ufficiali dell’Arma, ufficiali della Aviazione, militari in mimetica, qualche persona in borghese dagli atteggiamenti furtivi. Gli unici che non vennero incontro a salutare il magistrato di turno che arrivava!
(…)
Continuava, quasi incredulo, a notare presenze di militari dell’Arma di diversi Comandi della Provincia. Uomini da Lentini, Carlentini, Villasmundo, Augusta, Sortino, Solarino, Melilli. Una vera e propria mobilitazione generale.
La postazione di lavoro venne stabilita presso l’Ufficio del comandante della Stazione Carabinieri.
Erano presenti i principali responsabili militari. Gli riferirono che l’aereo era fermo sulla pista circondato da militari, carabinieri ed avieri, italiani che, a loro volta, erano stati circondati da militari americani della Delta Force sbarcati da due C141.
Una dopo l’altra le notizie si susseguivano. Piccoli ordigni destinati a divenire una raffica di esplosivo mortale.
Gli venne riferito che a bordo dell’aereo vi erano i quattro palestinesi. I quattro terroristi che avevano sequestrato la Achille Lauro. I quattro che erano stati fermati dalle autorità egiziane a bordo della nave e che erano stati fatti salire a bordo dell’aereo per essere portati in Tunisia, unico Paese che si era detto disposto a riceverli.
Inoltre un non meglio specificato diplomatico egiziano che li accompagnava nel tragitto verso Tunisi, l’equipaggio dell’aereo, ed un paio di altre persone con compiti di sicurezza.
E nessun altro.
Gli ribadirono che si era trattato di un atterraggio forzato, determinato dall’intervento di caccia americani che avevano intercettato quel velivolo e costretto ad atterrare a Sigonella.
(…)
Ora sapeva quale fosse il suo compito: prendere in consegna le persone indicate come “i quattro sequestratori della Achille Lauro”, ed accertare se veramente si trattasse di loro.
(…)
Bisognava stare calmi, senza farsi prendere la manoda una situazione in cui le esigenze politico-diplomatico-militari, certamente rilevanti, potevano rischiare di far passare in secondo piano quelle più squisitamente investigative e processuali per le quali si trovava in quel posto.
Decise, a quel punto, di controllare direttamente la situazione.
Così come era abituato a fare sempre, e così in quella occasione, nonostante la visibile perplessità dei presenti.
(…)
La sagoma che fuoriusciva parzialmente dalla fusoliera attraverso il portello era quella di un uomo, dai capelli molto scuri e folti. Attorno all’aereo vi erano carabinieri ed avieri con le armi corte e lunghe di ordinanza. Poi pochi veicoli militari italiani ad una certa distanza.
Altro non si vedeva.
“E se entrassimo e vedessimo che c’è dentro?”, disse al maresciallo che lo accompagnava.
“Non è prudente dottore” rispose il sottufficiale, “non è come sembra, ci sono gli altri”.
“Ma dove sono?” si domandò, mentre rifletteva sul tono particolare di quella affermazione.
Era la pura e semplice, seppur non condivisibile, preoccupazione che, da sempre, alberga nell’animo dell’essere umano nei confronti del “diverso”.
I “diversi” cui si faceva riferimento non erano quelli dentro l’aereo, ma quelli attorno all’aereo, e non certo i militari italiani, bensì coloro che li avevano circondati. Era a loro che si riferiva il maresciallo, perché erano loro che, secondo il pensiero ormai diffuso nella base militare, rappresentavano in quel momento il più serio problema, il più concreto pericolo. Secondo quel pensiero, anche la più leggera incomprensione tra uomini avrebbe potuto determinare uno scontro a fuoco i cui effetti sarebbero andati ben al di là dei ristretti limiti di quella base. E, per di più, tra truppe di Paesi amici, alleati, legati alla stessa cultura se non forse alle medesime tradizioni.
(…)
Gli pareva che già si fosse creata una divaricazione tra se stesso e tutti gli altri che erano nella base.
Per loro il problema più grosso era rappresentato dalla presenza degli americani.
Certo, un problema serio, ma sentiva che non sarebbe stato di difficile soluzione, forse proprio perché la sua entità era così enorme che il suo stesso peso lo avrebbe sopraffatto.
La presenza di militari in armi nel suolo di un Paese alleato non era cosa che avrebbe potuto durare, proprio per la sua così ingombrante evidenza.
(..)
Ed, in realtà, a ben vedere, arrivando sul posto non sarebbe toccato a lui affrontare e risolvere, come di fatto avvenne, la questione della presenza dei militari americani che, tra l’altro, al suo arrivo non avrebbero neppure dovuto esserci, essendo al di fuori di ogni logica di sovranità nazionale che un corpo armato di uno stato estero si presenti ed operi nel territorio nazionale ponendo in essere una vera e propria azione di guerra ed, addirittura, cercando di dettare condizioni.
Minacciando con le armi militari dello stato sovrano nell’esercizio delle loro funzioni.”

Da Il mistero di Sigonella. Dal diario del Pubblico Ministero, di Alessandra Nardini e Roberto Pennisi, Giuffrè Editore, pagine 16-22 e 27.
Roberto Pennisi, catanese, magistrato dal 1978, descrive le ore trascorse nella base militare di Sigonella in qualità di Pubblico Ministero di turno della Procura di Siracusa, dopo il dirottamento da parte dei caccia USA dell’aereo egiziano che trasportava i sequestratori della motonave Achille Lauro.
[grassetto nostro]

Quando i Carabinieri circondarono le Delta Force

Guantanamo, fantasmi italiani

In Italia pochi li ricordano. E nessuno ha il coraggio di garantire apertamente per loro. Sono sei tunisini catturati tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 in Afghanistan ed in Pakistan.
Da quasi sette anni aspettano di conoscere la loro sorte nel campo di prigionia divenuto simbolo della Guerra al Terrore di George W. Bush. In un rapporto del giugno 2008, l’organizzazione britannica Reprieve li ha battezzati “gli Italiani dimenticati a Guantanamo Bay”.

L’inchiesta realizzata in proposito da RaiNews24 è qui.